Za – nam
Se si riesce a dormire, il volo notturno permette di arrivare riposati. Ma è piuttosto difficile che la stanchezza si faccia sentire quando inizia il viaggio che ti porterà a scoprire il paese arcobaleno : così è chiamato il Sud Africa e capiremo presto il perché.
Destinazione Kruger National Park : dopo avere ritirato la Volkswagen Chico all’int’airport di Jo’burg (o E’ goli, come viene chiamata Johannesburg dai suoi abitanti), passiamo diverse ore alla guida per raggiungere il protea Flexi Pass di Hazyview.
Percorsa la N4 per un lungo tratto, ci inerpichiamo dalla R36 sulle montagne del Drakensberg, passando da Lyndeburg lungo il panoramico passo di Long Tom e visitando una delle numerose cascate (MacMac falls) che si incontrano.
La stanchezza del volo non ci impedisce di ammirare la bellezza della montagna interamente ricoperta da vegetazione lussureggiante; saliamo fino al God’s Window per poi ridiscendere giù fino ad Hazyview.
Iniziamo a vedere le prime township a ridosso di Sabie : sul bordo della strada moltitudine di persone di colore che chiede un passaggio o aspetta o si sposta a piedi. Facciamo rifornimento in un animato quartiere di Sabie dove ci rendiamo conto di essere le uniche persone bianche, ma ci rendiamo progressivamente conto che una dimensione seppure così diversa dalla nostra non desta particolari timori.
Il soggiorno al Protea di Hazyview è decisamente accogliente e la cena all’hotel, sebbene a buffet, niente male.
Al mattino pochi km ci separano dal Kruger National Park : famoso per la moltitudine di animali osservabili e per le sue dimensioni (è grande circa quanto Israele), si rivela da subito un’esperienza toccante. Giraffe, elefanti, zebre, vari tipi di antilopi, uccelli, bufali, ippopotami e molte altre specie animali vivono tranquillamente a poca distanza dalla strada sterrata, percorribile autonomamente da veicoli privati.
Gli animali sono spesso concentrati presso le “pozze d’acqua” segnalate anche sulla cartina acquistabile all’ingresso del parco.
Paola si scatena con la telecamera mentre io faccio andare una marea di rullini tra teleobiettivo (grazie Ciccio) e Nikon F60.
Pernottamento e cena allo Skukuza rest camp. Il mattino, dopo avere assistito allo show di numerose scimmiette dispettose che rubavano cibo dal frigo dei bungalow vicini, ripartiamo per il Kirkman’s camp, una riserva privata all’interno del Sabie Sand game reserve.
Questa sistemazione, decisamente lussuosa ma un po’ troppo “accogliente”, ti riserva un trattamento da “uomo bianco”, il quale prevede un ranger a completa disposizione che ti segue in tutta la permanenza (si siede pure a mangiare con te) : a noi è capitato un giovane e simpatico ragazzo dello Zimbawe, le cui origini sembravano più scandinave che non africane.
Il meglio di sé lo ha dato alla guida del Land Rover 4×4 nei due fotosafari che abbiamo fatto insieme al tracker, un anziano sudafricano esperto di tracce animali. Finalmente troviamo un bellissimo leopardo e il nostro driver inizia a scatenarsi per le manovre di avvicinamento, devastando la savana circostante, in un susseguirsi di inseguimenti nel bush (la macchia della savana), inventandosi letteralmente la strada tra collinette, fiumi ed arbusti vari, nel divertimento degli sballottamenti misto allo stupore di entrambi del susseguirsi di paesaggi e profumi della savana.
Cena sotto le stelle intorno al bhoma con tanto di spettacolo folcloristico (un po’ kitsch); il pomeriggio del giorno dopo, il lungo rientro a Jo’burg, che troviamo particolarmente lungo a causa sia del buio che della guida a sinistra.
Dopo un abbondante pan-cake in un cafè in Sandton (una delle poche zone tranquille di Johannesburg) ed un sonno ristoratore al Hotel Balalaika Protea, siamo pronti per il volo verso Port Elisabeth (chiamata più comunemente PE) da cui inizierà la nostra Garden Route.
