Drum bun. Dai Balcani ai Carpazi
La decisione di visitare questa parte per noi sconosciuta dell’est europeo ci ha portato a compiere un lungo viaggio tra molti paesi nostri vicini di casa (Croazia, Bosnia, Serbia e Montenegro, Albania, Macedonia, Bulgaria e Romania), trascurati dal turismo di massa, e per me anche a realizzare un viaggio della memoria, tra gli inquieti Balcani.
Il nostro viaggio inizia e si conclude in Croazia, nostra vicina di casa.
A Fiume hanno la faccia tosta di chiederci 100 € per una stanza in uno squallidissimo albergo soviet e quindi cerchiamo un B&B nei pressi, a Cavle.
Il nostro primo obiettivo è la visita la parco di Plitvice, meritatamente patrimonio UNESCO. In parte ripercorro la strada che percorsi nel 1996, subito dopo la fine della guerra, quando la gran parte delle case era bombardata. A distanza di nove anni quasi tutto è stato ricostruito, le facciate ed i tetti hanno i vivaci colori del nuovo, ma su alcune sono ancora ben visibili i buchi provocati da proiettili o schegge. Qualche casa, cadente ed invasa dalla vegetazione, non ha più ritrovato i suoi abitanti.
Il parco di Plitvice è lo spettacolo che ricordavo: un festival d’azzurro e verde smeraldo, l’acqua dei suoi 16 laghi di una limpidezza cristallina che mostra migliaia di pesci. Mi sbaglierò, ma ho l’impressione che sono molto più numerosi del ’96, quasi all’epoca avessero subito anche loro la guerra. Il caldo sarebbe intollerabile se non ci fosse la lussureggiante vegetazione ad ombreggiare i sentieri. Compiamo tutto il percorso del parco, aiutandoci anche con il battello ed il trenino gommato.
Ho la curiosità di rivedere Bihac, di cui ricordo le macerie. La neo-frontiera tra Croazia e Bosnia in questo punto consisteva in una baracca di lamiera; noto con sorpresa che è variata di poco, le baracche di lamiera sono aumentate di numero. Anche Bihac è stata ricostruita, ma ancora si vedono case bombardate. In Bosnia si percepisce un certo grado d’arretratezza rispetto alla vicina Croazia, che beneficia di tutta la costa dalmata. La moneta ufficiale sarebbe il marco convertibile, ma gli euro sono ben accetti. Lungo la strada iniziano a comparire, con nostro stupore, dei cartelli solo in cirillico. Decidiamo di pernottare nei pressi di Mrkonjic Grad, un bel posto di montagna, con un verde laghetto e con la rassicurante presenza del cartello che indica un albergo. E’ sabato pomeriggio inoltrato e dai prati circostanti i gitanti locali stanno smobilitando, lasciando gli scarsi cestini traboccanti di cartacce unte e bottiglie vuote. La Bosnia fu duramente colpita dalla guerra, ma qualcosa si è salvato dai bombardamenti: l’unico albergo in cui dormiremo, ovviamente stile soviet, la cui ultima ristrutturazione risale minimo agli anni sessanta. La mattina successiva l’uovo fritto della colazione, unitamente alle infinite curve che ci separano da Mostar, metterà a dura prova il nostro stomaco.
Il piccolo centro storico di Mostar, lastricato di pietra bianca, rende la temperatura asfissiante. E’ molto carino, ma purtroppo non conserva più il fascino dei segni impressi dal trascorrere dei secoli: pure se tutto è stato fedelmente ricostruito, il candore pulito delle pietre ed il fiammante color ruggine dei tetti emana un sapore di nuovo: occorreranno anni per ritrovare quel fascino. Il famoso ponte, gremito di gente per assistere ai potenziali tuffi, colpisce per le sue dimensioni ed architettura, ma non è stata fatta un’opera di fedele riproduzione. M’intristisce vedere che nel suo apice è stato posto un grosso medaglione in pietra con il simbolo della Red Bull, che ne ha evidentemente finanziato la ricostruzione. Hanno cercato di mantenere una certa sobrietà, ma è sempre e comunque pubblicità: una vera violenza del terzo millennio sui secoli passati, meglio i feroci ottomani, che poi tanto feroci non erano. A distanza di dieci anni dalla fine della guerra Mostar appare ancora una città ferita: i palazzi sventrati e bruciati dai bombardamenti sono ancora numerosi.
Rientriamo in Croazia per raggiungere Dubrovnik, con la sua bellissima Stari Grad adagiata sul mare. Il giro delle mura è il modo migliore di apprezzarne dall’alto la bellezza. Non posso fare a meno di intristirmi allo spettacolo di tante tegole nuove. Qualche vecchio tetto, scurito dal tempo, si è salvato, e la sua sporadica presenza rivela a colpo d’occhio l’estensione delle distruzioni della guerra.
