Diario dolceamaro di sei mesi tra gli Zapatisti

-Diario dolceamaro di sei mesi nelle comunità Zapatiste del Chiapas- Questo non è il diario di una vacanza, né tantomeno di un viaggio. Non leggerete descrizioni di bianche spiagge caraibiche dello Yucatan, neppure di hotel a cinque stelle della città luna-park di Cancùn. Non sono menzionati indirizzi economici e neanche suggerimenti...
Scritto da: Cat M.
diario dolceamaro di sei mesi tra gli zapatisti
Partenza il: 21/10/2003
Ritorno il: 12/05/2003
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
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-Diario dolceamaro di sei mesi nelle comunità Zapatiste del Chiapas- Questo non è il diario di una vacanza, né tantomeno di un viaggio. Non leggerete descrizioni di bianche spiagge caraibiche dello Yucatan, neppure di hotel a cinque stelle della città luna-park di Cancùn. Non sono menzionati indirizzi economici e neanche suggerimenti per località imperdibili. Leggerete forse storie di piccoli uomini che vivono lontano da tutto, soprattutto dai clamori turistici di cui il Messico vive, piccoli uomini che hanno fatto della lotta e della terra la loro vita.

Ho passato sei mesi con loro, ascoltato le loro storie, visto i loro volti.

Questo è il mio diario di questi sei mesi.

21.10.2003 Da qualche parte sopra le verdi terre d’Irlanda Viaggio iniziato nella completa disorganizzazione, ma anziché incazzarmi, come al solito, mi sono solo divertita in questa prima fase del viaggio che sembrava quasi una caccia al tesoro…Biglietti dell’aereo all’aeroporto, prenotazione dell’albergo inesistente ect… Sveglia ore 4:45 con un sonoro “Buongiorno!”da parte di Alex, portiere dell’albergo, una caffè veloce alla reception, e via per le strade deserte della città verso Schipol. Un breve volo e mi ritrovo nel labirinto di Charles de Gaulle, mancano solo 20 mn al mio imbarco. Arrivo sudatissima, trascinando le borse e con il cellulare che squilla, ultime benedizioni da parte di parenti e amici prima del grande “salto”. Salgo sul volo, pieno, nessun errore di overbooking ergo nessun fortuito e inaspettato cambio dalla seconda alla prima classe-le fortune capitano sempre agli altri-mi accomodo alla bell’e meglio nel mio stretto metro quadro..Ma come farò a stare 13 ore qui seduta??? Primo approccio con lo spagnolo, benino direi, per aver rimosso quasi tutto negli ultimi mesi. Accanto a me una signora messicana di mezza età. Ancora prima che l’aereo si muova dal parcheggio, ha già ordinato una tequila con ghiaccio, la prima di una lunga serie. A pochi minuti dal decollo, segno della croce e preghierina alla Madonna di Guadalupe…Cominciamo bene.

29.10.2003 San Cristòbal de las Casas E’ il Messico come lo avevo immaginato.

Strano essere qui dall’altra parte del mondo.

Per ora niente brividi, vita regolare, prime relazioni sociali con i miei colleghi di lavoro, dinamiche lavorative abbastanza chiare, sforzo per trovare un posto per me e inserirmi nella “macchina” quanto prima e con meno attrito possibile. San Cristòbal non è male, ma io sono già stufa, voglio vedere i posti dove lavorerò, le comunità, toccare con mano cosa c’è laggiù, stare per qualche mese nel nulla, tornare qui e apprezzare una bella doccia calda ed essere più tollerante nei confronti dei fricchettoni che girovagano per qui con aria frastornata. 09.11.2003 Francisco Gòmez-La Garrucha Di ritorno dalle piccole tre comunità paradiso di questa settimana. Fare la doccia, o meglio il bagno, nel ruscello non mi aveva mai esaltato molto ma devo dire che, superato lo shock dell’acqua gelida, è davvero surreale stare lì in piedi (il fondo è troppo basso), mezze vestite, (le donne si fanno il bagno vestite e hanno luoghi o orari riservati per fare il bagno), e insaponandomi i capelli con lo shampoo alla mela (che mi ricorda il vecchio shampoo Campus). La defecatio all’aperto, per quanto abbia un che di naturalistico e un fascino primitivo, non mi convincerà mai, non solo per la mia formazione igienista ma anche per la fobia (assurda) di animali da bestiari medievali che possono sbucare dai cespugli e attaccare il mio povero deretano. Stare qui alla Garrucha sembra in confronto un hotel a 5 stelle. In realtà non lo è ma la presenza confortante di una specie di doccia e di un cesso a tazza strictu sensu rallegrerebbe il cuore a chiunque. Adesso sono nella clinica, con i miei colleghi, Carla, l’infermiera, Petul, il traduttore che dall’altra parte della stanza allieta la serata con la sua chitarra. Petul è indispensabile perché nelle comunità in pochi parlano spagnolo, si parlano solo lingue indigene. Lui è madrelingua tzeltal, una lingua davvero singolare-sembra giapponese-che sta tentando di insegnarmi. Per ora ho imparato poche parole: chamel (malattia) che viene ripetuta ossessivamente, mut (pollo o uccello), tamut (uova)…Ma tutti, parlando in tzeltal infilano sempre tre-quattro parole in spagnolo e questo mi permette di capire il senso del discorso. Mi piace andare per comunità, vedere la vita semplice fatta di poco, per non dire di nulla. Un fuoco, una macina per il maiz per fare le tortillas, una capanna di paglia ormai annerita dal fumo del fogòn, il fuoco per cucinare, come cibo molto di rado e solo per i grandi ospiti un raro pollo che viene servito a pezzi diversi nei vari (due) pasti della giornata (come la comunità ha fatto per noi a Nuevo Progreso).