Gli 800 Km più famosi del Sud Africa iniziano con un violento temporale : l’acqua sembra scendere a secchiate ma dopo poco la giornata migliora. I primi 150 Km non dicono molto, anzi l’assoluta desolazione della zona che attraversiamo fa aumentare il nostro appetito ma dovremo aspettare una fornita stazione di servizio nei pressi del big tree, un’enorme quercia alta 36.6m e vecchia 800 anni (ma dopo le sequoie di Yosemite Park, non ci dice molto).
La Tsitsikamma forest cambia decisamente l’interesse pomeridiano : la Nature’s valley, che offre scorci interessanti, merita sicuramente una deviazione : il Grootrivier pass ci regala la visita di una colonia di babbuini che invade la strada incurante della nostra curiosità (ovviamente bellissimi i cuccioli più volte oggetto dei nostri obiettivi).
Plettemberg bay (la baia formosa) ci aspetta per la notte : una simpatica signora sulla sessantina ci accoglie nella sua guest house con terrazza e vista da sogno sull’oceano. Iniziamo ad apprezzare questa forma di sistemazione domestica usatissima anche nell’Africa australe che permette, a prezzi ragionevoli, di entrare a contatto con le persone del luogo in sistemazioni curatissime ed accoglienti.
Michele ci consiglia il “Moby Dick” per la cena dove il seafood rimane forse uno dei migliori del nostro viaggio, con vista sulla spiaggia dell’oceano Indiano.
Il mattino dopo ci aspetta la Robberg Nature Reserve : poco pubblicizzata è stata una delle sorprese più belle dell’estremo sud. Un sentiero, tra scogliere a strapiombo sul mare, non proprio facilissimo ma molto panoramico porta fino all’estrema punta del Cape Seal, scendendo lungo spiagge immacolate, dove si possono vedere una notevole quantità di volatili.
Con rammarico non riusciamo a percorrere l’intera riserva : Paola mi ricorda che ci attende un lungo percorso. Riprendiamo la panoramica N2 lasciando Knysna e, dopo un succulento spuntino in un vagone ristorante a George trovato per caso, ci inerpichiamo lungo la R62. Il cielo terso e le montagne verde – arancio delle Outenique pass ci conducono ad un brullo e sconfinato altipiano di terra rossa, che precede Outshoorn, primi “sintomi” del little karoo (il piccolo arido), un altipiano che separa la zona calda e semi desertica dell’entroterra dalla temperata e lussureggiante fascia costiera della Garden Route.
Outshoorn è famosa per gli allevamenti di struzzi, le cui piume pregiatissime nel secolo scorso hanno creato una moltitudine di ostrich farm, ora più sfruttate a livello turistico.
Il tourist office ce ne consiglia diverse e noi ne scegliamo una un po’ fuori mano verso il swartberg pass, dove ci dirigeremo successivamente : vedere questi uccelli più alti di noi ci fa un po’ effetto così come le enormi e resistentissime uova (Paola ci è salita sopra).
Nessuno del gruppetto (della visita guidata di circa un’ora) prende parte alla “cavalcata” alla quale questi uccelli sono spesso obbligati, preferiamo ricordarceli lanciati in veloci corse nei deserti che vedremo a breve.
La R328 continua verso Nord e nel giro di circa un’ora, nonostante le continue soste per foto e riprese varie, raggiungiamo la swartberg pass, attraverso una delle prime strade sterrrate che incontriamo, costeggiando il complesso panoramico del groot swartberge.
Rientriamo verso Mossel Bay ma durante il percorso, è bastata una distrazione (complice anche la guida a sinistra e le banchine non percorribili) per far si che una ruota si forasse.
L’inconveniente ci porta via un po’ di tempo ma soprattutto ci obbligaa fare riparare la ruota per procedere più tranquillamente.
Cercando di dimenticare il problema ci sistemiamo all “African Oceans” che si rivelerà un’indimenticabile guesthouse : stanza/appartamento di 90mq ca con accesso esterno su un green verdissimo che sfuma nella sabbia della spiaggia sull’oceano. La colazione ed il servizio sono all’altezza del pernottamento e ci piange letteralmente il cuore abbandonare questo paradiso gestito interamente da una famiglia di colore (unico caso nel nostro tour).
