Alla scoperta della Nuova Zelanda

Forse non è molto originale confessare che l’idea ci è venuta guardando al cinema “Il Signore degli Anelli”, però è proprio così. Ma c’era anche qualcosa in più a spingerci a sorvolare mezzo mondo per arrivare nell’isola più lontana che c’è: volevamo trasferirci in Nuova Zelanda. Prati immensi, una natura incontaminata e...
Scritto da: Lucia Donetti
alla scoperta della nuova zelanda
Partenza il: 08/08/2003
Ritorno il: 27/08/2003
Viaggiatori: in coppia
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Forse non è molto originale confessare che l’idea ci è venuta guardando al cinema “Il Signore degli Anelli”, però è proprio così. Ma c’era anche qualcosa in più a spingerci a sorvolare mezzo mondo per arrivare nell’isola più lontana che c’è: volevamo trasferirci in Nuova Zelanda. Prati immensi, una natura incontaminata e l’idea che da laggiù si potesse ricominciare a vivere come in un nuovo mondo, ricco di possibilità. Arriviamo a Auckland il 10 di Agosto, dopo estenuanti ore trascorse accartocciati sul sedile di un aereo di linea Korean Air, mangiando caponata di melanzane a colazione (è il prezzo che si paga ad essere vegetariane su una linea aerea coreana…), cercando di dormire a dosi di sonnifero, ma godendo di albe uniche, sopra un punto imprecisato dell’Oceano Pacifico.

Il primo capitolo di questo viaggio lo potremmo intitolare: 1) NON RIESCO A ‘NDIVIDUA’ LO STADIO Tra i comodi sedili della fidata Korean Air, Marco fa amicizia con un simpatico nonché nevrotico e ipercinetico coreano. Arrivati a Incheon, aeroporto situato su un’isoletta a circa 50 Km da Seul, il giovanotto ci propone un giro sull’isola, insieme al fidato amico che era venuto a prenderlo. Un coreano di rara bruttezza che ci si presenta con indosso una maglietta milanista taroccata (ma scopriamo con amarezza che oltretutto non è neppure tifoso milanista, è solo un amante del calcio e qualsiasi squadra va bene…) L’isola, ci dicono, è troppo affollata: veniamo dirottati quindi verso la grande SEUL. Marco inizia ad immaginare gli scenari più tragici: ci sgozzano e ci rubano tutto, passaporti compresi, fine anticipata di un tragico viaggio. Io cerco di rassicurarlo: un coreano che passa la sua vita lavorando 14 ore al giorno e mangiando una zuppa terrificante, detta Pipimpa, non può essere un malvagio… è soltanto pazzo! Pazzo come la sua idea di portarci a visitare lo stadio dei MONDIALI 2002!!!!!!! Stravolti dalla stanchezza, sotto un solleone impietoso, circondati da migliaia di coreani impazziti per lo shopping (perché lo stadio è un temibile centro commerciale…) vaghiamo in lungo e in largo per cercare una breccia che ci conduca all’interno e finalmente visitare il luogo della disfatta (Italia – Corea – Moreno). Non soddisfatto di tutto ciò, Jonas (il coreano impazzito) ci propone un pasto tipico: PIPIMPA, SUSHI, spaghetti grigi che fluttuano davanti a nostri occhi, avvolgendoci in un fetore nauseabondo. Ho reso felice Jonas assaggiando qualcosa qua e là dal suo vassoio, ma pensavo che preso sarebbe arrivata la fine! Non sappiamo come ma finalmente usciamo dalla zona stadio e veniamo condotti in cima ad una collina e qui, finalmente, Jonas fa centro: tutta Seul si stende davanti ai nostri occhi, in tutta la sua enormità. Sembrava quasi di vedere la miriade di abitanti gialli che vi appartengono. Uno spettacolo abominevole: ecco dove non vorrei MAI vivere e tutto ad un tratto Milano mi appare come un’oasi che non ho saputo mai apprezzare abbastanza. Il ritorno in aeroporto avviene con “Maldini” alla guida e una tribù di dormienti al seguito.