E poi un esercito di bambini, malati di enormi tossi e raffreddori cronici, che guardano letteralmente a bocca aperta noi, gli alieni venuti da lontano, che portano vaccini che in poche ore causeranno febbre a 40 a questi poveretti denutriti e immunodepressi. E poi le bambine, vestite da piccole principesse scalze, nei loro abitini coloratissimi, con vezzose gale e pizzi e con gioiellini di perline, né più né meno come quelle che facevo io da piccola con l’aiuto di mia cugina Francesca, e con lo stuolo di fratellini e sorelline intorno o dormienti nelle fasce colorate che si portano al collo. E le facce delle donnebambine –dalla scheda di vaccinazione non più di 14/15 anni- che sanno già tutto e che ridono sfrontatamente ma coprendosi la bocca con l’orlo del grembiule, quando pronuncio male uno dei loro nomi, nomi antichi e importanti, che da noi si trovano ormai solo nei romanzi dell’Ottocento, come Albina, Carina, Caralampia, Araceli, Transita.

E la gente che vede in noi il miracolo medico, gente che ha visto un dottore per la ultima volta 10 anni fa, gente che assale la nostra camionetta o la ferma per la strada sperando di una cura, uno sciroppo, una pasticca per scacciare il male di vivere, la tristezza, l’isolamento, l’emarginazione…E allora cerchiamo di visitare, di diagnosticare, con metodi medievali e quasi senza scienza medica, perché nessuno di noi è un medico, solo sperando in qualche supposizione o intuizione.

10.11.2003 Francisco Gòmez-La Garrucha Primo caso di malaria-evviva!, finalmente le nozioni del corso di medicina tropicale si materializzano sottoforma di una ragazzina febbricitante dagli occhi spauriti, in braccio alla sua mamma, seguita da quattro fratellini col moccio al naso. Diagnosi empirica senza analisi del sangue -anemia, febbre a 40 che non se ne va col paracetamolo, brividi di freddo- e io me la stringo al collo, questa ragazzina, in una stanza della clinica che veniva pitturata da un tipo che non ci considerava nemmeno, su un letto pieno di calcinacci ed intonaco. Per il momento 2 pasticche di clorochina-la ragazzina le divora anche se hanno una sapore disgustoso-le rimanenti impacchettate alla bell’e meglio in un fazzoletto, semplici spiegazioni alla madre, del tipo altre due alle cinque stasera, poi la mamma si ricarica la piccola con 40 di febbre in collo, avvolta in uno scialle spelacchiato, e via, verso casa, coi piedi scalzi nel fango, tra i maiali.

11.11.2003 Francisco Gòmez-La Garrucha Guardo i partecipanti del workshop da noi organizzato, omoni grandi e grossi che si rigirano tra le dita nodose i moderni faldoni di plastica che gli abbiamo fornito: che se ne faranno? I piedi sporchi, gli stivaloni di plastica e una vita passata tra queste due valli a tagliare alberi con il machete e a prendersi cura della milpa, intorno a cui ruota la loro esistenza.

17.11.2003 San Cristòbal de las Casas Mi mancano le comunità e il cielo stellato, le piccole luci delle lampade da tasca la notte, gli spiriti che abitano gli alberi -guai illuminarli di notte-i cavalli e il cantare del gallo nella bruma del mattino, mi manca perfino il fango che salta fuori nelle sue mille forme dal mio zaino. La vita qui in città mi sembra finta, all’oscuro di tutto quello che succede, o meglio non succede, a qualche kilometro da qui.

Ascoltare Sigur Ròs alla sola luce della lampada è uno dei pochi rimedi che conosco.

21.11.2003 San Cristòbal de las Casas Girandola di emozioni-crisi di mezza missione a pochi giorni dal mio arrivo? Sento l’incomunicabilità con chi mi sta vicino ma che adesso è lontano, l’impossibilità a capire che io ora sono dall’altra parte del mondo e in un altro mondo e avrei tante cose da dividere e da raccontare. Mi sento come prigioniera qui in città, in mezzo a masse di turisti confusi, assente ingiustificata da dove dovrei stare. Amo e odio le comunità, odio il fetore delle latrine, i visi a tratti ottusi della gente, il grugnire dei maiali, il fango ovunque…E le amo perché sono eterne e senza tempo.