Hermann, il padrone di casa, ci consiglia “supaquick”, una efficiente e veloce catena di garage, dove con soli 30 euro sostituiamo il pneumatico irrimediabilmente danneggiato della nostra toyota tazz.
Oggi, tanto per cambiare, il giro sarà bello lungo : destinazione Hout Bay ma seguendo un percorso alternativo alla N2 : riprendiamo la R328 ed, attraverso il Robinson pass, raggiungiamo Calitzdorp. Da qui, lungo il Huisrivier pass e dopo un panino più yogurt in un alimentari della Parmalat ! raggiungiamo il seweweekspoort pass : la guida non aveva esagerato. I 17 Km del tortuoso percorso attraversano 17 volte il fiumicciattolo Groot, che ha scavato pareti rocciose a strapiombo di colore rosso, bianco ed arancione, le cui forme bizzarre cambiano ad ogni curva.
Continuiamo sulla R62 lasciandoci progressivamente il little karoo alle spalle per raggiungere la “wine route”, una strada che percorre la zona vinicola di Robertson e Worcester. Entriamo in una delle numerose aziende per degustare ed acquistare il vino sudafricano famoso in tutto il mondo, paragonabile alle nostre migliori uve ma sicuramente meglio valorizzato di quello italiano che pure meriterebbe almeno la stessa fama per qualità e varietà.
In un information point di Robertson siamo invitati ad applicare, su una cartina a muro dell’Europa, una clip sulla città da cui veniamo e scopriamo che il grosso del turismo della zona proviene dai paesi bassi, Inghilterra e Germania, qualche francese e russo ma pochissimi italiani o spagnoli.
Superata Paarl seguiamo la N1 sfiorando Cape Town. La luce del tramonto, davanti a noi, riempie l’azzurro di un colore indefinito ma subito sotto una delle più estese e degradate town ship cresciute a dismisura ai bordi dell’autostrada, con persone di colore che camminano lungo le corsie od in mezzo agli svincoli.
La Rhodes Drives che ci condurrà ad Hout Bay, ci riconsegna la più comoda visione dei curati ed eleganti sobborghi della Costantia, una delle zone più ricche della penisola del capo.
Un simpatico signore scalzo ed un po’ brillo, ci apre il pesante portone in ferro della sua guesthouse (e ci esorta a richiuderlo subito). Decliniamo gentilmente il suo consiglio di cenare in una pizzeria italiana di sua conoscenza, preferendo il pesce im un affollato ma ottimo ristorante con vista sulla baia.
Della vista dalla camera sulla baia neanche l’ombra, prenotata anch’essa via internet, ma non ci sembra il caso di sottolinearlo. La mattina dopo, la colazione risulterà un pochino impegnativa, in quanto la padrona di casa ci martellerà con un’interminabile serie di domande (capire e parlare in inglese prima del caffè ci risulta faticoso).
La visita al Kirstenbosch ci delude un po’, anche per il fatto che non vi sono molte piante in fiore.
Attraversiamo la Constantia Valley, una delle zone più esclusive di città del Capo, costellata da numerose cantine e vigneti per poi raggiungere Muizenberg che sarà la prima cittadina balneare dalla quale partiremo per fare il giro della penisola del capo, circa un centinaio di Km, per raggiungere il sud del mondo africano. La strada costiera che, attraversando graziosi villaggi di pescatori costeggia le tiepide acque di False Bay, è molto rilassante.
Ci fermiamo a Boulders, una delle poche colonie terrestri esistenti di pinguini, dove numerosi e tranquilli esemplari dimorano indisturbati sulla spiaggia e sugli scogli.
Il panorama inizia ad asprirsi man mano che scendiamo e curva dopo curva arriviamo all’ingresso della riserva alla cui estremità è possibile salire al vecchio faro dal quale si ha la vista dei soli oceani. Una breve passeggiata ci ha portato a Cape Point, il punto raggiungibile a piedi più estremo della penisola, parallelamente al capo di Buona Speranza.