Il Montenegro è vicino, e dopo un abbondante, squisito ed economico pranzo di pesce ad Herceg Novi compiamo il giro delle Bocche di Cattaro, l’unico fiordo del Mediterraneo. Le montagne scendono bruscamente sul mare bellissimo tra rare piccole spiagge di sassi. Pochi gli alberghi, in uno nuovo di zecca ci chiedono 150 € e passiamo oltre. Siamo sorpresi di non trovare il nuovo dinaro; l’unica moneta circolante è l’euro. A Prcjani troviamo un B&B in una bella casa antica, che ha un ampio cortile lastricato in pietra ombreggiato da due grandi palme. Hanno avuto buon gusto, i proprietari: la casa è stata tinteggiata e pulita senza alterare quanto c’era d’antico in essa. Ci concediamo un pomeriggio di piacevoli bagni in un’acqua verde e tiepida, dato il caldo. I bagnanti sono prevalentemente locali. E’ un vero peccato veder galleggiare, vicino la riva, qualche carta di gelato e bottiglia di plastica. I montenegrini dovrebbero trattarlo meglio il loro splendido mare. Possibile che dobbiamo tutti ripetere gli stessi errori? La città di Cattaro è una scoperta: il nucleo storico, racchiuso tra le mura e ben conservato, è un piccolo gioiello, che per certi versi mi ha colpito più di Dubrovnik. Edifici e strade sono lastricati in pietra. Una grande muraglia, la sera suggestivamente illuminata, si inerpica sulla ripidissima montagna. C’è il festival estivo d’agosto e sembra che tutti i montenegrini siano scesi a Cattaro: sono tutti in tiro, soprattutto le donne, al confronto noi sembriamo profughi. Il parcheggio è un problema come lo fu a Dubrovnik; hanno pochi parcheggi all’esterno dei centri storici pedonali e ci si deve mettere pazientemente in fila aspettando che esca qualcuno dalle aree predisposte. Un furbone ci aggancia proponendoci, per 3 € (somma discreta per un montenegrino), la sosta nel parcheggio di un tennis club adiacente, dove evidentemente lavora. Accettiamo subito e risparmiamo almeno un’ora di fila, anche se con un vago senso di vergogna. Il pesce, oltre ad essere fresco, è cucinato in modo egregio e ci possiamo permettere senza problemi la cena nel miglior ristorante della città vecchia, dove mi godo un risotto ai gamberi veramente divino, anche se mi portano il parmigiano…
Turismo a parte, il Montenegro ha per me un preciso scopo: visitare i posti in cui mio padre fu spedito come truppa d’occupazione a combattere la guerriglia partigiana dal luglio 1941 alla primavera del 1942. Partiamo al mattino presto verso l’interno, per una strada che porta a Cetinje, inerpicandosi sinuosa come un serpente sulla ripida montagna. Salendo i panorami sulle Bocche di Cattaro sono spettacolari.
Non so cosa mi aspetto di trovare, in fondo sono montagne aspre e quasi disabitate come lo erano sessant’anni fa. So che il reggimento di mio padre era nella zona di Cevo, che si raggiunge deviando qualche chilometro dalla strada Cattaro-Cetinje. Lungo la strada ci sono un paio di lapidi in cirillico con una stella rossa. Non capisco cosa c’è scritto, ma è chiaro che ricordano la guerra partigiana. Una è dedicata ad un certo comandante Marko, morto nel giugno del ’42. Al ritorno, sulla strada Cevo-Bukavika, mi fermo a controllare una stele e riconosco una data, 12 aprile 1942. E’ proprio qui! Mio padre fu insignito della Croce al Valor Militare per essersi distinto in un’importante azione compiuta proprio in quella data. Cercherò di tradurla al ritorno. Sono riportati anche dei nomi, certamente di caduti partigiani, quel giorno ne morirono oltre 30. Vorrei aver portato dei fiori. Il mio pensiero è chiedere scusa ma in senso nazionale, storico, non personale; non per mio padre, che non era fascista e che fu anche lui più vittima che carnefice, come molti giovani della sua generazione. Lui non si sentiva in colpa, partì ragazzo, ignaro, e tornò dalla prigionia in Russia ormai uomo, segnato e più consapevole.
Cetinje è una cittadina con impronta più sovietica, sonnacchiosa e semideserta sotto il caldo sole dell’ora di pranzo.
Partiamo alla volta dell’Albania, che speriamo di riuscire ad attraversare in giornata (dato che abbiamo qualche problema di assicurazione con la macchina aziendale). Il figlio del nostro affittacamere montenegrino, che parla bene l’italiano, ci consiglia di evitare l’Albania perchè ci sono molti ladri ed è pericolosa (lo diranno anche in Romania…). I pregiudizi, specialmente verso il vicino di casa, sono sempre ben radicati dappertutto, anche qui non fanno eccezione. Mi viene da ribattere se si è chiesto perchè sono quasi introvabili turisti non slavi in Montenegro ma taccio per non offendere la loro squisita cortesia.
