Falkland
MARE HARBOUR Finalmente riesco ad organizzare tutte quelle piccole cose che servono per fare 3 chilometri verso la natura che aspetta la’ fuori. Due giorni libero dal lavoro, una Land Rover e un club subacqueo che finalmente riesce a mettere in moto il gommone! Sembra tutto molto semplice ma qui non e’ proprio cosi’… Sabato pianifichiamo una immersione poco fuori da Mare Harbour, il piccolo e triste conglomerato di cemento che accoglie le navi da trasporto. Non appena il gommone tocca l’acqua veniamo circondati dai delfini di Commerson, piccoli ed eleganti in livrea nera e bianca. Ci guardano soddisfatti perche’ uno dei loro passatempi preferiti e’ in arrivo: un po’ di surf con l’onda di prua del gommone. Non hanno alcun problema a tenere il passo, i delfini sono tra i migliori velocisti del mare. La pelle liscia riduce l’attrito e la meccanica elastica della coda accumula e rilascia grande potenza ad ogni pinneggiata. Presto ci abbandonano, restano legati al loro territorio. Al ritorno dall’immersioni rieccoli, puntuali, nella loro scorta al gommone verso la bocca del porto. E’ la mia ora! Mi rimetto pinne e maschera, sono cosi’ vicini che posso toccarli e non danno alcun segno di nervosismo. Mi infilo nell’acqua con gentilezza ma rompo l’incanto dell’incontro. Forse non apprezzano le mie pinne troppo gialle e strane… Eppure sono fatte proprio per imitare la loro coda! Comunque sia, si allontanano per non ritornare. L’immersione tra i due incontri con i delfini e’ una tranquilla passeggiata nella foresta di kelp. Le piante sono molto piu’ alte dei 5 metri di profondita’ a cui siamo, quindi si piegano sulla superficie creando un tetto irregolare, scuro e ondeggiante. E’ affascinante l’effetto che creano sulla superficie: siccome queste piante producono sostanze oleose, i tratti di mare che le ospitano sembrano, dall’alto, molto piu’ densi e con onde corte e profonde. Da sotto la luce che penetra crea ambienti psichedelici tra il blu luminoso e il verde cupo, con raggi di luce che si accendono e si spengono ad ogni movimento dell’acqua marina. Purtroppo, nessun leone marino ci viene a visitare dalla vicina Sniper Island ma ci accontentiamo dell’atmosfera incantata e dei piccoli granchi bianchi che, al nostro passaggio, fanno il ”morto” e, lasciandosi andare dai fusti di kelp, simulano poco appetitose rocce in caduta verso il fondo. Planare tra i fusti e’ una silenziosa meditazione tra le colonne di un tempio, l’atmosfera misteriosa e’ cupa ed inquietante ed allo stesso tempo protettiva ed avvolgente.
Il giorno dopo siamo di nuovo a Mare Harbour ma purtroppo non possiamo uscire con il gommone. Resto in superficie come supporto ad alcuni studenti ed e’ una buona occasione per incontrare i cormorani. Un bel gruppo di circa 30-40 guarda il mare dall’estremita’ del molo di legno, magari sognando enormi banchi di pesci prelibati. I cormorani, come i pinguini, pescano inseguendo sott’acqua, con gran lavoro di zampe, i banchi di piccoli pesci argentati. Di conseguenza, sono eccellenti nuotatori ed apneisti. Questi sono tutti cormorani “delle rocce” meno uno, leggermente piu’ grande e con una livrea differente. E in accordo con la sua statura, questo e’ un cormorano “reale”.
C’e’ una gran confusione tra i piccoli pesci che saettano sotto al molo. La vista di un pinguino “di Magellano” in caccia e’, almeno per loro, terrificante. Dimenticando quanto sia buffo in superficie, non posso che invidiare la bravura di questo piccolo pescatore, capace di velocita’ e manovrabilita’ pari a quelle dei pesci ed ovviamente, quando riesce a mangiarseli, molto probabilmente superiori… Il suo metodo di pesca e’ simile a quello del cormorano ma questa volta sono le ali che lo spingono sott’acqua, non le zampe. E’ meraviglioso vedere come le zampe anteriori dei progenitori dei cetacei e le ali dei proto-pinguini, un tempo cosi’ differenti tra loro, siano ora cosi’ simili per assolvere ai loro moderni scopi acquatici.
SAUNDERS ISLAND Sono fortunato! La mia richiesta per un passaggio sull’elicottero domenicale, diretto all’isola di Saunders, viene accettata nel giro di minuti! Mi preparo, l’isola e’ grande, il tempo molto limitato (4 ore). C’e’ una colonia di elefanti marini ma e’ alla punta estrema a nord-ovest. Devo iniziare a correre appena i miei piedi toccano terra perche’ questa potrebbe essere l’unica occasione per vedere questi giganti. Ma come ben sappiamo, i migliori piani di uomini e topi troppo spesso finiscono male. Appena scavalco la collina, la vista e’ sorprendente: la spiaggia che chiamano “The Neck” e’ impressionante, le fotografie che portero’ indietro con me non renderanno nemmeno lontanamente l’idea delle proporzioni. Nonostante la mia meta sia a nord-ovest e la larga distesa di sabbia compatta molto attraente, vengo subito sedotto verso sud-est da una cattedrale di rocce squadrate ed ornate, alle basi, da vasche e fontane lasciate dalla marea in ritirata. Dev’essere Domenica di messa perche’ la ressa e’ notevole ma i suoni sono pacati e rispettosi. Sono nel bel mezzo di una colonia mista, principalmente formata da pinguini Rockhopper (perche’, appunto, saltano da una roccia all’altra), cormorani reali, vari uccelli simili a piccioni di passaggio e, piu’ in alto nelle logge, albatross. Nessuno si offende perla mia presenza, la casa del Signore oggi pare aperta proprio a tutti… Qualche pinguino aspetta il suo turno per fare il bagno in una particolare pozza, forse un battistero? I Rockhopper non sono proprio i piu’ slanciati e graziosi tra i pinguini ma quelle penne ribelli sulla testa, lo sprazzo di giallo su un muso altrimenti serio e la camminata incurvata gli conferiscono un’aria rispettabile da grande regista. Dal basso osservo gli albatross, purtroppo devo rimettermi in cammino e forse non dedico a questi grandi gabbiani l’attenzione che meritano. I nidi sono notevoli ma piuttosto difficili da raggiungere.