Nonostante non sia l’estremo sud geografico, che rimane più a Est ed il carattere decisamente turistico della zona (telecabina, servizi e bus organizzati), Cape Point oggi affascina nella stessa misura in cui incuteva autentico terrore durante le drammatiche navigazioni che doppiavano il capo, unico e pericoloso riferimento terrestre rispetto all’infinito sud dei mari, che i vascelli dei secoli scorsi sfioravano appena.
Rientriamo verso Nord seguendo la R65 lungo il versante freddo ed infatti una nebbia atipica invade sia le enormi spiagge che la strada costiera, in un surreale contrasto con il bruciare del sole tardo pomeridiano.
Ritenuta, forse a torto, una delle più panoramiche strade del mondo, la Chapman’s peak drive, poco più a Nord è un susseguirsi di curve appese alle enormi rocce di granito sopra l’oceano atlantico, con saltuarie piazzole dove godere della vista.
Siamo quasi al tramonto e ci affrettiamo per raggiungere i profili dei “dodici apostoli” : degli enormi contrafforti granitici incendiati dall’abbagliante riflesso del crepuscolo sul mare. Qui attendiamo forse il più bello dei tramonti sudafricani.
Riattraversiamo Hout Bay e la lussuosissima periferia balneare di Cape Town (difficile pensare di essere in Africa) ritrovando lo stesso indefinibile azzurro-rosa della sera precedente.
Il “Launic house” ci ospiterà per la notte, un’accogliente guesthouse decisamente etnica, ma con accesso regolato dalla solita trafila di pesanti cancelli da chiudere ed aprire ogni volta.
Cena da Marco’s, un tipico locale sudafricano dall’aspetto esterno non troppo raccomandabile ma che invece si è rivelato strepitoso, con tanto di accompagnamento blues e personale gentilissimo.
Il mattino dopo siamo pronti per ripartire dall’enorme e desolato int’airport di Cape Town : entrambi avevamo fatto già il “pieno” di emozioni ed esperienze, la nostra vacanza sarebbe potuta finire tranquillamente qua.
Con un velo di tristezza ci lasciamo alle spalle il “rainbow country” e tutta la sua bellezza domandandoci, senza confidarcelo, come potrebbe essere il resto della vacanza e se non avremmo fatto meglio a programmare il rientro : l’impatto Namibia, spazzerà via ogni ripensamento.
Dall’alto, l’aeroporto internazionale di Windhoek sembra una di quelle piste che si trovano sulle isolette greche delle cicladi. Noleggiamo una Toyota Hilux 2700 4×4 Double Cab : non abbiamo badato a spese per il mezzo in Namibia e mai scelta fu più azzeccata.
I 40 Km che ci separano dalla capitale corrono veloci e mentre la radio trasmette una esilarante carrellata di rifacimenti di canzonette italiane rigorosamente in tedesco (da Dolce Remì a Nilla Pizzi) ci orientiamo verso un caffè per il pranzo. Appena parcheggiamo il transatlantico si avvicina un giovane con pettorina e cartellino che ci chiede se può guardarci l’auto : rimaniamo un po’ intimoriti e disorientati ma scopriremo dopo che sono giovani disoccupati assunti dalle autorità comunali che, per combattere il crimine del furto d’auto, sorvegliano dietro compensa spontanea il tuo mezzo.
Scendiamo verso Sud lungo la B1, una delle due strade asfaltate della Namibia (a due sole corsie) incrociando diversi mezzi pesanti che viaggiano a velocità sostenute ed ogni volta occorre prestare molta attenzione : nonostante la scarsità della popolazione (1,3 milioni di abitanti su una superficie di circa 3 volte l’Italia) gli incidenti stradali sono un problema particolarmente sentito, tanto è vero che è consuetudine dei gestori locali aggiungere al saluto “drive safely”.
L’ipnotica striscia d’asfalto che attraversa il nulla costeggia ad est il deserto del Kalahari dove soltanto solitarie torri di cemento per telecomunicazioni interrompono la vastità del paesaggio. La suggestione di questi spazi ed orizzonti infiniti non può lasciare indifferenti ma è solo fermandomi che realizzo dove siamo.
