Guacamole..
Non so da dove mi è sbucata in testa l’idea di andare in Messico per il mio (Sara) viaggio di laurea (un po’ in ritardo, a dire il vero): comunque, dopo aver spulciato guide, itinerari e libri vari, consigliati dal buon Mauro, viaggiatore impenitente che conosce bene il Messico, ci troviamo su quest’aereo che sorvola l’oceano, io e Marco, a sbirciare dal finestrino un blu che non finisce mai, armati di Routard, nonché di “Polvere del Messico” e “Camminando” di Cacucci, tanto per capire l’atmosfera che ci aspetta. Per entrambi è la prima volta così lontani da casa, la prima volta oltreoceano.
L’aereo è pieno di turisti italiani in cerca di una o due settimane di sole, quasi nessuno con lo zaino in spalla come noi, la maggioranza destinati solo ai villaggi della riviera Maya affacciati sul Mar dei Caraibi. Il Mar dei Caraibi lascia anche noi due senza parole quando lo vediamo dal finestrino dell’aereo a partire dalla Florida, di un azzurro incredibile, puntellato di isole.
Quando scendiamo dall’aereo ci avvolgono 30°C con il sole e un’umidità che si fa sentire, le braccia ingombre di felpe e pile e sciarpe assolutamente superflui, con passaporto e modulo turistico in mano, zaino, zainetto, un po’ storditi per il fatto che sono ancora le due di pomeriggio e siamo già svegli da una vita, ma la curiosità ci impedisce di avere sonno. Superate le formalità di ingresso, recuperate le valigie, guadagnato il semaforo verde – l’ultima cosa di cui abbiamo voglia è dover aprire tutti i bagagli- con i primi pesos messicani in mano, ci avviciniamo all’uscita, avvolti da una confusione a cui faremo presto l’abitudine, a cercare un modo per arrivare in città. Sbirciamo alla ricerca della fermata dell’autobus che deve esserci a detta della Routard (in effetti la vedremo poi proprio di fronte al piazzale di uscita), ma siamo troppo stanchi e accaldati e troppo carichi per impegnarci nella ricerca, così accettiamo di buon grado di salire su uno dei colectivos che vanno verso il centro (9 US$ il biglietto). In fondo non mi dispiace passare per la famosa zona Hotelera e capire un po’ dove siamo, durante l’atterraggio si vedevano solo alberi! Come compagni di viaggio abbiamo sei americani tutti obesi, ci stringiamo sul sedile cercando di guadagnare un piccolo spazio per i nostri italici sederini e ci lasciamo trasportare occhi sgranati. Gli americanoni scendono tutti negli alberghi mega lusso all-inclusive della zona Hotelera (un luna park, a detta di Marco), di una bruttezza rara da un punto di vista architettonico e un obbrobrio naturalisticamente parlando: restiamo un po’ scandalizzati da cotanto cattivo gusto, come si possa rovinare un luogo così bello è da chiedere (senza capire) agli americani che lo frequentano tanto assiduamente. Alleggeriti della zavorra degli americanoni nei loro alberghi dorati e assolutamente falsi, procediamo spediti verso Cancun centro: dalla Routard, fedele compagna e suggeritrice di tutto il nostro girovagare, abbiamo scelto l’Hotel Colonial, descritto come carino e comodo alla stazione dei pullman, che dovremo raggiungere domani, a piedi e con gli zaini, per proseguire il viaggio. Il colectivo e il suo autista ci scaricano sulla via principale, Av. Tulum, dove ci aggancia un simpatico vecchietto che ci scorta fino all’albergo, sulla Tulipanes, effettivamente carino: 300 $ messicani la camera, affacciata su un bel patio bluarancio con fontana. Siamo tanto stanchi che poco ci importa il verdolino delle pareti e il ventilatore che va a una velocità folle (tanto da non poterlo tenere acceso di notte!): la camera è pulita, anche se non nuovissima, la doccia è calda, il lettone ipercomodo e abbiamo anche la TV a colori, tre canali in croce, uno dei quali trasmette partite di calcio, essendo sabato, con le colorite telecronache latinoamericane. Non ci lasciamo ammaliare dal letto e usciamo subito per telefonare a casa, comprare il biglietto del bus per domani sera, direzione Palenque, pullman Gran Lusso della ADO, 456 $ (noi abbiamo sempre viaggiato con la ADO e per i viaggi notturni abbiamo scelto i GL, poltrone comodissime su cui abbiamo dormito come in un letto vero, e costano poco di più della 1°classe…Unico problema l’aria condizionata sparata a mille, bisogna coprirsi bene per non soffrire freddo, almeno i nostri pile assumono un significato anche ai tropici).
Facciamo giusto un giretto nei dintorni per trovare un posto dove mettere qualcosa sotto i denti, non è davvero difficile, visto che pullula di ristoranti con strani personaggi all’ingresso che ti puntano da lontano e ti saltano addosso appena passi lì davanti, pur di convincerti a entrare nel loro locale. Anche in questo caso non ci sforziamo troppo e scegliamo una taqueria di fronte al nostro hotel, “La ranita de el poblano”, dove assaggiamo un po’ rincoglioniti la cucina locale (due piatti giganti per 168 $, con tanto di zuppa e tortillas bollenti e guacamole, salsina deliziosa che ci ha un po’ drogato e che cercheremo in tutti gli altri pasti), ci piace molto! (Noi abbiamo sempre mangiato di tutto, anche per strada, con un occhio di riguardo all’igiene, ovvio, ma difficilmente abbiamo trovato posti non puliti. Non abbiamo avuto nessunissimo problema, probabilmente ci è stata utile anche l’avvertenza di iniziare a prendere i fermenti lattici 10 giorni prima della partenza e continuando per tutto il periodo che siamo rimasti in Messico. Uno dei gusti del viaggiare è proprio sperimentare il più possibile i cibi che vengono offerti da una cucina diversa dalla nostra. Tuttora rimpiangiamo i piatti che abbiamo mangiato!!!) Con l’occhio a mezz’asta attraversiamo Av. Tulum per vedere cos’è quella musichina che viene dall’altra parte della strada: un tendone con sotto un palco e qualche banchetto, un abbozzo della “Fiesta de los muertos”, una delle principali feste messicane, che dura ben un mese. I messicani la celebrano credendo che in questi giorni i loro morti li vengano a visitare e in loro onore imbandiscono tavolate e banchetti carichi di fiori e dolci e qualunque delizia. In alcune località è descritta come molto pittoresca, non qui a Cancun, troppo “occidentalizzata”, troppo “euroamericana” per sentire una festa così tradizionale. A ricordarla rimangono solo vari banchetti imbanditi e il pan de muertos, un dolce rotondo ricoperto di zucchero.
La nostra prima serata messicana si conclude a letto alle 8,15 (sarebbero le 3 di notte in Italia e visto che ci siamo svegliati alle 4 di mattina…) Domenica 2 NOVEMBRE – CANCUN: Il fuso orario non perdona, alle 5 siamo svegli ed io ricoperta di bozzi di zanzare. Anche Cancun centro non è niente di eccezionale, una città moderna che ha veramente poco di messicano, ma alle 7 di mattina, deserta e con la prima luce del sole obliqua ha un che di piacevole. Facciamo colazione al Sunborn’s (170 $ come la cena!), sempre sulla Av.Tulum, posto bellino e anonimo ma con un buffet gigante e pieno di frutti colorati e mai visti, alcuni dei quali sono rimasti per noi senza nome. Ovviamente orribile il caffè, brodaglia insapore e ustionante.
Prendiamo il bus n.1 (6 $ a testa) per raggiungere le spiagge della zona Hotelera: visto che siamo fermi in questa bruttura di Cancun fino a stasera in attesa del pullman, decidiamo almeno di goderci quello splendido mare intravisto dall’aereo. Il bus ancora una volta costeggia tutta la zona Hotelera: il viaggio è un’esperienza della follia messicana alla guida, bisogna assolutamente sedersi per non cadere e sbattere di qua e di là (ma in genere dopo aver pagato il biglietto non si fa in tempo a sedersi senza che l’autista sia già partito). L’impressione della zona Hotelera è invariata rispetto a ieri: orrenda. Ci fermiamo a Playa Chac-Mool, come suggerito dalla Routard (sulla strada che percorre il bus ci sono frecce che indicano gli accessi alle spiagge, tutte libere): spiaggia deserta, basta non guardarsi alle spalle i giganti di cemento, sabbia bianca, mare azzurrissimo e sole che già scotta alle 8,30 di mattina. Ci tuffiamo nelle onde ridendo come due bambini, facendo fatica a stare in piedi per la forte corrente. Ci arrostiamo un po’ al sole, previa spalmata di crema solare protezione 30, e riprendiamo la via del centro, pieni di sale e sabbia e assetati…Le spiagge sono pubbliche e tutti gli alberghi vi si affacciano, risultato lungo la spiaggia non c’è neanche un baretto, a differenza che dalle nostre parti.