La costa dopo le Bocche di Cattaro ha spiagge attrezzate con stabilimenti, Budva ha un’impronta decisamente balneare. Puntiamo all’interno, attraversiamo di nuovo montagne nel percorso da Petrovac a Podgorica. Nella cittadina di Tusi giriamo a vuoto per una mezz’ora perchè la strada per il confine non è segnalata e dobbiamo chiedere più volte prima di imbroccare quella giusta. E’ semideserta e traforata di buche, evidentemente non è un posto di frontiera a cui tengono molto.
Entrati in Albania la strada peggiora ancora! Fino a Scutari l’asfalto è un vero groviera, la strada è costellata ai margini da immondizie, l’aspetto generale è deprimente, sembra che sia passata una guerra più che dai vicini jugoslavi. Attraversiamo Scutari la cui periferia è sporca e degradata, mi ricorda quella di alcune città turche. Da qui in poi la strada migliorerà notevolmente, con nostro piacere, anche se le indicazioni restano un po’ scarse. A Tirana un gentile signore ci guida con la sua macchina fino alla strada per Elbassan. C’è molta polizia che fa rispettare i limiti di velocità. Almeno la metà delle auto che circolano sono Mercedes: sembra che ogni albanese che si rispetti ne debba possedere una, pur se vecchia e malmessa.
La strada da Elbassan al lago Ohrid è l’altro mio “luogo della memoria”. In questa zona fu inviato mio padre dal novembre 1940 all’aprile del 1941, per tentare di recuperare la disastrosa campagna di Grecia cui aveva fatto subito seguito l’inizio della guerriglia in Albania. Fu un inverno freddissimo e duro quello del ’40-‘41, anche questo tra aspre montagne, affrontato da soldati mal vestiti, male armati e mal guidati. Contrariamente al Montenegro qui non si vedono lapidi che ricordano la loro guerra partigiana, evidentemente Enver Hoxa nel dopoguerra era troppo occupato a far costruire il milione di bunker.
Il rurale villaggio di Qukes, dov’era attestato il reggimento di mio padre, è composto di una polverosa strada sterrata e poche case, mucche e qualche covone di fieno; sembra fermo al 1941, forse stanno anche peggio. Proseguendo verso il lago Ohrid finalmente troviamo un enorme monumento a forma di stella, in perfetto stile soviet, dove si riconosce una data, il 1944, che rappresenta la liberazione dall’occupazione italo-tedesca, e s’inneggia ad un’eroica brigata, certamente partigiana.
Siamo ormai al confine ed il suo attraversamento richiede un’ora per la lentezza dei doganieri macedoni.
Entriamo in Macedonia costeggiando il bel lago Ohrid, dove ci fermiamo in un modesto ma ampio hotel a Struka. La sala ristorante è predisposta per accogliere un matrimonio con almeno 200 invitati. Ci sediamo in disparte per evitare quanto possibile l’assordante orchestra e cenare velocemente. Ci andrebbe bene qualunque cibo, ma i camerieri tornano poco dopo con un signore che parla benissimo l’italiano con un leggero accento veneto. Vive a Caorle, è lo zio dello sposo ed in breve finiamo invitati al matrimonio. A nulla vale schermirsi: rifiutare sarebbe un’offesa e la conseguenza sarà quella di non riuscire a sganciarsi prima di mezzanotte, anche se la festa proseguirà fino alle tre del mattino. La nota caratteristica non è il banchetto, relativamente frugale per un matrimonio, ma il ballo: si tratta di una sorta di sirtaki, un ballo circolare al ritmo di una musica monotona, che procede interminabile per ore ed ore, con gente che entra e che esce da cerchio. Una vera prova di resistenza fisica. Vengono servite solo bevande analcoliche; un altro ospite che parla benissimo l’inglese ci dice che il motivo è la religione, sono musulmani. Il nostro amico di Caorle ci aveva detto che non veniva servito il vino per evitare che si ubriacassero… Non se l’è sentita di dirci tutta la verità ma io lo comprendo e lo giustifico: vive in Veneto ed in questi tempi duri si deve difendere dal bieco razzismo dei leghisti.
Intanto il tempo è cambiato, piove e fa freddino, quindi rinunciamo alla sosta che volevamo concederci sul lago Ohrid. Attraversiamo la Macedonia: bella e selvaggia, montagne, boschi e verdi laghi, peccato per il diluvio che ruba la visibilità.