Dopo una sosta per foto al tropico del capricorno, svoltiamo per la C1, una pista sterrata, la prima che incontriamo sulle quali percorreremo oltre tremila Km.
Un’accogliente ragazza tedesca ci viene incontro e, con grande stupore, notiamo la sua reale preoccupazione per il nostro arrivo al tramonto.
Il cottage è immerso nell’oscurità del Kalahari ed un temporale serale illumina di nulla tutto intorno.
La cena è ottima ed il mattino si riparte : destinazione Fish River Canyon.
Lungo la B1 troviamo a Keetmanshoop un unico alimentari aperto (oggi è Domenica) ed a Seeheim lasciamo l’asfalto per la C12.
Le strade sterrate sono ben curate e permettono alte velocità sebbene occorra prestare molta attenzione alle curve ed ai numerosi “guadi” formati o da pozzanghere o da piccoli canali o corsi d’acqua (non esistono ponti). Per non rallentare continuamente, la difficoltà maggiore per mantenere una accettabile velocità media consiste nel valutare cosa si può trovare nascosto nelle cunette che si formano nei guadi : il più delle volte si trova terreno compatto o soffice come sabbia, perdendo al massimo un po’ di aderenza, ma qualche volta ci è successo di “saltare” letteralmente con venti quintali di fuoristrada.
Lungo la C12 troviamo un gruppetto di signore con i piedi a mollo nel torrente Lowen, un Vito Mercedes in mezzo alla strada e un minibus poco più a lato.
Rallento e guado il mio primo fiume, facciamo pochi metri e mi pianto nella sabbia : mi ricordo di avere un 4wd, innesto le ridotte e la Toyota invece di avanzare si abbassa ancora di più.
Il temporale della sera prima ha ingrossato il torrente che ha portato sabbia sulla strada alta mezzo metro per un centinaio di metri ! Si avvicina un tranquillo e sorridente tedesco (conducente del Vito) e le signore che stava trasportando : ora è evidente che mi chiede aiuto e chissà da quanto tempo stavano aspettando sotto il sole. Intanto la mia Toyota non ha nessuna intenzione di muoversi : l’idea di rimanere impantanato nel Sud della Namibia a 100 Km dal primo segno di vita, nonostante il caldo del primo pomeriggio, ci raggela il sangue.
Con Paola cerchiamo di capire l’uso delle indicazioni delle ridotte esposte sul parasole circondati dalla combriccola di tedeschi dove ognuno dice la sua : dalla telegrafica spiegazione fornitaci del ragazzo dell’AVIS all’aeroporto (modello la lezione a terra di paracadutismo in Fandango) ci balza in testa l’uso del differenziale manuale, due comandi applicati sulle ruote anteriori del fuoristrada. Riprovo con le ruote così vincolate e come un merluzzo che risale la corrente, il Double Cab galleggia abilmente sulla sabbia, spostandomi in una zona sicura. Dall’allegra combriccola spunta una corda e riusciamo anche a tirare fuori dal pantano sia il Vito che il minibus con doppio applauso finale e birra tedesca ghiacciata.
Ci si ritrova tutti, dopo 100 km, al ristoro più vicino, il Canyon Road House, che ci ospiterà anche per la notte, con visita pomeridiana al Fish River Canyon un immenso canyon scavato dal fiume Fish, molto simile seppure più piccolo al più famoso Grand Canyon dell’Arizona.
La sera bagno ristoratore e cena alle terme di Ai-Ais e rientro sterrato in notturna sotto le stelle : 80 Km di buio e solitudine assoluti. Il mattino dopo ci renderemo conto della leggerezza commessa.
Appena capisce chi siamo, la sorridente signora del Road House cambia espressione – che cosa vi è successo – ci chiede. Nulla – rispondiamo. Vi siete persi ? noi – No. Non vi abbiamo più visti e abbiamo mandato due persone a cercarvi ! Subito ci scusiamo sentitamente e mentre i suoi lineamenti si distendono chiariamo però che non siamo stati avvertiti della necessità di dovere comunicare i nostri spostamenti (infatti lo sbrigativo e un po’ svogliato ragazzo che ci fatto il check-in, probabilmente uno dei due inviati in missione, non ha fatto cenno alla cosa).