Doccia e zaini pronti, depositati all’albergo, in cambio di una mancia, in attesa del pullman che parte alle 17,45. Andiamo a fare un giro al Mercado 28, non lontano da Av.Tulum, quello che ai turisti all-inclusive in gita shopping a Cancun viene spacciato per un “vero mercato messicano”: un mercato molto simile ai nostri, con box di merce variopinta ma poco credibile come “artigianato locale”. Almeno è al coperto e ci ripara dalla pioggerellina dell’immediato dopo pranzo che abbiamo trovato sempre, più o meno intensa, nello Yucatan, sarà che è appena finita la stagione delle piogge. Di realmente messicano ci sono i ristorantini, uno attaccato all’altro, buchi di cucine con tendoni tirati davanti, sotto cui sono i tavolini con semplici tovaglie di plastica: noi pranziamo all’ “Atotonilco” (ma uno vale l’altro) per 40 $ a testa una ”comida corrida”, menù fisso comprendente zuppa, un piatto e una bevanda. Successivamente abbiamo approfittato spesso delle “comida corrida”, trovandole sempre ottime ed economiche. Nella scelta dei posti dove mangiare siamo andati un po’ a naso la maggior parte delle volte, privilegiando quelli dove vedevamo anche i messicani, sono una garanzia! E al Mercado 28 siamo venuti a contatto per la prima volta con le farmacie messicane, che sembrano supermercati più che farmacie, dove Marco è rimasto scandalizzato perché vendono anche le sigarette! Alle 17,45, puntualissimo (e sarà sempre così), parte il nostro pullman: adesso inizia il nostro vero viaggio, dopo questa tappa obbligata, Palenque, Chiapas. Guardiamo un po’ i film (in spagnolo o inglese sottotitolato) e ci addormentiamo.
Lunedì 3 NOVEMBRE – PALENQUE: Entriamo a Palenque alle prime luci del giorno, riposati e solo un po’ infreddoliti, appena scesi dal pullman ci avvolge una pesante cortina di umidità che ci fa desiderare solo una doccia. L’albergo, scelto ancora dalla Routard, è appena dall’altra parte della strada: l’Hotel Avenida, 150 $ per notte per una camera gigante con due letti matrimoniali e due ventilatori (anche questi a velocità folle), tele a colori, pareti gialle e un’umidità cronica. C’è anche la piscina e la camera si affaccia su un ballatoio con vista sulla giungla! Restiamo piuttosto impressionati da questa esplosione di vegetazione che ruba spazio alle case e riafferma chi è il padrone qui, se l’uomo o la natura. Questo è solo un assaggio, perché dopo colazione in un bar tutto arancione, a base di chilaquiles (nachos con pollo ricoperti di un sughetto a base di pomodoro, con succo di frutta e caffè), balziamo su uno dei colectivos dell’agenzia Chambalu che fanno la spola tra il paese e le ruinas, distanti 8 km (14 $ andata e ritorno), dando passaggi anche agli abitanti dei villaggi vicini, che scendono al bordo della strada e spariscono tra gli alberi. Riesce difficile chiamarli “alberi” per come siamo abituati noi a considerare un albero: questi sono giganti. Un intrico di rami e foglie e tronchi nodosi che mangiano e sommergono ogni cosa che vi si trovi sotto. Una volta entrati nel sito (37 $ a testa) ci perdiamo in mezzo a tutto questo verde, cercando sentieri meno battuti e gruppi di rovine ancora poco scavati, dove le radici si insinuano in mezzo alle pietre degli edifici e il silenzio lascia spazio solo ai fruscii e alle voci della natura. Palenque ruinas è incredibile: il Gruppo Principale e i gruppi scoperti sono di una bellezza e una maestosità cui le guide non possono rendere merito. Ci arrampichiamo su tutti gli edifici raggiungibili, sudati fradici (ci siamo premuniti di bevande prima di entrare), il sole picchia e l’umidità toglie il respiro, ci fermiamo alla sommità di tutti quei gradini a guardare in basso gli omini che brulicano sul pratino verde verde che i giardinieri tagliano in continuazione. A parte pochi gruppi e qualche turista, non c’è tantissima gente, il che ci fa apprezzare ancor più il sito (poi scopriremo che non è solo perché siamo in bassa stagione ma anche perché Palenque è già un po’ fuori dalle rotte turistiche più battute, ed è difficile trovare molti turisti qui…). Il massimo della meraviglia lo raggiungiamo però negli edifici ancora immersi nella giungla, lungo sentierini umidi di fango e foglie, qui non c’è da scherzare, è giungla davvero, con tanto di insetti insistenti, ragni poco amichevoli e versi strani e non ben identificati, su cui non indaghiamo troppo. In uno di questi edifici, assolutamente non segnalato, c’è uno dei bassorilievi meglio conservati che abbiamo visto, una figura bianca su sfondo rosso. E seguendo il sentiero per il museo (che non abbiamo potuto visitare perché chiuso il lunedì) arriviamo in un posto per noi magico, presso il Gruppo dei Pipistrelli, ancora una volta edifici … di alberi, dove sono le cascate chiamate El baño de la reina: Marco scatta foto a raffica, io mi siedo e sto a guardare, a godere la quiete, silenzio assoluto rotto solo dall’acqua che scorre, non c’è nessuno a parte noi e un americano, già incrociato in precedenza e salutato con un mezzo sorriso, che disegna. Pochi arrivano fin quaggiù, soprattutto quelli che girano con una guida: noi non l’abbiamo voluta, avremo forse ricevuto meno informazioni e note storiche (ma si possono leggere anche sui libri), ma ci siamo persi e ritrovati nella magia di questo sito, che lasciamo, stanchi e sudatissimi, con la convinzione a priori (e confermata) che resterà il più bello visto in questo viaggio. Prima di riprendere il pulmino per tornare in paese facciamo un giro tra i banchetti appena fuori dall’entrata del sito, comprando un po’ di frutta. Alcuni vendono oggetti di artigianato degli indiani lacandoni, gli abitanti di una selva che copriva un vastissimo territorio, oggi ridotto a una misera area al confine con il Guatemala, riconoscibili dalle vesti bianche, indica la guida. Ci fa un po’ tristezza constatare che per povertà sono costretti a vendere pezzi della loro identità a turisti spendaccioni che se ne pavoneggeranno al ritorno a casa, senza capire il reale significato di quegli oggetti.
Al ritorno in albergo Marco si butta in piscina ed io sotto la doccia. La cena è una scusa per dare un’occhiata al paese: ecco che qui si respira finalmente un’aria diversa. Siamo alle porte del Chiapas, non è più mondo ricco importato: iniziano le strade tortuose, piene di gente mai invadente, a differenze dello Yucatan, i negozi stipati di roba in relativo disordine, le case colorate, colorate davvero, altro che le nostre tutte uguali. Passeggiamo per il primo zocalo della nostra esperienza, la piazza principale, centro della vita di ogni paese, con panchine, banchetti di dolciumi e oggetti, luci, colori. Sì, quello che più ci colpisce di questo Chiapas che stiamo andando a scoprire sono proprio i colori, risaltati dal sole chiarissimo che brilla da queste parti. Iniziamo ad incontrare uomini che sembrano appena usciti da un’effigie dei siti, tanto sono caratteristici i loro tratti somatici, donne dai capelli corvini e lo sguardo limpido, persone basse di statura e di carnagione scura, bambini piccolissimi che sgranano gli occhi incuriositi,quando ci vedono così pallidi. Non sono davvero discendenti degli europei e qui siamo noi in netta minoranza.
Compriamo i biglietti del bus per San Cristobal per mercoledì (ADO 1°classe, 91 $ a testa) e prenotiamo la gita di domani, sempre all’agenzia Chambalu, per le cascate di Misol-Ha e Agua Azul (100 $ a testa, non sono facilmente raggiungibili con mezzi pubblici ma c’è solo l’imbarazzo della scelta delle agenzie che accompagnano i turisti). Per la cena andiamo a scatola chiusa, seguendo il consiglio della Routard, ristorante Maya, affacciato sul zocalo, dove assaggiamo dei buonissimi tamales di pollo, gnocchi di granturco cotti al vapore contenenti pollo, avvolti in una foglia di banana (200 $).