Riparto per la Grande Traversata. Sono un po’ spaventato dalla mia forma atletica ormai degna di un padre di famiglia… Tengo un passo per me improponibile ma il mare mi incita a grande voce. E bellissimo lasciare impronte su questa distesa perfetta, sapendo che le onde cancelleranno ogni segno del mio passaggio. Voglio essere cosi’ e non lasciare un segno, voglio essere una cosa sola con la sabbia, l’aria e le onde che le rimescolano in continuazione. Al largo, il kelp danza in sincrono. I miei occhi cercano la forma del dorso di un’orca o di una balena, o di un branco di delfini che cavalca le onde. Mi dicono che sono visioni comuni, specialmente le orche, che in questo periodo attendono i giovani pinguini inesperti per placare la fame, grande come i loro sei metri tra muso e coda. Ma oggi non avro’ la fortuna di incontrarle. Invece e’ impossibile perdere di vista i pinguini, sono dappertutto! Sono a centinaia ma la spiaggia e’ talmente vasta da non sembrare sovraffollata. La maggior parte di loro riposa sulla pancia, altri semplicemente guardano il mare e si puliscono. Qualche intrepido muove passi incerti verso di me per poi dimostrarmi una fuga buffa e disordinata ad ali larghe per mantenere l’equilibrio. Solamente quattro o cinque vanno verso il mare e ammiro quando, nel momento del tuffo, le loro forme paffute si tramutano in una saetta. Entrano decisi e potenti, anche se solo per una breve e pigra nuotata. Sono di almeno tre tipi diversi, approssimativamente raggruppati in grandi aree che spesso si intersecano. Si chiamano Gentoo, forse i meno appariscenti ma sempre molto cordiali con i visitatori, Magellan, timidi e con la inconfondibile striscia bianca attorno agli occhi, e Reali, veri capolavori di stile e carattere. Ma non posso restare, devo andare a rendere omaggio ai veri re dell’isola e il tempo veramente corre. Lascio la spiaggia e marcio veloce su uno strettissimo sentiero sulla costa, piu’ adatto alle onnipresenti pecore piuttosto che ad un umano. Appena iniziano le rocce, passano in parata due leoni marini a nuoto e, purtroppo, non raggiungo l’acqua in tempo per tenerli interessati. Ho con me muta, maschera e pinne e sono pronto ad unirmi ai loro giochi, ma sono troppo veloci e se ne vanno verso la mia meta. Passo due piccole ma suggestive colonie di cormorani a guardia di calette rocciose ma mi rendo conto che non raggiungero’ la punta a nord-ovest in tempo. Salgo sul fianco della collina per cercare di avvistare i cetacei ma trovo solo molti avvoltoi simili a quelli che spesso si scaldano i piedi sul tetto in lamiera del circolo ufficiali, facendo un rumore infernale con i grandi artigli. Si potrebbe dire che la testa e’ piuttosto brutta cosi’ rossa e nuda ma hanno un portamento grandioso e le piume color castagna, lucide e folte attorno al collo, spesso formano nel forte vento un gonfio ornamento da grande condottiero dei barbari.
Ritono alla spiaggia e i miei piedi, dopo tre ore di cammino a tutto vapore, cominciano a lamentarsi. Ho qualche minuto da spendere e decido di attraversare le dune tra la spiaggia grande e quella piu’ piccola, i veri luoghi di congrega delle varie tribu’ di pinguini che cercano il vantaggio tattico di una seppur bassa altura. Poco piu’ a nord di Newcastle, in Inghilterra, c’e’ un antico monastero su una lingua di sabbia circondata dal mare, famoso per essere stato il primo depredato dai vichinghi nella loro conquista della Britannia. Le dune sembrano proprio quello, specialmente a poca distanza dalla cattedrale di rocce dei rockhopper. Ogni rilievo ha una confraternita in assorta preghiera sulla cima, ognuna con un saio e usanze diverse. Mi torna in mente il complesso e variegato mondo di intrighi de “Il Nome Della Rosa” e immagino una piccola vita medievale per pinguini. Molti fratelli lasciano le preghiere sulle cime per scendere a valle ed impegnarsi nelle faccende terrene, pulendosi e nutrendo da becco a becco i novizi, ormai quasi liberatisi del blando saio marrone della puberta’ per indossare l’agognata uniforme in bianco, nero e, nel caso straordinario della Confraternita Dei Pinguini Reali, sfumature d’arancio. E’ un risultato notevole: lo strato di grasso, ora sufficiente ad affrontare l’inverno in arrivo, permette di liberarsi delle vaporose piume marroni per lasciare il posto a quelle definitive, liscie ed aderenti ed adatte al nuoto veloce.
C’e’ un giovane in particolare che compete sicuramente per il premio come pinguino piu’ brutto dell’isola e con buone probabilita’ di vittoria. Ha i caratteri sgraziati dell’adolescente, sproporzionato, con le piume giovanili sporchissime e mancanti su quasi meta’ del corpo. Pero’ e’ un incontro fenomenale, e’ sicuramente il piu’ socievole. Al contrario degli altri, non mantiene una distanza rispettosa ma mi aspetta. I movimenti in alto e in avanti della sua testa non lasciano dubbi, muore dalla curiosita’! Dondola la testa da una parte all’altra della mia mano ma non dimostra alcuna paura e sembra solo interessato a spartire un momento piacevole al sole e alla brezza di mare con un visitatore inusuale. Finalmente qualcuno che capisce le mie vere intenzioni! Spero che l’incontro sia stato per lui emozionante come per me. Immaginatemi li’ di fronte a cercare le parole adatte per passare anche soltanto un “buongiorno”, purtroppo non abbiamo in comune nemmeno il concetto di “parola”. Pero’ c’e’ grande rispetto reciproco e mi sento benvenuto in casa sua, sotto gli occhi pazienti dei genitori.
Un’ultima fatica, scavalco la collina e saluto Saunders al suono delle pale dell’elicottero.
SEA LION ISLAND Bene, molto bene. Un’altro posto afferrato al volo sull’elicottero. Questa volta mi porta all’agognata Sea Lion Island, vera patria di leoni ed elefanti marini. Alla fine delle mie misere tre ore sull’isola ho deciso che questo posto e’ incantato. Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi alla scarnezza di queste terre, alla totale mancanza di alberi e di colore verde. Tutto sembra sporco e sterile, senza gioia e veramente dimenticato dalla maggior parte dell’umanita’. Ma questo e’ lo stato naturale puro e completo, ad un occhio attento al dettaglio la bellezza arriva improvvisa e potente quanto silenziosa. Forse anche Marte apparira’ glabro e inquietante ai primi coloni ma dopo qualche mese cominceranno ad arrivarci poesie e dipinti coloratissimi.
L’unico insediamento sull’isola pare proprio una isolata ma ben organizzata colonia marziana, con tanto di piccolo santuario triangolare dedicato alle ossa di antichi alieni abitanti, probabilmente balene pilota, delfini e balenottere di piu’ grandi dimensioni. Tutto attorno una prateria immacolata, quasi a perdita d’occhio, incorniciata dal margine del prato di Tussock e dalla duna che declina su di una spiaggetta bianchissima. Inoltre, la pista d’atterraggio in terra battuta segnata da una manica a vento e lastre bianche, attende immobile la prossima spedizione dal pianeta madre. Sono mondi completamente differenti ma interdipendenti ed in vista l’uno dell’altro. Ma il mio cammino inizia in un luogo ancora diverso, la cima di una scogliera che, con i suoi quattro o cinque metri a strapiombo, offre tranquillita’ ad una comunita’ di leoni marini ed un perfetto punto di osservazione per me.
