La guerra dietro la porta. Ex Yugoslavia 1996
Questa mattina sono in giro per le strade di Fiume. Mi aggiro così, un po’ a caso, ma la cittadina non mi sembra granchè, quindi decido di partire. Del resto quella fuga solitaria da Roma per sottrarsi agli obblighi del Ferragosto con amici o parenti era all’insegna della più totale libertà di movimento.
Se non fosse per qualche scorcio di panorama costiero la fila di automobili che si snoda lentissima sarebbe insopportabile. Certo non mi aspettavo che anche in questi luoghi, subito dopo una guerra che ha fatto sentire il suo pesante alito di morte a così breve distanza, la gente avesse voglia di immolare ore di vita preziosa al rito del fine settimana estivo. Un lungo serpente di veicoli, la gran parte utilitarie, ma abbastanza nuove.
All’altezza di Senj decido di piegare verso l’interno. Dopo pochi chilometri vedo alcune case con buchi di granata sulla facciata. C’è pochissima gente in giro e quasi nessuna macchina in circolazione. Almeno si cammina! Il numero delle persone sembra inferiore al numero delle abitazioni: saranno tutti in casa oppure…? Ad un incrocio accosto per consultare la carta. Un poliziotto si avvicina insospettito; non ha il cappello, il volto è depresso e rassegnato, due macchie di sudore colorano la camicia sotto le ascelle. In un rigurgito di baldanza militare gonfia il petto nel farle una domanda in slavo. Non capisco e rispondo “Plitvicka jezera”, il posto dove sono diretta. Aggiungo “national park” in inglese per assumere meglio l’aria della turista. Il poliziotto mi indica con la mano la direzione e torna alla sua espressione rassegnata, ora per giunta commiserevole verso quella donna pazza che viaggia da sola sulle strade deserte dell’interno della Croazia.
Il mistero delle persone mancanti e dell’espressione del poliziotto si rivela lungo la strada. Le case non hanno più i vetri, moltissime non hanno più il tetto, i buchi sulle facciate si alternano alle ampie bruciature nere. Nessuna casa si è salvata, neanche quelle distanti dalla strada, sparse sulla collina: meticolosa volontà di distruzione.
Mi fermo davanti ad un altarino ortodosso traboccante di fiori rinsecchiti e di rossi moccoli da cimitero allineati a terra. Scendo dalla macchina ma non mi allontano, la lascio in moto e con lo sportello aperto. L’unica automobile in transito rallenta e suona il clacson più volte; dentro ci sono due uomini. Li controllo con la coda dell’occhio ma non riparto subito per non mostrarmi spaventata. Restano a guardarmi ancora qualche secondo e proseguono dopo avermi gridato qualcosa; saranno stanchi di violenza.
Una ulteriore deviazione dentro il bosco di Plitvicka per la strada più breve: la carta dice che e’ asfaltata. Infatti è asfaltata ed incredibilmente in buone condizioni, anche se stretta. Giusto la larghezza di un carro armato. E’ cosparsa di erba, foglie e rametti secchi, mi tocca rallentare per permettere la fuga degli uccellini, segno evidente che non passa nessuno da giorni, forse da mesi. La rivincita della natura sull’uomo.
Zaluznica, Vrhovine, Babin-Potok sono tre villaggi fantasma. Babin-Potok ha una bella strada lastricata di sanpietrini. Scendo di nuovo dalla macchina e cautamente entro in qualche casa; gli infissi sono distrutti in tutte le case. All’interno vetri rotti e stracci dappertutto, armadi staccati dai muri, cammino sulle macerie.
In un saloncino a piano terra c’è una tavola apparecchiata, con bicchieri e bottiglia ancora intatti, le pentole rovesciate in terra, un calendario appeso alla parete: 1995. Capisco ora il significato dell’espressione “non c’era anima viva”. Infatti non ci sono persone in carne ed ossa ma si avvertono le ombre degli abitanti di quella casa: sono seduti a quella tavola, stanno raccogliendo quella pentola.
Un grosso tronco caduto in mezzo alla strada decreta la fine della scorciatoia. Mi tocca tornare indietro e percorrere una via più battuta per raggiungere il parco. Arrivo nel primo pomeriggio e trovo tutt’altro spettacolo: il parcheggio è strapieno di macchine e di camper di turisti, tra cui molti italiani. Sembra tutto organizzatissimo. Inebetita mi aggiro per un po’ tra un’orchestrina stile pro-loco e un’invasione di panini e bibite, prima di decidermi ad entrare nel parco.
I croati si riconoscono dai vestiti, quelli da giorno di festa. Sorridono, sono o sembrano felici. C’è pure un matrimonio. Le signore portano scarpe con i tacchi, pettinature cotonate, sciarpe svolazzanti e merletti. Vestiti colorati, provinciali, genuini, dignitosi.