Ma che penseranno Loro, degli estranei come noi, come vivono la nostra intrusione?…E poi che ci stiamo a fare noi, tra il fango e le cacche di maiale? 25.11.2003 San Cristòbal de las Casas Tanti auguri.

Oggi è il tuo compleanno numero 26.

29.11.2003 San Cristòbal de las Casas Una puntata alla miglior discoteca di San Cristòbal de las Casas fa acquisire punti alla mia scarsa vita sociale. Il biglietto di entrata costa l’astronomica cifra di 10 pesos (2000£) e comprende musica dal vivo con un gruppo scalcinato e dal capello untissimo che suona le grandi hits del momento da Celia Cruz con “La vida es un Carneval” a Marco Antonio Solis “Màs que tu amigo”, ambiente scuro e camerieri in livrea che accorrono ad accenderti la sigaretta con accendino sponsorizzato del locale. Non mi stupisce questa incitazione al fumo, in Messico le sigarette si comprano in farmacia… L’atmosfera è rilassata ma guai a farsi beccare senza cavaliere perché solerti messicani sono pronti a trascinarti in frenetici balli guancia a guancia che io tendenzialmente preferirei evitare. La presenza poi di ballerine provette stride con la mia goffaggine e la completa sordità al ritmo. Nota di colore, Carla, la mia collega, si è presentata qui con due ex compagne di scuola, tacco vertiginoso e trucco da prostitute moldave. Oggi, al mercato. Teste di porco, probabilmente con la tenia e altri mille vermi, visto quello che mangiano i maiali qui cioè letteralmente merda, zampucce di toro e ogni singola parte, a volte non identificabile, di animale morto, venditori di miracolose medicine tradizionali, donne indigene scalze e bancarelle con milioni di cd finti che farebbero inorridire i grandi dirigenti Emi e Sony. Le copertine sono stampate al computer, spesso fantasiose, più spesso volgari con donne nude e tettone. I cd che compro io invece sono seriosi (una piccola selezione di musicisti mariachi) e -miracolo- funzionano perfettamente.

10.12.2003 Palenque Proprio qui, nel cuore del Messico da depliant di agenzia di viaggi, mi rendo sempre più conto che ho smesso di essere viaggiatrice e turista davvero non lo sono mai stata. Credo non potrò più tornare a viaggiare come facevo un tempo, per il gusto di partire e vedere, adesso che sono entrata così a fondo in un mondo fatto di altre cose, non di rovine maya, ma di visi di bambini sorridenti e di piedi nel fango, di visi rugosi e tristi di chi lotta per la tierra y la libertad.

Mi chiedo poi a che categoria io appartenga. Qui ormai vivo, lavoro, faccio le cose di tutti i giorni ma non è il mio paese. Però so di averlo capito molto di più dei turisti in giro per le spiagge bianche del Quintana Roo, forse perché ho visto piccole ma emozionanti cose nascoste nelle piaghe di due valli in mezzo al nulla, forse perché ho goduto del cielo de La Libertad di notte, un cielo di cristallo che si riflette sulla terra nuda, forse perché ho fatto il bagno nelle acque limpide di Guadalupe Las Flores, dopo aver camminato su un sentiero meraviglioso a picco sulla valle senza sentire la fatica dell’avanzare nel fango, il peso dello zaino e del thermos dei vaccini, forse perché ho visto tanti piccoli uomini nelle loro case col pavimento di terra, senza mobili se non un misero tavolo, i cui pochi averi stanno comodamente tutti in una cesta, che vivono lontani da questo mondo falso, vivono di piccole cose e solcano ogni giorno le correnti del rio Jatatè con il loro caiucco.

Queste capanne nei dintorni delle rovine sono ovviamente un richiamo per le torme di turisti alternativi che sciamano in Messico. Corrente elettrica, corsi di meditazione e spettacolo di mangiatori di fuoco sono ovviamente un must per qualunque amante della vacanza a contatto con la natura…Che qui però mi sembra falsa, addomesticata dall’uomo, costruita e che non ha niente a che vedere con la giungla a cui sono abituata, con i colibrì, con i fiori tropicali enormi che si mangiano a colazione, con lo spinosissimo chopal che all’inizio sa di polistirolo ma che con le uova è buonissimo. Qui di fronte scorre un fiumiciattolo, il vicino di capanna dipinge seminudo acquarelli a sfondo induista e un ragno enorme mi guarda fisso, ricordandomi gli scorpioni di Santa Martha che amano nascondersi tra gli sciroppi della casa di salute e al calduccio nelle mie scarpe. Là fuori rumore di tamburi, luce elettrica giallastra a macchiare le tenebre. Ricordo l’ultima notte che ho passato in comunità a Dolores Hidalgo, la casa de salud che sapeva ancora di pittura fresca, il silenzio delle case avvolte nella notte, qualche sparuto animale, la luce opaca del mattino, la nebbiolina fresca al mattino e io che camminavo di notte senza lampada nel buio, seguendo i sentieri tracciati dai piedi di mille e più uomini che di lì passano ogni giorno. Odore di piante della giungla, pungente.