E’ immediatamente chiaro chi comanda qui, un enorme e muscoloso maschio al centro del circolo di femmine e piccoli. E’ sonnacchioso, ma appena qualcuno nel suo territorio non rispetta le invisibili regole, si alza veloce, tra la fuga preoccupata dei tanti cuccioli (vari vengono schiacciati dagli adulti piu’ esuberanti), e produce un profondo suono tra il belato e il rutto, mostrando i denti e ottenendo sempre una reazione di fuga. Se gli scogli fossero una citta’ questo sarebbe il quartiere piu’ popolare. Suoni, bisbocce, giochi di bambini, litigi tra dirimpettai e tante, tante grida. La comunita’ e’ quanto di piu’ vibrante io abbia conosciuto in natura. Bastano poche decine di minuti per rendersi conto di ruoli e personalita’. C’e’ un maschio subalterno, tollerato nel circolo probabilmente da un legame di alleanza. Un paio di altri grossi maschi sono appena fuori dal territorio del maschio dominante, circa 30 metri. Ma ora non e’ la stagione del parto e degli amori, quindi i confini sono probabilmente meno delimitati e sorvegliati. Poi ci sono numerosi cuccioli appaiati con le madri. Al contrario delle foche, i leoni marini tendono ad educare e proteggere i loro piccoli per un lungo periodo prima di lasciarli alla navigazione in solitario. Questi cuccioli sono di circa quattro mesi e ormai molto mobili, curiosi ed esuberanti, circa come cuccioli di uomo di quattro anni. Una madre si alza dal suo giaciglio e si sposta verso il kelp e la laguna contenuta e protetta dal tavoliere formato dagli scogli levigati. Con pazienza, chiama il suo piccolo con un verso deciso anche se piuttosto sgradevole all’orecchio umano ma, nonostante cio’, inconfondibilmente pieno di amore e premura. Il piccolo risponde con un verso simile ma piu’ elevato, chiaramente nervoso ed indeciso. I richiami si alternano numerosi e la madre, sempre 10 metri avanti al piccolo, lo aspetta tollerante. Il cucciolo scavalca kelp e rocce con la lentezza indecisa ed esplorativa di ogni promettente apprendista, ogni spanna d’altura sembra una conquista. Un’altro piccolo parte alla rincorsa, emula il compagno di giochi, raggiunge lentamente l’acqua e questa si’ che dev’essere una grande avventura con il suo amico preferito! Ma un richiamo della rispettiva madre lo riporta di corsa al suo fianco e non senza un verso di scuse. Intanto, la madre nell’acqua usa tutta la sua voce piu’ dolce per incoraggiare il suo giovane esploratore che, finalmente, e’ ora un mammifero marino a tutti gli effetti. Per alleviare la transizione al nuovo elemento, la madre lo aiuta con il muso a galleggiare. In realta’, il piccolo imbroglione dimostra gia’ che non doveva essere la prima volta perche’ le sue apnee sono meglio di qualunque campione umano. Nonostante cio’, lo sguardo e la voce della madre sono sempre e solo per lui. Capiro’ tra una settimana che le acque qui di fronte possono essere molto pericolose e ogni precauzione e’ giustificata. Nel frattempo, ho imparato una grande lezione di amore parentale, di pazienza e di dedizione ed ogni volta che il nostro cucciolo di uomo in arrivo vorra’ lanciarsi in una avventura mi bastera’ ricordare i modi entusiasti di questa bella mamma con le pinne.
Continuo il cammino verso est lungo il ciglio netto della scarpata e dopo poche centinaia di metri incontro altri grossi animali a riposo sulla spiaggia. Non camminano piu’ come i leoni marini, con le pinne anteriori e i corti arti posteriori, rimasugli di gambe con lunghe dita sfrangiate ed un sedere minuscolo e sproporzionatissimo per il corpo robusto. Queste grasse foche elefante, o elefanti marini, si muovono sulla pancia, spostando il notevole peso del corpo con muscoli che devono essere incredibilmente forti. Dopo un paio di piccole femmine, probabilmente di eta’ tra i 3 e 5 anni, ecco una coppia matura che si gode una giornata di spiaggia. Il maschio, con l’inconfondibile proboscide, dovra’ pesare almeno 3 tonnellate e la femmina non e’ molto piu’ piccola ma ho letto che non supera un quarto del peso del maschio. Sono decisamente molto piu’ sonnolente dei leoni marini, probabilmente perche’ durante i periodi a terra, che precedono lunghi periodi di vita in mare aperto, questi animali non mangiano assolutamente, quindi il risparmio di energia e’ importante. Le uniche attivita’ sono il lancio sulla schiena di sabbia o di resti di kelp con le pinne anteriori, per proteggere la pelle dal sole e rinfrescarla, e il girarsi ogni tanto nel sonno. Improvvisamente la femmina, che dormiva lungo il fianco del maschio, si muove perpendicolarmente sopra al compagno, lo scavalca e si sdraia sul suo fianco opposto con una mossa piuttosto goffa, buffa e che mi ha fatto temere stupidamente per la spina dorsale del povero vecio, sicuramente robusta abbastanza per questo ed altro. Questi grassi tori sono in realta’ forti, spietati e veloci combattenti quando, alla fine di Settembre, tornano a riva per conquistarsi un lembo di spiaggia e poi crearsi un harem. Scommetto che la scena sarebbe molto piu’ movimentata in quei giorni. Poco piu’ avanti entro nel mondo surreale del prato di Tussock, una distesa di enormi ciuffi di lunghe lame erbose con una base rigida. Queste isole di vita si raggruppano a pochi centimetri l’una dall’altra, lasciando appena lo spazio per camminare e spesso senza nemmeno vedere dove si mettono i piedi. Sono alte fino a tre metri, impedendo la vista oltre un breve orizzonte di qualche misero metro, ed offrono rifugio ai pinguini di Magellano, con la tana scavata sotto la base, e mille altri uccelli inclusi i rapaci Caracara che nidificano sulla cima. Ad ogni passo qualche pinguino corre via e mi guarda sospettoso da dietro il prossimo cespuglio, oggi c’e’ molta attivita’. Seguendo il declino verso il mare raggiungo una spiaggia di ciottoli e, finalmente, arriva l’agognato incontro ravvicinato con gli elefanti marini. A poca distanza dal gruppo, una giovane e piccola femmina riposa con la solita simpatica pesantezza. Mi avvicino molto e non ottengo nient’altro che qualche sonnolento sguardo con i bellissimi occhi tondi che, tra qualche anno, lasceranno il posto ad un volto meno aggraziato ma sicuramente unico, come quello delle grandi femmine poco piu’ avanti sulla spiaggia. Cammino cautamente, questi animali sono lunghi tre volte me e infinitamente piu’ pesanti. La loro bocca e’ immensa e si apre, anche se piu’ per dovere che per paura, qualche volta nella mia direzione, formale avviso che sto’ entrando nel pezzo di spiaggia reclamato come casa. Emettono un verso profondo e