Il figlio del governatore dell’Angola

E’ un pomeriggio terso e caldo sul pontile d’acciaio e legno del porto industriale di Broome. Un caldo spietato, che si può quasi palpare e ascoltare, così lontano dalle belle spiagge sabbiose dove i turisti si riuniscono all’ InterContinental dopo la siesta pomeridiana a parlare degli itinerari percorsi nel loro lungo girovagare...
il figlio del governatore dell'angola
Partenza il: 10/10/1999
Ritorno il: 18/10/1999
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
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E’ un pomeriggio terso e caldo sul pontile d’acciaio e legno del porto industriale di Broome. Un caldo spietato, che si può quasi palpare e ascoltare, così lontano dalle belle spiagge sabbiose dove i turisti si riuniscono all’ InterContinental dopo la siesta pomeridiana a parlare degli itinerari percorsi nel loro lungo girovagare australiano.

Parcheggio l’auto sullo slargo in terra battuta rossa all’entrata del pontile. C’è la mia ed altre tre o quattro auto; nessun turista, forse qualche pescatore sotto il ponte, o tra le scogliere lontane. Curioso che un paio di ragazzotti aborigeni si accaniscano così tanto e così impunemente per cercare di aprire le portiere di quelle poche auto. La mia esclusa, giacché mi hanno appena visto scendere. Per trovare poi che cosa: un po’ di giornali vecchi, un contenitore di polistirolo con i vermi per le esche, e forse due fette di pane a cassetta, una foglia di insalata, una di formaggio e un po’ di senape, tutto tenuto stancamente insieme dalla pellicola allentata dal caldo. Strani e vani tentativi di furto con scasso, così lontano da tutto. Un pontile a venti minuti di strada rossa e sterrata da Broome, e Broome poi soltanto un avamposto tropicale di poche centinaia di casa e una dozzina di alberghi finto-esotici a duemila chilometri a nord di Perth. L’ultimo fortino di poca civiltà prima di attraversare il grande nulla che la separa da Darwin, nel Territorio del Nord.

Il pontile è assolato, e l’aria sa di catrame e pesce marcio, di quella curiosa mistura che hanno le costruzioni appena fatte e che violentano con la loro presenza una natura marina prima intatta da millenni. Sicuramente un po’ più violentemente di quei due ragazzini aborigeni che sembrano volersi riprendere con la forza ma con poca convinzione e ancora minori aspettative quello che il ‘progresso’ gli ha strappato.

Vado verso il chiosco all’entrata del pontile. Più che un chiosco è una baracca appoggiata a ridosso della struttura del molo, quasi una garitta che sembra funzionare come punto di controllo di chi passa sul pontile. Parlo con il gestore, e mi dice che da mangiare può prepararmi un hamburger. Solo hamburger e patatine, dice, ma buoni.

Ha un accento forte quando parla inglese, e cerco di indovinare o almeno di immaginarmi da dove venga. Ha un’età indefinita, forse cinquant’anni, forse di più, una pelle scura, mediterranea, con due baffi folti e crespi. Ha braccia forti, piene di tatuaggi da galera più che da ragazzo che fa surf. Traspira quasi un’inquietante sensualità, ed è sicuramente quello che qui donne efebiche e asessuate chiamerebbero un macho, sia dagli atteggiamenti nel muoversi all’interno del chiosco che dal modo di parlare. Ci sono soltanto io lì dentro, in quella strana penombra che neanche sembra riparare dal sole, e mi immagino che il nostro uomo sia abituato a trattare gli avventori senza deferenza come se, più che gestire una baracca dove si preparano patatine fritte e qualcosa da mettere sotto i denti, fosse il presidente di una qualche repubblica delle banane sudamericana.

Si rintana nel retrobottega, dove seguo e suoni degli scartocciamenti fino a sentire sfrigolare l’hamburger sulla piastra. Ho chiesto hamburger the lot, cioè con tutto, insalata, formaggio, uovo fritto, fette di rape rosse, mostarda, cipolla e quanto altro. E’ dignitoso nel preparare da mangiare, e sembra prepararlo con l’orgoglio di chi sa che sta facendo qualcosa di apprezzabile e ne vuole la conferma. Tra il caldo fuori, e i fumi che arrivano dalla piastra, sembra di vivere quasi in un sogno strano, come se quella non fosse la realtà, come se fosse invece una rappresentazione allentata e onirica della realtà, preparata e ‘servita’ come per fare da sfondo a qualcos’altro. In maniera sicuramente impropria, ma questa atmosfera sospesa mi fa pensare al Martin Sheen che si prepara a partire nell’interno del Vietnam in ‘Apocalypse Now’. Anche se, lo so, qui siamo solo a Broome.