Odore di sterco dei cavalli, acre. 14.12.2003 Dolores Hidalgo Ancora qui a Dolores Hidalgo, un tramonto di nuvole soffici color marshmellow. Ancora visi rudi dei promotori che ogni volta diventano per me più concreti e assumono contorni inaspettati, a volte comici, a volte profonda farmi quasi piangere. E mi rendo conto di come mi piace fare questo lavoro, di come abbia bisogno della gente e delle sue idee, pensieri, emozioni.

Ho visitato il cimitero di Dolores, 10 tombe quasi tutte risalgono agli scontri del ’94, i cavalli vi pascolano incuranti all’ombra dei cedri, l’albero di qui, e le formiche tagliafoglie si danno un gran daffare.

Prima di andare a dormire, storie di spiriti come al solito, che si divertirebbero di notte a camminare per le stanze della clinica, ex casa del patron di qui, tagliando i capelli di qualche malcapitato o nascondendo le scarpe. Credo che mi addormenterò con questo nella testa, oltre al film che i promotori stanno guardano nella stanza accanto grazie a un tv degli anni ‘70, un video lettore a forma di macchina Ferrari e a una batteria di un camion. Trattasi di film di Bruce Lee con sottotitoli in spagnolo –n.B. I promotori non sanno leggere-. Poteva andare peggio, l’altro titolo disponibile era “I 10 Comandamenti”.

19.12.2003 San Arturo Las Flores Dopo quasi 4 ore e mezza di cammino nella giungla, scavalcando una montagna, siamo arrivati in questo singolare paradiso nel mezzo di una valle verde e nebbiosa. Il cammino era davvero difficile, molto irto, pietre e fango che non lasciano spazio a nessun appiglio sicuro, e con gli zaini (il mio riempito di scatolette di tonno) e il materiale per la vaccinazione è stata proprio dura. Ci guidava Don Ramiro, timido e silenzioso omino, il promotore di questa comunità dimenticata da Dio…O meglio no, perché la chiesa cattolica di San Arturo è gigante, mentre il tempio dei Testimoni di Geova lo è ancora di più, unico edificio in muratura con giardino, cancello e acqua corrente, in un villaggio di capanne di legno senza nessuno dei suddetti comfort.

Oggi abbiamo vaccinato stuoli di mamme e bambini con i nomi altisonanti e le cinturine a forma di farfalla che ho già visto a Nuevo Progreso. Tutti i bambini diventano pazzi per i miei molti orecchini e piercing e la metà di loro sono qui intorno a me mentre scrivo, a farmi il verso e a ridacchiare e io scrivo i loro nomi sulle mani e faccio disegni sulle loro braccia: Filiberto ha appena ricevuto un tirannosauro sul suo avambraccio e Lupita una casetta (in muratura…) con un albero di mele a lato. Adesso saltano qui intorno come grilli, frugano nel mio zaino tirando fuori le mie mutande e si fanno i giri con le mie ciabatte infradito, visto che i bambini non portano scarpe. La comunità ci ha dato da mangiare, frittatina di uovo e fagioli deliziosi, per noi unico pasto dell’intera giornata, non in quantità da sfamare e Don Enrique (che con Enrique Iglesias in comune ha solo il nome) ha ammesso che sono stati messi insieme con grande sforzo da tutta la comunità. Da bere cafè Dorado che non è caffè ma una miscela acquosa che si da anche ai bambini.

La vaccinazione è andata avanti tutta la mattina a suon di xilofono (chiamato qui marimba) della chiesa e Radio Insurgentes, la radio zapatista che trasmette da qui vicino, a Las Margaritas. La ultima hit di Radio Insurgentes è ovviamente l’inno zapastista, sparato a tutto volume ogni 5 mn, gran bell’inno e pieno di belle parole, ma qua a San Arturo si vede proprio bene come “el esfuerzo de los zapatistas” termina davanti alla massa di fango che affoga ogni comunità, ai piedi scalzi, all’esercito, alla tosse continua, alle misere arance e alle canne da zucchero succhiate sotto la pioggia.

Qua ci hanno davvero dato tutto, credo stiano anche mettendo una luce a pannelli solari in chiesa in nostro onore, la comunità infatti non è toccata dal miracolo della luce.

Stanotte fa freddo, spifferi gelidi penetrano nelle assi della chiesa. Mi schiaccio nel mio sacco a pelo per non sentire il freddo. 11.01.2004 Francisco Gòmez-La Garrucha Anno nuovo, comunità vecchia.

La Garrucha non cambia mai. Solo i maiali ingrassano a vista d’occhio, grazie forse alle latrine dove i maiali hanno un entrata apposita per nutrirsi degli escremento dei locali? Per il resto è il solito casino.