bassissimo che esce dalla laringe e sembra risuonare dentro il petto di chi ascolta. Basta che rallenti il passo e il loro interesse torna rapidamente al riposo e io posso avvicinarmi finche’ i dettagli della loro pelle diventano chiari. La maggior parte sta’ mutando la pelliccia e preparandosi per l’inverno e questa, assieme alla nascita dei piccoli e all’accoppiamento da settembre a novembre, e’ l’altra occasione che li porta a riva dalle scorribande in mare. Infatti, sono quasi tutti completamente glabri e qualcuno ha cadenti toppe di corto pelo qua e la’. Ma l’uomo di casa dov’e’? Non faccio in tempo a pensarlo che dal confine del prato di Tussock esce l’animale piu’ grande che io abbia mai visto in natura. La proboscide si nota immediatamente e la larghezza, ancora piu’ della lunghezza, incute subito rispetto. Esce da una pozza di fango tra i cespugli che sembra essere il suo letto preferito, vista la scia di fango che porta ai ciottoli della spiaggia, e con grandi movimenti di pancia si muove piu’ vicino per controllare che l’intruso non sia poi cosi’ nocivo. Pago i miei rispetti al padrone della contea sedendomi e cercando di essere meno appariscente possibile e pare che funzioni perche’, cambiando direzione, Dino si sposta verso il gruppo. Ora vedo che si chiama cosi’ perche’ il suo nome e’ stato scritto sul fianco da un gruppo di ricerca italiano che da anni studia questa comunita’. Chissa’ se risponde al suo nome… No, e trova molto piu’ interessante inscenare (per il turista?) una lotta con l’esemplare piu’ vicino che forse non e’ una femmina ma un giovane maschio, ancora faccio fatica a riconoscerli tutti. Le bocche si spalancano e dopo qualche istante i colli si alzano come torri di due regni in guerra, partono i morsi attorno al collo e la lotta e’ breve, Dino qui non ha rivali. In realta’, la lentezza dei gesti e i morsi non portati a termine mi fanno pensare che questa inscenata sia tutta un rituale legato alla suddivisione del territorio, ora insignificante. Durante la conquista dell’harem tutto questo sarebbe stato molto piu’ serio, con lotte sanguinose protratte per decine di minuti e a volte letali. I due rivali si distendono l’uno accanto all’altro e riposano a lungo, pace e’ chiaramente fatta specialmente quando il testone di uno si appoggia sulla morbida pancia dell’altro. Ogni tanto una pinna si muove e lancia in aria pezzi di kelp che cadono sul corpo. Qualche stiracchiata, sbadigli, grattate di testa, pancia, pinne, movimenti veramente buffi che non possono che farti amare questi animali. E’ buffo vedere che un piccolo uccello che si posa su un corpo centinaia di migliaia di volte piu’ pesante del suo possa provocare una reazione furiosa, con la foca che si inarca verso l’alto e protesta sonoramente.
Sento il bisogno di spartire un momento della vita di questa tribu’ e di provare a sentire cosa puo’ significare vivere cosi’, tra terre fredde, mari inquietanti, continue lotte, produrre grassi cuccioli e preoccupazioni legate alle migrazioni di commestibili piovre. Cerco un bel sasso comodo, soprattutto a un solo metro dall’unica, giovane foca che ha una stazza compatibile con la mia. Mi accetta pazientemente anche se dopo uno svogliato invito vocale, e lieve minaccia, a non recarle danno. Richiude gli occhi e io sono uno di loro, un’altro dei molti esseri che convivono. Capisco subito che, tra le mille tribolazioni, il riposo e’ fondamentale ed e’ in realta’ l’attivita’ di gran lunga piu’ popolare. Dopo pochi minuti anche il mio ritmo rallenta drasticamente e quella che potrebbe sembrare una noiosa attesa ascoltando il ripetersi delle onde diventa in realta’ una esperienza interiore. Sono qui, sono come voi. Nutrirsi bene, riposarsi a lungo, curarsi il corpo, socializzare, a volte stridendo, trovare una buona compagna, dare ad un piccolo le opportunita’ migliori per fare lo stesso… I ritmi della canzone della vita sono gli stessi per noi e per loro ed in questo posto, lontano dalle distrazioni sovraimposte dalle grandi complessita’ della vita che abbiamo scelto, tutto questo e’ chiarissimo. Ecco un’altra cosa da ricordare, dare alla piccola persona in arrivo l’opportunita’ di sentirsi cosi’ prima possibile, di sentire cosa sente una giovane foca che riposa sulla spiaggia.
E’ qui che, nel frattempo, incontro per la prima volta da vicino un Caracara. E’ un rapace marrone, con becco e zampe arancione brillante, grande circa come un pollo ma con delle linee decisamente piu’ agguerrite. La sua razza e’ famosa per essere estremamente socievole ed espansiva, specialmente sul cibo altrui. Questo abile aviatore sembra apprezzare molto la mia compagnia, mi segue da molto vicino e mi guarda come aspettandosi una conversazione. O forse “seguire grande predatore” equivale a “grandi avanzi da sfruttare”? Devo dire che mi stupisce quando vede un piccolo passero e cerca di inseguirlo in corsa tentando l’imboscata da dietro qualche arbusto. Non sarebbe forse piu’ nobile usare tutte quelle formidabili armi aria-aria e sorprenderlo con artiglio e potenza? Scopro che non tutto cio’ che appare nobile lo e’, o forse il contrario? Comunque sia, i Caracara inseguono la preda viva a terra anche se preferiscono di gran lunga la comodita’ di una bella carcassa o, d’inverno, i resti digeriti dei pranzi dei pinnipedi. Mangiare cadaveri e merda? Forse non sembrera’ nobile agli occhi umani ma e’ una onesta occupazione quaggiu’ verso il circolo polare antartico.
In uno stato di serenita’ e consapevolezza profondissimo, vengo scosso rudemente da un tuonante verso in arrivo dal prato di Tussock, a pochi metri dietro di me. Per quanto sia entrato in armonia con i miei nuovi amici, l’idea di qualche tonnellata di foca arrabbiatta che mi carica alle spalle e’ ancora un po’ difficile da rimuovere completamente. Forse ho esagerato e mi sono reso comico, decido quindi di riprendermi un po’ di contegno e andare ad investigare. Immaginate il batticuore che sentivo nel petto camminando tra i fitti cespugli, sapendo che dietro ogni angolo poteva esserci l’immensa testona che aveva prodotto quel suono. E infatti eccola, un grossa femmina al fresco. Per fortuna sono vicino alla coda. Mi alzo sul ceppo di un cespuglio morto per una foto ma cosi’ sembro molto piu’ alto e minaccioso di quello che sono veramente. La mia mossa scatena un ruggito e la foto e’ ancora qui, sfuocata e molto mossa, a dimostrare la velocita’ della mia fuga! Peccato, sono convinto che con piu’ tempo a disposizione potrei imparare molto su come convivere piu’ serenamente.