2) AUCKLAND:…E PIOVE PIOVE SUL NOSTRO AMOR! Arriviamo ad Auckland allo stremo delle forze, dopo 10 ore e ½ di aereo e con 7 ore di sonno in 2 giorni sulle spalle. Ritiriamo la macchina a noleggio, una Toyota Corolla bianca e, destreggiandoci il più possibile con la guida …A destra, arriviamo senza colpo ferire alla nostra “boutique”: the Great Ponsonby. Un’incantevole villetta bianca (quasi tutte le casette di Auckland sono bianche o fornite di una staccionata di legno bianca stile Via col Vento), arredata in modo speciale, un miscuglio di English style e tradizione Maori (il colore verde delle pareti accostato ad un azzurro tendente al lilla delle porte, e poi gigantesche maschere di legno dagli occhi di giada appese qua e là…) La nostra ospite ci accoglie con un tè e ci propone una camminata in centro seguendo un itinerario particolare. L’idea ci attira, ma la mettiamo in pratica solo 3 ore dopo ( di sonno, pesante e ricostituente, ma ce ne sarebbero volute altre 10 per metterci veramente in sesto). Ma Auckland ci aspettava e sarebbe stato un vero peccato perdere sotto le coperte la nostra prima giornata in Nuova Zelanda. Purtroppo qui fa già buio alle sei, ma abbiamo avuto la fortuna di ammirare la città illuminata dall’alto della Sky Tower, una specie di enorme birillo che ti permette una visione a 360°. Mozzafiato!! Per la cena ci siamo diretti nuovamente dalle parti del nostro alloggio e siamo capitati in un ristorante italiano molto trendy. Un’enorme fudge cake con gelato alla vaniglia ha coronato la nostra prima giornata nell’emisfero australe! 3) ROTORUA (ovvero LA GRANDE RENZA) Arriviamo a Rotorua dopo circa 3 ore di viaggio attraverso la campagna neozelandese: distese immense, colline, boschi, mucche. Qualche scroscio di pioggia e poi il sereno. Rotorua è un centro termale, sotto di lei un magma incandescente rilascia un gas sulfureo che invade l’intera area. Un odore inconfondibile che ci accompagnerà a lungo. Dopo aver trovato sistemazione presso uno splendido cottage in stile francese (Honfleur), dove abitano due distinti signori e un Labrador piuttosto anziano, visitiamo il villaggio maori di Whakarewarewa. Suggestivi geyser in lontananza, pozze di fango, fiumiciattoli caldi e vapori vari sono parte integrante del giardino di casa di questa gente. Una simpatica guida maori ci mostra come il cibo viene cucinato “al vapore” in buche sotterranee e dove, dopo il lavoro, vanno a rilassarsi (dentro delle vasche di pietra all’aperto nelle quali viene convogliata acqua termale molto calda). La tradizione che si tramandano da generazioni sembra stare molto a cuore a questi maori… eppure io non credo che potrei mai sopportare di vivere in un tale fetore.

Dopo questo viaggio nei vapori sulfurei e dopo essermi acquistata in questo villaggio il mio ciondolo in giada maori, ci rechiamo a visitare le Rainbow Springs, il paradiso di migliaia di trote “arcobaleno”, di uccelli autoctoni e non, tra i quali il famoso Kiwi, uccello nazionale.

Il giorno dopo ci aspetta un’avventura magica.

4) I VERMI LUCCICOSI Le grotte di Waitomo sono antichissime formazioni calcaree create dall’acqua. Quando la Nuova Zelanda è uscita dalle acque, esse sono rimaste così: enormi cave bianche, nelle quali si sono create stalattiti e stalagmiti, ma soprattutto dove hanno trovato loro dimora ideale delle larve che nel buio luccicano come stelle. Abbiamo visitato ben 2 cave, trasportati sull’acqua da gommoni, a rimirare al buio una via lattea davvero a portata di mano.

5) NUOVI VAPORI Il giorno dopo, sulla strada per la nostra prossima meta, chissà come i vapori sulfurei ci hanno attratto nuovamente a visitare un’altra zona vulcanica, detta “Waiotapu Thermal Wonderland”. Oltre al Geyser Lady Knox (provocato da una piccola dose di sapone versato nel suo cratere), siamo rimasti affascinati da un’enorme pozza multicolore e fumante, detta appunto “The Artist’s Palette”. Non riuscivamo a smettere di fare foto, finché soprafatti da terribili effluvi, ci siamo rimessi in viaggio. Viaggio ricco di interruzioni visto che Marco ha insistito per vedere lo spettacolo dell’apertura di una diga e la formazione delle rapide di Aratiatia. La strada ci ha portato poi a costeggiare il lago Taupo, fino ad entrare nel Tongariro National Park. Sembrava di essere in un paesaggio lunare, mentre attraversavano la Desert Road: ciuffetti di erba gialla su infinite distese di colline, interrotte solo dalle tracce dei carri armati in addestramento, e alle nostre spalle le cime innevate dei monti Tongariro e Ruapehu.

6) “A JAM OF RARE BEAUTY” Appena arrivati a Ohakune, abbiamo trovato miracolosamente la strada per il B&B da noi prescelto. Una splendida casetta a pochi km dal “centro”, circondato da un grande e curatissimo giardino. Un posto in cui avrei sempre sognato di vivere. Gentili e affabili i nostri ospiti, Nita e Bruce, con i quali abbiamo passato la sera a chiacchierare e dai quali ci siamo fatti dare preziosi consigli su come trascorrere la giornata seguente (il piano A era Kayak sul Whanganui ma essendo inverno…) Il giorno dopo, quindi, due ore di horse trecking (sebbene fosse più ai ritmi di una rilassante ippoterapia…) E poi su per la Mountain Road che si snoda all’interno del Tongariro National Park, per arrivare ai campi da sci di Turoa, che abbiamo trovato piuttosto affollati. Noi però abbiamo preferito una passeggiata tra i boschi, fino a delle simpatiche cascate (un po’ a corto d’acqua). E’ stato comunque bellissimo ammirare i giganteschi alberi Rimu (che raggiungono i 30 mt di altezza) e immergersi in una natura davvero incontaminata e rigogliosa.