Alla frontiera con la Bulgaria ci siamo noi ed un camion, immersi in una suggestiva nebbia da autunno inoltrato. Non vogliamo addentrarci con il buio ed il diluvio sulla strada del monastero, quindi ci fermiamo nella cittadina di Rila nell’unico albergo che purtroppo funziona anche da unico ristorante. Le stanze non sono male, ma deve essere una struttura pubblica con personale stipendiato, sono pigri, indisponenti e cucinano da schifo. Accettano solo Lev, è tardi ed il cambio è chiuso, ma il ragazzo di un bar ci cambia gli euro ad un onestissimo tasso ufficiale. Il mattino dopo visitiamo il monastero di Rilskij, poco distante. E’ un bellissimo complesso monastico circondato da montagne. E’ interamente lastricato in pietra grezza e la chiesa centrale è ricoperta di affreschi colorati.
S’intravede una schiarita e ne approfittiamo subito per spingerci a visitare Bansko, un caratteristico paesino di montagna alle pendici del Vihren, sui Rodopi. Ha un nucleo storico ben conservato, lastricato con le grandi pietre di fiume che qui abbondano, le case sono in pietra e mattoni con balconi di legno e finalmente si mangia di nuovo bene, con piatti a base di carne, riso e verdure ed uno yogurth gelato molto più gustoso del frozen yogurth americano (forse perchè non “fat free”).
Raggiungiamo Sofia sotto la pioggia: la periferia è formata da una serie di condomini soviet grigi e scrostati, certamente brutti ma non i peggiori che ci è capitato di vedere, ad esempio a Mosca e Erevan, ed anche in alcune civilissime città occidentali. Le indicazioni sono solo in cirillico e facciamo un po’ di fatica a decifrarle, avendo la cartina in caratteri latini. Il centro è dignitoso e pulito; le cose da vedere sono nel raggio di 500-1000 m., tutto raggiungibile a piedi. La mattina alle nove la grande piazza dove troneggia la cattedrale Aleksander Nevskij, con le sue cupole dorate, è semideserta. All’interno sembra ci sia perennemente in corso una funzione religiosa. L’adiacente chiesa di Sveta Sofia, più antica ed importante in quanto portatrice del nome alla capitale, è molto più sobria ed al confronto sembra bassa e tozza. Da un incredulo vecchietto, in una delle bancarelle della piazza, compro ad un prezzo irrisorio un vecchio quadro di Lenin. Passata l’iniziale incredulità mi propone subito di portarmi, se torno nel pomeriggio, un quadro con tutta la famiglia di Lenin. No, grazie, non sto acquistando santini… Per arrotondare il resto ci dà una banconota di vecchi rubli ed una banconota irakena con l’effigie di Saddam, hanno fiutato che ora diventa roba per collezionisti. La piccola chiesa russa di S. Nikolaij è molto graziosa con le sue cupole verdi e dorate. Sono molti i tributi dei bulgari verso i russi, considerati i liberatori della Bulgaria dal dominatore ottomano. Emblematico fu il fatto che durante la seconda guerra mondiale, pur essendosi la Bulgaria legata alle potenze dell’Asse, il re Boris compì il suo ultimo atto rifiutando ad Hitler l’invio di truppe in Russia nel 1943, quando i tedeschi erano ormai con l’acqua alla gola. Morì poco dopo in circostanze misteriose. Riusciamo a trovare un ristorante non globalizzato sulla Dondukov, dove per dessert servono uno yogurth con composta di frutta, il più buono che ho mai mangiato, superiore anche a quello greco. Del resto i bulgari si vantano di esserne gli inventori. Saltano le mete del pomeriggio: il museo storico, custode di meritevoli tesori, è transennato ed un tassista che interpelliamo alza le spalle sorridendo. L’hanno chiuso due mesi fa, forse per restauro. L’altra meta di benessere erano le Terme, ma anche qui il bell’edificio liberty, piuttosto degradato, è chiuso e mostra di esserlo da anni, a dispetto di quanto recita la guida, “recentemente restaurato con fondi UE”. Di restaurato c’è solo il cartello che lo annuncia. Non ci resta che ripartire.
La pioggia ritorna implacabile e dobbiamo anche allungare un po’ il percorso a causa di una deviazione imposta dalla polizia, sembra per un ponte sommerso o danneggiato dai diluvi di questo brutto agosto.
Arriviamo al paesino di Kuprivistika, sperduto tra le montagne, trovando un’inaspettata grandissima animazione. Ci sono addirittura i militari accampati appena fuori del paese. E’ pieno di gente, decine e decine di bancarelle, palloncini, giocattoli, zucchero filato, tappeti, salsicce, fiumi di birra, insomma una festa popolare in piena regola. Scopriamo che è l’ultimo giorno della nona edizione del Festival nazionale del folclore bulgaro. Kuprivistika è un grazioso paese, con ponticelli in pietra sul torrente e le case-museo di fine ottocento, di cui alcune conservano anche gli arredi interni e la decorazione esterna. E’ lastricato anch’esso con gli immancabili grossi ciottoli di fiume.