Ormai e’ l’ora di ritornare, attraverso il prato di Tussock scocciando molti pinguini, mi siedo per guardare una congrega di Caracara impegnati a rendere omaggio ad una carcassa, costeggio uno stagno popolatissimo di pinguini ed anatre di molti colori, rivedo la prateria con il solitario insediamento all’orizzonte che diventa sempre piu’ grande. Il bianco, rosso e blu dell’elicottero, brillanti ed alieni, mi portano via da questo incanto. Ma tornero’.
RITORNO A SEA LION ISLAND Una fortuna inaudita! Due giorni ed una notte liberi per tornare su questo mosaico di essenziale bellezza. Sono sorpreso dall’accoglienza di Sea Lion Lodge, il piccolo albergo annesso all’insediamento. La calma e’ surreale, l’accogliente ed elegante salotto ha enormi finestre con vista sulle colonie di pinguini. Scopriro’ anche che la cucina e’ ottima e il vino cileno della casa sono una perfetta chiusura per un faticoso giorno intero di cammino tra rocce, prati ed animali. Decido subito di tornare verso la spiaggia di ciottoli abitata dagli elefanti marini e trovo un grande gruppo a riposo nel Tussock, a circa cento metri dalla spiaggia. Tutto e’ piu’ tranquillo oggi, meno pinguini in corsa, le grandi foche sono placide come non mai a parte qualche sbuffo e mastodontici sbadigli. Sulla spiaggia, solo quattro grandi femmine, la rotonda testa di una che naviga in acque basse passando molte volte davanti a me con evidente curiosita’. Decido che ho bisogno di un po’ di rumore adesso e risalgo sulla scogliera, in direzione dei quartieri popolari dei leoni marini. Anche qui la giornata e’ di festa, molti sonni profondi e pochi animali. Due grandi maschi riposano con le pinne anteriori spalancate a croce, sono immense rispetto a quelle delle “vere” foche. Il motivo e’ evidente quando le si osserva sott’acqua: queste sono il loro mezzo di propulsione, gli arti inferiori servono solamente da timone. Le foche vere e proprie, oltre a non usare gli arti anteriori per spostarsi su terra, usano questi come timone e ondeggiano gli arti inferiori da un lato all’altro per nuotare. Con la pelliccia asciugata dal sole e’ chiarissimo il perche’ da secoli, e in molte lingue diverse, questi animali sono chiamati “leoni”: la criniera e’ enorme, il muso schiacciato e i denti ben visibili. Incutono un senso di maestosita’ quasi felina, di forza vitale e grande serieta’, qualita’ fondamentali in questo mestiere del sopravvivere in cui sono molto bravi. Sono molto scuri e, quando si alzano su una roccia, sembrano grottesche sculture gotiche di infernali mostri di bronzo, chimere di pesci e mammiferi e rettili tutti. Ma c’e’ una bonarieta’ che li rende irresistibili e molto piu’ attraenti di cosi’. Spesso, quando incontrati sott’acqua, dopo un periodo di necessarie dimostrazioni di forza si lasciano anche andare, come grandi cagnoloni, a sfrenati giochi, corse e sguardi d’invito alla rincorsa che, ovviamente, non ha molto successo vista la loro incomparabile sinuosita’ e rapidita’ nei giochi d’acqua. Ma purtroppo, al contrario dell’anno scorso, non avro’ opportunita’ di vederli attraverso la maschera. Le femmine sono sempre di indole gentile, spesso accolgono i subacquei con curiosita’ e portano addirittura i piccoli, tra mille timori iniziali, a conoscere questi strani parenti mammiferi che cercano goffamente di imitarne le prodezze acquatiche. Questa perenne lotta interiore tra curiosita’ e timore ci rende uguali, ci distingue per spiccata intelligenza ed e’ tanto evidente sia a noi che a loro che ho sempre la sensazione che diventi il primo soggetto di “conversazione” in comune, chissa’ fin dove si potrebbe arrivare… E’ normale essere spaventati da svariati quintali di animale selvaggio ma in loro, come in molti di noi, l’aggressivita’ e la spietatezza sono una necessita’, volentieri scambiata per un quieto riposo o una mezz’oretta di gioco con un alieno. Poiche’ non siamo prede per loro, abbiamo gia’ eliminato una buona meta’ dei motivi per subire le loro ire e invece, con dolore, penso ai milioni di animali come questi che hanno cessato di vivere violentemente per futili cause legate ai traffici umani. L’altra meta’ dei buoni motivi per esserci ostili e’ legata a questioni di territorio e di difesa della prole o da autodifesa quando, come succederebbe a noi, la loro soglia di confidenza viene bruscamente oltrepassata. Faccio del mio meglio per rispettare questi limiti e i risultati si vedranno presto. Nel frattempo rido e di gusto, facendo da spettatore privilegiato alle scorrerie di due cuccioli di 4-6 mesi, impeccabili nella loro lucida livrea nera e con l’espressione del muso piu’ sfacciatamente divertita che sia, come bambini in quegli interminabili giochi sui prati di primavera: scommetto che cuccioli e bambini avrebbero un sacco da raccontarsi. E interminabile il gioco lo e’ perche’ al mio prossimo passaggio tra circa quattro ore saranno ancora li’ a rincorrersi. Nuotano e riaffiorano in sincrono per lunghi tratti, un gesto comune a molti mammiferi marini che significa “amico”, poi l’onda regolare si tramuta nel gomitolo di una falsa baruffa, foriera di future lotte, o nello scatto che un giorno servira’ a catturare pesci, prelibate piovrette e l’occasionale pinguino. Per ora saltano dentro e fuori dalle basse acque intrappolate su una larga piattaforma rocciosa che finisce in mare aperto con un salto netto, solcata da perfette gole ricolme di fittissimi boschi di kelp, agitati come pennelli morbidissimi dalle onde lunghe, gigantesche ed inquietanti meduse della mitologia che aspettano con il capo appena sommerso. In realta’, queste acque sono accoglienti e familiari, terreno ideale per imparare a nuotare in sicurezza perche’ le orche stanno arrivando.