Osservatori che si definiscono umanitari, nella maggior parte dei casi giovani idealisti alla ricerca di avventura che si fanno mantenere dalla comunità, fango e il poco panorama della casa di salute occultato da una costruzione in cemento armato che dovrà servire all’improbabile ospitalizzazione di pazienti. La case sono ricoperte di immagini del ’94, è da poco passato infatti il decimo anniversario e qua di fronte a me un tipo della Carolina del Nord racconta ai miei compagni di lavoro come sia venuto da così lontano per appoggiare il movimento zapatista. Molti esterni e stranieri lo appoggiano, al suo interno prevalgono spesso un po’ di demotivazione e mancanza di interesse. Le poche cose che mi hanno raccontato del ’94 vengono per ora da fuori delle comunità: lo stadio di San Cristòbal pieno di cadaveri di militari e civili con vestiti indigeni, la base di Rancho Nuevo- che per me ora solo significa passeggiate a cavallo ed escursione alle grotte- all’epoca mobilitata con i soldati in assetto da guerra, la strada interrotta, sangue ovunque e gli indigeni che si ritirano nella selva dove sono le amene comunità dai nomi fantasiosi i dove io lavoro.

I miei sentimenti contrastanti nei confronti di tutto ciò continuano. A volte sento di odiare tutto e tutti, non sopporto di stare qui con i piedi nel fango, veder donne e bambini scalzi mi fa solo rabbia, odio l’aria freak di San Cristòbal, l’aridità dei discorsi dei miei colleghi di lavoro mi deprime, il cibo delle comunità mi da la nausea e le ore passate in fuoristrada per le strade sterrate mi innervosiscono. Ma poi, repentinamente, tutto cambia.

Amo le comunità, il contatto con la gente e il parlare con loro di sciocchezze. Loro mi chiedono da dove vengo e io rispondo “Italia”, tanto lo so che non hanno idea di dove sia e mi chiedono a quante ore di macchina si trova…Ma va bene così.

Il cibo non mi è mai sembrato così gustoso e i discorsi inutili con i miei colleghi mi sembrano puri e semplici. Come l’altro ieri quando ho passato 15 ore di macchina con Carlos a parlare di cani, macchine e poco altro, ma in una maniera semplice ed elementare come se tutti i sommi e importanti pensieri che attraversassero la mia mente non valessero più nulla. Forse ho davvero passato gli ultimi anni ad elucubrare cose complicate e perdermi in studi inutili che davvero si infrangono nella semplicità della vita di qui. A volte e forse troppo spesso mi ritrovo a pensare al dopo e viaggio con la mente verso altre missioni: Angola, forse Etiopia. Ma devo prima finire qui e ho ancora tanto tempo visto che il mio contratto è stato rinnovato fino alla fine di aprile. E mancano ancora tre mesi, un tempo infinito.

Al tempo stesso non mi riconosco più, mi guardo in uno specchio le poche volte che ci passo davanti e vedo una completa estranea. Forse sto invecchiando, forse davvero tra dieci anni apro gli occhi e mi ritrovo sola in mezzo al mondo, come minaccia mia madre.

Eppure in fondo in fondo ho sognato tanto questi momenti, ho sognato di indossare questa maglietta di questa precisa ong e difendo sempre la scelta di stare qui con estranei, dall’altra parte del mondo, sotto un cielo enorme pieno di stelle, con la malaria che imperversa e il fango nei calzini.

12.02.2004 Dolores Hidalgo Trovare osservatori umanitari come questi due ragazzi svedesi qui mi fa sempre riflettere un sacco. Come è possibile che qualcuno da così lontano decida di venire qui e passare il tempo in comunità, convinto di rendere un servigio utile alla popolazione per il solo fatto di stare quando non ha neppure idea di che cosa sia un lavoro davvero umanitario, di cosa voglia dire avere a che fare ogni giorno con i bisogni elementari della gente, come è frustrante a volte non poter fare nulla, come è terribile diagnosticare malattie che fuori di qui potrebbero essere curate normalmente, come è ancora più frustrante diagnosticare malattie che non hanno cura, né qui né altrove, con la differenza che qui l’ospedale non esiste. Come è assurdo toccare con mano l’emarginazione e la solitudine di queste popolazioni, come è sconcertante constatare la curiosità dei giovani, la voglia di cambiare questo stile di vita così rigoroso, niente alcol, niente proprietà privata, niente lussi. Cosa ne sanno di tutto questo gli osservatori umanitari il cui lavoro, volontario d’accordo, consiste nel farsi mantenere dalla comunità, scroccare caffè in giro e appuntarsi le targhe delle macchine che passano di qui?– quasi nessuna per la verità. Qua non c’è nulla da osservare, perché non succede nulla L’esercito e lo stato messicano si sono dimenticati da tempo di Dolores Hidalgo, si sono dimenticati di quando bombardavano Don Hector e gli altri nella collina qui di fronte, di quando le truppe governative entrarono nel mercato di Ocosingo, legarono mani e piedi alla gente che trovarono e la giustiziarono, togliendoli poi le scarpe. Oggi sono andata a fare la spesa in quello stesso mercato.