Stanchi morti, a letto presto.
Martedì 4 NOVEMBRE – MISOL-HA, AGUA CLARA, AGUA AZUL: Puntualissimi, alle 9 siamo davanti all’agenzia Chambalu, in attesa di saltare sul pulmino della nostra gita di oggi, mangiando le brioche comprate in una delle splendide panaderie che ci sono qui, vetrine e ripiani pieni di dolci invitanti (1 $ a brioche, ogni volta che ci siamo entrati non siamo mai usciti col vassoio vuoto!). Un messicano molto tipico, coi baffetti neri, i capelli pieni di gel e la camicia abbondantemente sbottonata è il nostro autista e fa salire, noi ed altri tre ragazzi (due svizzere tedesche e un austriaco), su uno sgangherato pulmino blu, che farà comunque il suo dovere. Il tragitto da solo ci riempie di meraviglia, la strada si snoda in mezzo alla foresta, qui e là qualche villaggio di poche case di legno con tetti di lamiera, le amache appese all’ingresso, vestiti colorati stesi ad asciugare, un campicello rubato alla vegetazione e coltivato solo con la forza delle braccia, e persone, tante persone sul bordo della strada, che camminano per spostarsi da un posto all’altro, o che si piazzano vicino alle topes, immancabili prima di ogni centro abitato, per cercare di vendere qualcosa. E’ un mondo diverso dal nostro, tanto diverso da lasciarci a bocca aperta.
Misol-Ha è un a cascata spettacolare, l’acqua cade da 30 metri in una pozza tonda circondata di alberi, l’umidità ci vola addosso e ci bagniamo seguendo il sentierino che passa dietro la cascata, ma anche oggi il caldo non manca.
La tappa successiva, Agua Clara, è piuttosto anonima, una laguna di acque verdi su cui passa sospeso a una venitna di metri un ponte di assi e corde, su cui io non mi sono fidata a mettere piede, nonostante le assicurazioni. Da una donna e dalle sue bimbe, in abiti tipici, all’ombra di un albero in attesa dei turisti, abbiamo comprato alcune bananine gialle e piccole, squisite!!! E finalmente Agua Azul (dopo aver pagato un “dazio” agli zapatisti di 5 $, per entrare ad Agua Azul si passa davanti a una loro capanna e in tutta la zona assicurano la loro protezione…Beh, noi non c’eravamo neanche resi conto che fossero zapatisti finchè non ce l’ha detto il nostro autista), molta aspettativa da quanto letto sulla guida, il tempo è stato clemente e l’acqua è davvero azzurrissima e trasparente. Siamo stati fortunati, alcuni giorni dopo inizierà a piovere e, a detta di chi c’è stato, l’acqua era diventata marrone! Ma noi ce lo godiamo tutto, questo parco nazionale di più di 500 cascate, non maestose come Misol-Ha, ma imponenti, fragorose nello scroscio di acqua continuo che si scarica a valle, immerse in un verde intenso che sembra non finire mai. Seguiamo le scale che costeggiano le cascate fino alla fine del parco, lungo i gradini sono appostati numerosi di quelli che noi chiamiamo indios, termine per loro offensivo, indigenas dovremmo chiamarli, abitano in un villaggio vicinissimo al parco, alcune donne lavano i panni nell’acqua delle cascate, mentre i bambini sguazzano divertendosi un mondo. Ci offrono i loro prodotti, compriamo altra frutta e delizia assoluta, un cocco appena staccato dalla pianta, da cui beviamo il latte con la cannuccia, prima che l’uomo col machete ce lo tagli con un paio di colpi precisi, in modo da poterlo mangiare. E delle empanaditas ripiene di patate e formaggio che una signora ci prepara sul momento, nella sua padella sotto una tettoia di legno, mandando poi una ragazzina a prendere il resto dei nostri soldi nel villaggio vicino, da cui ritorna seguita da una schiera di bambinelli impolverati e mezzi svestiti che iniziano a saltellarci tra le gambe.
Ci eravamo premuniti, mettendoci sotto il costume e mai scelta fu più azzeccata: nella parte bassa, all’inizio delle cascate, si può fare il bagno, così come nella parte alta al limitare del parco. E’ qui che noi ci immergiamo nell’acqua cristallina e piuttosto fredda, non c’è nessuno, l’acqua sembra ferma ma una corrente continua spinge verso il basso, fa impressione essere immersi nell’acqua, a rinfrescarci, in mezzo alla foresta. Forse invogliati nel vederci così gaudenti, vari altri turisti ci raggiungono e si bagnano, anche un bambino lascia il gruppo delle madri che fanno il bucato per venire a giocare vicino a noi, zampettando agilmente sopra i grandi sassi che limitano e rendono sicura questa zona. Poi ci stendiamo tutti sul pratino al sole ad asciugarci, altro che Rimini… E’ ora di tornare a Palenque, riscendiamo all’inizio del parco e il nostro pulmino Chambalu ci scarica in paese mentre il sole volge al tramonto.
Per la cena questa sera scegliamo El Trompo, ristorantino poco distante dal nostro hotel sulla Juarez, tutto arancione. Saliamo al primo piano per mangiare, in una terrazza affacciata sulla strada tutta per noi, siamo gli unici in quel momento, è presto e siamo un po’ distanti dal zocalo. Il cibo è ottimo, io mi strafogo di tacos (quelli al pastor sono deliziosi, carne di …Con una salsina rossa leggermente piccante e ananas), Marco di alambres (carne alla piastra con peperoni e inondata di cipolle). Passeggiamo verso il centro, ma siamo esausti anche stasera, il caldo non ci ha risparmiato e siamo piuttosto curiosi di raggiungere San Cristobal domani. Dicono che sia bellissima… Mercoledì 5 NOVEMBRE – SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS: Da Palenque sono 5 ore e oltre di strada di montagna tutta curve, all’andata tutto bene, complice il sole fuori e un paesaggio tutto da scoprire che non ci fa scollare gli occhi dal finestrino. La strada serpeggia in mezzo a montagne verdissime, qui in quota ci sono più campi e allevamento. Lungo la strada camminano un sacco di persone, è l’unica via accessibile in questo ambiente di certo non a misura d’uomo, incontriamo tantissimi bambini che, con le loro tracolle colorate, tornano a casa da scuola per il pranzo, distante anche alcuni chilometri. Le scuole sono edifici a un piano e spesso i bambini sono fuori, all’aperto, magari in mezzo a qualche mucca. I villaggi, appena scostati e sopraelevati rispetto alla strada, sono circondati da un recinto di legno, raggiungibili con gradini di sassi piantati nella terra, case di legno, lamiera, quasi mai di mattoni. I vestiti che indossano sono colorati. Sembra che tutta la loro vita si svolga all’aria aperta.
Il pullman è semivuoto e la maggior parte di quei pochi che ci sono scende ad Ocosingo, a metà strada, alcune case lungo la strada principale e una piccola e frequentata stazione dei bus. Un nome evocativo nella storia degli zapatisti, cittadina all’apparenza tranquillissima ma guardata a vista dall’esercito, secondo le guide. Fa un’impressione strana, per noi abituati a pensare alle montagne come al nord, le Alpi, vedere un ambiente palesemente di montagna ma nello stesso tempo tropicale, del sud. Cielo azzurro, nuvole bianche. Sole che scalda.
Ripartiamo solo in sette alla volta di San Cristobal, sei dei quali europei. Ci sono ancora due ore buone di strada, ma da un momento all’altro, dietro ogni curva, ci aspettiamo che arrivi. E poi arriva. Si sbuca in una vallata verdissima circondata di montagne. Scesi dal bus, riscaldati dal sole (l’aria condizionata non è mai scarsa), imbocchiamo la Insurgentes, che porta verso il centro, ci lasciamo guidare dalla cattedrale che abbiamo intravisto in lontananza. Gli zainoni ci inibiscono dal camminare quanto vorremmo, prima di scoprire questa nuova città, la più conosciuta del Chiapas, è necessario trovare un posto dove scaricarli. Ci trattiamo bene, scegliendo un hotel di categoria “chic” dalla Routard: l’Hotel Posada San Cristobal, pareti bluarancio appena ridipinte, camera con due lettoni caldi (qui la notte fa freschino), bagno giallo nuovissimo, mobili in legno scuro e pesante, con balconcino affacciato sul patio interno, pieno di piante, in cui si trova il ristorante. Alla fine resterà il nostro preferito (320 $ a notte…Niente a che veder con i prezzi europei!), anche se la sera fino ad una certa ora i suonatori di marimba che allietano gli ospiti disturbano un po’.