7) FERRAGOSTO NELLA WINDY CITY Wellington ci ha accolto un po’ “freddamente”, e di sicuro ha fatto onore al suo nome: pioggia, folate di vendo, nebbiolina… Dopo una calorosa accoglienza da parte della nostra ospite irlandese, presso il B&B Top’o’t’hill, che ci ha stordito in pochi minuti con una montagna di chiacchiere, siamo scesi in città con il bus e ci siamo infilati nel nuovo e già rinomatissimo museo Te Papa (in maori “la nostra terra”). Vi abbiamo passato tutto il pomeriggio, incuriositi da varie multi-medialità: la storia della Nuova Zelanda, sia naturale che della popolazione, raccontata attraverso immagini, suoni, odori…Dentro una minicasa abbiamo perfino provato l’esperienza virtuale di un terremoto!! Usciti dal Te Papa, ci siamo immersi nella briosa vita della city, in un’affollata sera di venerdì: pub pieni di gente allegra, negozi aperti fino a tardi…Insomma una situazione alla quale non eravamo più abituati da un po’! Così, presi da un vagabondaggio metropolitano senza meta…Abbiamo finito per perderci… Una cartina sbiadita e di poco larghe vedute non c’era di grande aiuto: alla fine dopo un gran camminare, siamo riusciti a tornare al punto di partenza. Troppo sfiniti per pensare, siamo capitati in un ristorante affollato, caldo e allegro: peccato servissero cucina italiana variamente rivisitata. La pizza all’agnello in salsa agrodolce scelta da Marco è tornata al mittente quasi intonsa. Mentre io, presa dalla fame, ho consumato quasi la metà di una pizza piena di feta, cipolle, olive e insalata varia… 8) THE GOLDEN “MURDEROUS” BAY Consigliati dalla nostra cinguettante ospite, prima di riportare la macchina al noleggio, ci siamo goduti uno splendido tour nella baia di Wellington. Una panoramica spettacolare ci è stata offerta in cima ad un colle, accanto ad una turbina eolica gigante.

Altrettanto affascinante il viaggio in traghetto verso Picton, nell’isola del sud, con il quale abbiamo attraversato i fiordi di Marlborough.

E verso sera, a bordo della nostra nuova Toyota, abbiamo raggiunto Nelson e la dolce signora Elisabeth, che in men che non si dica ci ha organizzato un Kayak tour di una giornata intera sulle coste dell’Abel Tasman National Park per il giorno dopo.

9) COME ROBINSON CRUSOE La giornata aveva tutti gli ingredienti per preferire starsene sotto le coperte: 1) Alzataccia: ore 6.15. E la casa non è riscaldata!!! 2) Tour sull’acqua, e ripeto, fa freschino.

3) Il tour dura un giorno e non so dove potrò far pipì.

4) Il tour è “fully catered”, ma loro lo sanno che sono vegetariana? Per fortuna, i neozelandesi sono le persone più preparate, previdenti e ben organizzate del mondo (a me conosciuto). La ragazza che ci avrebbe fatto da guida ci ha fatto infilare in scomode, fredde e umidicce mute e ci ha portato all’interno dell’Abel Tasman National Park, dove ci siamo incontrate con altre due ragazze americane che avrebbero kayaccato con noi. Dopo una breve preparazione, eccoci in mare aperto, per la precisione il Mar di Tasman. Pagaiando e zigzagando abbiamo scoperto piccole baie nascoste dalla sabbia dorata, a valle di colline rivestite della tipica foresta pluviale, dove strani uccelli costruivano il loro grande nido. Abbiamo attraccato in una baia isolata dove la nostra giovine guida ci ha riscaldato una zuppa al pomodoro davvero confortante. Il rientro è stato meno paradisiaco, dato che le forti folate di vento cercavano di rispedirci al largo. Ma grazie ad un buon coordinamento e alle lezioni di “Tecnica di pagaiata sul campo” di Master Fabio, abbiamo raggiunto la riva di partenza: esausti ma fieri di noi! Al rientro dalla nostra signora Elisabeth, un inaspettato incontro con un italiano emigrato in Nuova Zelanda negli anni 50. Abbiamo sparlato della regina Elisabetta e dei nuovi immigrati in Italia. Poi, per coronare il successo kayacchistico, quella sera ci siamo concessi una cena nel ristorante più rinomato di Nelson, il Boat Shed, a base di ostriche e ancora cozzone.

10) IL LUNGO VIAGGIO VERSO IL FRANK JOSEPH… O IL FOX GLACIER? Il viaggio che ci si prospettava era della durata di sette ore, ma per fortuna ci ha riservato panorami bellissimi. Incluso uno stop over alle Pancake Rocks, davvero meritevoli, soprattutto quando il mare in burrasca entra da una feritoia in una cava scoperta molto ampia, facendo un rumore impressionante. Devo dire che il panorama della West Coast è molto suggestivo: l’azzurro del mare che sembra sempre in burrasca, il verde dei prati chiazzati dal bianco di innumerevoli pecore e poi colline e montagne coperte di variegata foresta pluviale. Verso le 18.00 arriviamo dunque al Franz Joseph Glacier e cominciamo ad indagare su dove si trovasse il nostro alloggio, ma senza trovarlo, neppure dopo avere girato in lungo e in largo le quattro vie del piccolo centro. Decisamente preoccupati ci siamo rivolti ad una guida turistica che ha prontamente risolto il problema: il nostro B&B si trovava al Fox Glacier, 20 Km più avanti. Avremmo dovuto sospettarlo dato che, appunto, si chiamava “Fox Glacier Homestay”… Faccio ammenda: è tutta colpa mia che faccio sempre confusione con i nomi.