Manghi verdi e bianchi venduti con il chile, arance, mandarini, i miei adorati pompelmi, e l’odiato cheyote spinoso.

Ieri, 10 anni fa, il teatro di una strage. Dolores Hidalgo è bellissima.

La sua casa de salud è in cima a una collina, con bouganville rosse meravigliose, cedri e qua dietro c’è il tronco di un albero ormai secco dove sedersi la sera. La stanzetta dove cuciniamo ha le pareti di maglia metallica, si vede la gente passare che qui sempre si ferma a salutare e a chiedere que tal. La notte con la mia consueta tazza di caffè in mano, forte e senza zucchero, mi siedo sul tronco e guardo la valle qui intorno, le piccole luci fioche nel nero della notte di qui.

Altre volte salgo sul tetto della casa de salud e mi sdraio sulla lamiera ancora calda. Guardo le stelle, ipnotiche, accecanti, e i satelliti che passano sempre alle 20 in punto, lasciando dietro una scia luminosa che si dissolve nell’infinito. Altre notti, come questa, scrivo, alla luce della candela e, a volte, se sono fortunata ottengo un posticino alla luce dell’unica lampada di qui che funziona a batteria. Poi mi corico per terra nel mio sacco a pelo e nella notte il mio udito diventa finissimo. Sento gli scarafaggi che fanno il loro consueto giro di ricognizione nella mia stanzetta con il loro incedere veloce e confuso, sento i topi che si aggirano tra le casse vuote di medicinali, sento qualcuno che passa qui vicino e i cani abbaiare arrabbiati, sento il nitrire del cavallo, il canto del gallo –forse il primo canto quindi sono le una di notte, e il verso di un uccello di cui non mi ricordo mai il nome in tzeltal. Un uccello di cui qui in tanti hanno paura, ama la luce diretta e si scaglia sempre addosso a chi porta una lampada. Penso sempre a queste valli e al tempo che sto spendendo qui. Penso anche a quello che ho lasciato, al mio rientro a casa, e ai giorni che si dilatano. Mi mancano molto alcuni libri di poesia che ho lasciato a casa, una cosa davvero materiale ma che mi fa stare bene. Ho riletto da poco le frasi che ho messo all’inizio di questo quaderno, dei versi di Rainer Maria Rilke: “[…]For the sake of a single verse, one must see many cities, men and things, one must know the animals, one must feel how the birds fly and know the gesture with which flowers open in the morning.” E’ vero, per il bene di ogni singolo verso bisogna sapere, vedere e ascoltare tanto. A volte mi sembra di aver visto tanto ma a volte mi sembra che tanto si sia perso e io ho bisogno di conoscere e vedere ancora.

13.01.2004 Dolores Hidalgo L’emozione di montare a cavallo è davvero forte: sentire il calore della bestia sotto di te, sentirla pulsare… Oggi il mio intero team di donne ha infatti dato spettacolo qui a Dolores montando per la gioia dell’intero pueblo, Brandi, nobile stallona senza pedigree e con un dolce musino d’asino, sempre seguita dalla sua cavallina Estrella. Momento di alto intrattenimento, annoverato tra gli annali della comunità e ritenuto importante alla stregua della venuta di Cortez. Le tre giovani donne, tra cui una bionda (la mia capa Bev) hanno montato a pelo e udite udite in pantaloni per complessivi minuti 20 alternandosi alla guida della giovenca Notevole la prestazione della Catalina (come ormai mi chiamano qui) che nonostante fosse la terza volta che montava (meglio dire la seconda, tolto il cammello, forse anche la prima se non mi si conta l’asino) è riuscita a spingere la giovenca ad un accennato trotto che gli ha spezzato la schiena e le ha regalato anche una notevole collezione di zecche che adesso sta cercando di togliersi con le pinzette, visto che si sono infilate ovunque. Premio per l’originalità va alla zecca che si è messa a mo’ di piercing al mio ombelico…Quasi mi dispiaceva toglierla. 14.01.2004 Dolores Hidalgo Aggiornamento sulla situazione zecche: quasi tutte eliminate. Forse la concausa era stata il cane Oscar che mendica sempre davanti alla cucina. Lui di zecche ne ha una coroncina sulla testa e magari l’altra sera quando gli ho allungato una fetta di pane da toast Bimbo, ho favorito il contagio…Grazie Oscar, grazie anche per le pulci che hai lasciato proprio la notte scorsa nel mio sacco a pelo dove ti sei accucciato in cerca di calore e coccole, tu cane della comunità a cui ogni calore o coccola ti è negato perché devi lavorare, mordendo le zampe alle mucche e rischiando una bella zoccolata dai cavalli che devi guidare. Le pulci hanno banchettato con la mia carnina tenera e oggi ho dovuto immergere il mio sacco a pelo nelle acque purificatrici del torrente e esporlo al calore benefico del sole. E’ ancora umidiccio ma spero che gli odiosi parassiti siano morti affogati. 15.01.2004 Dolores Hidalgo “Que teribilmente absurdo es estar vivo, sin el alma de tu cuerpo, sin tu latido” Musica dolce di Petul e della sua chitarra.