La città ci chiama fuori, vivissima, un’atmosfera che non avevo mai respirato in una città europea. Seguendo la Insurgentes si arriva al zocalo, circondato in tutto il suo perimetro da banchetti di libri ed uno di dischi che ci fa sorridere e viene immortalato da Marco, che da bravo estimatore dei Beatles non può fare a meno di fotografare la scritta che campeggia sulla parete, “Sargento Pimienta”, versione locale di Sgt. Pepper…Su un lato del zocalo si erge anche la famosa cattedrale, incredibile nei suoi colori giallo e rosso che brillano sotto un cielo profondamente blu, risaltati dal giallo del sole. Come gialle sono le pannocchie bollite che compriamo lungo la calle 20 de Noviembre, strada pedonale che unisce la cattedrale alla chiesa di Santo Domingo, altro punto focale della città: pannocchie bollite in secchi di acqua bollente, riscaldati da un braciere e portati in giro da ragazzini e uomini con quei tricicli che da noi giravano nel dopoguerra, come mi ha raccontato mio padre, così come i lustrascarpe, specie da noi estinta, disposti con i loro seggioloni nel zocalo, o semplicemente bambini piccolissimi con la loro panchetta e cassettina degli attrezzi. Prendiamo la nostra pannocchia per il bastoncino, un po’ come un ghiacciolo, condita con sale e limone (ma qui tutti la mangiano inondata di maionese e ketchup, noi non osiamo…), mangiando proseguiamo e raggiungiamo la piazza di S.Domingo, la cui maggior attrazione non è la chiesa dalle pareti rosate e i ricchi interni, ma il mercato che vi si svolge tutti i giorni, ma noi lo scopriremo solo domani, oggi è già tardi e la sera il mercato lascia spazio a banchetti di ogni genere di cibo, spesso a noi sconosciuto.
Cena alla Salsa Verde, lungo la 20 de Noviembre, molto frequentato dagli europei: due ragazzi giovanissimi in tenuta da cuochi cucinano direttamente dietro un bancone nella sala in cui si mangia. Ci riempiamo ancora di tacos e carne (100 $). L’atmosfera è vivace anche di sera, sono tutti fuori, sia i locali che i turisti, il centro è pieno di Internet Cafè (che diventerà tappa d’obbligo di tutti i giorni che resteremo qui), di musica, anche per le strade, con gruppi che si fermano qui e là, cantando canzoni tradizionali. In questo periodo si svolge anche un certo “Festival Cerventino Barroco” e tutti i giorni ci sono spettacoli su un palco montato davanti alla cattedrale, appena visibile dietro centinaia di teste.
Andiamo a letto un po’ frastornati e pieni di meraviglia per questo posto incredibile, che ci fa dubitare di voler proseguire il viaggio in Guatemala fra due giorni come avevamo programmato in Italia (idea che siamo poi costretti ad abbandonare perché il volo da Città del Guatemala a Cancun è troppo caro, quasi 600 US$, e i pochi giorni a disposizione non ci consentono di tornare via terra…Sarà per un altro viaggio). Ma il bello dei viaggi in libertà è proprio questo, come tante altre volte mi è capitato quando sono partita con un’idea, per poi cambiarla lungo il percorso: si può deviare per una meta non prevista, ci si può attardare in un posto quando piace. E San Cristobal ci piace eccome, capiamo perché tanti europei hanno deciso di venire a viverci, è la prima volta nei miei viaggi che trovo un posto che mi fa venire realmente voglia di cambiare casa (forse la prima volta dopo Londra, quando avevo 15 anni). Ed è solo il primo pugno di ore a San Cristobal… Giovedì 6 NOVEMBRE – SAN CRISTOBAL: Sveglia presto, c’è tanto da scoprire anche oggi. Abbiamo bisogno di energia, avendo in programma di scarpinare tutto il giorno per la città in lungo e in largo, quindi scegliamo per colazione un altro posto molto da europei, di proprietà di un’americana, la Casa del Pan: davvero pantagruelica come dice la Routard, a base di frutta fresca, pane e miele e marmellata squisiti, caffè e succo d’arancia (80 $). Per smaltirla iniziamo a passeggiare e non smetteremo fino a sera. Il mercato artigianale intorno a S.Domingo ci assorbe per tutta la mattina ed è impossibile descriverlo a parole: si passa in corridoi strettissimi in mezzo a banchetti fitti fitti, spesso semplice merce appoggiata a terra, un’esplosione di colori, e quando dico colori non si può riuscire ad immaginarli, abituati al nostro concetto di colore. Qui i colori sono vivi, prevalgono l’arancio il rosso il giallo il viola il blu, ci si perde letteralmente in mezzo. Compriamo un sacco di cose, che dovremo abilmente incastrare negli zaini per poterle portare a casa, comunque molte meno di quante avremmo voluto, ammaliati dai colori, dalla bellezza dei prodotti, stregati soprattutto dalle persone, donne in maggioranza, o ragazzine cresciute in fretta, vestite con abiti tipici multicolore, capelli corvini, occhi neri e belli, magari senza qualche dente o con denti d’argento, con le rughe precoci del sole e della fatica, le mani ruvide per il lavoro, un sorriso mezzo accennato. Sbirciando dietro i banchi vediamo che tutte si sono portate dietro il pranzo nelle immancabili pentole azzurre laccate, a tutte le ore qualcuna di loro mangia. Anche noi mangiamo pannocchie abbrustolite e ci spingiamo oltre, al mercato dei prodotti alimentari, probabilmente siamo gli unici europei e suscitiamo un po’ di allegra curiosità, i turisti in genere non si spingono fin qui, brulicano al mercato artigianale approfittando dei prezzi per noi assolutamente convenienti. Ma vale la pena vederlo, questo mercato per i locali, per raggiungerlo basta andare sempre dritto lungo la General Utrilla. In punta di piedi, senza disturbare perché ci sentiamo un po’ intrusi ci addentriamo in passaggi anche qui strettissimi, coperti da tendoni colorati, altra esplosione di colori, colori di frutta e verdura adesso, impilate in modo estremamente artistico sui banchi, giallo arancione rosso verde, persone che lasciano i villaggi la mattina prima dell’alba per venire ad allestire il loro banchetto, qualcuno vende fiori, qualcuno è semplicemente seduto a terra, tra gli altri banchi, a cercare di vendere un solo animale, un coniglio, una gallina, una signora all’apparenza anzianissima cammina tenendo per le ali un tacchino vivo, offrendolo a tutti quelli che incontra. Ne usciamo un po’ provati, dopo esserci aggirati nei meandri, è bellissimo, Marco compra due sacchetti di peperoncini per cercare di piantarli nel suo orto. Rinunciamo all’idea di portarci dietro un sacchetto di cacao in polvere.
Carichi di borse delle spese fatte (abbiamo comprato persino un’amaca!) ci fermiamo in albergo per appoggiarle, e alleggeriti continuiamo a passeggiare in lungo e in largo, penso sia il miglior modo di scoprire San Cristobal: aggirarsi per le strade, dai marciapiedi altissimi per la stagione delle piogge, ammirando le innumerevoli chiese in cui non manca mai un tocco di colore, o soltanto le case, una più bella dell’altra, mai bianche e anonime, tutte, tutte vividamente colorate.
Torniamo anche a S.Domingo, all’interno c’è un bel chiostro pieno di fiori e una mostra con pannelli narranti (solo in spagnolo) la tormentata storia del Chiapas dall’arrivo degli spagnoli in poi.
Stasera ceniamo alla Casa Utrilla, nei pressi di S.Domingo, arredamenti tipici e oggetti appesi alle pareti e un bellissimo patio interno con fontana, cameriere ossequioso e di modi eleganti (150 $ per una cena abbondante). La sera fa fresco e indosso subito il maglione ipercolorato che ho comprato stamattina.
