Transafrica
Il problema é che da qualche tempo mi piace sorseggiare qualche bicchiere di vino rosso nel primo pomeriggio. Mi aiuta a dimenticare le grida di disperazione che troppe volte mi é capitato di intendere durante i miei sei mesi in Africa e il silenzio ancora più assordante degli sguardi di coloro che oramai non attendevano che la morte, sperando di poter trovare almeno nella propria fine una sorta di dignità altrimenti sempre negata. Avrei potuto bere anche questo bicchiere senza applicarmi al certosino salvataggio di un malcapitato moscerino caduto per caso nel mio terzo bicchiere di Aglianico, ma per una volta ho deciso di proiettare i miei fantasmi di pazzo loico su un’esistenza a me tanto estranea ma non per questo meno affascinante. Lo sapevo che il problema non sarebbe stata la partenza, ma il ritorno. Da quando sono tornato nulla é più come prima. Eppure, prima di questi sei mesi in Africa in compagnia della mia noia e della mia malcelata indifferenza ai “pericoli” che inevitabilmente un motociclista solitario attira, avevo affrontato altre sfide che sembravano al limite della follia: Iran, Pakistan, India, Nepal…Sempre da solo…Sempre in moto…Ma mai mi era capitato di tornare alla mia piccola normalità cosi profondamente trasformato. O forse non é che il ricongiungimento alla mia vera essenza, come se solo l’Africa avesse avuto la forza di scrollarmi di dosso, con la bonaria compassione di un gigante semiaddormentato, tutti i polverosi veli con i quali la mia protocultura occidentale aveva cercato di separarmi, forse per difendermi, dalla parte più segreta di me. E tutto adesso mi sembra meraviglioso, unico, irripetibile; ogni episodio di quei straordinari sei mesi che dal mio anonimo paesotto del napoletano mi hanno proiettato in Sud Africa fino a farmi espellere dal Congo assume ai miei occhi un valore indescrivibile, nulla a che vedere con gli aneddoti che ci si ritrova a raccontare al bar all’angolo con falsa modestia o alle foto da mostrare agli amici, no, niente di tutto questo, ma il valore di una chiave che finalmente ti permette di penetrare nel linguaggio segreto dei fiori e delle cose mute. Mi sembra ieri, potrebbe essere stato ieri, quando mi ritrovai sul traghetto tra Aswan (Egitto) ed Wadi Halfa (Sudan); una nave caricata all’inverosimile dove passai una notte ad ascoltare canti nubiani che riempivano dolcemente il silenzio di una natura mai percepita cosi selvaggia e vera. Il pasto offerto con il biglietto era più di quanto il mio stomaco di occidentale, ancora poco uso alla cucina africana a cui mi sarei presto abituato, potesse sopportare e con invidiabile regolarità ero costretto ad andare al bagno, una specie di buco senza luce eternamente affollato da una orda di disperati…Le ultime energie le avevo spese per caricare la moto sulla nave…Eppure…Anche in questo contesto dove tutto sembrava dovermi spingere allo sconforto…Mi divertivo con l’indecente spensieratezza di un bambino ad osservare come i fedeli mussulmani, che avevano disposto tappeti dappertutto per pregare, fossero costretti a cambiare di direzione per compensare gli spostamenti della nave, che lungo il proprio percorso era costretta a girare anche di 180 gradi per seguire le anse del fiume. Tutto qui in Africa é assurdo o forse semplicemente troppo diretto, per noi abituati ad una sorta di parcellizzazione dei sentimenti legata ad antiche consuetudini sociali. Il giorno prima della mia partenza in traghetto mi ero trovato una camera in uno strano albergo di Aswan che sembrava sfidare le più ovvie leggi della fisica, essendo paurosamente inclinato su un lato; all’interno una popolazione di donne tedesche sui 40 50 anni accompagnate da stalloni egiziani di miti pretese mi accolse con indifferenza. Una persona “normale”, come la maggioranza di quelli a cui ho parlato della mia idea di partire in Africa da solo per molti mesi, dovrebbe logicamente considerarmi pazzo, quantomeno perché in caso contrario sarebbe costretta a meditare seriamente sulla possibilità di essere egli stesso un pazzo; qui invece mi sentivo perfettamente a mio agio, la gente é troppo disperata o abituata a vivere nel regno dell’irreale per pensare alla tua pazzia. Forse per questo mi piace l’Africa. Nello strano albergo avevo conosciuto una ragazza russa che stava progettando di rapire sua figlia all’ex marito sudanese…Mi chiese un passaggio fino a Karthoum, non aveva un centesimo. Avrei