Etiopia: incanto e meraviglia

Vista la varietà del territorio Etiope ritengo opportuno un cenno geografico. Il paese può essere suddiviso in due grandi aree: i verdi e freschi altopiani del centro e del nord, i torridi bassopiani del sud. Nel centro-nord sono presenti le più risalenti testimonianze archeologiche del pianeta; il sud è, per la presenza di antichissime e...
Scritto da: claretta75
etiopia: incanto e meraviglia
Partenza il: 03/08/2001
Ritorno il: 23/08/2001
Viaggiatori: fino a 6
Ascolta i podcast
 
Vista la varietà del territorio Etiope ritengo opportuno un cenno geografico. Il paese può essere suddiviso in due grandi aree: i verdi e freschi altopiani del centro e del nord, i torridi bassopiani del sud. Nel centro-nord sono presenti le più risalenti testimonianze archeologiche del pianeta; il sud è, per la presenza di antichissime e straordinarie tribù, il centro di maggiore interesse antropologico di tutto il continente africano.

Il mio viaggio di 20 giorni si svolge proprio nella Valle dell’Omo, la zona tribale dell’estremo sud attraversata dal fiume Omo, che qui scorre per più di 1000 km per poi affluire nel Lago Turkana in Kenya. Dalla capitale Addis Abeba, posta al centro del paese, con mezzi fuoristrada scenderemo fino al Lago Turkana attraversando l’altopiano centrale prima, il bassopiano del sud dopo, lungo la Rift Valley, la grande frattura tettonica che taglia diagonalmente tutto il continente africano.

E’ il 3 agosto 2001. Arriviamo ad Addis Abeba in serata: fa’ freddo e piove, del resto siamo a 2.400 mt d’altitudine ed è la stagione delle piccole pioggie.

Il mattino seguente siamo pronti a partire, non prima però di essere passati dal supermercato per i rifornimenti di acqua e quanto necessario nei giorni nella valle dell’Omo, quando saremo lontani dai centri abitati e ogni cosa sarà difficilmente reperibile.

Si parte quindi alla volta dei Laghi Langano, Abyata e Shala, 220 km in direzione sud su una strada asfaltata che è senz’altro la migliore di quelle fin’ora percorse in Africa. Arriviamo al Parco Nazionale dei Laghi attraverso il paeseggio magnifico dell’altopiano: il cielo grigio non riesce a stemperare il verde brillantissimo che ricopre ogni cosa; le praterie, le colline ondose e le alte montagne si intrecciano l’una nell’altra conferendo al paesaggio una sinuosità piena di fascino. Lungo la strada attraversiamo diverse cittadine ( per lo più grandi villaggi ) che ci appaiono come grandi pozzanghere fangose. C’è un gran via vai di macchine, camion stracolmi di cose, persone e animali, capanne, baracche, lamiera, sporcizia e precarietà. E’ così che purtroppo quasi sempre si presentano i centri urbani (?) in Africa Nera e generalmente nei paesi del terzo mondo. Appena fuori però torna il paesaggio splendido dell’altopiano, dove la natura è ancora, malgrado tutto, padrona indiscussa. Visitiamo il Parco che pullula di volatili di molte specie, dai fenicotteri, ai piccoli uccellini variopinti, alle grandi aquile. Ci fermiamo a dormire in uno degli hotel sorti sulle rive del lago Langano, oggi frequantati oltre che dai turisti anche dagli etiopi benestanti che dalla capitale vengono qui per il fine settimana o le vacanze.