Sulla strada per Veliko Tarnovo s’incontra un passo a 1300 m., monumento nazionale della guerra contro i turchi, che qui vide il sacrificio dei soldati russi. A grande distanza si vede, sulla vetta della montagna, un enorme obelisco. Sono stati posti anche alcuni altri memorial, ed è meta di visite dei locali. Sfidiamo la strada dissestata per la curiosità, ma quando arriviamo in cima l’obelisco è stato avvolto dalla solita affascinante nebbiolina ed è invisibile.
Veliko Tarnovo, antica capitale, è una città con centro storico medievale, relativamente turistica, e per la prima volta troviamo diversi alberghi al completo. Veniamo agganciati da una signora chiacchierona che ci propone il suo B&B. Sventola continuamente la guida Routard, dov’è riportata la sua casa. Sono stanca e convinco mio marito, molto recalcitrante, ad accettare. Il suo compagno è pittore e la casa in centro storico è interessante per i quadri ed i vecchi oggetti che la caratterizzano, ma la pulizia è al di sotto anche degli standard bulgari e l’invadenza della signora sarà superiore ad ogni umana immaginazione e sopportazione. Il pezzo forte di Veliko sono i ruderi della cittadella, arroccati sopra una rupe, ma si rivela più suggestivo il panorama d’insieme dalla porta di accesso che non la visita all’interno, essendo rimasto ben poco da visitare.
Poco lontano dalla città, nascosto tra i boschi, merita senz’altro la deviazione il grazioso romantico monastero Preobranzeskij, con i suoi colorati affreschi esterni.
Appena varcato il confine con la Romania, per la gioia del mio bambino, la presenza di carretti trainati a cavallo si fa veramente numerosa, per non dire di oche, galline e mucche nei pressi dei paesini. Si deve guidare con attenzione.
Bucarest è una città dagli ampi viali, complessivamente anonima, ma in ogni caso pulita e dignitosa. Gli alberghi ristrutturati chiedono prezzi occidentali, superiori ai 100 €, quasi lo stipendio mensile di un romeno, ma riusciamo lo stesso a trovare un ottimo albergo a buon prezzo.
Il sito della grande chiesa patriarcale è semideserto. La visita all’interno della chiesa è interessante più per lo spettacolo umano che per le icone, arte cristallizzata da secoli nelle chiese ortodosse. Una donna scalza si alza e s’inchina fino a sdraiarsi più volte, quasi in autistica ripetizione, un’altra si confessa tenendo la testa sotto la mitra del pope.
Il palazzo del Parlamento è la testimonianza della follia urbanistica di Ceausescu e signora: grigio e mastodontico, giace davanti all’enorme piazza-parcheggio semivuota come fosse il cadavere di un grande animale morto nel deserto. Doveva ospitare la Casa del Popolo (del qual popolo Ceausescu allegramente se ne fregava…) e per avere “spazio” fu distrutto un intero quartiere, ma la sua costruzione finì giusto con la fine del dittatore.
Ceniamo in un bellissimo locale storico, un’antica birreria del centro, ma il nostro intestino ne subirà le conseguenze, pur se non drammatiche, per alcuni giorni.
Il paesaggio da Bucarest a Tulcea è piatto ma rallegrato dalla presenza di sconfinati campi di girasoli.
Tulcea è la “porta” sul Delta del Danubio. Il parco naturale del Delta è esteso per oltre 160.000 ettari e fortunatamente il sole è ricomparso all’orizzonte. Ci orientiamo tra le varie agenzie che propongono le escursioni in battello ed alla fine decidiamo per un modesto piccolo cabinato che ci consentirà di trascorrere la notte sul fiume e tornare il giorno dopo nel primo pomeriggio. Il Delta è un magnifico ed immenso ecosistema palustre. La vegetazione è rigogliosa, è un autentico labirinto di acquitrini, canneti, dune e cordoni sabbiosi, isole fluitanti e vegetazione riparia, pur se il canale centrale è navigabile fino al Mar Nero. Naturalmente questo è l’ambiente adatto ad ospitare una fauna ricchissima. Mio marito si può sfogare con il suo teleobiettivo a fotografare la quantità di aironi, gabbiani, pellicani, gabbianelle, gallinelle ed altre varie specie di papere e paperelle che la mia ignoranza in ornitologia non mi consente di classificare. Nella verde acqua palustre si vedono migliaia di pesci. Valeva la pena sopportare qualche disagio e le zanzare, numerosissime ma meno aggressive delle nostre. La serenità dell’acqua, i versi degli uccelli, i colori di un tramonto rosso e splendido sono un vero spettacolo della natura. Trascorriamo la notte ormeggiati sul lago Micol, uno dei tanti che il Danubio forma nel suo delta. Nel buio si vedono le luci di una città: è Izmaiyl, in Ucraina. Ci rimettiamo in moto molto presto, alle prime luci di un’alba che avvolge il fiume ed i suoi abitanti in una nebbiolina rosata.