11) RAF – FOX E IL MONTE COOK Ci accoglie una simpatica signora dai modi schietti e gentili. La casa non è signorile, il bagno non è in camera e la toilette è vicina al garage ed è gelata! Ma mi faccio forza puntando sul mio spirito di adattamento (da troppo tempo lasciato in disuso!). Ci viene offerta la solita tazza di thé con relativi suggerimenti per le visite del giorno successivo, che si sarebbero rivelate assolutamente fondamentali! In serata poi facciamo la conoscenza degli amici della signora Eunice: due bellissimi gatti, uno di pochi mesi e l’altro soffice e grande di 15 anni!!! Ed infine il nostro eroe, che resterà impresso nella nostra memoria per tanto tempo, se non altro per il suo dolce olezzo: Raf, un cane dal pelo rosso, di una certa età e una certa stazza. Era sempre così felice di farsi coccolare che le inventava di tutte per non farci andare via. Ci spingeva con la testa, si sedeva sui nostri piedi, oppure si metteva lungo disteso davanti alla porta di casa!! 12) TRA I GHIACCI Abbiamo iniziato di buon ora la nostra prima giornata al Fox, secondo le preziose indicazioni di Eunice. Alle ore 9.00 eravamo già in marcia lungo le sponde del lago Matheson (detto il “mirror lake”), in una rigogliosissima foresta di felci e rimu. In vari punti del percorso ci si poteva fermare e ammirare lo splendido spettacolo dei monti Tasman e Cook riflettersi perfettamente sullo specchio di questo lago calmissimo. Per nostra fortuna il cielo era limpido e senza nubi. Da reflection point, fermi su una piattaforma di legno con lo sguardo perso in questo paesaggio sdoppiato ho avvertito una profonda sensazione di pace. Poi, siamo tornati al Franz Joseph Glacier, dove abbiamo intrapreso una piacevole camminata di circa un’ora, all’interno dell’enorme bacino creatosi con il ritiro del ghiaccio. Non mancava altro che il Fox Glacier, questa volta raggiunto fino a pochi metri di distanza e in compagnia del temerario Ignazio, idraulico di Catania, impegnato in una lunga vacanza in Nuova Zelanda, a caccia di sempre nuove emozioni. Un personaggio memorabile: presidente di una squadra di calcio sicula, durante un soggiorno in Birmania ha allenato per mesi una squadra di 100 ragazzini! Ci mancherà Ignazio, anche per il suo simpaticissimo modo di storpiare i nomi delle città e per la sua onnipresente cinepresa.