Il mattino seguente siamo di nuovo in viaggio, 120 km per arrivare a Shashemene, passaggio obbligato per tutti coloro che attraversano il paese da nord a sud da est a ovest. Cittadina orrenda, caotica e polverosa dove ci sono più officine che case. Ci fermiamo per fare rifornimento e per comprare un po’ di frutta, con gli occhi sempre aperti però, perchè nel giro di due secondi ti portano via di tutto, dallo specchietto della macchina, alle cinghie dei borsoni…Qualsiasi cosa possa vagamente tornare utile in questo grande mercato del riciclo. Notiamo abbastanza straniti, la presenza di numerosissimi Rasta africani ma anche molti bianchi…A 2 km c’è infatti un grande villaggio chiamato “Jamaika” che ospita la più grande comunità di Rastafariani di tutta l’Africa. A Shashemene lasciamo la direzione sud e prendiamo una pista sterrata che corre verso est, verso i Monti Bale e il Bale Mountain Park, dove saliremo fino a 4.300 mt di quota. La deviazione ci prende due giorni ma assolutamente ne vale la pena. Il paesaggio è infatti di rara bellezza: la vegetazione lussureggiante avvolge tutto; le capanne circolari sono disseminate qua e là fra le dolci onde verdi; le nuvolette di nebbia si confondono col fumo che si alza dai tetti di paglia: il silenzio e il cielo languido sfumano questo paesaggio che ci appare incantato e fuori dal tempo…Quasi cominci a dubitare che esista davvero, magari lo stai solo pensando…E invece no, esiste, ed è lì da sempre. Procediamo piano e improvvisamente taciturni, forse per paura che il rumore o una inutile parola possano interrompere questa magia.

Non incontriamo altre macchine in transito, e quando ci fermiamo uomini e donne lasciano il loro fare quotidiano e si avvicinano, timidi e gentili, per chiederci dove andiamo, da dove veniamo… Quando ripartiamo ci salutano in un sussurro, e tornano alla loro quotidianetà. C’è una tale grazia in questi gesti che uno strano senso di beatitudine sembra aleggiare a mezz’aria. E’ inconsueta quanto inaspettata questa sensazione di pace. L’Africa mi ha abituata ad accoglienze ben più… Rumorose! Mani, braccia, occhi, pelle, voci, odori… Tutto moltiplicato all’ennesima potenza… Un tale turbinio di vita che è impossibile non restarne sopraffatti. Quella tempesta di emozioni te la porti dentro fino a casa, ti resta come appiccicata addosso per molto tempo, fino a quando non affievolisce e diventa languore e nostalgia, e allora capisci che è tempo di tornare in Africa.

Tornando all’Altopiano… La sensazione è quella di essere nel regno della pace e dell’armonia, malgrado l’Etiopia sia uno dei paesi più poveri del mondo. Gli etiopi non hanno tratti somatici negroidi ma nubiani: pelle dorata e lineamenti dolci e delicati. I tratti gentili di questi volti rispecchiano perfettamente il temperamento di questo popolo.

Visitiamo il Bale Mountains Park dove passeggiando riusciamo a vedere il Nyala e la Volpe del Simnien, entrambe specie endemiche del paese. Credo tuttavia non sia questo il motivo che vale la visita ai Monti Bale, quanto piuttosto lo struggimento del suo paesaggio, la sua gente leggiadra, i bambini giocosi che ci salutano gridando il loro personalissimo ciao che fa ” iù – iù”! La sera ci fermiamo a dormire a Goba, piccolo centro dove ci sono due hotel e una banca. Naturalmente ci vengono serviti i piatti della cucina etiope, che io mi limito ad osservare visto che per me è tutto troppo piaccante. Si tratta principalmente di stufato di carne ( Wot ) o di pesce d’acqua dolce ( Asa Wot ) preparati con l’incendiaria salsa Berberè, intruglio diabolico ottenuto con ben 16 spezie. A queste pietanze si accompagnano una serie di salse e pappette tutte molto colorate e altrettanto saporite, generalmente poste a mucchietto su una enorme crepe ( 40 cm di diametro! ) adagiata su un grande piatto di latta. Si tratta dell’ Ingera, una specie di pane fatto con latte acido e un cereale indigeno che è la base di ogni pasto. Spessa e spugnosa, di colore incerto fra il grigio topo e il color carne, è la cosa meno appetitosa che io abbia mai visto. La servono anche arrotolata in strisce che abbiamo necessariamente soprannominato “fasce elastiche del dottor Sholl’s”!! La mattina successiva ci spostiamo ancora 120 km ad est per raggiungere le Grotte di Sof Omar, 16 km di grotte sotterranee che nei millenni il fiume Web ha scavato nelle montagne di pietra calcarea. Nel minuscolo villaggio adiacente prendiamo una guida, necessaria fra i meandri spesso totalmente bui delle caverne. A parte qualche scorcio pure bello, la visita alle Grotte di Sof Omar mi ha lasciato abbastanza indifferente, con qualche punta di fastidio per il miliardo di pipistrelli ciondolanti dalle pareti a volta! Da Sof Omar ritorniamo a Shashemene, attraverso la pista sterrata e limacciosa che avevamo percorso all’andata. La stessa aria bagnata, le stesse capanne sparse nel verde, gli stessi bambini allegri, le facce e le voci più dolci che abbia mai visto. A Shashemene riprendiamo la direzione sud per giungere in serata ad Awasa, città di una immagginaria eppure fortemente tangibile frontiera fra l’Etiopia e la Valle dell’Omo, che scopriremo presto essere un mondo a sè stante, diverso e lontanissimo dal resto del paese. Prima di ripartire facciamo un bel rifornimento di acqua, frutta e verdura, visto che per i prossimi 14 giorni resteremo lontani da centri abitati, hotel, negozi, ristoranti.