Da Tulcea arriviamo a Iasi, dove ci aspetta Ionela, una cara ragazza che ha lavorato come colf da noi. Non possiamo rifiutare l’ospitalità nella sua casa, sia i genitori che una vicina di casa si sono mobilitati per accoglierci. Ionela abita in un tipico condominio soviet, dove gli appartamenti nell’era post-soviet vengono dignitosamente mantenuti in base alle possibilità economiche di chi lo abita, mentre le scale e le zone comuni hanno un aspetto scrostato e cadente. Nei pressi scorre un putrido torrente che rifornisce di zanzare tutta la zona, le cui rive sono popolate da un grande accampamento Rom. Ionela parla dei Rom con gran disprezzo: li considerano i portatori all’estero di cattiva reputazione per i romeni.
L’appartamento, di tre stanze, è teneramente abbellito da centrini, fiori di plastica e paccottiglia. La madre e la giovane vicina hanno preparato una cena luculliana che basterebbe per una ventina di persone, veramente d’ottima qualità. Ciorba di pollo, ossia brodo di pollo con verdure che qui chiamano “borsc” (come i russi, ma fortunatamente questo è ben diverso da quello russo) peperoni ripieni, un pollo arrosto veramente squisito, insalata, patate e dolci. Il padre si è anche procurato una bottiglia di vino bianco romeno. La serata trascorre allegra e piacevole: il piccolo Saul gioca con il padre di Ionela come fossero nonno e nipote, si parlano in due lingue diverse e pare si capiscano benissimo. La mattina successiva si sono procurati del latte appena munto (in città ?!), il cui ricordo per me risale alla primissima infanzia.
Iasi è la città della cultura, ha una vivace università e complessivamente è più interessante di Bucarest. Peccato che quasi tutte le sue “biseriche” siano in restauro, in particolare quella dei “tre Hierarchi” che ha un ornato esterno molto bello, ma è incartata sia dentro sia fuori. Il palazzo della cultura, il pezzo forte della città, ha un’architettura mitteleuropea ed ospita quattro musei, ma solo due al momento sono visitabili. Nel pomeriggio, mentre la nostra amica è al lavoro, andiamo a far visita ai nuovi templi della globalizzazione ovvero al centro commerciale Iulius Mall, per romeni ricchi, dato che i prezzi sono quasi italiani. L’obiettivo è comprare un regalo per questa simpatica famiglia ma senza strafare per non umiliare la loro spontanea ospitalità. A cena ci aspetta un’altra pantagruelica mangiata: pomodori, formaggio ed affettati per antipasto, “sarmali” (foglie di vite con riso e carne), “mamaliga cu branza”, ovvero polenta con formaggio di pecora e con giuncata, altro latticino introvabile, immancabile dolce finale.
Nel dopocena si beve e si parla, con l’aiuto di Ionela, delle loro attuali condizioni di vita. Ionela ha un lavoro come commessa per 100 euro al mese, le pensioni dei genitori raggiungono i 200 euro in due. Il padre è particolarmente amareggiato: dopo 40 anni di lavoro alle poste ora ha una pensione da fame con la quale non può assolutamente vivere, anche al costo della vita in Romania. Si lamentano in particolare del costo delle bollette, che devono pagare in euro. Le donne lavorano tutte, ma non solo per scelta: è davvero impossibile vivere con un solo salario. Il fratello di Ionela, che parla un inglese perfetto, lavora alla Coca Cola per 250 euro mensili, sarebbe interessante sapere un suo analogo negli USA quanto prende… In definitiva gli stipendi sono rimasti quasi uguali al periodo soviet, ma ora tutto si paga e spesso a caro prezzo. La sintesi che ci danno è perfetta: “una volta non potevamo comprare niente perchè i negozi erano vuoti, non c’erano beni di consumo, ora i negozi sono pieni di beni di consumo, ma non abbiamo i soldi per comprarli”. Questo è l’avvento del capitalismo nei paesi poveri, alla faccia delle teorie di Adam Smith. Non rimpiangono certo Ceausescu, i suoi razionamenti e la sua polizia, ma senz’altro a distanza di 15 anni si aspettavano di stare meglio. L’occidente capitalistico di frottole gliene ha contate tante.
Ad un certo punto tutti si accalorano in una rumorosa discussione e m’intrigherebbe molto capirci qualcosa sulle varie opinioni, ma Ionela non traduce ed alla fine liquida tutto con una risata ed un’alzata di spalle dicendo: “politica!”, e tutti ritornano a brindare.