Voglio esplorare la costa verso ovest, rientro nel Tussock e raggiungo la cima di una meravigliosa fortezza di pietra, abitata da molti Caracara seduti ognuno su di una guglia appuntita o su un ciglio a strapiombo. Con la solita disinvoltura, i rapaci si lasciano avvicinare, mi guardano attenti e spesso mi degnano di un passaggio in volo lento ad un centimetro dalla testa, senza alcun intento ostile o nervosita’ ma solo per studiarmi meglio. Decido che e’ l’ora giusta per un panino e il Caracara piu’ vicino la pensa come me. E’ bravissimo a sfruttare il vento teso per volare, immobile rispetto a me, a circa un metro sospeso sopra il mio pranzo. Vari cordiali tentativi sono fatti per avvicinarsi un po’ di piu’ e devo proteggere la mano con una pinna della mia attrezzatura da sub. Alla fine, scoraggiato dalla mia ferma diplomazia, il moro si posa paziente al mio fianco. Credo si sia meritato un boccone anche se appena glielo porgo mi ricordo che nutrire animali selvaggi non e’ una pratica molto costruttiva. Troppo tardi. E’ ovvio che non ha mai visto un pezzo di panino in vita sua e il mio pollice deve sembrare piu’ invitante. Per fortuna la beccata e’ leggera e piu’ in forma di morso che colpo di punta. Non e’ dolorosa ma mi sorprende. Il Caracara rimane deluso dalla cattiva scelta ma ha capito cos’e’ che deve afferrare e la merenda e’ ormai assicurata.
Sempre piu’ ad ovest, scendo su una spiaggia di ciottoli molto raccolta, simile a quella di Dino ma molto piu’ pittoresca. Sembra un covo di pirati e contrabbandieri ma tutto quello che trovo e’ un giovane elefante marino impegnatissimo a russare forte. Si rigira lentamente ogni tanto quando le sagome dei ciottoli impresse a fondo sulla pelliccia cominciano a diventare fastidiose. Purtroppo qualche nave ha scaricato parecchi rifiuti e bottiglie di plastica chissa’ dove e la corrente ha portato tutto qui. Per fortuna ho con me un grande sacchetto per l’immondizia e lo riempio con la gioia di una gomma che cancella un brutto disegno. Mi guardo indietro e penso… Non e’ che se salto sugli scogli, verso est, e giro attorno alla fortezza di pietra guardata dai caracara arrivo a…? I miei pensieri si fermano li’, poi nuotano veloci per inseguire le sagome nerissime in parata sommersa. Le orche sono arrivate.
A dire il vero le avevo gia’ scorte dal piccolo aereo del Falkland Islands Government Air Service che mi aveva portato sull’isola. La’ nel mezzo della baia, quella che e’ ora di fronte a me, la piramide nera della lunga pinna di un maschio faceva da vessillo ad una flotta di due, completata da una piccola femmina. Ora le pinne che ho di fronte sono sei. Chiaramente sono una muta in pattuglia dove il cibo abbonda, nuotano a pochi metri l’una dall’altra con una andatura sincrona e maestosa, un’onda scura e regolare che si mischia al blu e poi dal blu ritorna. Sono velocissime anche se e’ chiaro che stanno compiendo uno sforzo misurato e trascurabile. Forse il passo e’ relativamente lento perche’ due sono giovani orche che nuotano nella scia delle madri per trarne supporto e compiere uno sforzo minore. Sicuramente e’ giorno di addestramento per questi cacciatori cosi’ sofisticati perche’ proprio questa sofisticazione si impara, non basta il forte istinto con cui si nasce. Le orche mi ricordano i lupi per l’intelligenza sociale e l’incondizionata dedizione ai motivi del branco. Ho imparato da molti libri e documentari, purtroppo non dal vivo, che usano la coda per stordire i pesci, intricate reti di bolle spiegate dal branco per concentrare i banchi e che cacciano le giovani balene come i lupi farebbero con un bisonte, cioe’ usando i numeri superiori contro stazze maggiori, stremando la madre per attaccare il figlio indifeso. La stessa tecnica con cui catturano giovani foche e leoni marini, affiorando all’improvviso al confine tra terra e mare, richiede molta pratica e supervisione, pena un mortale spiaggiamento. E’ in giorni come oggi che che gli adulti del branco sono vigili ed i giovani molto impegnati nell’apprendistato. I giovani leoni marini imparano presto che i giochi fuori dal riparo delle acque protette possono essere mortali e le opportunita’ per le orche diminuiscono di giorno in giorno. Corro sugli scogli affioranti per avvicinarmi il piu’ possibile ed ora vedo benissimo il dorso ed intravedo le macchie chiare sotto la superficie. Il contrasto di questi neri e bianchi ed il segno netto delle macchie ovali sono quasi innaturali, come se la severa essenzialita’ della natura si fosse presa una pausa per dedicarsi alla moda. Viaggiano decise e serene fuori dal mio campo visivo e mi lasciano tornare ai miei pensieri rivolti ad est. Credo proprio che si’, se continuo a camminare sulla dorsale di scogli affioranti fino a dietro la fortezza mi trovero’ molto vicino ai leoni marini. Appoggio il sacco dell’immondizia per riprenderlo al ritorno, non aspettandomi che gli esperti caracara lo avrebbero subito aperto per cercare un pasto facile. Ormai vedo i leoni, ecco due grandi femmine a riposo. Saranno a cento metri ed io sono sottovento, ma si alzano veloci sicure che qualcosa non e’ come al solito. Pochi uomini arrivano fino qui, la vista di queste belve pinnate incute rispetto se non paura, la loro intelligenza e’ palese e sarebbero un temibile avversario. Ma la loro natura e’ di essere socievoli e curiose, oltre che caute, quindi le due leonesse si avviano a grande passo verso di me. Ora saranno a cinquanta metri e si fermano, ruotando testa e collo per guardarmi e studiarmi da piu’ angoli possibili. Per non allarmarle, cammino lentamente in direzioni oblique e senza fissarle direttamente. Qualsiasi nemico si avvicinerebbe direttamente e velocemente senza distogliere gli occhi dal suo bersaglio ed io voglio rendere chiaro che saro’ anche strano ma un nemico non sono. A trenta metri mi fermo e sembrano soddisfatte del nuovo incontro. Chi si aspetta grandi feste canore e battiti di pinne restera’ deluso perche’ la miglior espressione di amicizia che queste leonesse mi sanno dare e’ un ritorno veloce all’agognato riposo, fondamentale per ristabilire un equilibrio energetico compromesso dalle fatiche della caccia sottomarina. Usando la lentezza ed la copertura di uno sperone di roccia, mi avvicino fino a dieci o quindici metri ed ora apprezzo mille dettagli delle pinne posteriori, frastagliate ed eleganti, che cosi’ poco hanno in comune con l’idea di mammifero. La pelliccia e’ ricoperta di mille segni lasciati da lotte ed avversita’ ma la dolcezza fiera dei musi e del portamento e’ indescrivibile. Poco lontano, un giovane maschio letteralmente schizza fuori dall’acqua per lanciarsi in piedi sulla piattaforma scogliera. Le femmine pigre fanno scattare la testa per vedere cosa succede e c’e’ un’aria istantanea di gravita’. Il maschio scuote la testa quasi imbarazzato ma subito si guarda alle spalle. Le orche sono tornate. La pattuglia e’ la stessa ed e’ sulla via del ritorno. Ammetto ora di aver fatto una scelta di cui forse mi pentiro’ poiche’ ho con me muta, maschera e pinne che resteranno asciutte. C’e’ un taglio nella roccia pieno di kelp, sarebbe un posto di osservazione favoloso per guardare il nuoto delle orche da sotto. Decido pero’ che non e’ una buona idea. So’ bene che le orche non attaccano l’uomo e che, con la loro vista acuta, ecolocazione e grande intelligenza non scambierebbero mai un umano in una muta con un leone marino, probabilmente sarebbero invece felici quanto me di fare questo incontro improbabile. Ma chissa’… Se avessi addosso anche la mia ingombrante e rumorosa attrezzatura sarebbe meglio. E poi sono da solo e non e’ mai una buona idea entrare in acqua da solo. E poi hanno i piccoli con loro, che diventino piu’ protettive? Ma a che scopo mi attaccherebbero se possono allontanarsi a distanza di sicurezza con due sole pinneggiate? E poi e poi e poi… Lo ammetto, non sono completamente a mio agio ma il pensiero di aver perso questa occasione mi tormentera’ per sempre. L’immagine di un potente predatore in un ambiente a noi alieno non manca mai di destare paure ataviche e realizzo che il mio sentiero per diventare un tutt’uno con questa natura e’ ancora lunghissimo. Ora loro sono vicinissime ed appena sono scivolate via la vita riprende serena per le mie combattute pulsioni e per i leoni marini nella loro savana costiera. Piu’ lontano, vedo le piccole e scurissime teste dei due piccoli che ancora giocano senza ne’ pausa ne’ inquietanti pensieri di orche.