Ed ecco che nel giro di un centinaio di km ci ritroviamo catapultati nell’ Africa più selvaggia e primordiale, dove la natura e gli uomini parlano ancora una lingua comune, quella del primo uomo. Non è esattamente così, oggi non c’è più terra inviolata, ma è senz’altro un mondo più vicino a quello delle origini che al nostro.

La terra si fa rossissima, la vegetazione si dirada, il sole che illanguidiva il cielo dell’altopiano si fa temerario e sfavilla imperituro nel cielo immobile e senza fine.

L’incanto dei piccoli villaggi avvolti nella nebbia scompare d’improvviso: siamo nella Valle dell’Omo.

Qui non si parla più l’amarico ma un crogiolo di idiomi risalenti nel tempo.

Qui il Cristianesimo e l’ Islam non sono praticate perchè l’ Animismo regola ancora e sempre ogni azione quotidiana.

I tratti somatici e il colore della pelle si fanno via via più marcati.

Qui non avremo più la certezza di essere accolti con entusiasmo e benevolenza, anzi ci confronteremo quasi sempre con una diffidenza coriacea e fortemente radicata che del resto ha consentito a queste tribù di conservare quanto più possibile inalterata la loro tradizione culturale.

Da Awasa in poi l’asfalto ha lasciato il posto a una pista sterrata che fra buche, sassi, tratti sabbiosi, solchi profondi che squarciano il terreno, corre, in un sali scendi tortuoso, fra acacie a tetto e enormi formicai che sembrano castelli di terra rossa.

Facciamo il campo nei pressi di El Sod, e il mattino seguente andiamo a vedere il piccolo lago salato che si è formato nel suo cratere e dal quale si ricava un sale nero di grande pregio. Scendiamo a piedi fino al lago ( che dall’alto ci appare come una grande pozzanghera di petrolio ) lungo i ripidi e stretti fianchi del cratere, dove incrociamo diversi asini che portano sù le pesanti bisacce di fango nero. Risalire sotto il sole, 4 – 5 km, è massacrante! Omini che si tuffano nell’acqua per prendere una manata di poltiglia scura… Assolutamente non vale tanta fatica! Arrivo alle macchine che ho le visioni… Quando mi riprendo ho però modo di osservare gli abitanti del piccolissimo villaggio sorto intorno al lago. Si tratta dei BORAMA, etnia nomade che da molti anni ha dovuto lasciare il basso Omo perchè sopraffatta da etnie ben più aggressive. I tratti non sono ancora tipicamente negroidi, ma già più marcati rispetto a quelli degli etiopi dell’altopiano. Le donne indossano stoffe coloratissime che portano alla maniera mussulmana; è questa del resto l’unica etnia dell’Omo presso cui l’ Islam ha preso piede sull’ Animismo, probabilmente perchè questa zona rimane ancora abbastanza accessibile rispetto al basso Omo. Si tratta comunque sempre di un Islam poco ortodosso, alla maniera africana insomma: Corano e riti tradizionali si fondono e convergono in una ritualità confusa e fantasiosa! Riprendiamo la strada verso sud e ci imbattiamo in un piccolo mercato Borama che è una meraviglia di odori, voci, colori… Le donne coi loro foulard colorati, le zucche piene di latte ornate di cuoio e conchiglie, i capelli splendidamente acconciati… Le merci sono poche e disposte grossolanamente su stracci e stuoie che da terra fanno capolino: qualche frutto, verdure, sapone venduto a peso, sacchetti di sale, qualche pesciolino affumicato… Ma c’è lo stesso una grande vitalità, come nei grandi magazzini in questi giorni di festa.

