Chiapas e Yucatan fly & drive

Lunedì 15 novembre 2004: alle 5.20 suona la sveglia, di lì a 20 minuti mio papà sarà alla sbarra per potarci all’aeroporto, destinazione finale: Messico. Arrivare a Cancun non è proprio una passeggiata: un primo volo VCE MAD, poi MAD MIAMI, e dopo aver superato il controllo passaporti e tutte le menate varie ci siamo imbarcati nell’ultimo...
Scritto da: Greta Giuriato
chiapas e yucatan fly & drive
Partenza il: 15/11/2004
Ritorno il: 28/11/2004
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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Lunedì 15 novembre 2004: alle 5.20 suona la sveglia, di lì a 20 minuti mio papà sarà alla sbarra per potarci all’aeroporto, destinazione finale: Messico.

Arrivare a Cancun non è proprio una passeggiata: un primo volo VCE MAD, poi MAD MIAMI, e dopo aver superato il controllo passaporti e tutte le menate varie ci siamo imbarcati nell’ultimo aereo della giornata. Quando siamo arrivati a destino, è stata una piacevole sorpresa vedere che i bagagli ci hanno seguito in tutti gli scali, senza fermarsi da qualche parte. Felici e sorridenti ci avviamo verso l’uscita, dove dovrebbe esserci un van del nostro tour operator che ci dovrebbe portare in albergo; ma prima ci tocca passare per il famoso semaforo: verde per entrambi, per fortuna, ma alla ragazza prima di me è uscito il rosso, e stava letteralmente vuotando le valigie! Effettivamente fuori dell’aeroporto ci sono 2 uomini del nostro tour operator che ci stanno aspettando, per portarci, assieme ad altri 4 vacanzieri, ai nostri alberghi. Dopo aver appoggiato le valigie in camera (Presidente Intercontinental) e smessi gli abiti pesanti da viaggio, ci infiliamo un paio di shorts e una maglietta e, con le ciabatte ai piedi, andiamo a fare una passeggiata per il centro di Cancun. Sarà che siamo stanchi, sarà che è sera, ma non ci colpisce molto, anzi, non ha assolutamente i colori del Messico che volevamo vedere. Ciò nonostante, ci troviamo concordi nel voler assaggiare qualcosa di tipico… siamo qui anche per questo, no? Facendo slalom tra i vari ristoranti per turisti abbiamo scelto il Friday’s, ci pareva più un pub che un ristorante, e ci è andata bene: cerveza, mozzarelle fritte e piramide di fajitas di pollo, servite su dei piatti in ghisa bollenti, dove le verdure e la carne sfrigolavano… Lo stomaco pieno fa migliorare l’umore e così ci ritroviamo a passeggiare tra bancarelle di souvenir e di artigianato locale (?), finché non sbuchiamo di fronte alla mecca del divertimento di questa città, il Coco Bongo. Veniamo subito attorniati dai vari PR che provano a convincerci ad entrare, ma il potere taumaturgico delle fajitas non arriva a tanto, anche perché domani mattina ci dobbiamo svegliare alle 5 per prendere l’aereo per il Chiapas. Ci incamminiamo verso il nostro albergo, dove alle 22.30 ora locale ci abbandoniamo tra le braccia di Morfeo. Alle 5.15 suona la sveglia e dopo una frugale colazione in camera, scendiamo ad aspettare il van che ci deve portare all’aeroporto. Mentre aspettiamo, cogliamo l’occasione per fare una passeggiata sulla spiaggia, all’alba… Spettacolare! Questo Messico comincia a piacermi! L’aereo che ci porta da Cancun a Tuxtla Gutierrez sembra un autobus: fa scalo prima a Merida, e poi a Villahermosa prima di arrivare a Tuxtla (da dove poi prosegue con non sappiamo quanti ulteriori scali fino a Città del Messico). Ritiriamo la macchina che avevamo pre-noleggiato dall’Italia e partiamo alla volta di San Cristobal de las Casas. Lungo la strada c’è il famoso Canyon del Sumidero, e chiaramente andiamo a farci l’escursione… parcheggiamo la macchina, recuperiamo lo zaino e il marsupio, e scendiamo baldanzosi verso la riva del fiume, dove c’è l’imbarcadero con le lance… Ci guardiamo e torniamo indietro. Non sappiamo nuotare, le lance non ci danno un gran senso di sicurezza, abbiamo lasciato i bagagli incustoditi dentro la macchina… ma chi se ne frega del canyon, andiamo subito a San Cristobal, che la strada è lunga e viene buio presto. (poi ci siamo pentiti moltissimo di non esserci andati; tutti quelli che abbiamo incontrato durante il viaggio e che c’erano stati, ce ne hanno parlato in modo positivo).

Risaliamo in macchina alla volta di San Cristobal, 85 chilometri di tornanti e di topes (abbiamo poi scoperto che molte delle topes che “decorano” le strade in Chiapas sono abusive, costruite dai locali per vendere le proprie mercanzie alle macchine che si fermano per superarle), e dopo aver attraversato una serie di poblados costituiti da un paio di baracche di lamiera e nulla più, arriviamo alla meta. Dopo un paio di strade sbagliate e di sensi unici mancati, siamo riusciti a trovare l’hotel: un’antica dimora signorile del 1740, della quale si riesce a riconoscere lo stile architettonico originale, pulita e a meno di 5 minuti a piedi dalla cattedrale e dallo zocalo. Dopo aver depositato i passaporti e parte dei contanti nella cassaforte alla reception, ci avviamo verso il centro alla ricerca del Margaritas, ristorantino carino segnalato dall’amica Lonely, dove abbiamo mangiato molto bene spendendo una sciocchezza (consiglio caldamente i tacos di carne con la pancetta e l’ananas… deliziosi!). Ristorati da questo succulento pranzetto, e rianimati da un tequila gentilmente offerto dall’oste, siamo andati a passeggiare per la città. Partendo dallo zocalo, dove c’è un chioschetto rialzato che la sera offre anche la possibilità di ascoltare un complessino che propone repertori tradizionali al suono della marimba (xilofono), abbiamo ammirato la cattedrale e il relativo mercatino che si svolge sul sagrato, e poi ci siamo incamminati verso il convento di Santo Domingo, dalla splendida facciata barocca in pietra rosa, il cui interno è tutto tappezzato di pannelli di legno intagliato e rivestito in foglia oro, veramente di una bellezza da togliere il respiro. Ci ha lasciati un po’ amareggiati il notare che mancano completamente orpelli preziosi all’interno, pare razziati dalle milizie del sub-comandante Marcos. Fuori del convento si tiene un mercatino di artigianato locale con tantissime cose molto belle: cinture fatte intrecciando fili colorati, pelli marchiate a fuoco e poi dipinte con quei colori sgargianti che puoi trovare solo qui, scialli di lana, maglioni coloratissimi, pelletterie varie, sandali… talmente grande e variegato che abbiamo perso la cognizione del tempo. Ma con il calar del sole, cala anche la temperatura (in fin dei conti siamo a 2000m!) e noi in mezze maniche cominciamo a sentire un po’ di freddo. Decidiamo quindi di ritornare in hotel, per riposarci un po’ prima di uscire a cena. Lungo la strada vediamo delle donne dietro a dei bidoni di latta fumanti, dove gli abitanti di San Cristobal si fermano a parlottare e poi se ne vanno con una cosa calda tra le mani… incuriositi ci avviciniamo e vediamo che vendono elotes (pannocchie bollite): il profumo è invitante, ma intimoriti dalle possibili ripercussioni di Montezuma, decidiamo a malincuore di non provarle.