Raccolgo il sudicio sacchetto devastato dai rapaci, con una mano presto dolorante per il peso e la scomodita’ ma mi sento un grande eroe per aver salvato qualche metro di dimenticata spiaggia dalla bruttura umana. I miei occhi sono pieni di fotografie mai viste prima e di personaggi indimenticabili, il mio cuore stracolmo di gioia, la mia bocca impaziente di raccontare alla mia Federica e alla grande pancia che si chiama Jacopo quanto sia bello questo mondo nei posti piu’ inaspettati, la mia mente lavora in straordinario per immaginare questo racconto e non dimenticare nulla, queste memorie saranno importanti per la mia vita futura e non voglio dimenticare nulla. Ma anche la mia pancia e i miei piedi sentono molto, soprattutto fame e fatica. Scelgo la semplicita’ della prateria al centro dell’isola per il mio viaggio di ritorno, lo scenario spoglio e il silenzio attutito dell’erba foltissima lasciano un po’ di riposo ai miei sensi sovraccarichi. La cena e’ favolosa, il vino cileno anche. I miei compagni sono una coppia in una tappa di lungo viaggio in Sudamerica, iniziato negli studi della BBC in cui si sono incontrati e dai quali hanno deciso di evadere per qualche mese. Anche loro hanno da poco scoperto, quasi per caso, quanto sia inspiegabilmente emozionante vivere immersi in questo intrigo di ali, pinne, richiami e sbuffi e, soprattutto, quanto sara’ difficile allontanarsene e far capire cosa sia cambiato in noi a chi e’ rimasto a casa. E’ ora di riposare, domattina non voglio sprecare nemmeno un minuto di luce.
IL SECONDO GIORNO Sono cosi’ impaziente di ripartire che i miei occhi si spalancano alle cinque del mattino, ci vorra’ almeno un’ora e mezza perche’ il sole possa guidare i miei passi nel buio primordiale della prateria. Niente luna, qualche nuvola fitta e l’unica luce visibile e’ la piccola lampada nella mia stanza. Ne approfitto per leggere il piccolo e prezioso manuale sulla fauna locale, un vero capolavoro scritto da una sorta di eroe locale, un paladino-eremita che ha acquistato un’isola splendida e remota all’estremo ovest dell’arcipelago e ne ha fatto una riserva. Ora ci vive con sua moglie ed un vicino di casa con il quale corre voce non vada molto d’accordo. Ora vedo la mia prossima meta, la duna a poche centinaia di metri a nord dell’albergo, e’ ora di partire. I caracara adornano i paletti del cancello come statue gotiche, sfilo al loro fianco e sono nel prato fradicio.
Il passo e’ lento, l’erba altissima e grondante ma la sensazione di lenta conquista e’ incomparabile. Incontro una tomba, circondata da una bassa staccionata e segnata da una croce di legno bianca. Penso subito che e’ un bel posto per riposare ma sapro’ piu’ avanti che, nonostante le lunghe decadi che sono passate da quella morte, c’e’ ancora molta incertezza che la circonda. Una storia di isolamento e disperazione, una apparente richiesta d’aiuto da un compagno di viaggio che, forse, e’ stata l’annuncio di un omicidio. Ma la quiete di questi luoghi distanti da leggi e tribunali preservera’ il mistero. Ormai sono ai piedi della duna, alta, bianchissima e costellata di enormi ciuffi di Tussock. Tutt’attorno e’ una cacofonia in ragliare. Ora capisco perche’ i pinguini di Magellano sono anche chiamati “pinguini somaro”. Sono piccole sentinelle intente a difendere la propria tana scavata nel ventre del prato. Con il nemico distante, si ergono per vederlo meglio e sbraitano per farsi coraggio ed allarmare i vicini commilitoni. Quando il nemico si avvicina, adottano una tattica di bassa visibilita’, chiudendo il becco e rifugiandosi nel fondo della tana. Qualcuno e’ in cima alla duna e ne vedo la piccola ombra nera che fugge dietro la cima. Sara’ facile ed avvincente seguirne le orme fino al cospetto del mare.
Favolosa! Una mezza luna di sabbia, larga mezzo chilometro, si apre sotto di me appena scavalco il crinale. E’ pulitissima, selvaggia ed invita ad una corsa sfrenata. Due grasse vacche di elefante marino non la pensano cosi’ e si trastullano appena fuori da una punta di sabbia lasciata da due correnti opposte che si scontrano e si fondono insieme. Il mare tutt’attorno e’ inquieto ma, proprio in quel punto, il galoppo delle onde si annulla. Corro giu’ dal ripido fianco della duna sprofondando nella sabbia, era tanto che non mi divertivo cosi’. Qualcuno deve aver notato il mio comportamento irrispettoso e sono riportato all’ordine quando la penna di un caracara in volo teso mi sfiora la testa da dietro. E’ chiaramente solo un avvertimento, il caracara ondeggia grazioso appena sopra di me per osservarmi. C’e’ qualcosa di irresistibilmente simpatico in questi rapaci, sanno essere impertinenti, impacciati ed invadenti ma si fermano esattamente dov’e’ il limite per non essere accusati di maleducazione. Poi tornano subito ad un fare tranquillo e lento, dignitosissimo, con una affabilita’ verso lo straniero che molti uomini dovrebbero invidiare. Non e’ cosi’ per un piccolo “tern”, una via di mezzo tra una rondine, per la forma, ed un gabbiano nella colorazione. Questo soggetto non riconosce proprio un nemico da un passante ma credo che non sia una cosa personale e riservi il suo piu’ feroce trattamento a qualsiasi intruso. Il suo nido o la sua zona di cattura di prelibati molluschi e crostacei devono essere molto vicini perche’ questo bianco giustiziere mi avverte con passaggi veloci e grida stridenti. Qualche altro passo e la sfida e’ lanciata! Il piccolo bombardiere mira dritto alla mia testa, sempre attaccando da dietro dove non posso vederlo arrivare. Il suo verso passa da un grido acuto ad un trillo secco e rapidissimo, forse un sofisticato congegno per misurare le distanze dagli oggetti simile a quella dei cetacei. La sua tecnica e’ impeccabile e non mi sento di certo tranquillo. In numerosi passaggi mi colpisce la cima del berretto di lana che ho sulla testa con una precisione millimetrica e la sua velocita’, credetemi, e’ impressionante. Forse non riuscira’ a farmi veramente male ma e’ bravissimo ad irritarmi fino all’inverosimile. Mi appoggio il libretto dritto sulla testa, in questo modo lui mira alla cima del libro e io riesco a passeggiare fino al confine del suo territorio. Spero che si senta fiero e orgoglioso della sua vittoria, se lo merita.