Ci rendiamo conto che non è vietato ma è fortemente sconsigliato viaggiare di notte secondo una naturale logica di reciproco aiuto sulla strada, considerata non solo la saltuaria copertura del segnale telefonico mobile ma anche dall’esiguo passaggio di mezzi; logica che a noi stranieri ci è estranea (specialmente in Europa) ma che abbiamo subito assimilato nel giro di soli due giorni.
La mattina ritorniamo al main view del canyon, poco prima del quale parte una “strada” super sconnessa che però permette di seguire il rim del canyon lungo altri view point per una decina di km realizzando, così, la nostra prima escursione fuoristradale, durante la quale abbiamo visto un grosso serpente nero, decisamente impressionante, che dribblando le pietre del deserto roccioso si è nascosto velocemente in un arbusto solitario.
Si riparte, la strada è lunga, ma possiamo sfruttare tutte le ore di luce perché a Luderitz ci fermeremo 2 notti. Pranzo con un ottimo toast farcito (specialità della Namibia meridionale) a Seheim, una strana accomodation dall’indecifrabile stile afro-tedesco, gestita da una loquace coppia Namibiana che di africano non aveva nulla. Riprendiamo l’asfalto della B4 con rifornimento ad Aus e sosta presso Garub dove, se si è fortunati, è possibile avvistare i “cavallini di Aus”. La fortuna è dalla nostra parte : un gruppetto dei piccoli cavalli selvaggi si avvicinano alla pozza artificiale, nei pressi della quale è possibile nascondersi in una casetta di legno per fotografarli ed osservarli. Isolati dal deserto si sono evoluti secondo particolari criteri, riducendo le dimensioni fisiche ed aumentando le capacità fisiologica di adattamento alla scarsità d’acqua; sembra che siano originari da un gruppo superstite al naufragio di un vascello europeo diretto in Australia, intento a doppiare il capo di buona speranza.
Costeggiamo la Diamond Area (estremità meridionale del prolungamento del Naukluft) ed il paesaggio cambia, ancora una volta, radicalmente : fanno la loro comparsa le dune di sabbia.
La zona proibita è particolarmente suggestiva e capita spesso che la sede stradale venga invasa da piccole dune, così come la vecchia ferrovia dell’800 che in un assurdo gioco surreale si infila più volte sotto decine di metri di sabbia per poi rivedere la luce qualche duna oltre.
Luderitz, come dice la guida, è stata appena sfiorata dal nuovo millennio : io aggiungerei che del nuovo secolo non c’è neanche l’ombra. L’insediamento più grosso del sud-ovest è semplicemente allucinante : interamente aggrappata alla attività portuali e marine, possiede 200m di corso con locali “normali” e tutto intorno semplici insediamenti civili ed industriali. Unica nota positiva il “Ritz restaurant”, angolo di progresso presso il cosiddetto “waterfront”. Sconsigliamo il nostro “Bay View Hotel”, sebbene dignitoso ed economicamente vantaggioso.
La penisola di Luderitz rivaluta completamente la zona : diverse piste conducono alle numerose baie costantemente flagellate dall’impeto dell’oceano Atlantico. A Diaz Point è possibile ammirare una colonia di leoni marini ed il “second lagoon” è particolarmente suggestivo alla luce del tramonto.
La città fantasma di Kolmanskoop è un’attrazione per comitive di turisti sebbene la professionale descrizione della guida riesce a ricostruire le sensazioni e le privazioni del drammatico stile di vita ai tempi delle estrazioni diamantifere.
Il mattino che ripartiamo scende un fresco vento dalle montagne che induce i locali a vestirsi con pesanti tute ed addirittura passamontagna (io avevo i sandali ed un k-way). Risaliamo verso Nord lungo la C13, aggirando le montagne del Naukluft dove aridi paesaggi si alternano ad inaspettate distese verdi, delimitate da recinzioni che sconfinano all’orizzonte in un impressionante successione.
Seconda ed ultima prova di vita umana riscontrabile sono i cancelli e le strettoie che i tenutari di queste aree (che potrebbero ospitare una decina di nostri piccoli centri urbani) costruiscono ai confini delle loro proprietà sulla strada, al cui passaggio concediamo qualche secondo di riposo al motore del nostro mezzo.