Dopo la doccia decido di sdraiarmi a letto, un riposino di mezz’ora, ma mi sveglio solo la mattina dopo, un po’ mortificata per non essere uscita a cena, ma bella riposata e pronta per la visita ai villaggi indigeni.

La Lonely ci ha convinti a cercare Mercedes, la famosa guida con l’ombrellino dai colori dell’arcobaleno, e di compiere l’escursione con lei, ma quando arriviamo allo zocalo ci aspetta una doccia fredda: “Hoy Mercedes descansa”… porca miseria, noi eravamo curiosi di vedere questo personaggio, e invece niente… Facciamo una passeggiata davanti alla cattedrale consultandoci per decidere se andare con il sostituto di Mercedes o che altro, quando ci imbattiamo in Alex e Raul, altro gruppo di ciceroni famoso e indicato dalla Lonely anch’esso: il prezzo è lo stesso, Alex sembra anche molto simpatico, affare fatto, veniamo con voi.

Con un furgoncino VW scassatissimo partiamo per andare a visitare i 2 villaggi tradizionali più famosi della zona: San Juan Chamula e Zinacantan. Il primo villaggio è un misto tra povertà più misera e ostentazione del superfluo: le case sono costruite in mattoni di cemento, ma quasi tutte hanno la parabola sul tetto, la maggior parte delle macchine è nuova (a differenza del parco auto medio messicano, fermo agli anni 70), quasi tutti i sorrisi sono metallici (e per loro farsi incapsulare i denti in oro è simbolo di ricchezza e di vezzo per abbellirsi). La scuola è bilingue: messicano e Tzotzil, la lingua del cui ceppo loro fanno parte. In questo villaggio la legge e le forze armate ufficiali non hanno alcun potere: pare che se ti beccano a fare una foto ai capi villaggio ti fai 3 giorni di prigione senza condizionale e senza che nessuno possa tirarti fuori prima (per fortuna che di me non si sono accorti). La cosa più assurda è la chiesa di San Juan, un edificio bianco con il portale decorato in verde e turchese: al suo interno non ci sono panche, ma tutto il pavimento è cosparso di profumatissimi aghi di pino. Tutto attorno alle pareti ci sono statue di santi di diverse dimensioni, con uno specchio appeso davanti: così chi va a pregare (a voce alta) si vede riflesso e quindi è una sorta di psicanalisi; ma la cosa più surreale sono i vari assembramenti di persone con il curandero che accende le candele colorate (ad ogni colore corrisponde un’infermità del corpo o dello spirito), fischia per richiamare lo spirito dell’infermo, usa uova e polli per cercare di guarire la persona, e poi alla fine tutti bevono coca cola o posh (superalcolico ottenuto dalla fermentazione della canna da zucchero, e, chiaramente, illegale).

C’è un’equilibrata mescolanza tra religione cristiana e paganesimo: non ci sono sacerdoti, non si dice la messa, non si somministrano i sacramenti, a parte il battesimo (non a caso la chiesa è dedicata a San Giovanni Battista).

Usciti dalla chiesa, dopo esserci comprati un sacchettino di pop-corn appena fatto, andiamo a vedere una casa del popolo: quello dei mayorodomos, che sono le persone che hanno l’incarico, per un anno, di prendersi cura di un santo e quindi di organizzare le feste, mantenere le candele sempre accese sull’altare e l’incenso bruciante nei turiboli. La guida ci ha raccontato che ci si mette in lista per diventare mayordomos e poi si aspettano anche 20 prima di essere nominati. In quest’arco di tempo, si devono risparmiare i soldi (c.A. 10.000€) per poter provvedere a tutte le necessità del santo durante l’anno di incarico; nel caso in cui si muoia, visto che l’eredità si trasmette al primo figlio maschio, anche questo incarico sarà tramandato all’erede. In questa casa l’aria è pregna del profumo di aghi di pino, di incenso, di fumo di candele, una parete di foglie di palma secche divide a metà la stanza, una tendina di fiori essiccati sta appesa alla porta d’ingresso, la mayordoma continua ad accendere candele e ad aggiungere incenso nei turiboli (pare che questa sia la sua unica mansione durante la giornata).

L’altro villaggio, Zinacantan, dista solo 4 km da San Juan, ma è completamente diverso. L’attività principale degli abitanti di questo posto è la floricoltura, infatti, lungo la strada si vedono serre a perdita d’occhio: tutti i fiori del Messico, per le occasioni ufficiali, vengono da qui, anche gli alcatraces (calle) che sono il fiore nazionale.

Dopo aver visto la chiesa, che non ha nulla di diverso dalle nostre, se non la gente, che ha l’abitudine di pregare a voce alta con Dio e i Santi, ecco che andiamo a vedere una casa del popolo, ma diversa da quella di San Juan. Qui ci sono una nonna, una mamma e una figlia che tessono a mano e poi vendono i loro prodotti: è impossibile per me resistere, e quindi mi ritrovo con due tovagliette da colazione coloratissime e ricamate. La “casa” è composta di due edifici separati: la cucina, con una porta sul retro che dà sull’aia, e le camere, distanti dalla cucina. La guida ci scalda una tortilla (fatta chissà quando) e dopo averla riempita di semi di girasole e zucca macinati ce la fa mangiare (oddio, Montezuma!!!!), per fortuna che versa subito dopo del posh alla cannella e così almeno il sapore del girasole se n’è andato.