Il cielo mi ricorda una frase di Confucio che ho letto da qualche parte e riscritto in un quaderno che giace a casa, nella mia stanza confusionaria. “Le stelle non sono altro che buchi nel cielo da dai quali filtra la luce dell’infinito”.

I promotori di salute delle comunità, riuniti a Dolores per il loro mensile corso di aggiornamento con noi, girano qui intorno, incuriositi. E’ interessante vedere come si perdano letteralmente in un bicchier d’acqua: quando oggi abbiamo consegnato loro delle copertine di plastica per mettere dentro i loro manuali di medicina sono quasi impazziti per trovare il verso giusto…E invece sono abilissimi nel fare qualunque cosa con le mani, costruire case, maneggiare il machete. Il workshop di oggi non è stato un gran successo, mi sono molto sentita una giovane esploratrice bianca capitata per caso in una sperduta tribù dell’Africa Nera interessata all’aspetto social-antropologico della vita in comunità. Le domande che ho dovuto fare per adempire al mio ruolo di antropologa qui erano assai banali come banali erano le risposte che io mi aspettavo e cioè si sta male perché non ci sono i soldi, e siamo in lotta e in rebeldia, perché volevamo essere liberi e avere la terra, anche se questo ci ha tolto la possibilità di avere accesso alla sanità. Chiaro. Logico. A volte ho nostalgia di un altro mondo, un altro contesto, un’altra lingua. Mi manca il parlare arabo, lo sforzo di parlare una lingua difficile, di vivere in una terra che sento mia, calda e polverosa, aggressiva e piena. Mi manca la polvere del deserto, il caldo secco, le strade di sabbia e ghiaia, il colore dei vestiti.

??.01.2004 Tulum Perdere il conto dei giorni non è mai positivo ma almeno in vacanza me lo posso permettere. Zelli è venuta a trovarmi e stiamo ripercorrendo insieme i bei tempi del nostro Master in Germania insieme, grandi chiacchiere e tanti caffè. Il viaggio sino a qui è stata abbastanza un’avventura, una strada pazzesca e un hamburger mangiato a San Cristòbal che ha manifestato la sua presenza sino a Palenque, ovvero i 200 km più terribili di tutto il Chiapas. I film sull’autobus erano atroci e per quanto tentassi di concentrarmi non riuscivo a trovare un senso nella sequenza di immagini. Alle spalle una notte scomodissima passata su un’amaca in cui non riuscivo a trovare nessuna posizione adatta a conciliare il sonno e il gelo che entrava da tutte le parti. La giornata di oggi è passata senza scossoni, vento forte, il cielo azzurrissimo, il mare mosso che mi ricorda il mare dalle mie parti quando tira vento forte di maestrale. Le rovine, quelle sì mi sono abbastanza piaciute anche se continuo a sentire la civiltà maya molto estranea, ma c’era troppa gente, troppa confusione, troppo. Qua a Tulum la situazione per me è al limite del sopportabile. Moltissimi gli italiani che cerco sempre di evitare, tutti per lo meno con sei tatuaggi diversi da sfoggiare sulla spiaggia, e caciaroni e urloni come sempre…Forse sono davvero diventata antisociale, intollerante e ancora più cinica. ??.01.2004 Playa del Carmen Playa del Carmen è uno strano incrocio tra un supermercato e Disenyworld, con tutti i simboli del mondo occidentale in bella esposizione: centri commerciali giganti che vendono ogni genere di mercanzia che rientri nella categoria turistico-kitch, mc donalds a ogni angolo di strada, venditori furbacchioni che ti tirano per le braccia per farti comprare magliette della Nike finte, e milioni di turisti, gonfi e rossastri, tutti americani, che si aggirano in quello che per loro è forse solo un piccolo paradiso a buon mercato dove possono soddisfare i loro istinti consumistici e la voglia inarrestabile di comprare cose inutili. Playa del Carmen è irreale, vuota e piena di cianfrusaglie. Non potrei mai permettermi di passare una notte qui e neanche ho voglia. Non voglia passare neanche un minuto più del necessario qui. Pazienza per le rovine di Chichen Itzà pero difficilmente riesco a dare un senso alle rovine maya. Forse mi sono concentrata troppo negli studi arabi negli anni passati e adesso faccio fatica a comprendere qualche cos’altro, adesso solo una bella moschea o un minareto sono i monumenti che posso leggere e interpretare. Di questo paese ho visto poco, o forse nulla, non ho girato molto in Messico, ma mi sento di averlo visto da dentro, dalle sue interiora. Non mi sono fermata alla sua apparenza di supermercato, ho scoperto storie di uomini abbandonati a se stessi che probabilmente ignorano che dall’altra parte del paese (a Tulum) si pagano 100 pesos a notte per dormire in una capanna di legno con le foglie di palma come la loro, un vero brivido da Robinson Crosue… 07.02.2004 San Arturo Las Flores San Arturo è davvero una comunità singolare.