Ma non c’è nient’altro. Solo l’hamburger, che mi viene servito in un vassoietto di alluminio, di quelli dentro i quali si portavano un tempo gli ‘affettati misti’ degli antipasti ai banchetti delle comunioni o dei matrimonio, e che altri chiamano guantiera. Solo che questo vassoietto-guantiera è consumato come una gavetta della prima guerra mondiale, con i bordi stondati dall’uso.

L’hamburger che mi ha preparato è buono, nonostante il vassoio. Non ne dubitavo, dall’impegno che ci ha messo nel prepararlo. Anche quello che mi chiede è una cifra equa. E’ buono e decido di dirglielo. Il mio complimento, mentre si distende sulla sdraio nella quale riposava anche prima che arrivassi, dà la stura alla sue confidenze. D’altronde, magari, sono la prima persona che vede in un’ora, e avrà pur voglia di scambiare due chiacchiere con un forestiero. Ma io, ne sono sicuro, sono forestiero quanto lo è lui. Gli domando da dove viene e sembra, sulle prime, stupirsi che io gli faccia una domanda così diretta, dando per implicito che, comunque, non lo si possa confondere con un australiano, né per la pelle né per il modo di parlare.

Mi dice che è portoghese. Che viene dall’Angola, anche se, mi ripete, è “portoghese, non africano”. Capisco o, meglio, intuisco un orgoglio che non mi stupisce. Percepisco che, indirettamente, vuole ‘testare’ la mia visione del mondo, proprio quando scandisce con un largo gesto della mano, che ‘non è africano’. Per sentirlo parlare ancora un po’, gli faccio capire che ‘sono dalla sua parte’. Non la penso come lui, ma voglio sapere qualcosa di più di questo portoghese d’Angola, e questo senso di complicità sembra essere l’unica strada.

Mi racconta che è figlio di un ex-governatore portoghese dell’Angola, scappato dopo la rivoluzione. Ma quale rivoluzione ? Risaliamo ai tempi della ‘rivoluzione portoghese dei garofani’ della metà degli anni Settanta. Al presidente socialista dell’Angola Mario Soares, per cui molti di noi in quegli anni partirono per scoprire il segreto della rivoluzione che in Italia non ci riusciva fare. La rivoluzione che segna la fine del colonialismo portoghese in Africa. Non glielo domando. La richiesta di informazioni mi sembrerebbe ‘spezzare’ il flusso del racconto. E poi qualcosa di storia dell’Africa coloniale la so. Voglio dargli per scontato che conosco lo scenario storico nel quale colloca le sue peripezie. Il padre rientrò a Lisbona e dopo poco morì, mentre lui lavorò per qualche anno in un’agenzia marittima della capitale. E dopo il Vietnam, il pensiero mi corre ora a Fernando Pessoa, alle mie frequenti visite in Portogallo negli anni Ottanta, al puzzo di orina del rognone che mangio svolgliatamente nei quartieri poveri vicino alla stazione, ai transessuali che gridano oscenità ai passanti le notti afose lungo il viale alberato che porta alla Estufa Fria, al caldo secco e spietato dell’Alfama. E il ricordo di quel caldo mi fa tornare in mente il caldo di ora, sul pontile. E si chiude il cerchio del mio breve peregrinare in cerca di evocazioni cinematografiche e letterarie.

Il nostro seguita a parlare, a raccontarmi di come è arrivato in Australia, seguendo un’attrice di teatro inglese, di come lei l’abbia lasciato per un altro, degli anni incupiti dalla disoccupazione e addolciti dal ricordo dell’opulenza persa in Angola, quando aveva, mi dice, una cameriera personale e il precettore.

Mi dice che questa del chiosco è solo un’attività così, tanto per fermarsi un attimo, dopo anni di peripezie in questo continente disperato (e usa proprio la parola desperado). Ora sta con un’altra donna, un’australiana. Ma, mi confessa guardandosi intorno con ostentata complicità alla ricerca di chi non c’è, che la vuole lasciare. Gli hanno detto che a Hall’s Creek, quattrocento chilometri più a nord, si può trovare l’oro nel deserto. Basta armarsi di un metal detector, provviste e tenda, e si può (di nuovo) diventare ricchi in poco tempo. Così velocemente come lui era piombato nella povertà dopo la fine del colonialismo in Angola.

Gli dico che mi sembra una buona idea. Sorrido e lo saluto senza convenevoli, come se lo rivedessi domani. E invece so che non lo rivedrò mai più. Che non sappia come si chiami non ha importanza.

Torno alla macchina sotto il sole, e penso al caldo dell’Algarve e cosa aspetterà il figlio del governatore dell’Angola nei prossimi anni. Non mi stupisce neanche che la portiera sia aperta, e che i ragazzi aborigeni mi abbiano portato via l’asciugamano e una bottiglia d’acqua minerale.



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