Fuori nel cortile la signora (la nonna?) sta tessendo un abito da sposa, decorato con i colori fucsia, turchese e giallo, e con delle piume inserite nel tessuto (è una lavorazione che discende dagli antichi aztechi, e che può essere realizzata solo da chi è loro diretto discendente, ma non da altri). Dopo esserci dedicati ad un po’ di sano ed economico shopping (comprate qui tutto quello che vi piace, perché se scendete in Yucatan, i prezzi come minimo triplicano!) rientriamo a San Cristobal, dove, con Dora e Piera (due ragazze di Roma che sono venute a fare il tour con noi), andiamo a mangiare qualcosa al Tuluc, ristorante che la guida segnala come “comida rapida”, ma che alla fine rapida non si rivela per niente!, ma che è decisamente molto gustosa! Finito il pranzo -è ormai pomeriggio inoltrato-, un giro a negozi per il centro ci permette di digerire l’immancabile cipolla che accompagna tutte le pietanze messicane, e andiamo anche a bere il caffè in una caffetteria vicino alla cattedrale dove, chiudi gli occhi, ti sembra di essere in un bar europeo. La serata la trascorriamo in modo molto tranquillo, visto che domattina ci dobbiamo alzare presto per il lungo trasferimento verso Palenque: aperitivo al chioschetto nello zócalo (mi hanno portato i nachos con il mole… disgustoso!), e cena alla Langosta, un bellissimo ristorante sempre nei pressi dello zocalo, dove ci siamo mangiati una buona bistecca con contorno di verdure bollite e patate fritte.

Dopo un’abbondante colazione, alle 8 ci apprestiamo a partire per Palenque (190Km di topes e di curve!) quando scopriamo che anche i 4 di Marcelletti (che ci stanno seguendo da Cancun) si stanno dirigendo lì: sfacciatamente chiedo se possiamo seguirli fino a fuori San Cristobal, in modo da non perderci, e Carla (la guida) è talmente gentile che ci dice che ci scorteranno per tutto il viaggio. La strada è veramente orribile, sconsigliamo vivamente di farla in macchina, meglio in autobus, almeno non si deve frenare ogni 20 metri per le topes o per i “posti di blocco” di chi chiede un’offerta per la causa di Marcos… Nel tragitto tra San Cristobal e Ocosingo (c.A. Metà del percorso), al camion davanti a noi esplode un pneumatico, con conseguente rumore effetto detonazione e fuoriuscita di fumo: la strada è talmente stretta e piena di curve e tornanti che non c’è la possibilità di fermarsi e Cristiano, sebbene mezzo morto dallo spavento, deve stoicamente continuare a guidare. Dopo aver oltrepassato le montagne arriviamo in prossimità delle cascate di Agua Azul, uno spettacolo meraviglioso! E finalmente il caldo! Ci togliamo i maglioni, i giubbetti, arrotoliamo i pantaloni e via a passeggiare tra la vegetazione lussureggiante! E’ pieno di gente che fa il bagno, ma noi evitiamo, dovendoci sorbire ancora circa 2 ore di macchina prima di arrivare a destino… Vediamo l’albero del pane, gli spartiphillum, una pianta fumata dagli indigeni per guarire dall’asma (???!!!) e un sacco di fichi (poi scopriremo che sono frutti della passione…). Crogiolandoci al caldo umido delle cascate, ci beviamo un cocco fresco e dissetante e assaggiamo le banane rosse, una varietà tipica del Messico, grossa come una melanzana e dalla buccia rosso mattone (ma dal sapore classico della banana). Le rocce sopra le quali scorre l’acqua sono talmente levigate che verrebbe voglia di usarle a mo’ di scivolo, e infatti qualcuno lo sta facendo, e con gran divertimento, a sentire le urla! In un’insenatura naturale ci sono dei ragazzi che, legata una corda al ramo di un albero, si tuffano sollevando risa e spruzzi d’acqua. Risaliamo in macchina alla volta delle cascate di Misol Ha, altra tappa che precede il nostro arrivo a Palenque. Queste cascate non hanno la maestosità di quelle di Agua Azul, ma sono comunque suggestive: anche qui c’è la possibilità di fare il bagno, ma, sarà anche perché la polla è all’ombra, di gente che sguazza ce n’è ben poca… Questa cascata si tuffa da 35 metri, tra rigogliose piante tropicali, e fa uno strano effetto passare dietro di lei, camminando lungo il sentiero che segue il costone di roccia fino alla grotta, tanto che dobbiamo fare attenzione a non cadere data la scivolosità del suolo. Carla, la nostra guida, ci dice che questa è la cascata dove è stata girata la scena de “L’ultimo dei Mohicani” in cui DDLewis scappava. Finalmente ripartiamo verso Palenque, dove arriviamo dopo circa 8 ore di trasferimento totali. La prima cosa (e forse l’unica) che ci colpisce entrando in città è la cabeza maya, una gigantesca scultura posta nel centro della rotonda all’ingresso del paese. Raggiungiamo in modo agevole l’hotel, una bella struttura con un parco immenso, i campi da calcio e da tennis, circondata dalla giungla…, e, dopo aver appoggiato i bagagli in camera, ci tuffiamo in piscina per una rinfrescante nuotata; peccato che la piscina sia già in ombra, quindi decidiamo di prendere le bici messe a disposizione per andare a vedere la città, e magari per cercare del propoli per alleviare il mal di gola. Beh, sconsiglio a tutti quelli che non hanno le dimensioni dei messicani di andare in bici: ad ogni pedalata i piedi toccano pericolosamente il suolo, mentre le ginocchia sfiorano il manubrio, e per riuscire ad inerpicarci per le salitine che portano allo zocalo quasi quasi dobbiamo scendere e portare le bici a mano. Da quel po’ che riusciamo a vedere, Palenque città non è questa gran bellezza, anzi, è abbastanza insignificante, però la piazza principale è affascinante: un insieme di mille suoni e rumori, tra un gruppo di scolari che passano di lì, i lustrascarpe, le macchine che strombazzano allegramente, e non so quanti uccelli appollaiati sui rami che cinguettano festosi salutando la luce del giorno che ormai se ne sta andando. Non riusciamo a trovare il propoli, nelle due farmacie in cui ci fermiamo ci vogliono dare dell’antibiotico, ma riusciamo comunque a scovare in un 7-11 delle caramelle Halls balsamiche che offrono un po’ di sollievo alle nostre gole infiammate.