Ora sono attirato da due fusti di kelp che la corrente ha strappato dal fondo e sdraiato sulla spiaggia. Sono lunghi almeno trentacinque metri e mi torna la voglia di nuotarci in mezzo. Lentamente, ricomincio la scalata della duna, ritorno nella prateria e, dieci minuti dopo, un nuovo pianeta e’ pronto per essere esplorato.
Sono poco piu’ ad est dell’albergo, sul versante nord dell’isola e sul tratto di spiaggia contiguo a quella della duna, anche se le due sono separate da una lingua rocciosa. Il paesaggio cambia di nuovo radicalmente e questo, al contrario degli altri, non ha nulla di rassicurante. In questo punto l’isola subisce una strozzatura, incorniciata da lunghe spiagge a nord e a sud. Nel mezzo, una vera terra di nessuno, una atmosfera Tolkiana di malvagia tenebra e sterilita’ maledetta. Il terreno, scurissimo e grigio, e’ secco fango solcato da crepe larghe un dito da cui mi aspetto di vedere uscire le anime dei dannati da un momento all’altro. Forse e’ meglio che resti sulla spiaggia che, per quanto inondata dalla marea in ritirata, e’ pur sempre meno inquietante di questa Moria in miniatura. Mi siedo sui talloni a guardare il mare e ad immaginare balene e delfini che magari sono proprio li’, dietro quell’onda, ma io non lo sapro’ mai. Ma gli incontri straordinari qui non mancano mai e, girandomi verso terra, vedo le sagome bianche e nere di centinaia di pinguini Gentoo allineate al confine della spiaggia. Sono apparsi all’improvviso, immobili, certamente stanno scrutando questa grande figura vicina al mare. Le voci corrono tra il Piccolo Popolo: “Sara’ amico o nemico? Cerchera’ un bagno e un po’ di pesce, come noi, o cerca proprio noi?”. Domande terribili ma quotidiane per questi coraggiosi nani. E cosi’, il Piccolo Popolo che viene dalla Palude Stregata resta a guardare in silenzio, molti e molti altri gnomi appaiono da ogni dove, da dietro la duna, sulla cima, dalla striscia di prato, e tutti si fermano sulla stessa linea segnata sulla sabbia dall’istinto e dall’esperienza. Poi, come tra tutte le genti, c’e’ sempre uno piu’ coraggioso che muove il primo passo. La lenta reazione a catena e’ evidente, “Se puo’ andare lui, perche’ io non potrei?”. E il Piccolo Popolo e’ in marcia verso di me seguendo il suo condottiero senza insegne. Con le ali ben aperte per equilibrarsi, muovono passi rapidi e ondulanti con grandi piedi arancioni e palmati. Finalmente mi sono di fianco, lo sguardo orgoglioso incorniciato dalle piume bianche. Non hanno piu’ nessuna paura, qualcuno allunga il becco verso di me per vedermi meglio ma questo e’ tutto quello che resta del timore iniziale. Sono stato accettato, sono solo un’altro abitante di questa spiaggia. A grandi scaglioni entrano in acqua tra onde potenti e il loro tuffo iniziale e’ di nuovo il piccolo prodigio che permette loro di passare da camminatori decisamente pazienti e lenti a formidabili saette bagnate. Ormai le ultime livree nere di questa grande rappresentanza scompaiono nel verde sfrangiato dell’Atlantico australe, chissa’ se per un breve bagno od una lunga pescata, e la mia immaginazione si perde con loro su distanze e profondita’ per me improbabili e per loro quotidiane. Qualcuno e’ gia’ di ritorno e spero che non si offenda se lo seguo al suo villaggio, ormai siamo conoscenti. Decido di adeguare il mio passo al loro, di vivere le distanze come le vivono loro. E’ una lunga attraversata nel fango secco e inquietante ma le dune che ospitano le loro colonie sono in vista e non c’e’ in loro alcuna esitazione o segno di stanchezza. Saluto questi piccoli villaggi dove qualcuno si riposa sulla pancia, qualcun’altro si concede un minuto per pulirsi le piume preziose, altri godono piu’ o meno della compagnia dei vicini con richiami e gesti tra il tenero e l’ostile, passando per tutte le sfumature nel mezzo. La sensazione e’ pero’ di pace e riposo in questo luogo aperto che, se non molto accogliente secondo il nostro concetto di “casa”, sicuramente e’ nei piu’ dolci desideri di ogni Gentoo lontano e stremato dalla pesca e dalle fughe dai predatori micidiali come la foca leopardo.
L’ADDIO Ho ancora qualche minuto prima dell’arrivo dell’ultimo volo e voglio spenderlo oltre la grande duna, sulla spiaggia. Trovo un angolo riparato dagli attacchi del piccolo Tern, in vista delle due grandi foche all’unione delle correnti. Vorrei raccontare a tutti quello che sento, ma sentire non e’ mai come raccontare. Vorrei dire alla mia Federica quanto sia diversi il tempo e lo spazio qui, i ritmi e le attese e le lontananze che spesso scuotono le nostre emozioni sono ridimensionati, riveduti. Gli eventi rallentano, assumono un passo semplicissimo ed epico allo stesso tempo, senti gli ingranaggi dell’universo che girano senza fare troppo rumore, non esistono piu’ giusto e sbagliato, bello e brutto, esiste solo quello che c’e’ e cosi’ sia. Se queste percezioni vi paiono vuote e noiose al racconto, sappiate che non e’ cosi’ che si aprono ai sensi quando vi siamo immersi, sembrano invece riflesso di imperfezione e completezza, di vita vera e importante e lontanissima dalle nostre auto-torture quotidiane, moderne e ben disinfettate. C’e’ un amore piu’ grande in questa corta vita, io l’ho incontrato la’ e ho voluto raccontarvelo. Ora voglio portarlo tutto a casa con me.