15) NON ANDATE A QUINSETTAUNN??? Salutiamo la nostra Euni, Raf e i gatti e ci mettiamo in marcia per un’altra lunga tappa. Prevediamo una breve sosta a Wanaka per il pranzo e poi… ebbene sì saltiamo Queenstown (“Non andate a Quinsettaunn? Ma come fate? E’ bellissima! Lo dice anche la guida…” Parole di Ignazio e forse aveva anche ragione… ma il tempo per noi stringe!!) Il viaggio non delude. Il passo di Haast ci regala vedute molto belle e cascate nascoste. Avvicinandoci a Wanaka il tempo peggiora e il freddo aumenta… giusto il tempo di una soup of the day e di nuovo in cammino. Per cercare di dimezzare i tempi, scelgo una scorciatoia che mi sembra strategica: senza quasi accorgerci però saliamo sulla cima di un monte e ci troviamo in mezzo alla neve con il pericolo di dover mettere le catene (le catene ci sono, ma Marco non sa metterle!!). Momenti di terrore che poi passano, mano a mano che si ricomincia a scendere. Intanto avvistiamo paesaggi suggestivi come un gregge di pecore che pascola su un prato ricoperto di neve! Il viaggio prosegue su strade desertiche attraverso vallate e praterie bianchissime. Arriviamo a Te Anau all’imbrunire e la nostra solerte ospite ci assicura una gita stupenda per il giorno dopo, al Doubtful Sound (il Milford Sound, meta più nota e più commerciale non è visitabile per il pericolo valanghe sulla strada. Erano 5 anni che non nevicava così!). 14 ) FIORDI SELVAGGI E CENTRALE ELETTRICA Abbiamo trascorso la giornata intera su un battello visitando fiordi altissimi ricoperti di muschi e attraversati da cascatelle estemporanee. Un paesaggio come al solito all’altezza delle aspettative. A farci compagnia una simpatica coppia di Reggio Emilia, Giovanni e Federica, con i quali abbiamo condiviso le nostre storie di viaggiatori della Nuova Zelanda, scambiandoci consigli su quanto c’era ancora da vedere. La sera cenetta al Redcliff, dove per la prima volta dopo tempo abbiamo gustato cibi semplici ma prelibati, fatti con cura e alimenti genuini. Il bello però doveva ancora arrivare. Ci siamo coricati verso le 21.00 e addormentati verso le 22 (dei veri viveur! Ma in Nuova Zelanda la vita comincia presto!). Verso mezzanotte eravamo profondamente addormentati quando il nostro letto ha cominciato a sussultare vivacemente. Io ero nel bel mezzo di un sogno e talmente addormentata da pensare che si trattasse di un’iniziativa del B&B e che la casa si stesse trasformando in un treno! Marco mi ha preso la mano e lo scombussolamento è durato ancora per un bel pezzo. Ebbene sì, si trattava di un vero terremoto, 7.2 della scala Richter. Evviva! Qualcosa di eclatante da raccontare agli amici!! Altre piccole scosse si sono susseguite nelle ore successive e il tutto nella mia completa indifferenza (mentre Marco si era issato sul letto, senza in realtà sapere bene cosa si dovesse fare in caso di pericolo). In realtà il sonno ha evitato che mi facessi prendere da un panico del quale non c’era alcun bisogno. Nonostante la magnitudo, infatti, non si sono verificati danni alle abitazioni (Te Anau era il paese più vicino all’epicentro) e questo grazie al fatto che l’epicentro si trovava in mezzo al mare a circa 12 Km di profondità. Come si dice in questi casi…”l’abbiamo scampata bella!” 15) BACK IN THE CAR!!! Gustata la specialità della casa (pancakes e maple syrup) e discusso abbondantemente con i nostri ospiti dello scampato pericolo, partiamo alla volta di Dunedin, alla ricerca di pinguini e albatross, da veri e propri ECOTURISTI. Per l’appunto, abbiamo deciso di affidarci per la prima volta alle cure di una Farmstay indigena. Facciamo così la conoscenza dei coniugi Melville. Arriviamo a Port Chalmers verso le 14.00, ma solo tre quarti d’ora dopo raggiungiamo l’isolata magione (sul cucuzzolo di una collina, dopo 4 km di strada sterrata e di fronte all’oceano e alla penisola di Otago). Ci accoglie il signor Melville in abiti da lavoro. Ci informa che la moglie è fuori per un controllo al bypass e ci fa installare nella nostra camera. Noi gli diciamo che siamo interessati a vedere i pinguini dagli occhi gialli e subito lui fa una telefonata e ci prenota per il pomeriggio stesso, sulla penisola di Otago, che in linea d’aria è a 1,5km, ma in realtà ci vorrebbe un’ora e passa di macchina. E lo “spettacolo” sarebbe cominciato da lì a un’ora, appunto. All’urlo di “BACK IN THE CAAAAR” l’arzillo vecchietto ci infila in macchina, disfandosi per un po’ della nostra presenza. Abbiamo mangiato un toast tra i vari tornanti che ci separavano dal Penguin Place e con solo due minuti di ritardo raggiungiamo il gruppo (composto prevalentemente da italiani). La guida ci accompagna alla Penguin Beach dove attraverso percorsi coperti possiamo osservare il ritorno a casa dal mare di questi pinguini dagli occhi gialli. Dondolano senza fretta verso la loro cuccia e non riusciamo a capire se hanno, o meno, sentito la nostra presenza. E’ bello, comunque, sentirsi un po’ spioni di questo mondo così lontano… E intanto si fa sera. Ripercorriamo a ritroso la penisola per raggiungere Dunedin, senza fretta ci godiamo il tramonto e l’accendersi delle luci della città che si rispecchiano sulle acque del porto. Questa sera Marco mi deve offrire la cena perché ha perso la famosa scommessa sull’incontro o meno di altri italiani in questa vacanza. Dopo un breve gironzolare nella città più scozzese dell’isola, la scelta cade su “una mucca di nome Berta”, raffinato ristorante svizzero dai piatti sfiziosi ma buoni. Ben rimpinzati affrontiamo il ritorno a casa reso arduo dal buio, la pioggia, la salita impervia … Ma al nostro arrivo ci attende una nuova ed emozionante esperienza: il signor Melville ci porta a nutrire gli agnellini! Con un biberon in mano, in una stalla piena di galline sistemate su di una mensola e in assoluto silenzio, abbiamo allattato due agnellini orfani!!! E’ stato bellissimo! La mattina dopo: colazione con l’enorme gatto rosso della signora, sotto gli occhi vigili di un tacchino socievole come un cane e vanitoso come un pavone: un vero scherzo della natura! La mattinata, sotto consiglio della nostra “abbondante” signora, è passata con una visita alla fabbrica di cioccolato Cadbury. Peccato che della fabbrica, in realtà, abbiamo visto praticamente solo il magazzino. In compenso, siamo stati omaggiati di vari prodotti: immangiabili per chi ama il cioccolato fondente della Lindt! 16) I VERI REALI Ancora una volta ci siamo rimessi in carreggiata per raggiungere il culmine della penisola: il nostro obiettivo era il top dei top, vedere un albatross dal vivo. Dopo una veloce visita alla Saint Paul Cathedral, al centro dell’Ottagono, al centro di Dunedin, e una breve tappa alla famosa ex-stazione, bella come un palazzo d’epoca, ci mettiamo in viaggio. Non senza sostare ad una tappa d’obbligo: l’happy hen. Originale negozio-fabbrica di galline multicolor e multitasking. Io mi approprio di una gallina salvadanaio blu: sono sicura che farà un figurone sul mio caminetto. Finalmente raggiungiamo la cima della penisola, dove si possono avvistare gli albatross. Una guida ci conduce in una casetta di legno che dà su un prato sul quale stanno i cuccioli di albatross (che hanno circa 6 mesi) che noi iniziamo ad osservare con dei binocoli. Sono grassocci e stanno perdendo parte del loro piumaggio. Sono – come noi – in attesa di uno dei genitori che gli dia la pappa.. Siamo fortunati: vediamo un paio di albatross volare elegantemente sopra di noi. Uno poi plana, in modo un po’ buffo. Riusciamo anche a vedere una madre che nutre il suo piccolo. E’ davvero un’esperienza straordinaria! Penso che l’albatross sia un uccello affascinante: si accoppia per la vita ma dopo un anno di cure dedicate al figlio, prende un anno intero di “vacanza” e se ne va via, in viaggio per gli oceani dell’emisfero meridionale. In questo centro hanno avuto un’albatross femmina di 60 anni che ancora faceva figli, fino a quando un giorno è andata in cerca di cibo in mare aperto e non è più tornata… Torniamo a casa: questa sera ci aspetta un cena in famiglia. La signora Melville ci tratta bene e la sua cucina è deliziosa! Poi un po’ di TV, una partita di Rugby vista in compagnia dei due micioni e poi sonno, del gran sonno.