Rientriamo in albergo e ci avventuriamo alla ricerca della sauna azteca (temazcal), dalle decantate proprietà ringiovanenti, ma il nostro vagare sperduto ci porta ad addentrarci sempre più nella giungla, troviamo finalmente la freccia che indica “poza natural” e che segnala un sentiero a spirale che scenda nel fitto della vegetazione, senza una luce che illumini i passi, e dal fondo sentiamo salire ruggiti inquietanti… Sebbene consapevoli che si tratta di una registrazione, ci passa la voglia di provare questo miracoloso temazcal, e torniamo in camera a prepararci per uscire a cena: Carla ci ha consigliato un ristorantino, il Don Mucho, che si trova nella zona di Pam Chac, immerso nella giungla vicino alle rovine (la mattina successiva vedremo quanto vicino alle rovine…), lontano dalle rotte turistiche classiche. Il posto è carino: per accedere alla terrazza bisogna passare su un ponticello di legno senza sponde, i tavoli sono quelli da bar di plastica, le tovagliette sono di carta, ma ogni tavolo è illuminato dalle candele, e la birra è molto buona! Cristiano, sapendo che la proprietaria del locale è romagnola, non riesce a resistere ad un piatto di tagliatelle, anche se deve aspettare più di mezz’ora per poterle mangiare, perché è finita la bombola del gas per cuocere la pasta. Io, come sempre, opto per un piatto della cucina locale, che si rivela saporito e stuzzicante come sempre. In teoria dopo cena dovrebbe esserci un po’ di musica dal vivo, così mentre aspettiamo ci aggiriamo tra le bancarelle, ma i musicisti tardano ad arrivare, e noi domattina dobbiamo alzarci presto perché finalmente andiamo a vedere le prime rovine, quindi decidiamo di farci chiamare un taxi che ci riporti in albergo. Il tassista guida come un pazzo, sfrecciando ad una velocità decisamente superiore alle prestazioni standard della sua auto, nelle strade curve e buie (i lampioni pare non siano ancora arrivati in Messico) che portano alla città, con i finestrini abbassati e l’autoradio a volume altissimo… tanto che ci guardiamo e ci chiediamo se mai arriveremo sani e salvi a destino: per fortuna sì, e spendendo una cifra modica e forfetaria (qui non conoscono il tassametro, ma applicano tariffe fisse in base a dove vuoi essere portato, indipendentemente dalla strada che fanno per portarti e dal tempo che ci mettono). Decidiamo di mettere la sveglia presto per essere sicuri di arrivare all’apertura del sito, in quanto in tanti ci hanno consigliato di evitare le escursioni nelle ore più calde della giornata, e anche perché poi dobbiamo trasferirci a Villahermosa per prendere l’aereo che ci porterà a Merida, quindi puntiamo la sveglia del cellulare alle 7 e crolliamo sfiniti a dormire e… a mezzanotte il cellulare inizia a trillare come un forsennato: Cristiano ha lasciato impostata l’ora italiana, e se ne è dimenticato al momento di regolare la sveglia. Ripiombiamo addormentati in men che non si dica e la mattina successiva, rinfrancati da un’abbondante e succulenta colazione prendiamo la macchina e baldanzosi ci avviamo verso le rovine. Dopo aver vagato un po’ per la città (sbagliando un senso unico ci ritroviamo in un una strada residenziale senza uscita che termina con una baraccopoli…) finalmente arriviamo all’ingresso del parco archeologico, dove paghiamo il biglietto, e dopo un altro chilometro circa ci rifermiamo ad un’altra sbarra che vigila sull’accesso alle rovine. Ci sembra abbastanza inusuale pagare un pedaggio per entrare nel parco archeologico e un altro per accedere alle rovine, comunque i biglietti sono talmente economici che non ci scomponiamo nemmeno. Non appena parcheggiamo la macchina una guida ci si piazza alle calcagna insistendo per convincerci a fare la visita al sito con lui, ma, sentito il prezzo, gli diciamo che se trova qualcun altro disposto a dividere la spesa con noi, possiamo accettare, altrimenti facciamo da noi, visto che siamo armati di Lonely Planet e di un’altra giuda…; facciamo in tempo ad uscire dalla biglietteria che riappare con 3 americani: andremo tutti insieme. Sarà che sono le prime rovine che vedo, sarà il contrasto tra il grigio della pietra calcarea e il verde intenso della giungla, ma il posto è veramente affascinante. La guida ci spiega che solo il 5% dell’intero insediamento è stato portato alla luce e che molto probabilmente non si restaurerà altro, in quanto i soldi dei biglietti di ingresso vengono dati al governo e la manutenzione del sito è affidata al buon cuore di donazioni esterne, che però permettono solo di coprire le spese di sfalcio dell’erba e delle piante attorno agli edifici scoperti, per evitare che siano riavvolti in poco tempo dalla giungla che cresce molto rapidamente. La guida sottolinea poi che questo è un vero peccato soprattutto perché gli edifici sono fatti di roccia calcarea (quindi facilmente erodibile) e ricoperti di una sorta di intonaco composto di roccia calcarea sbriciolata e gusci di conchiglie, molto deperibile anch’essa, ma che purtroppo allo stato attuale delle cose non c’è niente da fare per cambiare la situazione. In due ore di escursione sotto un sole a picco sebbene sia mattina, scaliamo tutti gli edifici sui quali si può salire, godendo di panorami mozzafiato. Scopriremo poi a Chichén-Itzá che entro fine anno stanno pensando di vietare la salita ai templi, in quanto li rovina ed è comunque pericoloso perché si può facilmente scivolare di sotto.