Dopo 600 km arriviamo al kulala lodge, senza avere trovato alcun posto dove mangiare : così, solo dopo 2 sandwich, siamo in grado di apprezzare la strepitosa sistemazione che abbiamo scelto. In pieno deserto a ridosso delle enormi dune rosse di Sossusvlei, diversi lodge tendati sollevati da terra come palafitte etniche ci ospiteranno per 2 notti.
Il prezzo ne vale la pena ma partecipiamo solamente all’escursione pomeridiana del tramonto, in quanto dedichiamo l’intero giorno successivo al pezzo forte della vacanza in Namibia : l’avvallamanto del Sossusvlei con il mare di dune rosse, l’immagine del Namib più esportata nel mondo.
Lungo i 50 Km che separano l’ingresso della fine della “valle”, la gimcana per evitare i crateri dell’asfalto induce spesso a percorrere improvvisate piste parallele ed è praticamente impossibile non fermarsi continuamente per ammirare ed avvicinare dune alte anche più di 300 metri, mucchi di una quasi impalpabile sabbia rossa, costantemente rimodellata da un piacevole vento caldo.
“L’incontro” con la prima di esse mi ha restituito un’emozione infantile; diamo appuntamento alla duna 45 al ritorno, passiamo oltre il parking 2×4 e ci avventuriamo negli ultimi 5 km di sabbia soffice, permessi ai soli mezzi 4×4. Ci insabbiamo nuovamente ma ormai conosciamo il trucco; arrivati ci dedichiamo alla nostra prima scalata (in compagnia di molti altri turisti) con tanto di corsa dalla sommità e sabbia fino nelle mutande.
L’impalpabile sabbia rossa mette k.O. La nostra telecamera. Percorriamo sotto il caldo sole della tarda mattinata la dead vlei, un percorso che porta fino ad un inquietante lago asciutto abitato da alberi contorti e da numerosi insetti quali lucertole trasparenti e tok tokkie, una specie di scarafaggio che riempe con i suoi crepitii l’assoluto silenzio della notte nel deserto. L’incredibile cielo azzurro e terso come in alta quota, il contrasto con il surreale profilo delle sagome che ci sovrasta quasi ci disorienta, confondendo distanze e proporzioni; nonostante le foto siano fedeli istantanee dei colori e dei forme, nessuna di esse riuscirà a replicare simili sensazioni.
Ci difendiamo dall’insopportabile calore dell’una pranzando all’ombra di alberi popolati da numerosi uccelli simili a passerotti. Il pomeriggio decidiamo di “conquistare” una duna inviolata : lasciamo il 4wd e dopo circa 1 km ci avviciniamo ad una bellissima duna la cui scalata risulterà molto più faticosa del previsto (in quanto non esistono orme che abbiano già compresso la sabbia) ma la fatica ne varrà la pena.
Durante il rientro, in un avvallamento dove vediamo solo sabbia, ci rendiamo conto di quanto è facile perdersi nel deserto ma la vista, dopo pochi minuti della nostra Toyota in lontananza, ci rassicura.
Aspettiamo la luce del tramonto alla duna 45, colorandola, se possibile, di un rosso ancora più intenso.
Anche la cena, al kulala, è eccezionale ma al mattino dopo si riparte. Si ritorna ai paesaggi rocciosi del giorno prima, ad attraverso il Guab pass ed il Kuiseb pass, giungiamo a Walvis bay. Capiamo subito perché qui si pratica il sand boarding : la duna 7 alla periferia della città è molto alta e ripida e numerose altre circondano la prima.