Proseguiamo ancora in direzione sud-est, all’imbrunire ci fermiamo per fare il campo.

Ripartiamo di buon’ora ed entriamo in territorio KONSO, etnia che vive in grandi villaggi e che è famosa per la tradizione di erigere bellissime statue lignee, i Waga Konso, alla morte di un componente importante della comunità. Purtroppo la tradizione sta pian piano scomparendo per via dei numerosi furti dei Waga che vengono poi rivenduti ad Addis Abeba per diverse migliaia di dollari. Per poter ammirare i Waga siamo quindi costretti a lasciare la pista principale per raggiungere i villaggi più isolati dove ancora la tradizione resiste. Questo del resto sarà una costante ( e una complicanza ) durante tutto il viaggio: i villaggi più accessibili hanno già avuto a che fare col turismo e conseguentemente hanno codificato un comportamento il più elle volte detestabile: devi pagare una sorta di dazio per entrare nel villaggio, quasi sempre pagare per fotografare… È tutto un contrattare, una cosa che svilisce l’ esperienza, che mortifica noi e loro, che impedisce un contatto sincero fondato innanzitutto sulla sana curiosità reciproca. La straordinarietà dei costumi di queste tribù ha infatti richiamato, intorno agli anni 80, l’attenzione ( prima che dei turisti ) di molti fotografi e documentaristi che hanno pagato in maniera sconsiderata e deleteria i loro reportage, creando in queste popolazioni il triste e ormai radicato fenomeno della commercializzazione dell’immagine. Presso alcuni di loro l’effetto è stato devastante, perchè ha rotto equilibri millenari spesso a favore della violenza: con i soldi infatti questa gente ci compra i kalashnicov, per tutto il resto vige tutt’ oggi il baratto. Naturalmente i turisti gretti e ignoranti, semplicemente a caccia di una sterile avventura, hanno contribuito e contribuiscono a perpetuare il triste scambio: ” 1 foto = 1 birr ” , e in questa orrenda pratica si esaurisce ogni contatto.

Personalmente non pago mai le foto, nè distribuisco caramelle, soldi e quant’ altro. E’ il modo più superficiale, arbitrario e ingiusto di affrontare il problema della povertà, si può fare di meglio e soprattutto im maniera più incisiva, sul posto e anche da casa nostra.

Ho deviato il discorso, volevo piuttosto sottolineare che questo tipo di viaggio diventa davvero straordinario quando si lasciano la pista principale e i villaggi più accessibili, per raggiungere quelli più isolati, i soli dove è ancora possibile un approccio spontaneo e sincero con le popolazioni locali, e dove è ancora possibile incontrare l’ Africa più vera e autantica, e non quel triste teatrino che tanto piace a noi turisti.