Mentre stiamo visitando il palazzo vediamo due facce familiari: sono Dora e Piera, che finalmente sembra abbiano deciso come procedere nel loro viaggio: prenderanno il pullman che le porterà in Guatemala, a Tikal. Ci risalutiamo, sperando di rivederci a Playa del Carmen, visto che la loro intenzione è di finire il viaggio con un po’ di giorni di mare a Cozumel e che noi staremo ad Akumal.

Usciamo per ritornare in albergo: dobbiamo chiudere le valigie e partire subito, per essere a Villahermosa prima del buio, ma prima di salire in macchina ci concediamo un cocco rinfrescante (non so quanto pulito, visto che la vecchina che ce lo apre è seduta proprio dietro il tubo di scarico di un grosso pullman granturismo che sta scaldando il motore).

Rientrati in hotel ci infiliamo il costume e ci tuffiamo in piscina: questa volta non c’è tutta la gente di ieri, anzi, a dire il vero non c’è nessuno, quindi possiamo prenderci anche i lettini, posizionarli perpendicolari ai raggi caldi del sole e abbronzarci per un po’ prima di spostarci verso l’aeroporto.

Verso mezzogiorno prendiamo la macchina, salutiamo anche Palenque e ci dirigiamo verso Villahermosa: siamo in buon anticipo sulla tabella di marcia, per poterci concedere un pasto e una passeggiata in città prima di prendere l’aereo. Nella lunga strada che ci separa dalla nostra tappa veniamo fermati ad un posto di blocco / frontiera tra stati, dove ci puntano contro il mitra e ci fanno scaricare i bagagli per controllare che non trasportiamo clandestini (non credo che cerchino droga o armi, visto che non hanno cani e non è che cerchino poi così accuratamente). Sarà perché li ho storditi con un racconto fiume di quello che stiamo facendo, da dove veniamo e dove ci stiamo dirigendo, elargendo gran sorrisi, sarà per la fede luccicante al dito, fatto sta che ci lasciano passare senza tanti problemi, mentre il pick up arrivato poco prima di noi è ancora li che sta scaricando tutte le cassette di frutta e verdura dal cassone.

Per strada incontriamo altri posti di blocco, per controlli fitosanitari, ma i soldati stanno allegramente pranzando e, con la bocca piena, ci fanno cenno di proseguire salutandoci.

Arriviamo a Villahermosa, superiamo lo svincolo per l’aeroporto e proseguiamo verso il centro, proseguiamo, proseguiamo, proseguiamo, e ci ritroviamo dalla parte opposta della città, senza aver capito quale carretera de servicio imboccare per entrare in città. Fortunosamente riusciamo a invertire marcia e ci riproviamo nel senso opposto, ma niente da fare… rassegnati decidiamo di andare direttamente in aeroporto, così riconsegniamo con calma la macchina e ci facciamo un giro per i negozi, magari anche riusciamo a prendere il volo prima per Merida.

Per chi non c’è mai stato, l’aeroporto di Villahermosa non somiglia assolutamente a quello di Cancún, piuttosto somiglia ad un terminal degli autobus o ad una stazione ferroviaria: trascinandoci dietro le valigie (il volo del pomeriggio “está sobrevendido”) dobbiamo per forza mangiare alla tavola calda al piano superiore (l’unico posto dove potersi nutrire di qualcosa che non siano dolciumi), e poi ci sistemiamo su quei sedili di plastica scomodissimi ad aspettare di poter fare almeno il check-in dei bagagli.

Il nostro volo è alle 19.55, quindi abbiamo un bel po’ di tempo da dover far passare nell’attesa, vado a fare il check-in, consegno le valigie, e ci mettiamo ad aspettare, leggendo e facendo i cruciverba della settimana enigmistica. Arrivano anche i nostri “compagni d’avventura” del tour organizzato Marcelletti, e così almeno abbiamo qualcuno con cui chiacchierare. Finalmente ci possiamo imbarcare, ritorno al banco del check-in per farmi assegnare i posti (non l’avevano fatto al momento dalla consegna dei bagagli) e scopro che, non avendo né noi né il tour operator riconfermato i posti nel volo, non sapremo fino all’ultimo se ci sono due posti per noi o se dobbiamo aspettare il volo successivo di mezzanotte. Riappare al banco il ragazzo che mi aveva fatto il check-in prima, e un po’ sbraitando e un po’ frignando riesco a farmi assegnare gli ultimi due posti liberi in aereo… finalmente si parte! Il volo dura in tutto 55 minuti, ma noi non ce ne accorgiamo, ci addormentiamo prima del decollo e ci risvegliamo poco prima dell’atterraggio.