17) EMU, CAPRE, TACCHINO E PORCI La mattina dopo il signor Melville ci porta a conoscere i suoi animali: portiamo un po’ di cibo ai famelici emu e a delle simpatiche e docili capre bianche. E poi le mele ai pony e al maiale nero chiazzato di bianco. Il tutto marcati stretti dall’amico tacchino che ha posato per noi in braccio al suo padrone. Dopo baci, foto e calorosi saluti ai nostri indimenticabili padroni di casa, ci rimettiamo in viaggio per raggiungere Oamaru, nuova tappa del nostro viaggio eco-turista. Nel tragitto ci fermiamo ad ammirare le famose Moeraki Boulders: vere e proprie palle giganti di roccia, disposte in ordine sparso su una spiaggia e lambite dalle onde del mare. Sembrano le opere d’arte di qualche extraterrestre! Dopo qualche oretta di viaggio, raggiungiamo il nostro nuovo Farmstay (eh sì, ci abbiamo preso gusto!). Questa volta ci accoglie un ambiente molto più raffinato e due coniugi che sembrano (sebbene non più giovanissimi) due perfetti gentlemen (lui è un misto tra un cowboy alla John Wayne e un dandy alla Paul Newman!). La loro casa è strepitosa e circondata da verdi prati con alpaca e pecorelle. In lontananza si vede l’oceano, da una parte, e un fiumiciattolo tra gli alberi dall’altra. Anche la nostra camera è calda e accogliente: un paradiso! 18) LA LUNGA E FREDDA ATTESA DEL TRAMONTO Non rimaniamo a lungo nel nostro nuovo alloggio, purtroppo. Dovevamo ancora mangiare, così ci siamo diretti verso una spiaggetta (la all day bay), non molto distante. Ovviamente non si poteva neanche parlare di pic nic sulla spiaggia: nonostante la bella giornata infatti tirava il solito vento gelido. Ma ci siamo sistemati su una piccola altura e abbiamo pranzato in macchina di fronte all’oceano: toast e camembert neozelandese per me e toast e salmone per Marco.

Ci siamo poi diretti a visitare Oamaru, la città della pietra bianca, ossia il limestone, la pietra calcarea di cui è fatta gran parte della città. Una simpatica signora dell’ufficio del turismo ci ha decantato lodi sperticate di questo paesino, che in realtà ci sembra piuttosto morto. Le costruzioni bianche can tanto di colonne doriche non fanno grande effetto su noi europei: tenendo anche conto del fatto che hanno meno di 100 anni d’età. Dopo aver visitato la chiesa cattolica (sempre sotto consiglio della gentile signora) decidiamo che è tempo di far di nuovo visita agli amici pinguini. Oamaru infatti ne vanta ben due colonie! Saliamo su un’altura prospiciente una piccola baia e da qui, all’interno di una casetta di legno, guardiamo in giù verso il mare al tramonto, nell’attesa di scorgere qualcuno di loro mentre se ne torna a casa. E’ un bell’aspettare e a dir la verità non ci spero molto. Invece, come dal nulla, ecco che uno spunta fuori dalla spuma del mare e pian pianino se ne va a casina. E’ davvero bello essere lassù a spiare, soprattutto perché ci troviamo al di fuori di una struttura organizzata. Ecco che, dopo un’altra lunga attesa, sbuca fuori un altro pinguino. Si ferma, forse deve riadeguarsi al suolo sabbioso. Oppure si domanda se ha azzeccato la spiaggia giusta. Poi, senza fretta, riconduce i suoi passi verso il nido. Da buoni milanesi frettolosi, decidiamo che abbiamo visto pinguini a sufficienza e ci rechiamo vicino al porto, dove dovremmo invece assistere allo spettacolo dei pinguini blu, la specie di pinguini più piccola al mondo: sono alti infatti solo fino a 35cm.