Venerdì 7 NOVEMBRE – SAN CRISTOBAL: Ci svegliamo con un barlume pallido di sole in mezzo a nuvoloni neri che non promettono niente di buono. Anche oggi camminiamo. Allarghiamo il giro. Prendendo la Cuahutemoc ci spostiamo dal centro, arrivando prima ad una chiesa bianca e gialla ricca di festoni multicolore appesi davanti, con un giardino di siepi tagliate a facce. Oltre, respiriamo un abbozzo di periferia, quella periferia che si intravede entrando a San Cristobal in pullman, periferia di fango e baracche costruite una sull’altra. Incontriamo una famiglia, padre madre e bimba, sguardo fiero nei loro poveri abiti e fardelli, che sta salendo a quella baraccopoli che noi possiamo appena intravedere. Il buon Delfin, sotto il suo berretto giallo, ci chiede se gli vogliamo fare una foto insieme alla bimba, non possiamo rifiutargliela, gli diamo qualche moneta di ricompensa e gli promettiamo che gli spediremo la foto dall’Italia. Non ci fidiamo ad addentrarci oltre, non tanto per paura, sembra tutto tranquillo, piuttosto è il disagio di incontrare qualcosa di diverso, un mondo che forse non vogliamo vedere perché non siamo pronti a conoscerlo. Ma la curiosità c’è, è innegabile. Risolviamo di osservarlo solo dall’alto, torniamo sui nostri passi e risaliamo tutta la Real de Guadalupe, strada coloratissima che termina alla chiesa di Nuestra Señuera de Guadalupe, in cima a un colle e non so quanti gradini ripidi, da cui si domina la città. Siamo costretti ad accorgerci che, per quanto bella sia, San Cristobal è una città latinoamericana, il centro, così lindo e ben tenuto, è solo una parte piccolissima e basta salire quassù per veder tutto quanto c’è intorno, interi quartieri che si allargano fino alle pendici delle montagne che delimitano la vallata, abitazioni costruite senza nessun ordine logico, strade fangose, un disordine che il cervello non può capire. Eppure ci abitano persone. Scendendo la Guadalupe, un po’ a disagio per quanto appena visto, impressione appesantita dal grigiore del cielo intorno, ci infiliamo in un portone da cui esce un lieve profumo di incenso, alle cui pareti campeggia la scritta “Jardin de Orquideas San Cristobal” (JOSC). Incuriositi, ci registriamo sul libro, come ci invita a fare una scritta all’ingresso, non c’è nessuno, seguiamo le frecce e ci ritroviamo in una specie di serra di piante, lungo sentierini dal soffitto di rami e foglie, in cui ogni locale rievoca la vegetazione presente in Messico, qui e là frasi celebri (si va da Einstein a Pascal, passando da Gibran). Ci aggiriamo un po’ stupiti, solo alla fine del breve percorso incontriamo, seduto, pacifico, colui che si cura di tutto ciò, un uomo dai capelli neri e la barba che non sembra messicano, col sorriso sempre abbozzato, ci dice che in questa stagione le orchidee non sono fiorite, purtroppo. Una volta saputo che veniamo dall’Italia commenta che da noi ci sono molti fiori, purtroppo il nostro povero spagnolo non ci permette di articolare molto la conversazione. Usciamo col sorriso sulle labbra, come era richiesto all’ingresso del percorso nella serra, “per forza, sorridi”, dopo essere passati per un museo di pannelli in doppia lingua spagnola e inglese, a metà fra l’orientale e i figli dei fiori.
(Se avete bisogno di una lavanderia, sulla Guadalupe ce ne sono varie a prezzi convenienti) Facciamo tappa nella cattedrale, per riposarci un attimo dal bombardamento di stimoli sensoriali che è la città e ci ritroviamo ad osservare in silenzio e da lontano due donne e una ragazzina, in abiti tradizionali e a piedi rigorosamente scalzi, in preghiera davanti alla Madonna: hanno sparso alcuni aghi di pino, a fianco hanno una gallina sacrificata per l’occasione, davanti a loro bottiglie di aranciata e cocacola e candele colorate. Non sappiamo per chi stanno pregando, in genere questi riti sono per la salute di qualche famigliare, alla gallina o al pollo sacrificati viene passata la malattia della persona cara per cui si prega.
Facciamo merenda al ritorno dalla stazione dei bus, dopo aver comprato i biglietti per Merida per domenica sera, già ci dispiace dover lasciare questo posto. Ci fermiamo in uno dei piccoli bar lungo la Insurgentes, di una pulizia memorabile, ci portano due quesadillas giganti, tortillas di carne e formaggio, che ci basteranno anche per la cena (90 $).
Purtroppo il tempo non migliora e una pioggerellina fitta rovina la serata finale del Festival Cerventino Barroco e i fuochi d’artificio sparati in piazza, un po’ imprudentemente in mezzo alla folla. Ci rifugiamo nel nostro Internet Cafè preferito sulla 20 de Noviembre, l’Aroma Cafè, a scrivere mail a casa.
Sabato 8 NOVEMBRE – SAN CRISTOBAL: Oggi abbiamo prenotato in una delle numerose agenzie (si equivalgono più o meno tutte, per quanto abbiamo potuto vedere) una gita in direzione sud, che ci porterà fino al confine col Guatemala, abbiamo un po’ di nodo in gola al pensiero che questo sarà il massimo punto sud raggiunto nel nostro viaggio e man mano ci avviciniamo le montagne di là dal confine ci chiamano con insistenza. Oggi abbiamo un bel pulmino Volkswagen guidato da un simpatico autista con la vena da cicerone, per compagni di viaggio due coppie olandesi di mezza età e una famiglia del D.F. In viaggio alla scoperta del paese, genitori non più giovanissimi guidati dalla figlia. Il tempo non è clemente, nuvole nere e pesanti, un briciolo di sole ci fa ben sperare durante le prime due tappe, le Grutas de Rancho Nuevo, appena fuori San Cristobal, un percorso di quasi un chilometro tra stalattiti e stalagmiti, e Amatenango del Valle, paese famoso per la produzione di ceramiche. Ovviamente io e Marco non ci accontentiamo dell’esposizione lungo la strada e ci infiliamo nel paese, siamo premiati da un cielo che sembra voler diventare azzurro, sotto i portici di qualche casa sbirciamo donne che lavorano a mano la ceramica. Breve visita a Tenam-Puente, piccolo sito di pietra chiara il cui unico interesse sono i ben tre campi della pelota, suddivisi per classi sociali. Poi il cielo decide di scaricarci addosso tutto quanto ha minacciato prima, inizia a piovere proprio quando raggiungiamo finalmente le Lagunas de Montebello, parco naturale di mille ettari e 58 laghi, condiviso col Guatemala. Ci incuriosiva molto, dopo averne letto la descrizione sulla guida, i laghi di colori diversi in base al contenuto di sali, il fatto che sia pochissimo turistico e confini con quel poco che resta della selva lacandona. La pioggia e il grigio del cielo non ci permettono di goderlo a fondo, i colori sono smorzati e possiamo solo immaginare quanto belli siano alla luce del sole, i sentieri sono tutto un fango e rischiamo varie volte di scivolare. Ci fermiamo in uno spiazzo tra i laghi verdi, in mezzo al bosco, dove sono state costruite alcune capanne di legno che fanno da ristoro, il nostro autista probabilmente fa il suo terzo o quarto pasto del giorno, noi ci accontentiamo di assaggiare delle tortillas ai flores de calabaza (fiori di zucca), è tutto molto rustico, la signora che ci prepara da mangiare davanti agli occhi su un braciere in mezzo ai tavoli, tavoli di legno e panche, apparecchiati con semplici teli di plastica, corde a cui sono appese bistecche di carne pronte per essere cotte. Ci chiediamo se è così che vivono quelli che abitano qui, ci sembra di essere ospiti in una delle loro abitazioni. Mi innamoro di uno dei laghi, l’Ensueño, verdazzurro, bellissimo. Ha smesso di piovere quando ripartiamo alla volta di San Cristobal. La strada è tutta in una vallata magnifica, in cui sorge anche la cittadina di Comitan, ci fermano un paio di volte lungo la strada per il ritorno, i controlli dei militari sono serrati per evitare immigrazione clandestina dal Guatemala. Come sempre mi perdo ad ammirare quello che mi circonda, all’apparenza questa zona è un po’ meno povera, c’è molta agricoltura, tanti campi di mais, e allevamento, gli animali brucano tranquilli sul bordo della strada. Le case sono quasi tutte di legno col tetto di lamiera, abiti colorati ad asciugare sugli steccati che delimitano i villaggi, spesso l’unica in muratura è la chiesa, immancabile, e le case di servizio lungo la strada, bianche con le scritte sui muri, vendono gasolina, bibite e schifezze varie in sacchetto. Le persone si muovono in bicicletta o a piedi lungo questa vallata, approfittando spesso di passaggi sugli innumerevoli furgoncini e pick-up che corrono imprudentemente le strade. In un paese lungo la strada, Teopisca, vediamo un paio di dromedari e una zebra…Ma dove siamo? Un tendone da circo spiega tutto, mai avrei pensato di vedere un circo anche qui.