A Merida fa molto caldo, ce ne rendiamo conto mentre siamo fuori dall’aeroporto ad aspettare che il tizio dell’autonoleggio venga a prenderci per portarci a ritirare la nostra macchina: una bella afa umida che sembra di essere a Venezia in luglio! La macchina che ci capita in sorte questa volta è molto bella, un po’ crivellata di ammaccature e graffi, ma in compenso è di categoria superiore rispetto a quanto stipulato nel contratto (non ne avevano altre a disposizione) e in più ha il cambio automatico (Cristiano ne apprezzerà la comodità nei giorni a venire). L’indicazioni per raggiungere l’hotel sono molto chiare e in più la strada è veramente facile, se non fosse che proprio a 10 metri dall’ingresso del drive-through dell’hotel la strada è transennata per una manifestazione. Proviamo a passare lo stesso, ma il poliziotto ci blocca, suggerendoci di andare a farci un giro per la città per un’ora almeno, finché tutto non finisce; quando gli dico che arriviamo da Palenque (senza specificare che grossa parte del tragitto lo abbiamo fatto in aereo) e che siamo stanchi, ci concede di parcheggiare fuori posto, con l’accordo di andare a spostare l’auto a manifestazione conclusa: non ci è fisicamente possibile aspettare svegli per un’altra ora, allora il poliziotto, impietosito, ci spiega come aggirare la parata e arrivare in hotel da dietro. Dopo un paio di sensi unici sbagliati e un paio di strade di periferia non proprio rassicuranti, riusciamo ad arrivare al parcheggio dell’albergo; lasciamo al posteggiatore l’onore di portare la macchina nel garage e, trascinandoci i bagagli, entriamo nella hall: non mi sembra vero! Dopo 3 giorni in cui lo stile di vita è stato abbastanza spartano, il lusso che ci accoglie ci abbaglia: marmi lucidissimi, fresche fontane, scintillanti lampadari, e la camera… 2 letti king size, un bagno enorme, il frigo bar, la TV… Facciamo un salto di sotto al ristorante dove ordiniamo una pizza e ci arriva una focaccia non ben identificata, che comunque prontamente mangiamo per sopire i morsi della fame. Adesso che siamo finalmente arrivati a destino, cominciamo ad avvertire la stanchezza della giornata, quindi decidiamo di rinunciare alla passeggiata in notturna per le strade della città in favore di una doccia e di una sana dormita. Il programma di domani prevedrebbe l’escursione ad Uxmal, ma Cristiano non se la sente di farsi altre 2 ore di macchina, quindi, di comune accordo, decidiamo di dedicarci alla visita del centro cittadino. Ci svegliamo alle 8 di sabato 20 novembre: Festa dell’Indipendenza Messicana. Decisamente rilassati e riposati (è la prima volta che dormiamo fino a così tardi), partiamo alla scoperta della città: prendiamo un autobus per arrivare in centro – i mezzi di trasporto pubblici sono decisamente molto convenienti, solo che è sempre un po’ un’incognita sapere dove sono le fermate, noi decidiamo di accodarci ai capannelli di gente ferma – che ci smonta a pochissimi metri dallo zocalo. Lungo il tragitto abbiamo modo di ammirare qualcuna delle famose ville che hanno contribuito al soprannome di Città bianca (anche se ormai di bianco è rimasto ben poco): fastose facciate coloniali, abbellite da strutture di ferro a graticcio, ornate da arcate e porte di legno intagliate, sormontate da terrazze balconate, immerse in ampi giardini la cui vegetazione nei tempi migliori doveva essere senz’altro lussureggiante. Sebbene siamo perfettamente consci che le avventure di Zorro sono ambientate nella Baja California, ci sembra proprio di poter vedere l’eroe mascherato sbucare da dietro l’angolo di un patio.

La piazza è transennata, a causa della parate delle forze armate locali, così ci dobbiamo accontentare di passeggiare sotto i portici del Palacio Municipal, dove ci sono i famosi murales di Diego de Rivera che raffigurano le scene più cruente della guerra d’indipendenza. Una breve deviazione ci porta al Parque Hidalgo, dove un furbissimo venditore incastra Cristiano e ci convince a seguirlo nel negozio eco-solidale di un suo parente: ci sentiamo moralmente costretti a comprare un sombrero, ma in cambio chiediamo che ci facciamo una foto con il poncho e il sombrero. Passeggiamo beati per la città, ammirando le paccottiglie che propongono i negozi e scansando i venditori ambulanti che cercano di rifilarci di tutto, spingendoci fino al coperto Mercato Municipal, un grande mercato su due piani, dove i prodotti esposti costano veramente poco (ci sono rimasti in mente i mandarini a 1,50 pesos al KG, cioè 10 centesimi di Euro!) se uno non fa caso alla scarsa attenzione che si dedica all’igiene…, pranziamo al Portico del Peregrino, dove, a dispetto del giudizio delle guide, non mangiamo bene, forse anche perché sbagliamo ad ordinare, e ci incamminiamo verso l’albergo. Dopo una veloce doccia, tolti gli abiti da turisti in favore di un abbigliamento più urbano, usciamo per vivere la noche del sabado di Merida. Passeggiamo per il Paseo de Montejo, dove ammiriamo più da vicino le ville coloniali: quelle meglio ristrutturate ospitano musei o sono sedi di banche o associazioni culturali. In fondo al Paseo vediamo che stanno allestendo una serie di bancarelle per una festa e andiamo a curiosare, ma non c’è niente per cui valga la pena soffermarsi, a parte un enorme albero di Natale tutto illuminato, che ci fa una stranissima sensazione, essendo noi vestiti in pantaloni di lino e maglietta. Ad una tipica fermata improvvisata saliamo su di uno sgangheratissimo autobus che ci porta nelle vicinanze della piazza, da dove cominciamo a guardarci intorno in cerca di un bar dove bere un aperitivo, cosa non proprio semplice. Mentre cerchiamo il bar, riesco a scovare in un negozietto di souvenir un presepio in terracotta proprio carino, e, mentre guardo dentro un portone rimango senza parole! Un patrio di proporzioni spettacolari, un edificio elegante con delle bellissime piante a decorarlo, e lungo tutto il portico dei murales che narrano la storia dei Maya (guarda caso…). La guardia di picchetto ci dice che possiamo entrare e io mi lancio su per lo scalone centrale, e in men che non si dica appaio dalla balconata superiore e saluto Cristiano che si sta ancora guardando attorno. Torna prepotente la sensazione che Zorro ci stia spiando, ma purtroppo il gruppo di giapponesi armati di flash ci riportano bruscamente alla realtà; non ci rimane altro che cominciare a cercare un ristorantino carino per cenare, dobbiamo pur festeggiare la prima settimana da marito e moglie! Scartiamo l’Alberto’s Continental, troppo buio e artefatto e scegliamo Amaro, un posticino molto carino vicino al Parque Hidalgo, dove ci fanno accomodare in un patio con i tavolini in ferro battuto e le candele sul tavolo, e dove consumiamo una cena veramente molto buona. Passeggiamo poi per le vie della città, che risuonano di melodie tradizionali più o meno ritmate e ci crogioliamo nella bella sensazione di essere in ferie! Dopo aver vagabondato in notturna per la città, ed essere stati fortemente tentati di noleggiare una carrozzella, pian piano ci avviamo verso l’albergo.