Ci dicono che inizieranno ad uscire dall’acqua verso il dust (l’imbrunire) e cioè, oggi, verso le 18.15. Veniamo sistemati su di un’impalcatura di legno semicircolare, al buio e ci viene richiesto di parlare a bassa vice. Poi però, una guida si mette al centro di questo palcoscenico naturale, spalle all’oceano e si mette a spiegare, al microfono, quello che avremmo visto da lì a poco!!! Decisamente questo rovina quanto poco restava di bucolico! La speaker continua a parlare e sembra la hostess di un aereo al momento del decollo. Intanto, sono le 18.30 passate e i pinguini non si fanno vedere, mentre un vento gelido ci spazza i capelli…Ma ecco che ad un certo punto vediamo due piccoli puntini bianchi arrancare sulla scogliera: sono loro! Si inerpicano lentamente e intanto vengono raggiunti da un gruppo ben più guarnito. Sono uno spettacolo questi nanetti blu che zampettano qua e là. Dalle casette disposte poco lontano esce qualche loro compagno ( i loro cuccioli probabilmente) e va loro incontro. Intanto un pinguino sembra non trovare più la strada. Viene verso la platea e poi esce dal teatro, seguendo i corridoi. Non sorprendono quindi i cartelli sulla strada che avvertono: “slow down, penguin crussing”. Intanto i gruppi di pinguini si susseguono arrivando dal mare. Sembra che si riuniscano in piazza chiacchierare per un po’ e poi…Ognuno a cà sua! 19) ANNIE CI VUOI AMMAZZARE Sotto consiglio dei nostri padroni di casa, ci rechiamo per la cena “dopo teatro” al pub irlandese di Annie Flanagans & Son & Son & Son. Siamo infreddoliti e Marco inizia ad accusare qualche vago malessere (stomaco? Febbre? Mal di gola? Tutto?) Non sarà questa cena a farlo stare meglio… Presa dalla fame ordino Garlic Bread, patatine fritte e una patata ripiena ai formaggi. Marco, invece, ordina un piatto dal nome “Fisherman Platter”. Già imbottiti da un’enorme cesta di patine fritte e burrosissimo garlic bread, sveniamo all’arrivo dei nostri piatti. A Marco viene servito un fritto misto per otto e a me un bel patatone annegato in sugo di pomodoro e crème fraiche. Pensiamo subito ad un attentato al nostro colesterolo. Ovviamente riusciamo a mangiare solo un terzo delle nostre porzioni e ci sentiamo già destinati all’obesità. Più in là che di qua, raggiungiamo la nostra casa tra i boschi, dopo circa mezz’ora di viaggio. Come d’abitudine, ormai, non possiamo non trattenerci una buona oretta a chiacchierare con Anne e John, bevendoci una calda tazza di tè. Poi ci buttiamo nel nostro agognatissimo lettone preriscaldato. 20) ALMOST THE END Il giorno dopo, John ci accompagna alla rituale visita del bestiame: i due timidi alpaca e tre pecorone vanitose che non sono affatto timide e infatti sono lì per bellezza. Mentre un enorme gregge di pecore appena tosate (da John) se ne stava in un recinto separato ed era ben restio a farsi avvicinare. A malincuore salutiamo anche questa farmstay, l’ultima di questo nostro viaggio. Davanti a noi ci sono solo altri tre giorni e li passeremo in 2 città. La prima di queste è Christchurch. La raggiungiamo dopo qualche oretta di viaggio e ci sistemiamo nel nostro B&B, molto british style. La nostra camera è ampia e spaziosa e sui toni di un rilassante giallo canarino.

[ Continuo a scrivere da Seul, durante una lunga attesa per il prossimo aereo che ci porterà a Roma] Abbiamo poco tempo prima dell’imbrunire e decidiamo di visitare la city così, andando un po’ a zonzo, cerchiamo di capire che sapore ha. Ci piace. Sarà il sole, i giardinetti con il fiume che scorre, la chiesa anglicana al centro della città che dà un’impronta così europea al tutto. E poi è vivace, come Milano, ma con molto meno traffico.

Verso le otto andiamo a cena da Annie’s, raffinato ristorantino all’interno dell’Università delle Belle Arti. Ci deliziano piatti innovativi e vino autoctono.

21) UNA PENISOLA LABIRINTICA Il giorno dopo ci proponiamo di percorrere pochi Km, così ci apprestiamo a visitare la penisola di Banks fino alla cittadina di Akaroa. Sarà stato per le indicazioni messe a casaccio o per la svariate stradine non battute davanti alle quali ci imbattevamo, ma ci mettiamo più di 4 ore! Il paesaggio era comunque meritevole. Colline dolci, quasi mediterranee e muccone sparse qua e là. Arrivati ad Akaroa, ci troviamo immersi in un’atmosfera tutta francese. Casette bianche e curate, scritte in francese, porticciolo, faro. Forse non ci sarà stata molta vita, ma Akaroa mi ha lasciato l’impressione di un posto chic e romantico.

Verso le 6 rientriamo a Christchurch con nel cuore la consapevolezza che quelli sarebbero stati gli ultimi chilometri nella wilderness.

L’indomani saremmo stati a Auckland e avremmo detto addio definitivamente alle fitte e impenetrabili foreste pluviali che non ci stancavamo mai di guardare, per non parlare degli sconfinati pascoli puntellati di pecorelle… Che malinconia! Per sconfiggere questa saudade prematura, la sera optiamo per un ristorante italiano, con la speranza che ci possa mettere a posto lo spirito, oltre che lo stomaco.

Ostriche, gnocchi e un bicchiere di vino bianco: l’addio perfetto alla cucina neozelandese! Il cameriere italiano ci parla della sua vita e dell’infinito dilemma dell’emigrato: tornare o non tornare in patria? A questo quesito non sapremo rispondere. Di certo si rivelò una persona onesta e spero – un giorno chissà – di potergli rendere il favore… Presa da chissà quale senso di libertà (acuito da stanchezza, vino, stomaco pieno) lascio la mia borsetta con portafoglio annesso nel ristorante! Ma c’è di peggio: me ne accorgo solo la mattina dopo… Quella fu l’unica volta in tutta la vacanza che non gustai appieno l’ottima colazione del nostro bed and breakfast. Alle 9 eravamo già di fronte al ristorante a fare la posta, con l’angoscia di un aereo in partenza circa due ore dopo e una carta di credito nelle mani di chissà chi! Per fortuna, il nostro cameriere si fa vivo poco dopo le dieci… Ci informa che, dopo aver trovato la mia borsa, ci ha cercato in vari alberghi e dopo – non sapendo più come fare – è andato alla polizia consegnando il tutto. Ci rechiamo così accompagnato da lui alla polizia dove una signora molto gentile mi riconsegna il mio portafoglio, al quale non mancava né una monetina, né lo scontrino ingiallito del panettiere di Corso XXII Marzo… Solo un cosa non c’era più: la foto di Benitino! Forse la gentile signora amava i gatti… Decisamente sollevati, salutiamo il nostro eroe e ci rimettiamo in marcia: prima tappa al noleggio auto, al quale riconsegnamo la fidata Toyota e poi all’aeroporto. Auckland ci aspetta…Di nuovo! 22) “NON SONO MICA UN TURISTA TONTO. IO NON STARO’ CERTO IN HOTEL A DORMIRE MENTRE TU TE NE VAI IN GIRO!” Questo è quanto asseriva Marco, credo fosse due o tre giorni prima della partenza. A dimostrazione del fatto che per quanto urlino e strepitino, gli uomini raramente mantengono la parola.