Il giorno successivo ci salutiamo calorosamente e proseguiamo per la Bucovina, una regione che offre bei paesaggi di montagna con case e casette decorate, verde e fiori, i cui monasteri sono patrimonio UNESCO. Visitiamo per primo il monastero Dragomirna, austero e slanciato, privo però degli affreschi esterni. Purtroppo anche qui la cupola è incartata per restauri. E’ gestito da suore, come pure gli altri che visiteremo. Il monastero Sucevita è circondato da una possente cinta muraria, all’interno la chiesa è al centro di un bel giardino fiorito. I monasteri della Bucovina hanno tutti lo stesso impianto architettonico ed all’esterno sono coperti da affreschi colorati che li rendono caratteristici. Qui a Sucavita è notevole una parete che raffigura la “scala delle virtù”, dove i poveri mortali tentano di salire, aiutati dagli angeli ed ostacolati dai demoni. Al pari delle icone, anche questi affreschi sono d’impronta primitiva re essere del ‘600. Visitiamo anche il monastero Moldovita e chiudiamo il giro con Voronez, il più affollato di turisti. Quest’ultimo è detto il monastero azzurro per la predominanza di questo colore nello sfondo. Una parete esibisce un bel Giudizio Universale, ma non si deve metterlo a paragone con quello quasi coevo di Michelangelo.
Passiamo nella regione del Maramures per una strada tutta buche. Nella cittadina di Sighietu Marmitiei (fossero sardi in questa zona?!) memori dell’esperienza macedone fuggiamo da un paio di alberghi in cui stanno allestendo ricevimenti di matrimonio.
Questa zona non era nel nostro programma, ma siamo venuti solo per visitare, a Sapanta, il famoso cimitero Vesel (ho una passione per i cimiteri, raccontano molto della mentalità dei popoli). Un certo Jan Patra s’inventò, negli anni ’60, di scolpire le lapidi in legno con l’immagine caratteristica del morto, unitamente ad una breve storia e qualche ironia sui suoi pregi e difetti. E’ una sorta d’antologia di Spoon River dal vivo, se così si può definire un cimitero. Nel corso degli anni la tradizione è stata mantenuta (tomba del creatore compreso) ed è ormai un’attrazione turistica, fanno pagare il biglietto. Siamo fortunati, è domenica e gli abitanti del Maramures, in particolare le donne, vanno alla funzione vestite con un caratteristico abbigliamento costituito da gonna nera a fiori, corpino bianco e fazzoletto a fiori in testa.
Attraversando verdi paesaggi raggiungiamo la Transilvania.
Sighisoara, città natale del famoso conte Vlad, in arte Dracula, ha un grazioso centro storico d’impronta tipicamente sassone, come tutta la Transilvania. Questa regione del resto faceva parte dell’impero austro-ungarico e tornò alla Romania, dopo alterne vicende, nel secondo dopoguerra. Le città sono indicate con doppio nome (rumeno e tedesco) in quanto ospitavano una consistente comunità di lingua tedesca, fino all’inizio degli anni ‘70. Il buon Ceausescu, nel tentativo di compattare i rumeni su valori nazionalistici per non pensare a ben altri problemi nazionali, epurò questa comunità, constringendo i tedeschi-rumeni a trasferirsi nell’allora Germania dell’est. Alla lunga, per come sono andate le cose, forse fece loro un favore…
Brasov è un’altra città il cui centro storico ben conservato è chiuso all’interno di mura fortificate. Un bel panorama d’insieme si gode dalla cima della collina Tampa, raggiungibile in teleferica. L’interno della Biserica Negra ospita una notevole collezione di tappeti orientali. La grande piazza centrale contiene in mezzo il municipio (casa Sfatului) e ci ricorda analoghe architetture, sebbene in scala diversa, a Cracovia e Olomouc.
La visita della Transilvania non poteva prescindere da una tappa a Bran, con il suo famosissimo castello di Dracula. Questo è presumibilmente uno dei posti più turistici della Romania, pieno di bancarelle di souvenir e chi si aspetta un luogo buio, tempestoso e pieno di mistero resterà deluso. Il castello merita la visita non tanto per la sua fama di castello di Dracula (il conte Vlad non ci mise mai piede), ma piuttosto per la sua imponente austerità sulla cima di uno sperone roccioso; contiene begli arredi in legno, stufe e vecchie foto dell’ultima principessa che lo abitò ed è circondato da un parco museo con abitazioni caratteristiche.
Un’atmosfera di grande pace si riacquista nel cortile della chiesa fortificata di Prejem, nei dintorni di Bran. Per strade secondarie ci portiamo fino a Sinaia, dove c’è il castello Peles. Questo è veramente un castello da impero austro-ungarico: l’interno è molto ricco, con una collezione di armi antiche provenienti da tutto il mondo, e le stanze sono arredate a tema: c’è la stanza turca, quella araba, quella italiana… Questa tra Bran e Sinaia è una zona di montagna molto bella, e se non ci fosse questo tempo infame si riuscirebbero a vedere anche delle notevoli pareti di roccia; ci sono torrenti e radure, meta di picnic. Purtroppo i turisti locali spesso lasciano sul posto i rifiuti; la coscienza civile è sempre lenta a formarsi.