Non mettiamo la sveglia per l’indomani mattina, tanto dobbiamo solo spostarci fino a Chichén-Itzá, e abbiamo visto che c’è una specie di autostrada che ci permetterà di coprire la distanza in breve tempo e evitando topes e rallentamenti vari. Effettivamente il tragitto è molto più rilassante rispetto a quello che abbiamo patito tra San Cristobal e Palenque, anche se ci perdiamo il colpo d’occhio dei coloratissimi villaggi a bordo strada. In poco meno di 2 ore arriviamo al villaggio Club Med che ci ospiterà per la notte. Sistemiamo le valigie nella camera che si apre direttamente fronte piscina, e, vista la bellissima giornata, decidiamo di andare a visitare le rovine prima di pranzo, in modo da avere il pomeriggio a disposizione per prendere il sole e iniziare a prendere il ritmo rilassato della vacanza di mare. Scopriamo alla biglietteria delle rovine che il braccialetto che ci fissano al polso ci permetterà di accedere al sito quante volte vogliamo lungo il corso della giornata, incluso durante lo “spettacolo di luci e suoni” serale. La guida che troviamo è molto brava, chiara nell’esposizione e simpatica, anche Cristiano ormai capisce quasi tutto quello che ci viene raccontato, e quindi non serve interromperla per fargli la traduzione, fatto salvo per qualche parola ogni tanto. E così vediamo la riproduzione della casetta maya, di forma ellittica, con le pareti di fango e il tetto di foglie di palma: la guida ci spiega che la particolare forma della capanna, senza angoli, evitava il rintanarsi degli spiriti cattivi negli stessi, e che tanto forte era il senso della famiglia allora, che seppellivano i cari estinti dentro casa… Avranno avuto anche un grande attaccamento agli avi, ma la puzza dove la mettiamo???!!! Iniziamo la visita dalla parte antica dell’insediamento: l’osservatorio, con le finestre nelle quali, nei due equinozi, il sole entra e esce in perfetta linea retta, il tempio delle monache (chiaramente chiamato così dai primi archeologi), il tempio dei tre architravi, e il monastero; dopo di che ci spostiamo verso la parte “nuova”, dove si trovano il campo della pelota, il monumento dei teschi, il tempio delle mille colonne, il tempio dei guerrieri, e il Castillo. Entriamo nel campo del gioco della pelota, del quale ci colpiscono subito le maestose proporzioni: la nostra guida ci fa sentire la perfetta acustica, merito delle pareti leggermente inclinate verso l’interno, che permettono all’eco di rimbalzare 7 volte prima di dissolversi in lontananza. Dopo aver ascoltato la storia di questo gioco-rito religioso, andiamo a vedere il monumento dei teschi, dove ci sono scolpiti i teschi di tutti quelli che, vincitori alla pelota, sono stati sacrificati al dio Kukulcan. Ascoltiamo distratti la guida, perché siamo proprio sotto il Castillo, e non vediamo l’ora di scalarlo (oltre tutto è l’unico edificio sul quale ci si può avventurare, anche se ancora per poco). Dopo averci fatto assaporare l’acustica perfetta ai piedi del Castillo (anche qui l’eco rimbalza dai fianchi della piramide, dal tempio dei guerrieri e dalla terrazza di Venere) la guida ci fa spostare all’ombra di alcune piante per finire il racconto di questo popolo in origine per nulla sanguinario, che si è estinto per gli eccessivi sacrifici umani.

Decidiamo di tenerci la cosa più succulenta per ultima, quindi ci incamminiamo verso il gran cenote sacro: è impressionante vedere che 20 metri di salto prima di arrivare a toccare la superficie d’acqua (fonda altri 20metri) hanno come protezione per le eventuali cadute una cordicella fissata ai rami degli arbusti. In questo pozzo venivano gettate le vittime dei sacrifici umani (a quanto pare a volte le vittime sceglievano spontaneamente la morte, nella speranza di portare un beneficio alla popolazione), ma a furia di corpi l’acqua del pozzo si è inquinata, diffondendo l’epidemia tra la popolazione e portandoli così alla fine della civiltà Dopo esserci rinfrescati con un gelato che si scioglie solo a guardarlo, ritorniamo verso il castillo, pronti per intraprendere la scalata: a vedere tutte quelle persone che stanno scendendo aggrappati alla corda o appoggiando il sedere per terra, come fanno i bambini, mi chiedo se ne valga veramente la pena, anche perché ho ancora le gambe indolenzite da Palenque, e con uno sforzo sovrumano riesco ad arrivare solo a metà piramide, mentre Cristiano sale senza il minimo sforzo. Io mi godo la scena dal basso: c’è addirittura una sedia a rotelle vuota ai piedi della piramide, un tizio con la gamba ingessata che sta scendendo e una nonnina curva sul suo bastone che dovrà avere all’incirca una novantina di anni… adesso capisco perché la guida ci diceva che almeno 4/5 persone all’anno muoiono per colpa di una caduta accidentale… Siamo incuriositi dal tempio che si trova all’interno della piramide, dov’è possibile vedere il Chak-Mol (la sorta di trono dove si appoggiavano i cuori delle vittime sacrificali), solo che il caldo soffocante e la lunga coda di gente che aspetta di entrare ci fa passare la voglia, anche perché cominciamo ad avvertire un sensibile calo degli zuccheri, e non vorremmo mai svenire per il caldo. Rientriamo in albergo per il pranzo, dopo aver fatto tappa nella casetta maya per fare alcune foto per prendere spunti per l’arredamento di casa nostra, pronti per prendere il sole a bordo piscina tutto il pomeriggio: d’altronde domani raggiungiamo finalmente la spiaggia, ed è giusto che cominciamo ad abituare la pelle al calore del sole dei tropici. Peccato però che la nuvola di Fantozzi ci stia aspettando dietro una palma, e quando stendiamo gli asciugamani sui lettini, esce allo scoperto e nasconde il sole per tutto il pomeriggio. Considerato che dove siamo non c’è assolutamente niente da fare o da vedere – rovine a parte – facciamo di necessità virtù e ci riposiamo in attesa dello spettacolo serale ai piedi della piramide. Calate le tenebre (alle 5.30 del pomeriggio è già notte) ritorniamo al sito, e, da soli dobbiamo penetrare nella fitta vegetazione prima di arrivare alla spianata dove ci sono le sedie ad attenderci… devo dire che un po’ di paura ce l’ho, se non altro per le bestie strane, soprattutto ragni, che potrebbero capitarmi davanti alla faccia… Lo spettacolo notturno è suggestivo, senza dubbio, soprattutto quando, con i fasci di luci ricreano l’effetto della discesa del dio Kukulcan il giorno dell’equinozio… Il racconto narra la storia della civiltà maya, nascita, ascesa, apice, e declino, in modo decisamente più suggestivo di quanto abbia fatto la guida la mattina, ma sono pur sempre le stesse informazioni.