Rientrando a San Cristobal non possiamo fare a meno di riprovare quella sensazione di disagio vedendo i quartieri di fango.
Per placare la nostra fame ci meritiamo una splendida ed enorme parrillada di carne alla Parrilla (240 $ in due), accanto alla Casa del Pan, piuttosto caratteristico.
Domenica 9 NOVEMBRE – SAN CRISTOBAL: Ultimo giorno in Chiapas, non ne vuole proprio sapere di tornare il sole, pioggerella fine e antipatica. Lasciamo l’albergo con il cappuccio in testa, carichi dei nostri bagagli che portiamo subito al guardaroba in stazione per non averli sulle spalle tutto il giorno: il pullman parte alle 17,30, sempre ADO GL notturno (423 $). Gironzoliamo avanti e indietro in attesa del pomeriggio, sotto la pioggia che non accenna a fermarsi e il sole che non ci fa la grazia di rivedere San Cristobal sotto la sua calda luce gialla.
Non abbiamo meta oggi, sbrighiamo alcune faccende arretrate, come scrivere e imbucare alcune cartoline e spedire qualche mail in Italia, e fare un po’ di spesa di commestibili per la sera in un negozio che ci ha fatto ridere appena l’abbiamo visto, il SuperBodegòn! Casualmente ci affacciamo sulla Real de Guadalupe e scorgiamo un po’ di movimento…Ma sì, sono carri mascherati, eppure non è carnevale! E’ la festa del barrio San Diego, uno dei quartieri di San Cristobal, che ci accennava ieri il nostro autista-cicerone. Ci posizioniamo anche noi sul marciapiedi a vederli sfilare: un carro riproduce la chiesa del quartiere, con un bimbo vestito da fraticello imbronciato, uno del qui famoso cartone di Bod Esponja, uno con varie bambine in costume che lanciano caramelle, facendo la gioia degli spettatori. Anche noi ci lasciamo coinvolgere dall’allegria che pervade la strada in questo momento e dai balli delle numerose persone travestite con costumoni colorati e maschere da mostri che saltellano in mezzo ai carri: mentre Marco scatta foto all’impazzata io mi faccio corteggiare da alcuni simpatici mostri. Li seguiamo fino alla piazza della cattedrale, poi proseguono nel loro giro della città, per andare a finire chissà dove a festeggiare. Peccato, un po’ ci piacerebbe partecipare a una festa di quartiere.
Pranziamo in un posto senza infamia e senza lode, di cui infatti non ricordiamo il nome, io mi lascio tentare da una bella foto di una pizza al prosciutto cotto e ananas, che sarebbe anche buona se non fosse così inondata di formaggio, mentre Marco assaggia il pollo en mole poblano, ricoperto di una salsina di cioccolato e spezie, su cui prevale il piccante del peperoncino, un gusto forse un po’ troppo esotico per i nostri gusti. Puntuale come sempre, parte il pullman. Pieno, stavolta, e quasi tutti messicani,. Mentre esce dalla stazione e si fa sera, guardiamo dal finestrino con un po’ di nostalgia. Ciao Chiapas… Il viaggio non si può dire una passeggiata, sei ore di curve, fuori è buio pesto e la pioggia che cade a dirotto, è molto peggio dell’andata, sarà la discesa, sarà che fuori non si vede niente. Il nostro florido autista vorrebbe fermarsi a cenare a Ocosingo per ben un’ora ma il moto di rivolta del pullman intero gli fa decidere di tirare dritto fino a Palenque: un’ora ad Ocosingo con la pioggia a secchiate, chiusi nella minuscola sala d’attesa della stazione sarebbe stato davvero deprimente. Per quanto ci riguarda, poi, di mangiare non se ne parla finchè non arriviamo in pianura, e per fortuna abbiamo scelto di sederci nei primi due posti del pullman, teniamo duro. Il monumento all’ingresso di Palenque è una liberazione. Alla stazione di Palenque una ragazza del nord Europa ci chiede se per caso abbiamo visto dei suoi amici che dovevano scendere oggi da San Cristobal, ci dispiace, non li abbiamo visti, e sul nostro pullman non c’erano. Finalmente l’autista riesce a soddisfare la sua fame (guidare in quelle condizioni non deve essere stata una passeggiata neanche per lui) in un ristorante appena fuori dalla città, segnalato dalla Routard, ulteriore dimostrazione che gli autisti sanno bene dove mangiare! In verità, noi non abbiamo voglia di mangiare a tavola, è già mezzanotte passata e abbiamo più che altro sonno, plachiamo la fame con crackers e patatine (quelle al limone nel sacchetto verde sono le mie preferite), e appena ripartiti ci addormentiamo, la strada adesso liscia come una tavola non ci dà il minimo sobbalzo. Mi sveglio quando fuori inizia a fare luce e mi accorgo con un po’ di disappunto che intorno non c’è assolutamente niente da vedere, la strada è un nastro d’asfalto dritto, ai lati solo alberi.
E infine, entriamo a Merida… Lunedì 10 NOVEMBRE – MERIDA: E’ tornato il sole e un caldo insostenibile già la mattina presto. Zaino in spalla, iniziamo a sudare, camminando verso l’albergo che abbiamo scelto, il Trinidad Bed&Breakfast. Forse complice un po’ di stanchezza e tanta fame, restiamo subito delusi dalla città: Merida “la blanca” di bianco ha proprio poco, è più che altro grigia e i muri scrostati di quasi tutti gli edifici di derivazione coloniale le danno un’aria decadente. Ah, come ci mancano i colori del Chiapas! Arriviamo finalmente al nostro albergo, sulla calle 62,non lontano dal zocalo, e anche questo ha un’aria decadente: un portone di legno enorme su cui si apre una stretta porticina, da cui fatichiamo a passare con gli zaini, un atrio piuttosto cupo, quadri alle pareti. Abituati ad altri colori, non ci piace tanto, ma decidiamo di fermarci e lo dobbiamo subito rivalutare: la camera è grande, con due letti (un po’ sfondati) e due ventilatori, con grandi vetrate, affacciata su un gran bel cortile interno ricco di vegetazione e acqua che scorre, 270$ a notte colazione inclusa, e la colazione si fa in questo patio verde, seduti in sedie alla veneziana e appoggiati a tavolini di legno scuro. Sarebbe un bel posto dove oziare con un buon libro in mano. In fondo, la descrizione della Routard calza a pennello, albergo un po’ vecchiotto del tipo “grazioso simpatico”.
Appoggiati i bagagli e fatta una bella doccia, la nostra fame non attende oltre, dopo aver viaggiato tutta notte e non aver cenato, ormai ci vediamo blu. Imbocchiamo la strada verso il zocalo e ci infiliamo in un localino non lontano, dall’ingresso arancione pallido, richiamati dai disegni alimentari sui pannelli di fianco alla porta, El Trapeche, che diventerà il nostro ristorante ufficiale a Merida. Io mi butto su una hamburgesa con papas buonissima, Marco su una punta de res al forno con frijoles, una colazione da campioni, accompagnata da spremuta d’arancia appena fatta, ci voleva proprio (85$). Rifocillati, possiamo iniziare a scoprire la città e informarci per la gita che vogliamo fare domani, Uxmal. Fa sempre più caldo e girare in centro è un vero delirio, ci fermano continuamente per invitarci ad entrare in questo o quel negozio, tanto non compriamo niente! I prezzi qui sono lievitati rispetto al Chiapas, complice il maggior turismo, infatti, nonostante sia bassa stagione, ci sono numerosi gruppi al seguito di guide. Abbiamo modo di chiacchierare con alcuni ragazzi maya, che hanno come intenzione finale di portarci in qualche negozio, ma è interessante ascoltare i loro racconti su come vengono intessute le amache o i cappelli Panama, alcuni di loro tutte le mattine si fanno dieci chilometri di bici per venire in città dal villaggio in cui vivono, altri studiano all’università e hanno amici italiani. Glissiamo ogni invito ad acquistare, anche perché ognuno dice che il precedente è un imbroglione e solo loro hanno prodotti autentici ed originali. Il zocalo è gremito di venditori di amache che cercano di convincerci che è il modo in cui dormono gli indios e che al mare ci servirà assolutamente per dormire nelle cabañas (e chi vuol dormire nelle cabañas??). Ci stanchiamo presto di quegli assalti continui e all’ennesima domanda “italianos?” Marco risponde “no, finlandesi”, e ci allontaniamo ridendo. Fa un caldo mostruoso, non oso immaginare d’estate, verso l’una ci rifugiamo in camera per riposarci, schivando un temporale che arriva puntuale a metà giornata.