Certo, affidati alla (molto poco) agile guida di un taxista figiano, che ci fa fare il giro di Auckland prima di portarci a Ponsonby, la strada dall’aeroporto dura un po’ più del previsto… Ci sistemiamo in una cameretta un filino meno bella di quella della nostra prima notte in Nuova Zelanda e poi, dopo una doccia rinfrancante…Marco cade nel mondo dei sogno, risvegliandosi solo al mio rientro da un’oretta di passeggiata nei dintorni e dopo un’altra oretta di scrittura di questo diario. Poi cenetta in un ristorantino di pesce e infine… dormitina. L’ultima decente, prima dei due giorni di viaggio che ci attendono.

23) ADDIO AUCKLAND Sono contenta di aver avuto tutta una giornata a disposizione per visitare questa metropoli neozelandese: amata da chi ci vive, criticata dal resto del paese. Auckland è bella. Bella per il colpo d’occhio del suo skyline, con grattacieli multiformi e la sua avveniristica skytower. Il tutto circondato da colline ricoperte di casette e villette ben tenute, ognuna dotata del suo giardinetto. E poi c’è il porto, moderno, elegante, e punteggiato da localini chic dai nomi italiani (Milano, Portofino…). E poi, barche a vela gigantesche, l’orgoglio nella capitale della world cup. Marco e io abbiamo iniziato il nostro tour a piedi partendo da Ponsonby, costeggiando proprio il porto, intrufolandoci verso Queen’s street, passando per uno pseudo quartiere a luci rosse. Era tutto molto diverso da quella domenica di diciotto giorni prima. Le strade del centro pullulavano di gente dall’aria indaffarata, piuttosto di corsa. Insomma, si poteva respirare un’aria decisamente milanese (negozi chic compresi). Ma arrampicandoci su una collina, abbiamo attraversato l’Albert Park, dove l’atmosfera è tornata meno frenetica. C’erano alberi dalle radici immense e rami enormi. Poco più là, abbiamo raggiunto l’università, dove su un palco alcune ragazze indonesiane si esibivano in un balletto tradizionale, incitate da applausi e urla di centinaia di studenti. Un’atmosfera multietnica e stimolante. Una puntura di nostalgia per due ex studenti, lavoratori delusi, turisti curiosi… Poi ci siamo diretti al quartiere Parnell, sempre a piedi, sottovalutando le colline piuttosto ripide che attraversano la città. Abbiamo ripreso le forze in un ristorantino italiano, serviti da un cameriere cecolslovacco. La Parnell Street è – come descrittoci dalla guida – una via molto particolare, quasi londinese, piena di negozi di antiquariato, showroom di artisti, ristorantini per tutte le tasche. Ma noi volevamo andare allo Zoo… Con un bus, siamo tornati nella nostra zona e qui, ancora una volta, pensando di farcela a piedi, abbiamo sottovalutato distanze e colline, arrivando allo zoo sfiniti e soprattutto a tre quarti d’ora dalla chiusura. Abbiamo insistito per entrare, ma abbiamo dovuto accontentarci di una visita molto frettolosa. Tornati al Ponsonby Terrace, troviamo il nostro fidato taxista figiano già ad aspettarci. Marco – infatti – lo aveva preso in simpatia e gli aveva chiesto di tornare a prenderci per portarci all’aeroporto. Durante il tragitto, Hari ci racconta di essere anche giudice di pace e di avere due figlie infermiere. Poi ci ha invitato a tornare ad Auckland come suoi ospiti… Stiamo ancora prendendo in considerazione l’ipotesi…

In aeroporto, la gradita sorpresa di ritrovare Giovanni e Federica, i nostri amici dal budget illimitato incontrati a Te Anau. Lei era in preda ad una crisi isterica per un piccolo problema di “bagaglio”. Ma credo che i 10 giorni alle isole Samoa che l’aspettavano l’avrebbero aiutata a dimenticare.

Con una lacrimuccia sul cuore, invece, noi iniziavamo il lungo e turbolento viaggio che ci avrebbe riportato a Milano (con sosta imprevista a Roma per una notte)… Sono già passate due settimane da allora, ma ogni tanto mi capita di ripensare a una cena, a una montagna, alla veduta delle colline piene di pecore, al cielo stellato ogni notte…Si parla sempre di Mal d’Africa. Ma anche quando torni da quest’isola dall’altra parte del mondo, così semplicemente e incredibilmente struggente, ti rendi conto che non la potrai mai dimenticare. E sono sicura che farò di tutto per tornarci ancora una volta.

Korean Air a parte.



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