L’ultima nostra meta in Romania è il castello di Hunedoara, detto anche di Mattia Corvino perchè fu quello che gli diede l’attuale stile architettonico. Gotico, scuro, d’imponente mole è il castello che più si presterebbe ad essere spacciato per castello di Dracula, ma è troppo fuori zona dai luoghi natii del famoso conte. Hunedoara è una città industriale e fuori dai circuiti turistici standard. La conseguenza è che purtroppo questo bellissimo castello è trascurato e non valorizzato, basti dire che molte sale sono illuminate da luci al neon tipo pizzeria di infima categoria.
Lasciamo la Romania al Portile de Fier, una gigantesca opera di chiuse sul Danubio realizzata alla fine degli anni ’60 per rendere il fiume navigabile fino a Belgrado, innalzandone qui il livello di 35 metri. In questo punto del Danubio vi erano scogli che impedivano la navigazione alle grosse navi. L’opera fu finanziata, oltre che dalla Romania e dall’ex Yugoslavia, anche dall’URSS e da altri paesi rivieraschi. Sulla diga si attraversa la frontiera con la Serbia.
La strada costeggia per un lungo tratto il Danubio ed è uno spettacolo bellissimo. Le rive boscose, quasi disabitate, scendono quasi a picco sul fiume: sembra un fiordo e fa sopportare le buche che rallentano il viaggio. Da Belgrado a Zagabria è tutta autostrada, ma in realtà il viaggio non è così veloce come ci si aspetta perchè i lavori sono numerosi. L’autostrada costa più che in Italia, cosa che finora abbiamo visto solo in Norvegia, ma i serbo-bosniaci-croati non hanno certo il PIL dei norvegesi. Nonostante ciò gli emigranti che la utilizzano per rientrare nel nord Europa sono numerosi.
A Belgrado facciamo una breve deviazione per entrare in centro, spinti dalla curiosità: è una città moderna ma del resto è andata distrutta più volte, nel corso della tormentata storia dei Balcani. Non vediamo traccia dei bombardamenti più recenti ed il traffico è intenso, forse anche a causa della pioggia. Attraversiamo il grande ponte sul Danubio sotto un diluvio scrosciante.
Dopo aver attraversato la Serbia il nostro viaggio si chiude ancora una volta in Croazia, approfittando di una schiarita per cercare un breve relax a Banska, nell’isola di Krk. La spiaggia di ciottoli è purtroppo affollatissima a causa della ricettività limitata e del fatto che siamo ancora nella settimana di Ferragosto. L’acqua è verde e limpida ma è freddissima, fenomeno forse accentuato dal maltempo recente. L’ennesimo diluvio ci farà lasciare senza rimpianti il mare di Krk e coronerà la fine di questo nostro peregrinare per l’Europa del Sud Est.
Un viaggio da consigliare per la bellezza di molti luoghi, per la cordialità della gente e per conoscere questa parte dell’Europa meno fortunata: non so se tornerete carichi di acquisti di artigianato, come è accaduto a noi, ma certamente tornerete scarichi da molti pregiudizi.
Chi siamo L’equipaggio era formato da me, mio marito e mio figlio Saul di tre anni.
Informazioni generali pratiche Guida. Abbiamo utilizzato la Guida verde TCI “Bulgaria Romania” ed il nostro buon senso.
Durata e distanza. 24 giorni per un totale di 8.096 km percorsi.
Strade. Tutte le direttrici principali ed alcune secondarie sono in buone condizioni ed asfaltate. Solo in qualche tratto abbiamo dovuto fare lo slalom tra le buche; in particolare nella strada di confine Montenegro-Albania, ed in alcune strade del Maramures (Romania).
Rifornimenti. Non ci sono problemi di rifornimento di gasolio e benzina, ma è sempre prudente fare il pieno se si percorrono lunghi tratti di strade secondarie. Il diesel (chiamato anche “motorina” in Romania) costa circa 80 eurocent quasi ovunque, un bel costo per i locali.
Frontiere. Albania (dal Montenegro): paghiamo 25€ (10€ per persona + 5 per l’auto) + 2€ per un’inesistente disinfestazione. Non ci fanno stipulare l’assicurazione obbligatoria che prevedevamo, essendo l’Albania l’unico paese europeo non coperto dalla Carta Verde.
Bulgaria (dalla Macedonia): paghiamo 4€ per una fantomatica tassa di circolazione + 2€ per la disinfestazione (che consiste nel passare con le ruote dell’auto su un liquido nerastro). All’uscita ci fanno pagare 6€ ma non ne abbiamo capito il motivo.
Romania (dalla Bulgaria): paghiamo 15€ per una fantomatica tassa di circolazione.
Telefono cellulare. C’è campo dappertutto (Tim ed Omnitel), meglio che in Italia.