Il paesaggio cambia repentinamente : verso la città troviamo una copia esatta della visione sahariana che si ha quando si esce da un complesso turistico sul mar Rosso. Nei pressi di Walvis il verde riprende coraggio ed incontriamo, con nostro grande stupore, sia l’asfalto che una cittadina moderna con una signorile zona residenziale che percorriamo per vedere le enormi montagne di sale bianco (sono saline di proprietà del Sud Africa, retaggio della recente assoggettazione); nostra meta è la famosa laguna che, insieme a quella di Luderitz, è la più grossa riserva naturale di fenicotteri rosa dell’Africa australe. Alla ricerca dei volatili che vediamo solo da lontano, percorriamo un lungo semicerchio, per poi trovarli nella zona più vicina alla strada, dove una folta comunità “draga” il fondo melmoso a poche decine di metri da noi. Rimaniamo parecchio ad ammirare questa tranquilla moltitudine, fino al tramonto, cercando di catturare uno dei rari decolli in cui la nuvola rosa si sovrappone all’intenso azzurro dell’oceano.
Durante i 30 km che ci separano da Swakopmund ritroviamo il paesaggio sahariano; attraversiamo il primo ponte namibiamo accompagnati da un precoce buio pomeridiano.
La “Seabreeeze” guesthouse gestita dagli italianissimi Oscar e Giancarlo (che salutiamo) è decisamente accogliente ed ospitale. Troviamo anche un gruppo organizzato di Verona, con il quale possiamo finalmente “rispolverare” il nostro italiano. Dopo una cena sul rimorchiatore “The Tug“ ripartiamo il mattino per la Welwitschia drive (i biglietti vanno acquistati in città) : chi si aspetta di trovare una specie di Zabriski point, rimarrà un pochino deluso, ma la strada che l’attraversa rivaluta l’escursione, fino al Welwitschia plain, un altipiano lunare dall’aspetto dantesco. Incuranti della quasi totale assenza di precipitazioni, la Welwitschia ha fatto di questo habitat la sua casa, una curiosa pianta dioica dall’aspetto non proprio gradevole ma decisamente singolare.
Riprendiamo la C28 decisi ad affrontare il famigerato Boshua pass. Capiamo quasi subito perché tutti allungano a Nord lungo la più trafficata B2 : numerosi saliscendi interrompono la strada con tratti instabili e sconnessi, attraversando il dinamico ed arido paesaggio del Khomas Hocland, la catena montuosa ad ovest di Windhoek.
Sappiamo che questo è l’ultimo dei trasferimenti del viaggio ma facciamo finta di nulla : un cartello proibisce gran parte dei veicoli di procedere ulteriormente.
Il Boshua pass ha il suo acuto in una serie di curve che terminano in una salita ripidissima con fondo sabbioso e sconnesso. Ovviamente, proprio in questo tratto più disastrato, un operaio quasi disteso sotto il sole, intento a pavimentare con delle pietre la corsia “ufficiale”, ci costringe ad una traiettoria laterale, mentre guarda divertito la nostra arrampicata nel pezzo finale. Nonostante gli sforzi al quale sottopongo il 4WD per non perdere aderenza, riesco ad intravedere la sua espressione, autentico ritratto della sfiducia di chi non punterebbe un solo rand sulla riuscita della scalata. Il 4×4 fa il suo dovere, portandoci sul passo, da cui il panorama vale la sosta.
La C28 continua con il suo zizzagare fino alle pendici della alture : stiamo rientrando da dove siamo partiti e, nonostante le fatiche del viaggio, ci assale un’inevitabile tristezza, forse mai così marcatamente avvertita rispetto ad altri viaggi.
La pensione “Moni” della capitale oltre ad essere una buona sistemazione è anche economica, sebbene la recinzione elettrificata (come molte altre case della zona) denunci una difficile situazione sociale.
Il mattino seguente abbiamo ancora il tempo di visitare il Daan Viljoen Game Park; sebbene sia alle porte della città è popolato da numerosi animali (zebre, giraffe, bufali, etc) ed è particolarmente attrezzato con splendidi bungalow e pic-nic site.
Siamo veramente alla fine : radio kudu trasmette (tanto per aiutare) solamente pezzi strappalacrime e separarci dalla Toyota (la nostra casa a 4 ruote) ci fa un po’ effetto.
Dopo il lungo ed estenuante rientro, la nostra realtà ci appare quasi fuori luogo, le strade e le vie della nostra città un po’ surreali, casa nostra insolitamente arredata, involontario paragone delle nostre certezze con 6000 km di mutevoli scoperte.