Nel pomeriggio torniamo alla stazione dei pullman a comprare i biglietti per Uxmal (29$ in seconda classe) e per Playa del Carmen, dove andremo mercoledì (202$ in prima). Visitiamo il Palacio del Gobierno, contenente numerosi murales raffiguranti la storia messicana, con particolare attenzione al destino dei Maya. Merida continua a non soddisfarci molto.
Ceniamo ancora a El Trapeche, assaggiando uno squisito cochinita pibìl, carne di maialino speziata con contorno di fagioli neri, una delizia (100$). La strada intorno al zocalo viene chiusa per una festa regionale, con danzatori davanti al municipio. Andiamo a letto presto, in vista dell’escursione di domani.
Martedì 11 NOVEMBRE – UXMAL: Ci vuole poco più di un’ora di strada per andare da Merida a Uxmal, sempre piatta e monotona. Il pullman, di seconda classe, è carico di turisti che vanno al sito ma anche di molti messicani che proseguono fino a Campeche. Viaggiare in 2°classe è altrettanto confortevole, l’aria condizionata è sparata a manetta, non c’è il televisore e i sedili sono appena più stretti, ma i pullman sono comunque nuovi.
Uxmal (87$, comprende anche lo spettacolo luci e suoni serale, ma noi non ci siamo fermati), “costruita tre volte” o “il luogo dei grandi raccolti”, architettura Puuc a sentir la guida. Abbiamo girato da soli come sempre (siamo un po’ allergici alle visite guidate), questo sito è molto più piccolo di Palenque e la boscaglia in cui è immerso fa un baffo alla giungla…Visitare un sito con Palenque nel cuore non gli rende merito, ne conveniamo. Per cui, cerchiamo di essere obiettivi. Uxmal è carino, a misura d’uomo, con linee armoniose e maschere del dio Chaac ovunque, ad invocare la pioggia che in questa regione torrida assicurava la ricchezza, raccolta in grandi cisterne, dette chultunes. Innumerevoli iguane si arrostiscono al sole, facendosi fotografare dai turisti, purchè non si avvicinino troppo. Turisti ce ne sono, tanti, ma non è ancora la fiera che, nostro malgrado, incontreremo a Tulum. E’ bellissima la Piramide dell’Indovino, 35 metri di altezza su base ovale, che domina il sito intero, purtroppo in restauro, per cui non ci siamo potuti salire, che peccato. In cima ai 30 metri della grande Piramide, seduti in un angolo d’ombra, c’è un silenzio che ne ha dell’incredibile, tutti parlano sottovoce per non turbare quella quiete. Ci addentriamo un poco nei boschi, allontanandoci dai gruppi di persone, per raggiungere il Cimitero, ma non è che ci dica molto. Accaldati e sudatissimi, alle 2 siamo fuori, ad aspettare il pullman delle 14,30 che ci riporterà a Merida. I bar all’ingresso del sito hanno prezzi esorbitanti e riusciamo a spendere 33$ per una coca e un ghiacciolo, che Marco paga la bellezza di un euro! Sgranocchiamo le nostre patatine seduti all’ombra di un alberello del parcheggio. Non è stato facile sapere come tornare a Merida, abbiamo chiesto a tre persone avendo tre risposte diverse, alcune delle quali piuttosto assurde. Poi il guardiano all’ingresso del parcheggio ci ha confermato il pullman delle 14,30 in partenza direttamente da lì, come ci aveva già detto la signora che controllava i biglietti…Quindi non vi fidate della prima risposta! Durante il ritorno a Merida abbiamo trovato l’ennesimo temporale iniziopomeridiano, quando siamo scesi già un ricordo lontano.
Il Museo Antropologico che volevamo visitare, chiuso al lunedì, è chiuso anche oggi pomeriggio a causa della festa regionale, che oggi attira nel zocalo i bambini con lo spettacolo dei clown e canzoni tipo zecchino d’oro. Dopo cena (bis di cochinita pibil a El Trapeche) guadagniamo una panchina nel zocalo e li stiamo ad ascoltare, godendo la frescura serale. Ormai il nostro pensiero va al Mar dei Carabi, che già abbiamo assaggiato.
Mercoledì 12 NOVEMBRE – PLAYA DEL CARMEN: Partenza alle 9,45 per cinque ore di viaggio in un paesaggio assolutamente monotono, unici lampi di interesse la tappa a Valladolid, circa a metà strada, e il cartello per Chichen-Itza, che non abbiamo il tempo di visitare in questa vacanza. Guardiamo i film, fa un freddo pinguino. Oltretutto, giusto da due giorni hanno aperto una nuova stazione di arrivo dei pullman, molto più lontana dell’altra (che è all’angolo della Quinta, a due passi dal mare e dal nostro albergo). Per cui ci tocca attraversare tutta la Quinta, la famosa strada pedonale, carichi sotto il sole delle due e mezza. Come premio, visto che questa è la nostra ultima tappa messicana, ci concediamo un magnifico albergo da 420$ a notte, con colazione, in camera “superior” all’Hotel Posada Sian Ka’an (“el comienzo del paraiso”, recita l’insegna all’ingresso): è un edificio bianco affacciato su un giardino verdissimo, con le palme e le noci di cocco a terra, la nostra camera si chiama “Gloria” ed è immensa, con un letto matrimoniale ed uno triplo (in cui ovviamente dormiamo) coperti da candide lenzuola, il balcone con vista mare e il fruscio delle onde che entra dalla finestra. Ce ne innamoriamo subito e decliniamo l’offerta della ragazza simpatica e sorridente della reception di spostarci in una camera un po’ meno cara domani. Giusto il tempo di infilarci il costume e siamo in spiaggia, a giocare con le onde. Ma il sole è già sceso e l’aria fresca inizia a dare un po’ fastidio quando risaliamo dal mare, bagnati.
Ceniamo alla Cabaña del Lobo, una bettolina con tovaglie di plastica all’inizio della Juarez, di fianco alla stazione dei bus (quella vicina), di quelle che piacciono a noi (130$). Per capire dove siamo capitati, passeggiamo avanti e indietro per la Quinta, strapiena anche in questo periodo dell’anno: l’idea è di una specie di paese dei balocchi, apparentemente ricco e sfarzoso, la Quinta è un carosello di musica colori e profumo di pesce, che esce dai numerosissimi ristoranti, tutti cari per gli standard locali (siamo quasi ai livelli europei). Anche qui hanno la brutta abitudine di fermare continuamente i turisti, ma ormai siamo diventati bravi a defilarci e sgattaiolare via. Tutto ciò cattura gli occhi e ci mette di buonumore, o sarà la tequila sunrise bevuta in un chioschetto con altalene appese al posto degli sgabelli? Anche qui ci sono tanti europei trasferiti, come la signora italiana del bar di fronte al nostro albergo, in cui beviamo l’unico vero espresso della vacanza (ma anche il prezzo è da espresso all’estero), o il signore modenese all’ingresso di un ristorante italiano che ci assicura di avere pasta fresca fatta in casa. Bello e divertente, ma questo non è Messico… Giovedì 13 NOVEMBRE – PLAYA DEL CARMEN: Dopo tanto girovagare ci meritiamo una giornata di riposo, mare e spiaggia. Colazione abbondante nella terrazza dell’hotel Labnah, gemello del Sian Ka’an, e presto in spiaggia. Oggi andiamo verso sud, passato il porto, verso la zona ultraricca di Playacar, dove alcune case costruite sulla spiaggia bloccano il passaggio. A noi va bene fermarci, c’è abbastanza sabbia per due salviettoni e un mare azzurro che ci invita. Poco dopo siamo già immersi e saltellanti fra le onde come ragazzini.