voluto aiutarla ma sulla moto non c’era spazio per lei e la sua valigia…Lei non aveva il coraggio di insistere…L’avrei rivista il giorno successivo sul battello circondata dai soliti avvoltoi locali che cercavano di approfittare di lei…Al nostro arrivo a Wadi Halfa mi sembrò che le avessero preso il passaporto…Scomparve nella folla…Non la avrei piu rivista…In Africa la gente scompare presto, spesso troppo presto, e ogni saluto si può trasformare in un addio. Sul battello avevo incontrato anche Matz e Danila, lui tedesco lei argentina, avevano deciso di andare a vivere in Argentina ma prima volevano passare qualche anno in Africa, anche loro in moto, anche loro portavano come me i segni di un’alimentazione approssimativa e di un sole impietoso, ma anche loro come me avevano spesso dei grandi sorrisi di felicità vera. Mi sembra di riascoltare adesso i nostri discorsi in un inglese dai mille accenti diversi, circondati da una moltitudine gracidante che si affanna a sistemarsi per la notte sul ponte sudicio del battello. Mentre parliamo seduti sul ponte della nave si unisce a noi Ali, un giovane libanese diretto in Niger; voleva andarci in aereo ma Gheddafi glielo aveva impedito perché era stato in Arabia Saudita (un giorno forse capirò il senso di questa intricata matassa di ostilità reciproche dei paesi africani, per il momento ho imparato solo che meno se ne parla con sconosciuti meglio é).
Ali ha un computer portatile di cui é particolarmente orgoglioso, e mentre la coppia tedesco-argentina ne approfitta per guardarsi un film io mi infilo nel mio sacco a pelo cercando disperatamente di recuperare energie, non prima di aver dato un ultimo assalto all’abnorme scorta di cibarie di cui si é rifornito il previdente e generoso Ali, e di averlo affettuosamente ringraziato per aver lenito i miei crampi di fame, ospite quotidiano in Africa come avrò modo di constatare. Nei successivi due giorni avrò modo di ringraziare ancora il preziosissimo Ali per avermi accompagnato attraverso l’inestricabile labirinto kafkiano della burocrazia sudanese, fatto di moduli, marche da bollo, timbri, attese snervanti del funzionario di turno in uffici da visitare posti con diabolico cinismo a distanze abnormi gli uni dagli altri. E pensare che ritenevo di essere vaccinato a tali pratiche dopo le estenuanti ed interminabili visite nelle ambasciate iraniane in Turchia durante i miei viaggi in Pakistan e Nepal.
Chiudo gli occhi, li riapro…Rivedo Abu Simbel in lontananza e penso che un’ora prima non conoscevo Ali, Matz e Danila; che domani li vedrò probabilmente per l’ultima volta in vita mia. Che questo putrido battello non lo prenderò più in vita mia. E che pertanto la mia vita futura non sarà più la stessa dopo questa piccola folle sequenza di azioni apparentemente destinate a spegnersi nel tempo di un giorno. Dolori insopportabili mi impediscono di dormire; ho decisamente osato troppo nel mangiare la cena gentilmente offerta con il biglietto. Mi guardo intorno incuriosito; la notte l’Africa é ancora più bella, anche i fedeli che continuano ostinatamente a puntare in direzione della Mecca come un bracco da esposizione sembrano esserne coscienti. Un moscerino si posa baldanzoso sulla mia mano restando innaturalmente immobile, quasi a voler essere scrutato. Un ultimo sguardo alla luna avvolta da una nebbia irreale; stanotte i suoi crateri sembrano volersi beffare di me e per un momento ho l’impressione di guardare l’enorme occhio di un essere sconosciuto e lontano, che mi osserva divertito per le mie peripezie senza senso. Io la luna e il moscerino in un angolo perduto dell’Africa, tutto mi sembra perfetto anche se non so piu chi é l’oggetto il soggetto ed il motore immobile di questa inconsueta triade. La fame e gli stenti possono fare di questi scherzi, me lo avevano detto, ma il moscerino mi sembra realmente familiare, come i canti nubiani che ci circondano; per un momento ho avuto l’impressione di essere tornato a casa, la mia vera casa. Improvvisamente ho sonno, e i miei occhi si chiudono senza darmi la possibilità di riflettere sullo strano legame che potrebbe unire le mie allucinazioni su un insetto al fatto che mi ritrovo solo in Africa invece che dietro la mia scrivania di ingegnere in carriera.
Ma un giorno forse lo capirò, in fondo é anche per questo che viaggio.
Racconto di Antonio Capone spleen@libero.It Antonio si é concesso qualche licenza…Io non bevo vino!