Nel tardo pomeriggio, costeggiando il confine col Kenya, arriviamo nel punto in cui l’Omo si riversa nel Lago Turkana : finalmente l’Omo, che da adesso risaliremo costeggiandolo a tratti sul versante orientale e a tratti su quello occidentale, attraversando i territori abitati dalle varie tribù. Facciamo i campi sulle sue rive, in punti però sufficientemente alti sì da evitare spicevoli visite: il fiume è infatti popolato da una nutritissima colonia di coccodrilli, enormi e più brutti del solito! Le giornate si fanno molto faticose: fa’ molto caldo e tuttavia bisogna stare coperti per proteggiersi dalle zanzare malariche che, in barba ai repellenti, ci molestano anche di giorno; le popolazioni locali non brillano certo per senso di ospitalità e gentilezza, bisogna quasi sempre impegnarsi in vere e proprie imprese diplomatiche!; le piste sono a dir poco massacranti e ogni giorno c’è un qualche problema meccanico in agguato… La sera siamo ridotti a statue di terracotta, i capelli un groviglio inestricabile… Nel fiume ci sono i coccodrilli e allora ci si deve lavare con l’ acqua di un catino… Le serate torride trascorrono asserragliati in tenda a combattere battaglie perse in partenza con miliardi di zanzare e insetti vari. E tutte le notti ad allietare il nostro sonno un grido assordante di un animale inizialmente non identificato: scopriremo trattarsi di un rospo odioso dal gracidio assurdo! Così all’ alba, in un balzo, siamo tutti in piedi e pronti a partire, ben lieti di porre fine alla nottata infernale. Ma giuro, ne vale la pena! Risaliamo il fiume inizialmente sul versante orientale, ed entriamo nel vasto territorio abitato dagli HAMER, tribù numerosa dedita all’agricoltura ( sorgo, tabacco, miglio ) e all’ allevamento. Gli Hamer sono valorosi guerrieri, non vivono in villaggi ma in clan familiari sparsi sul territorio; gli uomini sono orgogliosi della bellezza delle loro donne dal caratteristico caschetto di treccine impastate di grasso animale e polvere di ferro. Come quasi tutte le tribù dell’ Omo, gli Hamer sono maestri nell’ arte di decorare il corpo: monili di ferro, scarificazioni e ornamenti vari hanno sempre un significato simbolico. Il numero di orecchini indica ad esempio il numero di mogli appartenenti ad un uomo; i numerosi bracciali e le tante cavigliere di ferro delle donne la loro appartenenza ad un certo clan; i pesanti anelli intorno al collo misurano la ricchezza del marito. Numerose le scarificazioni sulla pelle, principalmente sull’ addome, le spalle e la schiena, che però presso gli Hamer sono apprezzate non tanto per il ” disegno ” quanto più per lo spessore della cicatrice.

Andiamo al mercato settimanale che si tiene presso un piccolo villaggio dove gli Hamer si radunano per scambiare le loro merci: sono centinaia, e io sono stupita, emozionata, stordita e felice nel ritrovermi miracolosamenete lì. L’approccio con gli Hamer è però pressocchè nullo: è come se non ci vedessero ( cosa che si può seranamente escludere, visto il forte contrasto… Di stili! ), ostentano indifferenza e fierezza, non chiedono soldi per le foto ma se ti beccano… Eppure quando li incontriamo singolarmente per strada non sono così freddi e distaccati, invece adesso tutti insieme è come se ci fosse fra loro un tacito accordo, e quando qualcuno cede e mostra un minimo di apertura verso di noi, viene subito richiamato… Se volevano mortificarci, ci riescono alla grande. Alla fine ce ne andiamo sinceramente dispiaciuti per questo atteggiamento scontroso e impenetrabile. Tuttavia le donne hanno in serbo per noi una sorpresa: la mattina successiva veniamo svegliati da voci e risa soffocate, un brusio che cresce ondoso nello spiazzo in cui abbiamo montato le tende. Mettiamo la testa fuori e ci ritroviamo letteralmente circondati da un nutritissimo gruppetto di donne e bambini che ha portato zucche da venderci, ma che soprattutto è lì per vedere che facciamo! Finalmente la Divina Curiosità, quella che ci permette di comunicare malgrado una lingua e una gestualità differenti, quella che ci spinge gli uni verso gli altri, al di là di tutte le differenze e di tutti i pregiudizi. Ed ecco che l’ imperturbabile distacco degli Hamer nulla può di fronte alla magia della schiuma di una saponetta, ai bagliori odorosi di uno spruzzo di deodorante, al mio evidente sconforto alle prese con spazzola e capelli… Alla fine è tutto un toccarsi, osservarsi, confrontarsi… Ci salutiamo calorosamente, e io mi sento immensamente felice per l’ardua quanto insperata preziosa conquista! Ripartiamo sempre sul versante orientale dell’Omo, la savana si fa più fitta, a tratti desertica a tratti boschiva. Entriamo in territorio TSAMAI, etnia imparentata con gli Hamer e dedita all’agricoltura e all’allevamento. Anche gli Tsamai vivono in clan sparsi sul territorio, sicchè abbiamo la possibilità di incontrare sulla strada diverse piccole comunità, spesso solo una famiglia, che solo inizialmente si mostrano diffidenti, ma che presto non esitano a mostrare il loro entusiasmo per la nostra presenza. Difficilmente incontriamo persone anziane, infatti fra queste popolazioni la vita media rimane ancora molto bassa. Gli uomini portano i capelli acconciati in maniera complicatissima, uno stretto pareo sui fianchi e diversi ornamenti di perline colarate, oltre all’immancabile sgabellino di legno (alto appena 15 cm ) che portano legato alla cintola.