Primo, non ci sono i maiali, segno distintivo di ogni comunità zapatista, ma ci sono docili vitellini affunati a cespugli di ibiscus.

Secondo, è divisa a metà., metà comunità zapatista e l’altra metà priista ovvero filogovernativa, stessa condizione di abbandono e isolamento. Terzo, a San Arturo dove bisogna arrivare camminando (circa 4 ore e mezza da dove si lascia la macchina, sempre meno delle 7 ore da Santa Martha a La Ibarra) tra poco arriveranno le macchine e credo sarà una rivoluzione pari alla scoperta del fuoco. E poi, le case sono enormi anche se rispettano la bio-architettura zapatista. Legno, un’unica grande stanza, pavimento di terra, quasi zero mobili, finestre che sono buchi nella parete. Nella cucina con vista di doña Florinda ci vengono servite grandi prelibatezze del luogo, arance, ghinei morbidissimi, tortillas calde e caffè tiepidino appena tolto dal fuoco. Ma ciò che fa di San Arturo un posto speciale è la gente. Qua anche le donne parlano un po’ di spagnolo e non solo tojolabal e vanno a cavallo con i loro costumi tradizionali.

Ci sono tanti anziani: la signora Antonia non sa quanti anni ha (l’anagrafe qua non esiste e a volte anche le mamme si dimenticano l’età dei propri bambini), ma di certo più di cento, non esce mai dal giaciglio nella casa della figlia (apparentemente ottantenne) e ci aspetta sempre in gloria quando la dobbiamo vaccinare. Allora afferra forte il suo bastone e si mette dritta, in piedi davanti al focolare. Oggi ha visto l’ago 22 x 32 della siringa e ha detto che solo con quello la ammazzavamo. Poi si è fatta vaccinare con grandi smorfie, alla fine ci ha ringraziato, ci ha detto di stare attenti alle macchine e, di straforo, ci ha chiesto se per caso non avevamo qualcosa per le sue ginocchia che le fanno tanto male. Reyna invece è un caso singolare. Ha forse 14 anni e al primo tentativo di farsi vaccinare scoppia a ridere-piangere come in preda a una crisi isterica. Non riesce più a fermarsi e continua anche dopo quando ci vede, a vaccinazione conclusa. San Arturo è piena di bimbi, 38 per la precisione tra cui 20 si chiamano Josè con piccole varianti come Josè Vilmar, Josè Dilmar. Quattro fratelli si chiamano Josè. Davvero schizofrenico. I bambini di qui sono piccole scimmiette curiose e vogliono ossessivamente giocare con me. Oggi si sono contesi la mia macchina digitale e io gliela ho prestata volentieri. Il gruppetto composto da Lupita, Filiberto, Juana e la sua sorellina Marina è tornato dopo due ore, all’imbrunire quando sanno che devono andare a casa perché la mamma li aspetta (ubbidienti, a me da piccola dovevano narcotizzarmi per farmi tornare a casa dal parco giochi dove andavo in bici) con 52 foto. Solo in due era identificabile il soggetto.

Mi fanno ballare al ritmo di Radio Insurgentes e mi trascinano al fiume a fare i tuffi dai massi col naso tappato. Non capiscono lo spagnolo e io mi esprimo a smorfie e boccacce che hanno grande successo: la mia ultima creazione “zaaaaak, vacuna” urlato fortissimo mimando il gesto di fare il vaccino, è ormai il tormentone di qui e tutti i bimbi me lo urlano dietro sperando che io mi giri a rincorrerli come faccio sempre. Nella chiesa con rosari appesi e bandiera messicana tutti suonano la marimba o strimpellano le chitarrone da mariachi che stanno di solito vicino all’altare e a sera si riuniscono qui dove stiamo noi per commentare l’evento del mese: il team di vaccinazione qui a San Arturo. San Arturo non ha reazioni di fronte all’inno zapatista che emoziona l’altra valle ma ha una sorgente meravigliosa con pietre levigate, alberi di salice con un sentiero tra le foglie di banano.

San Arturo è per il momento in cima alla top-ten delle mie comunità preferite. Il cielo di Dolore Hidalgo non lo batte nessuno, ma il riflesso della luna sulla montagna qui di fronte, a San Arturo, è da brivido. E la luna si nasconde dietro la montagna.

12.05.2004 Mexico D.F.

Non ho scritto più nulla ultimamente. Non importa, tanto lo so che sono incostante. Ora è tempo di tornare.

Qui davanti a me il terminal di Air France. Tra poco lassù nella “regiòn màs pura del aire” come dice Octavio Paz e sotto di me la macchia luminosa del Distretto Federale.



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