La cena nel patio a bordo piscina si rivela più che buona, sotto il portico sentiamo parlare solo italiano, ci sembra quasi di essere a casa, ma qui è molto meglio che a casa! La mattina dopo carichiamo le valigie in macchina per l’ultimo trasferimento: mare, stiamo arrivando! La strada tra Chichen-Itzá e Tulum è disseminata di voragini che si spalancano improvvise davanti alle ruote, per cui, anche se la strada sarebbe dritta e larga, dobbiamo mantenere una velocità moderata per evitare di forare, e così, lungo il tragitto, abbiamo modo di vedere un sacco di coloratissimi villaggi che si snodano ai lati della strada. A furia di vedere coperte stese, ci viene voglia di comprarne una, e così ci fermiamo da una vecchietta (che avrà non più di 40 anni, ma che ne dimostra per lo meno 20 di più), dove, dopo una rapida contrattazione, ci carichiamo in macchina una bella coperta gialla e fucsia. Passiamo anche vicino alle rovine di Cobá, ma non ci fermiamo, perché non sappiamo quanto manchi alla meta, e perché non vediamo l’ora di infilarci costume e infradito e fare un bel bagno al mare. Dopo aver riconsegnato l’auto arriviamo davanti alla reception del villaggio, dove scopriamo che l’assegnazione delle camere inizia alle 15.30, e sono appena le 11.00, ma neppure supplicando riusciamo a farci dare la stanza prima… Ad averlo saputo per tempo, ci saremmo fermati a visitare Cobá, ma purtroppo adesso siamo anche senza auto, quindi ci armiamo di pazienza e, mentre aspettiamo, cominciamo ad ambientarci nel villaggio: andiamo a vedere la hacienda (il centro commerciale), proviamo a capire come funzionano i trenini navetta che ti portano da un capo all’altro del villaggio… Quando finalmente riusciamo a portare le valigie in camera e quindi ad abbandonare borse e quant’altro in favore del pareo e della crema solare, ci dedichiamo all’esplorazione del “paese dei balocchi” e delle sue mille attrattive. Dopo una settimana da turisti “seri”, questi pochi giorni di mare sono più che necessari, anche per scaricare tutto lo stress accumulato nei mesi precedenti il matrimonio.

Il giorno seguente lo passiamo in tranquillo pazzeggio tra la spiaggia e la piscina, con qualche capatina al bar swim-up, ma già comincio ad avvertire un senso di irrequietezza, e così al calar delle tenebre (sempre alle 17.00/17.30, non più tardi) prendiamo un colectivo direzione Playa del Carmen: passeggiamo lungo la Quinta Avenida fino a farci venire le vesciche ai piedi, e la sensazione che abbiamo è quella di passeggiare per via Bafile a Jesolo: solo italiani, sia tra i turisti che tra i ristoratori, comunque è un posto che vale la pena visitare, è un Messico diverso dal Chiapas o da Merida, più “commerciale”, ma pur sempre affascinante, soprattutto i gruppi di mariachi che suonano e cantano dai tetti delle case… Il giorno dopo con i due amici di Marcelletti andiamo a visitare Tulum, dove i templi calcarei che si stagliano contro le acque verde-turchese del mar dei Carabi sono veramente una vista mozzafiato. Claudio ci propone per l’indomani mattina un’uscita per fare pesca d’altura: né io né Cristiano abbiamo mai fatto niente del genere, e allettati dalla possibilità di vedere i marlin, i pesci vela e i barracuda, accettiamo di buon grado. La mattinata ci accoglie al nostro risveglio con un cielo grignolino, man mano che il giorno prende il sopravvento sulla luce tremula dell’alba comincia anche a cadere qualche piccola goccia di pioggia. Arriviamo alla marina dove saliamo su di un barchino piccolino e cominciamo a fare avanti e indietro per un tratto di costa di 4 km, senza prendere niente, però in compenso riesco a vedere i delfini e addirittura una tartaruga! La pioggia a volte scroscia violenta e dopo poco lascia spuntare un po’ di sole, ma appena fermano la barca per fare pesca di fondo, eccola che ricomincia battente. Claudio comunque pesca 2 barracuda, che vengono ributtati in acqua, per salvaguardare la specie, dei pesci non ben identificati (orate?) e un piscione bellissimo che vorrei tanto ributtassero in mare: bocca tonda e rossa, corpo arancio pallido a pois rossi… sembra il fratello di Nemo, ma pare sia anche buono da mangiare e quindi non ce n’è per nessuno e lo si mangia! Finita la mattinata da “il vecchio e il mare”, anche se non abbiamo visto né marlin né pesci vela, rientriamo al villaggio giusto prima che si scateni la tropical storm che finirà solo a sera: il ristorante e tutte le strutture comuni del villaggio sono allagate, e per le stradine ci vorrebbe una canoa per poter passare agevolmente. Non ci resta che aspettare che un po’ passi il brutto tempo per poi andare a farci una doccia tiepida in camera.

Il mattino dopo non è che la situazione meteorologia sia migliorata sensibilmente, solo che, essendo l’ultimo giorno della vacana, ci stendiamo in spiaggia subito dopo colazione. Dopo una mezz’ora il sole riesce a fare capolino da dietro le nuvole e così noi non ci schiodiamo di lì finché i morsi della fame non ci esortano ad andare verso il chiosco degli hamburger, ma appena finito il panino ci ristendiamo sotto il sole, fino a quando non cominciamo a diventare incandescenti… troppo tardi: ci siamo scottati, ma che importa, domattina si torna a casa e tutto finisce! Come ogni vacanza all’estero, decidiamo di spendere gli ultimi pesos comprando souvenir inutili, ma che sanno di Messico, come il Mezcal (imbevibile), il CD con le musiche dei Mariachi, un’altra coperta, un doposole lenitivo, collanine, braccialettini,… Alla sera, il ristorante buffet propone serata a tema messicana, con un gruppo di 4 mariachi che gira tra i tavoli suonando e cantando le canzoni tradizionali: peccato non avere con noi la macchina fotografica per immortalare questo momento di finto “vero Messico”! L’ultima mattina, sveglia alle 5.30, sembra proprio che il cielo abbia deciso di dare il meglio di sé per salutarci: una luce vivida taglia l’orizzonte ed illumina di traverso gli ombrelloni di foglie di palma creando dei giochi di luce che purtroppo l’ultima foto non riesce a rendere… ci toccherà ritornare per rivedere l’alba sul mar dei Carabi…



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