Le donne sono invece famose per la ” coda “: la loro gonna infatti davanti lascia scoperte le gambe, posteriormente invece si allunga fino a terra e termina con una punta di metallo che lascia una traccia sul terreno al loro passaggio… L’ usanza sembra derivi dall’ esigenza dei mariti di controllare le loro donne! In effetti le donne Tsamai, chiamate dalle altre tribù ” le donne con la coda “, sono straordinariamente belle e sensuali, altere, e dal sorriso malizioso Il paesaggio cambia nuovamente, in questo tratto di risalita attraversiamo la foresta pluviale. Siamo in territorio Banna, tribù guerriera a rischio di estinzione le cui lotte con i Surma e i Mursi sono molto cruente tutt’ oggi. Anche i Banna si dedicano alla decorazione del corpo, che però interessa prevalentemente gli uomini: la maggioranza ha il corpo completamente dipinto tanto da sembrare vistiti! Inoltre ancora oggi gli uomini che hanno ucciso un nemico o un animale pericoloso sono soliti portare una piuma fra i capelli. Forse ci facciamo suggestionare dalla fama di “ferocità” di questa etnia, ma effettivamente le facce e i modi ci sembrano particolarmente aggressive.

…Sono così lontani i giorni sull’altopiano! I visi dolcissimi e gli sguardi gentili. Sembra davvero di essere in un altro mondo, lontano e a tratti mentalmente inaccesibile. I giorni comunque trascorrono fra meraviglia, incredulità, emozioni e fatica! Una delle jeep è stata assaltata dalle pulci, e per quanto ci si adoperi per uno sterminio di massa, una cellula di irriducibili continuerà a molestare gli occupanti di quella macchina per il resto del viaggio e, probabilmente per affezione, fino a casa a Firenze e Treviso! Le macchine continuano a combattere battaglie cruente con le piste nemiche, e spesso le piste hanno la meglio, ahimè!! Le scimmie molestano i nostri bivacchi. Le iene di notte vengono fra le tende e portano via scarpe, magliette e qualsiasi cosa possa lontanamente interessarle! I varani sono veramente orrendi ma non ci creano problemi, a parte mettermi addosso un’ ansia crescente tutte le volte che devo inoltrarmi nella vegetazione da sola: un incontro ravvicinato e sarei morta d’infarto! Il rospo maledetto non demorde, e ogni notte torna col suo grido insopportabile… Ma fra tanti animalacci, uno tuttavia si è distinto per bellezza e simpatia: una scimmia endemica dell’Etiopia, dal manto nero lucente con la sola faccia e la coda peluchosa bianco candido… Saltella giocosa fra le cime degli alberi sopra le nostre teste, non emmette alcun suono molesto, non morde, e non ruba! Entriamo in territorio KARO, i due giorni più faticosi in assoluto, perchè la zona è una steppa desertica a tratti infestata dalle mosche tse-tse. L’ unico modo per evitarle è stare trincerati in macchina, sicchè capita di fare anche un’ora e mezza senza potersi fermare e scendere… Coi finestrini siggillati, 40° fuori = 50° dentro…

…I Karo poi… Gente strana! Arriviamo finalmente in un villaggio e non facciamo in tempo a scendere dalle macchine, che dobbiamo subito andare via perchè la nostra fulminea presenza scatena una lite furibonda quanto incomprensibilefra i due ( presumibilmente ) capi, uno vecchio e uno giovane.