Il mare fa venire fame e oggi ci meritiamo anche il pranzo, comida corrida per 35$ in un ristorantino dalle tovaglie a quadri rossi e bianchi sulla Decima, la parallela della Quinta verso l’entroterra. Il riposino postpranzo viene interrotto dalla ragazza che pulisce la nostra camera, usciamo e torniamo in spiaggia, dove conosciamo Joe, un buffissimo scimpanzé con il pannolino portato in spiaggia da tre ragazzi messicani. Joe saltella in mezzo alla sabbia e si arrampica sugli alberelli del prato accanto, facendosi fotografare non troppo convinto dai numerosi bagnanti curiosi. Il sole scende presto ed io rinuncio a fare il bagno.
Ci rifiutiamo di cenare in questo baraccone che è la Quinta e scegliamo un ristorante con tavolini sotto una tettoia che si trova in una laterale verso il mare (di fronte al ristorante Gabi): posto molto carino, tovaglie a quadretti verdi blu gialli, ottimi chiles rellenos (piccanti!), arroz alla mexicana, un riso condito con verdurine varie, pescado alla veracruzana, e ci concediamo anche il dessert, una squisita frutta flambé con gelato (300$). Ma il tempo stasera è inclemente, poco prima di cena è iniziato a piovere, abbiamo raggiunto il ristorante a tappe, riparandoci, come tutti, sotto le tettoie dei negozi. Tra cui un negozio di sigari, in cui Marco si è improvvisato intenditore e ne è uscito con alcuni sigari dai gusti strani. Visto che non accenna a smettere di piovere e la Quinta è un fiume di fango, a causa degli scavi per i lavori che stanno facendo, rientriamo in camera presto.
Venerdì 14 NOVEMBRE – PLAYA DEL CARMEN: Oggi gita a Tulum. Prendiamo il pullman di seconda classe (34$) che in circa un’ora, dopo le tappe in quelle trappole per turisti che sono i parchi di Xcaret e Xel-Ha, ci scarica davanti alla strada per raggiungere il sito, un chilometro di sole cocente, ma non prendiamo il trenino che fa la spola avanti e indietro. Già all’ingresso troviamo conferma del nostro sentore che qualcosa non va. Dopo 10 minuti buoni di fila per fare il biglietto (34$), entriamo. Dentro, è un luna park di sabato pomeriggio, brulica di gruppi numerosissimi liberati dai villaggi purtroppo molto vicini, con i loro bei braccialettini colorati al polso “tu puoi, tu no”, o con l’adesivo dell’escursione, “tu dopo la visita puoi mangiare, tu invece no” a seconda del colore (scusate l’acidità verso i clienti dei villaggi, ma davvero li abbiamo odiati!). Peccato. Perché Tulum, “la fortezza”, nonostante sia molto più piccolo dei siti visitati in precedenza, è particolare per la posizione a picco sul mare, e con un mare così non può che essere bellissimo. Gli edifici spiccano sotto il sole limpido e contro il caraibico azzurro del mare. Purtroppo, intorno è un mercato, non c’è un momento in cui riusciamo ad essere soli e gustarci quanto stiamo guardando, è tutto uno scattare di macchine fotografiche e chissà in quanti obiettivi inconsapevoli siamo entrati. Ci sono troppi americani per i nostri gusti (ne abbiamo visto uno salire sul tetto di uno degli edifici periferici, il Tempio del Mare, per il gusto di farsi immortalare), sì, proprio quelli che abbiamo scaricato alla zona Hotelera di Cancun al nostro arrivo. E poi, non si può salire su NESSUN edificio, è bello leggere sulla guida quello che c’è dentro e non poterlo neanche vedere.
Certo, stare in cima alla scogliera a picco sull’acqua, col vento nei capelli è piacevole, il sole, con la brezza marina, ha un tepore che lo è altrettanto. Ma dopo poco più di un’ora, e dopo aver cercato quiete dove non c’è neanche un edificio da vedere e neanche un angolo di mare, ovvero, vicino alle mura (ci sono un’erbetta morbida e delle palme che sono una delizia), siamo già stanchi di rimanere. Anche l’idea di fare il bagno nella spiaggetta interna al sito, allettante nell’immaginario, ci passa in fretta, troppo carnaio, e ci sono addirittura dei turisti da villaggio che fanno i balli imparati la sera prima, delirante. Risultato: alle due siamo a Playa. (Il pullman per il ritorno, sia di prima che di seconda, parte dallo stesso punto in cui si scende, il biglietto si può comprare direttamente lì. I pullman di 2° sono molto più frequenti, ogni mezz’ora. E’ l’unico viaggio in cui a metà strada è salito un controllore a vedere i biglietti). Torniamo in spiaggia di volata, dove rincontriamo il nostro amico Joe, che nel frattempo ha preso confidenza e ce ne combina di tutti i colori, frugandoci negli zaini, cercando di rubarmi il fermacapelli e di fare a brandelli il mio “Polvere del Messico” (c’è ancora la sua impronta dentale sulla copertina!), oltre che riempirci di sabbia.
La sera mi accorgo di avere un antipatico mal di gola e un po’ di tosse. Ceniamo alla Tarraya, ristorante sulla spiaggia vicinissimo al nostro albergo, tavolini con la sabbia sotto i piedi, conosciuto per il buon pesce (150$). Di sicuro apprezza il cibo il gattino rosso che ci punta appena ci sediamo e non ci molla più, ringraziandoci per i bocconi forniti saltandomi sulle gambe a fare le fusa.
Questa è la nostra ultima serata in Messico, io non sono in gran forma, e poco dopo essere saliti in camera inizia il diluvio, che non smetterà tutta la notte.
Sabato 15 NOVEMBRE – PLAYA DELCARMEN…E RITORNO: Certo non era così che speravamo di lasciare il Messico! Dopo aver salutato il Chiapas con la pioggia, anche questo…Ci alziamo con un cielo plumbeo e la pioggia che continua a scendere. Beh, tanto vale tornare a letto! Dopo circa una mezz’oretta sembra schiarirsi, ci alziamo e andiamo a fare colazione al Labnah, slalomando fra il fango e le pozzanghere della Quinta. Imbuchiamo le ultimissime cartoline (l’ultimo giorno, come sempre) e cambiamo i pesos residui in dollari, tenendo pochi spiccioli per le cibarie. Incredibile, sembra farci la grazia di uscire il sole…Dopo non molto, in effetti, si fa largo fra le nuvole ed inizia subito a scaldare. Marco non rinuncia all’ultimo bagno, io ho ancora mal di gola e sono quasi senza voce, preferisco rosolarmi un po’ in spiaggia intanto che lo ammiro saltellare tra i flutti. Respiriamo l’ultima aria salmastra, gli ultimi spruzzi, le ultime onde, l’ultimo calore di un sole di novembre. Ultime briciole di Messico… A mezzogiorno siamo in camera, la doccia lava gli ultimi residui di sale sulla pelle, chiudiamo i bagagli e ci portiamo alla stazione dei pullman: all’una parte il nostro bus diretto per Cancun Airport (65$).
Eccoci alla fine della vacanza. L’umidità ci si incolla sulla pelle. Check-in e ulteriore tassa di 42 US$. Per fortuna il volo non è pieno e ci danno i tre posti centrali, così ci possiamo allargare.
Partiamo puntualissimi alle 16. Lo schermo (uno per ogni sedile, stavolta, con possibilità di scegliere il canale che si vuole guardare) inizia il conto alla rovescia dei chilometri verso casa. Due telecamere esterne, una in avanti, l’altra verso il basso, ci fanno gustare il decollo. Non ho più voce, sicuramente ho la febbre e il mal di gola si placa solo con una caramella dietro l’altra. Dopo aver guardato Terminator3 mi addormento sopra Marco. Entriamo nella notte, voliamo, usciamo di nuovo nella luce del giorno. La telecamera davanti riprende il sorgere del sole. Tutti i nostri compagni di viaggio si cambiano gli abiti estivi con vestiti pesanti. Tiriamo fuori di nuovo i pile e le sciarpe.
Atterriamo a Malpensa alle 9 di mattina. Fila disordinata per il controllo passaporti. Ovviamente davanti a noi ci sono alcuni extracomunitari che rallentano la fila. Non vedo l’ora di essere nel mio letto. Recuperiamo i bagagli. Fuori ci sono la metà dei gradi con cui siamo partiti, piove, c’è nebbia. La Stefi e Massi ci aspettano. Ci caricano in macchina e ci riportano a casa. SARA e MARCO