Gli edifici di uno dei parchi naturali più belli del mondo non sembrano aver subito grossi danni, oppure sono stati prontamente riparati: è una fonte di guadagno troppo importante in una debole economia. Solo un grande albergo chiuso mostra i segni dei bombardamenti. Sembra un cadavere grigio di pachiderma in mezzo al brulicare turistico di formiche colorate.
Nel caldo sole di mezz’agosto il parco è uno spettacolo mozzafiato.
I visitatori camminano su un lungo sentiero di listelli di legno sospeso su un paradiso di laghetti, cascate spumeggianti, acqua cristallina. Sembra una tela su cui un pittore ha voluto provare tutte le tonalità dell’azzurro e del verde. Mi siedo sulla riva di un lago: mi sale alle labbra una preghiera di ringraziamento ad un Dio cui non credo. Ringrazio di avere il dono della vista.
Vorrei essere pesce nel lago, acqua nella cascata, foglia sull’albero, lombrico nella terra, uccello nel cielo. In quel momento avverto il mio respiro e sento che non è solo il mio respiro: è il respiro della natura.
A fatica torno indietro all’imbrunire. Devo decidere dove andare a dormire. Intanto approfitto della presenza di un ristorante per mangiare un pasto caldo; l’interno della Croazia non brulica certo di ristoranti o bar. La gente non ha i soldi per andare a cena fuori. E’ bene approfittare dei servizi, quando ci sono.
Trenta chilometri da Bihac. Troppo pochi per scoraggiare la curiosità’. Buio nerissimo, neanche la luce di una casa. L’illuminazione stradale, dove c’era, non esiste più. Nell’attraversare il bosco di Plitvicka avevo visto i pali della luce divelti ed i fili tagliati.
La frontiera con la Bosnia è un chiosco di lamiera nella polvere con una lampadina che penzola da un filo elettrico. Sotto c’è una festa di zanzare. I poliziotti sono gentilissimi, niente intoppi, niente domande, niente timbri sul passaporto. Vorrei cambiare i soldi ma è tardi, sono le nove di sera e l’ “ufficio” (mi indicano una specie di rimessa per gli attrezzi) è chiuso. O meglio, il cambio ufficiale è chiuso, ma a tutto si può rimediare.
Arriva una ragazza con una cassettina di metallo. Nessuno parla una parola d’inglese, solo slavo o russo. Il dinaro non esiste più, non hanno coniato una moneta bosniaca propria, come gli sloveni ed i croati, quindi si cambia in marchi. La commissione di cambio è pesante ma non è il caso di discutere, pure se nessuno ha l’aria aggressiva. Altre due ragazze mi propongono ma senza insistere un’assicurazione per 50 marchi. Assicurazione infortuni da dopoguerra, forse.
La ragazza che cambia i soldi fa i conti con la biro su un pezzo di giornale; un giovanotto robusto in una bella tuta di tessuto acetato, di marca, scende da una macchina sportiva rossa nuova fiammante e si mette a parlare con la ragazza; puzza tremendamente di sudore e cautamente gli sorrido e mi sposta sopravento.
Nel ripartire mi accodo ad una camionetta della polizia che scorta un pullman non certo di turisti; il bagaglio e’ composto da buste di plastica e sporte legate con lo spago.
Bihac è una strada con case e macerie. Davanti ad una strada sbarrata ed una casa crollata provo a chiedere a due poliziotti depressi dov’è il centro della città. L’indice che punta a terra è eloquente: è questo il centro.
Le strade sono buie o parzialmente illuminate e la luce elettrica va e viene, instabile come la pace. C’è gente dappertutto: sembra che tutti i rimanenti abitanti di Bihac siano per strada. In effetti è sabato sera. C’è un complesso all’aperto che diffonde un fracasso notevole dalle casse amplificanti. Mi fanno pagare un marco di supplemento musica sulla birra. I prezzi sono alti, per i bosniaci.
In un bar poco lontano suonano una musica musulmana; ragazze e militari dalle facce accaldate ballano in cerchio girando vorticosamente. Ragazzine truccatissime, jeans e bolerino, ragazzi in jeans e giubbotto, normali, come da noi. Nessuno straccione. Ma molti giovani hanno i denti cariati o mancanti. E’ l’alito sul collo della povertà.
Sorridono, ballano, vogliono divertirsi. Il nostro dopoguerra che mi raccontava mia madre deve essere stato così: musica e tacchi alti tra macerie e luci incerte. Mancano solo gli americani. L’unico straniero che incontro è un militare vestito di blu dagli occhi a mandorla, con cui scambio uno sguardo di stupore.
Moltissimi uomini mi guardano e mi dicono qualcosa, ma si tengono a distanza; nonostante sia vestita peggio di loro evidentemente si vede che non sono del posto. Nessuno mi infastidisce seriamente, sembrano più che altro perplessi. Nella stanza di un albergo anni settanta, stile sovietico-costruttivista, tra le lenzuola che odorano di muffa, scrivo i miei appunti di viaggio: “Oggi è stato un giorno particolare.”