In un altro villaggio ci cacciano via perchè dicono che percepiscono in noi una forte negatività!!!! Fino a che però sul nostro cammino non incontriamo una ” Capa ” che si rivela un gran personaggio. E’ simpatica, autorevole e insperatamente ospitale! Un po’ diva, vuole essere fotografata ma la cosa straordinaria è che studia lei le pose e sceglie lei gli sfondi!!! Ci fa’ da cicerone nel suo villaggio, ci mostra le macine per il sorgo e ordina alle donne di farci vedere come si fa’… I Karo vivono di agricoltura e sono grandi produttori di miele; sono sedentari ma a volte sono costretti a spostarsi per la presenza della mosca tse-tse. Sono alti e slanciati, hanno innumerevoli pearcing e un’acconciatura particolarissima: una sorta di scalpo cui sono attaccati una moltitudine di palline di argilla impastata con grasso animale.

L’ eccentrica capa, infine, ci offre una immonda mistura a base di tabacco e miele che siamo costretti ad accettare perchè qualcosa ci dice che non è il caso di contrariarla! Risaliamo il fiume sino al Mago National Park, abitato dai Mursi e dai Bumi. L’ etnia MURSI è fra le tribù dell’Omo quella più conosciuta per via del particolare piattino labiale delle donne.

La macroscopica deformazione sinceramente non può non impressionare! Soprattutto se si pensa alla tortura che si deve subire per ottenerla: nell’incisione del labbro inferiore viene inserito un piattino di terracotta via via più grande; poi si estraggono ( Dio mio che male! ) gli incisivi inferiori affinchè il piattino possa poggiare sul palato e quindi rimanere ben teso… Il piattino viene tolto per mangiare, e allora un labbrone enorme pende sul mento! Su questa tradizione culturale gli antropologi non sono ancora giunti a una spiegazione comune: per alcuni l’ uso del piattino è da assimilare a tutte le altre pratiche estetiche fortemente diffuse presso le popolazioni tribali; per altri invece l’ uso trova la sua fonte nell’ esigenza di sottrarre le donne alla tratta degli schiavi: sembra infatti che i Mursi siano stati risparmiati alla schiavitù proprio per via del viso orrendamente deturpato, che faceva orrore ai possibili compratori e quindi ne rendeva inutile la tratta.

I Mursi vivono di allevamento, sono alti e particolarmente belli ( malgrado tutto! ), il corpo è statuario e inciso da numerose scarificazioni.

Sono fieri e aggressivi, in lotta con molte tribù della Valle ancora oggi. In loro l’atteggiamento fortemente interessato nei confronti dei turisti è molto radicato, il contatto con loro è stato quindi da un punto di vista umano fortemente deludente.

Lasciati i Mursi risaliamo l’ultimo tratto dell’Omo per raggiungere i BUMI. Etnia in via di estinzione e fra le più aggrssive, in lotta con quasi tutte le tribù della Valle. Tuttavia il nostro approccio con i Bumi è stato giocoso e allegro, forse perchè nei piccoli villaggi c’erano sopratutto adolescenti e bambini che ci hanno accolto sempre con molto entusiasmo. Vivono di allevamento, e questo spiega l’assenza degli adulti dai villaggi, uomini e donne infatti sono impegnati nel pascolo del bestiame.

Lasciamo i Bumi, la Valle dell’Omo e le sue incredibili tribù. Riprendiamo la strada verso l’altopiano e d’improvviso, così com’era accaduto all’andata, tutto è cambiato: i colori, gli odori, le facce.

Arriviamo in serata ad Arba Minch, finalmente una doccia e un letto! La mattina andiamo a Chencha, 2.800 mt, dove vivono i Dorzè. La vegetazione torna imperiosa e lussureggiante, e il caldo che ci aveva tramortito sulle polverose piste del sud è ormai lontanissimo, anche se era solo ieri. Ritorna la sensazione di quiete e d’incanto.

Chencha si trova in cima a una pista scivilosa e impantanata per via della pioggerellina costante, a 36 km da Arba Minch. I Dorzè vivono quassù, e si dedicano alla coltivazione dell’ Ensete o “finto banano”, dalla cui corteccia si ricava una fibra bianca altamente proteica che può essere consumata, conservata sotto terra in grossi panetti, anche nell’arco di 5 anni! E’ tutto ancora troppo recente e quindi in fase di collaudo: teniamo le dita incrociate perchè l’ensete potrebbe tornare molto utile nei periodi di carestia che purtroppo regolarmente martorizzano l’Etiopia.

Particolarissime le capanne dei Dorzè: molto grandi e alte fino a 15 mt, hanno la forma ad alveare e vengono spostate sul territorio.

Il mercato di Chencha è praticamente un pantano, ma estremamente interessante con il suo groviglio di cose e persone.

Per strada, avvolte nella nebbia, coi visi stravolti dalla fatica, incontriamo tante donne anche anziane ( ma saranno veramente anziane? ) che, a piedi nudi nel fango, si incamminano verso i loro villaggi sui Monti Guge, incurvate sotto il peso di fasci di sterpi, legna, pani di ensete… Malgrado l’evidente fatica ci salutano al nostro passaggio con un sorriso semplice, dolcissimo e indimenticabile.

Ritorniamo ad Arba Minch e ripartiamo per Addis Abeba, attraverso 600 km di strada asfaltata che in qualche modo ci riporta alla realtà.

Visiatiamo la capitale, che con le sue grandi strade e il paesaggio verde non è affatto infernale come invece spesso sono le capitali terzomondiste. Diversi i Musei. Quello Nazionale è senz’altro il più frequentato per via della presenza di Lucy, cui non manchiamo di fare una visitina. Si tratta dei resti fossili della nostra più lontana antenata, ritrovata nel 1974 e ribattezzata “Lucy in the sky” dalla canzone dei Beatles che ascoltavano gli archeologi al momento del ritrovamento. Un mucchietto di ossicine: così si presenta ai visitatori l’ominide vecchio di 3,2 milioni di anni. Gli altri musei della città sono molto interessanti, in quello Etnografico sono esposti molti oggetti di uso comune presso le tribù, identici a quelli che noi abbiamo visto utilizzare dalle genti dell’Omo solo il giorno prima.

Ad Addis Abeba vado a visitare un centro missionario gestito eroicamenete dai Salesiani; ci sono i bambini orfani e quelli abbandonati perchè malati o handicappati; la menza per i bambini di strada. Il centro è supportato anche dal VIS, che da quel giorno è il mio referente per un aiuto a questa terra martoriata che tanto ho amato e che tanto amo.

Ritorno a casa, con la sensazione di aver visitato non un paese ma due, lontani ed estranei l’uno all’altro.

L’ Etiopia delle fierezza delle tribù guerriere, della terra rossa, delle tradizioni ancestrali, del caldo torrido e delle mosche tse-tse, dei corpi scultorei incisi dalle scarificazoni, dei mercati vivacissimi ma troppo poveri di merci, del sonno funestato dal gracidio assurdo di un rospo rompiscatole, del sorriso sfrontato e malizioso delle ” donne con la coda “.

E l’ Etiopia dei bambini festosi che ci salutano gridando il loro tenero ” iù – iù “, del sorriso timido dei grandi, del verde brillante che avvolge ogni cosa nel suo abbraccio, delle donne nelle nebbia piegate come punti interrogativi sotto fasci di sterpi troppo pesanti, della fatica e del coraggio, della poesia e dello struggimento dei paesaggi di rara bellezza, dell’incanto e della quiete. Del tempo che scorre piano.

Flaming June



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche