Mali, il volto austero del Sahel
MALI …Il volto austero del Sahel… Il Mali è uno dei più poveri tra i paesi del mondo, basti pensare che il reddito medio procapite non supera i 300 $ annui (…Nella maggior parte dei casi è molto inferiore o addirittura quasi nullo). La sua collocazione geografica, a cavallo tra la fine del deserto del Sahara e l’inizio delle foreste centro africane, la presenza del fiume Niger che ne caratterizza e modifica periodicamente la morfologia, la continua carenza di acqua (anche quest’anno la stagione delle piogge non è stata particolarmente copiosa) e l’Harmattan, il vento del deserto che qui soffia con violenza e continuità per settimane tra i mesi di febbraio e aprile, sono gli elementi che rendono quest’area, il “Sahel”, una tra le più dure di tutta l’Africa.
Sahel… in arabo significa “spiaggia”, Sahara… ovvero “luogo che non si abita, lo si attraversa soltanto”, Deserto… deriva dal latino come “luogo abbandonato, quindi già abitato” Interpolando queste tre parole se ne deduce che: il Sahel è la spiaggia lambita da un oceano di sabbia (almeno dagli ultimi 4000 anni) e quindi non abitato, ma che un tempo era un mare vero, ricco di vita a tutti i livelli… Cercando di rendere una visione “quasi mistica” di questo luogo, si può dire che chi vive il Sahel, è colui che, sottoposto a difficoltà e restrizioni nella vita di tutti i giorni, spera e si prepara con ansia ad affrontare un ben più duro viaggio attraverso il mare (di sabbia) per approdare verso una migliore realtà.
Insomma, un purgatorio terreno dove gli “ultimi” vivono sperando nella grande migrazione verso il paradiso…, sarà anche questa visione che spinge verso di noi ignari europei, popolazioni provenienti dai più sperduti angoli del mondo, perché non solo in Africa il Sahel si accanisce sull’uomo !. …Sahel Qui la vita è tuttora regolata da cadenze naturali e abitudini ancestrali che ci riconducono indietro fino agli anni dell’età della pietra.
Le etnie più o meno autoctone che convivono in questa terra danno vita ad un raro esempio di mutualismo umano, le attività che esse svolgono sono ben distinte e suddivise come a creare una sorta di catena della vita alla quale tutti partecipano e nessuno vi si sovrappone. I Bambara sono mediamente ai vertici della vita governativa e culturale, i Songhai e i Bobo coltivano il miglio e il riso nelle pianure del Sahel, i Dogon lo coltivano sulla Falesia di Bandiagara, i Bozo sono provetti pescatori semi-nomadi, i Peul (o fulani) allevano il bestiame (buoi, pecore e capre) e infine i Twareg trasportano ancora oggi a dorso di cammello (le mitiche “Azalai”) le preziose lastre di sale estratte dalle miniere di Taudenni, ex città-prigione sita tra le dune a ~1000 km a nord di Tombouctou e ai margini dell’Erg Chech, una delle aree più remote del sahara.
…Tombouctou, un nome un mito, questa come altre delle città del Mali (es. Gao, Kidal, ecc…), producono nelle menti dei moderni viaggiatori, la stessa scossa che percorreva quella degli esploratori del passato e che li spingeva fin laggiù alla ricerca dell’eldorado africano.
Oggi tuttavia, il fascino di quei nomi vive solo nel ricordo di ciò che erano…, oggi sono solo un nome su una carta geografica !.
La situazione economico-politica del paese e la lotta delle tribù twareg per l’affermazione delle loro tradizioni e delle loro cultura in parallelo a quelle dei “neri” africani, ha portato alla guerra fratricida e alla progressiva desertificazione delle città del nord, Tombouctou in primis, e oggi si possono solo scorgere i fasti che furono nelle lapidi affisse sulle mura fatiscenti delle case degli esploratori come Gordon Laing, Heinrich Barth e Renè Caillè.
Quest’ultima proprio nella prima metà di agosto 2000, è stata distrutta dalle ire di un temporale e dalla perenne incuria dell’amministrazione locale che non ha mai fatto manutenzione (quelle di Laing e Barth sono ancora in piedi solo grazie alle sovvenzioni europee e al fatto che vi abitano delle famiglie…).
Come fare a mantenere in vita una città come Tombouctou, assediata dall’avanzare della sabbia quando le possibilità sono riposte solo nella cooperazione con qualche progetto occidentale? Inoltre, ancora oggi, non sempre corre buon sangue tra i “kel” twareg e le etnie locali. Con un po’ di attenzione si possono ancora scorgere i “Bellàh”, neri magari Songhai o Bambara che sono sì vestiti da twareg ma i loro lineamenti e la presenza di alcuni segni (una sorta di tatuaggi a fuoco di forma circolare) sulle braccia tradiscono la loro appartenenza ai “kel” solo in qualità di schiavi. Basti pensare che solo i più -di fiducia- vengono mandati al mercato a vendere o comperare al posto dei loro padroni e pertanto gli è concesso di portare la spada alla cintola e la lancia. Alcuni di loro sono stati “liberati” della loro condizione magari per benevolenza o perché si sono potuti comperare la libertà ma, non potranno mai sposare un uomo o una donna veramente twareg o appartenente a una casta superiore.
…Tombouoctou, arrivarci è tutto un programma…, ed è questo che continua ad alimentarne il mito presso le nostre menti!.
A seconda della stagione, della situazione legata alla sicurezza nel deserto e non ultima la scoraggiante irregolarità dei voli che collegano la città al resto del paese, poche ore di macchina si trasformano in quanto di più vario e complesso possibile.
In agosto ad esempio, ci è capitato di vederci “soffiare” i posti sull’aereo che da Mopti arriva a Tombouctou nonostante i biglietti fossero stati emessi mesi prima, solo perché a Bamako dove è partito l’aereo hanno riempito tutti sedili con il risultato che noi siamo rimasti a terra e senza nemmeno le scuse… Allora abbiamo vagliato le possibili alternative ma non ci è rimasta che la possibilità di farsi almeno 2 giorni (e relative notti) di navigazione per coprire i ~ 450 km che separano Mopti dalla meta !.
Questo perché la pista che parte da Gao è fattibile solo con 2-3 vetture 4×4 per problemi di banditismo (chissà se è proprio vero che l’unione fa la forza…), da Douentza si passa solo se con 2 o più vetture dati i numerosi e rischiosi guadi provocati dalle piogge… e, il rischio di rimanere “impiantati” è elevato in tutta la zona a Sud compresa tra il fiume e la striscia di asfalto che collega Sevare a Gao.
Ovviamente si pensava che almeno al ritorno fosse disponibile il solito aereo ma, neanche a dirlo non è ripartito per molti giorni e quindi la solita “pinassa” ci attendeva! Questo “inconveniente” ha senz’altro fatto salire la nostra attesa (all’andata!) e al ritorno ci ha dato modo di vivere per un po’ di tempo vicino ai pescatori Bozo i cui villaggi sono disseminati sulle rive e gli isolotti del fiume, contrattare il “pesce capitaine” per le nostre cene direttamente dal pescatore e visitare alcuni tra gli abitati incontrati.
Una sera, approdati su un bank di sabbia lungo la riva dove d’accordo con il “pinassiere” (che altri non è che il comandante!) e la nostra guida abbiamo deciso di sistemare le tende per la notte, accade qualcosa e ad un tratto ci sembra di essere piombati nel passato.
Un vecchietto agghindato di tutto punto per l’occasione (dei visitatori…! Avrà pensato…), ci viene a trovare per capire quali siano le nostre intenzioni.
Era il crepuscolo e sotto la luce argentata del cielo ci accorgiamo che indossa la “takouba”, stivali di cuoio dipinti con i simboli di appartenenza al “kel”, il turbante e nella mano sinistra tiene una lancia… è un twareg… Ovviamente dato l’isolamento e le sue origini, parla solo il tamacheq e pertanto non è stato possibile un vero e proprio dialogo ma gli abbiamo fatto capire che saremmo andati a trovarlo nella sua casa poco distante da li non appena allestito il campo.
È buio e ci accingiamo a raggiungere l’amico appena conosciuto, dopo un centinaio di metri illuminati dalle torce, passato un rado boschetto di tamerici arriviamo alla casa.
Come il resto dell’architettura maliana, è umilmente fatta di “banco”, mattoni fatti col fango misto a canne palustri e burro di karitè o sterco d’animale (usato come agglomerante e impermeabilizzante) e con il tetto ricoperto di canne. L’aspetto è pulito come tutto intorno nell’arco di alcune decine di metri, poco distante sulla sinistra c’è il fuoco acceso, dall’altro lato una sorta di granaio per le scorte alimentari ed in mezzo, proprio di fronte alla casa una stuoia utilizzata per sedersi a mangiare e riposare, sul retro il luogo dove pochi animali (3 capre e alcuni polli) sono custoditi in un recinto di rami d’acacia.
Tutta la famiglia fa capolino davanti a noi; lui “il twareg”, due figli uno di 10-12 anni l’altro più piccolo, una figlia un po’ più grande del primo e la giovane moglie.
Il vecchio si avvicina a me e a gesti mi chiede di affiancare il mio braccio al suo, lo faccio e lui subito mi fa notare con orgoglio che anche la sua pelle è chiara così come i suoi occhi e che quindi non ha nulla da spartire con i neri africani.
Questo è il “vero” twareg, orgoglioso delle proprie origini, gentile e fiero nello spartire quel poco che possiede nel nome dell’ospitalità sovrana, non come quelli che ti assillano a Tombouctou per portarti chissà in quale “finto” accampamento (è quello che sogna il turista)… È in quel momento che , dopo aver scrutato il luogo, scorgiamo due piccole amache fatte di canne ed appese a tre pali… sono due culle! e dentro dormono come angioletti due gemelli neonati dalla pelle d’ebano adagiati ognuno su di un materasso di canne secche.
Subito la moglie sorride e ne prende uno per darlo in braccio alla mia che con stupore se lo ritrova tra le mani…, spontaneamente nasce in lei la tenerezza così come il confronto tra noi bianchi e quella creatura; nonostante sembra avere 2-3 settimane di vita (ancora non vede…) è perfettamente formato e ha la consistenza muscolare di un bimbo di qualche mese e, a differenza dei nostri neonati, tiene tranquillamente la testa ritta sul collo. Pare sentire le mani straniere ma accenna ad un sorriso.
Il padre fa un cenno al figlio grande che va a prendere una capra, vuole prima donarcela e poi, dato il nostro prudenziale rifiuto, ci fa intendere che è pronto a sgozzarla in nostro onore…, a quel punto, con nostro rammarico (era l’unica cosa giusta da fare), rifiutiamo nuovamente, anche per non privarlo di quell’animale per lui prezioso e dopo i saluti ci accompagna fino al “limite” della sua proprietà per lasciarci tornare alle tende con la sua benedizione.
È stato un incontro così velato da incredulità e rispetto che nostro malgrado abbiamo rinunciato alle classiche “foto ricordo” per lasciare posto alle emozioni…
Dopo la cena a base del solito pesce accompagnato da riso o cous-cous cotti a vapore e con la solita buona musica maliana a perenne sottofondo, si va a dormire immersi nei rumori della vita animale che qui la notte “si fanno sentire”.
È proprio tra il cinguettio di un uccello tessitore e il rumore di un topolino che curioso si avvicina alle tende, che nel mezzo del sonno (leggero…) sentiamo un verso ruvido e forte, è un ippopotamo nell’acqua, proprio vicino alla nostra barca, e forse reclama il suo letto da noi usurpato.
Subito una luce si accende, è il pinassiere che valuta la situazione ma poi torna a dormire… Noi peraltro non siamo usciti dalle tende nonostante la curiosità dato che anche se apparentemente mansueto e gioviale, l’ippopotamo è tra i famosi “big five” africani e ricopre un posto di rilievo tra gli animali più pericolosi da incontrare.
La mattina di buon’ora (sono le quattro!) smontiamo il campo e proseguiamo il nostro peregrinare sulle lente acque del Niger alla volta di Konna, paese dove ritroveremo la 4×4 per il seguito del viaggio. Se non fossimo stati “obbligati” ad usare la pinassa, nostra gioia e sofferenza per cinque giorni, non avremmo mai potuto godere di quest’incontro assolutamente genuino e fuori dal comune che non fa che aumentare in noi quello che al ritorno viene comunemente chiamato “mal d’Africa” e che continuamente ci spinge a viaggiare in quella meravigliosa terra.
…La pinassa o meglio “la vita” in pinassa, anche qui gli aneddoti si sprecano; la forma è quella di una piroga un po’ cresciuta, misura circa 12-15 metri e può ospitare “scomodamente” 10-12 persone se non si prevede di dormirci dentro causa la pioggia ma, se si tiene conto di ciò e del fatto che solo nella sezione centrale è possibile stare distesi (a meno di essere dei pigmei!), il numero di occupanti scende a 3-4 più la guida e l’equipaggio formato dal pinassiere (che spesso è anche il proprietario) e il suo aiutante che funge anche da cuoco lungo il tragitto. Lungo il tragitto se ne vedono altre molto più grandi adibite al trasporto merci e/o persone, quest’ultime comodamente appollaiate un po’ ovunque per alcuni giorni! Ricordano vagamente la ressa di un vagone ferroviario con destinazione Sud Italia nei giorni di vacanza durante gli anni ‘60-’70…, ma qui è così da sempre e sempre sarà!.
Parte importante della vita di bordo la ricopre quel momento che tutti aspettiamo per “ritirarci”, cioè quando si deve andare al bagno; qui le cose si complicano ma dopo un po’ di pratica è un gioco da ragazzi… Insomma, bisogna uscire dalla barca tenendosi a un mancorrente di bambù fissato sul tetto di canne, avvicinarsi alla parte posteriore (dietro i motori fuoribordo) a piccoli passi sulle assi dello scafo ed infine si arriva alla meta. Il bagno è “isolato” dal resto dell’imbarcazione da un separè fatto delle solite canne e con un entratina semi chiusa da una tenda, una volta scivolati all’interno la privacy è “garantita” e il rumore dei motori copre ogni cosa. Un foro di circa 30 cm mette in comunicazione lo scafo con l’acqua del fiume che è a pochi centimetri da quella zona della coda e perciò, il gioco è fatto!.
Ovviamente un bagno simile lo si trova solo sulle barche più grandi e che principalmente trasportano le persone, per tutte le altre ci si deve rifare alle pratiche equilibristiche che erano adottate anche da noi quando si viaggiava per fiumi o per mare nei primi anni del secolo… ci si deve semplicemente sporgere dalla chiglia tenendosi saldamente da qualche parte e…! Altro momento clou del “navigare” in pinassa, è quello del temporale magari serale, ciò significa nella maggior parte dei casi che non durerà poco (in genere quanto basta per non fare campo!) e quindi bisogna attrezzarsi per la “notte/veglia” a bordo. Si tirano giù i lati della copertura fatti di foglie e canne abilmente intrecciate e ci si sdraia sulle panche più lunghe per dormire facendo ben attenzione a coprirsi (e magari montare una zanzariera..) per evitare gli insetti, soprattutto le zanzare che sorprese come noi dalle intemperie, prediligono la calma di vento e acqua all’ambiente esterno…, perciò saranno tutte a bordo! Ora, se l’acqua non entra “troppo” si può prendere sonno per qualche ora ma al mattino, statene certi, non mancheranno sulle parti del corpo incautamente lasciate scoperte i segni lasciati da zanzare, pulci, ragnetti, e quant’altro di vivo ha trovato calore e riparo vicino a voi.
…La vita sul fiume Molti sono gli aspetti che colpiscono lo sguardo di chi viaggia sul Niger; i villaggi sono sparsi qua e là ma mai vicini tra loro come a garantire una privacy necessaria al lento scorrere della vita.
Anche l’architettura delle abitazioni muta secondo l’ambiente, si passa dai classici villaggi costruiti con mattoni di “banco”, con viottoli stretti e puliti che portano alla spianata della moschea in stile sudanese a quelli ben più poveri siti sulle isole “mobili” del Lago Debo fatti di paglia e banco steso a mano, senza vie e senza speranza di sopportare le piene o le buriane di pioggia e vento. Ogni volta che la natura si fa vedere in tutta la sua forza, questi miseri agglomerati vengono abbandonati e ricostruiti su un’altra isola e così via… la vita continua e rende semi nomadi le famiglie Bozo sempre alla ricerca di pesce e di un posto “asciutto” almeno per un po’.
Se si passeggia tra le capanne, si assiste al frenetico affaccendarsi delle donne intente alla preparazione e conservazione del pesce pescato dai mariti e sovente questa attività è comunitaria così come la pesca, insomma ci si da una mano nella buona e nella cattiva sorte…
Anche gli animali da cortile, sono parte integrante delle famiglie e il loro posto è spesso a fianco dei pagliericci usati per la notte all’interno delle buie capanne.
Ciò comporta una mutualismo ed una convivenza che ci ha colpito molto, vuoi perché quando si mangia anche cani, polli e capre partecipano al banchetto, vuoi per la pericolosità della situazione igienica che ne deriva. Ciò non deve però farci pensare ai “selvaggi”, è solo che il Sahel porta a tutto ciò e l’uomo si deve adattare alla meglio… Sulla piccola spianata antistante le case, tutto il pescato più piccolo viene abilmente pulito, diliscato e lavato, successivamente viene disteso per terra per l’essiccatura al sole, quello più grande viene affumicato al fumo della legna e poi stivato per la vendita.
I bambini raramente giocano per lasciar posto alla partecipazione a quelle attività che regolano la vita del villaggio e il loro apporto è sempre ben visto e di grande importanza; quelli di età maggiore si occupano dei più piccini, lavano le stoviglie e preparano le fascine di legna per il fuoco. La scuola non esiste (se non nei villaggi più grandi) e tutto ciò che imparano è grazie alle parole degli anziani e, come per il regno animale, guardando gli adulti…
Altro momento “importante” è quello del bagno; donne e bambini si ritrovano sulla sponda e danno vita ad un carosello fatto di sapone, panni stesi e cura del corpo… Comincia con il lavaggio degli abiti indossati, continua con un energetico strofinio del corpo nudo e dopo l’abbondante risciacquo si indossano gli stessi abiti di sempre.
Gli uomini invece, come sorpresi dalla timidezza tipica della pubertà (da noi almeno…), raramente si vedono al bagno e se si incontrano sono al riparo dagli occhi del villaggio, oppure prima si immergono e poi si denudano per lavarsi.
Per noi, l’immagine del popolo africano spesso si associa ad una visione di incuria del corpo e della vita, nulla di più falso…, se si immagina di dover vivere “alla moda del villaggio”, scopriamo che faremmo le stesse cose e l’adattamento a cui saremmo sottoposti dopo poco non creerebbe più alcun disagio. La notte… Questo momento che per noi è di riposo, sul fiume è tutto un succedere di piroghe intente nella pesca; se si naviga in queste ore ci si imbatte in una miriade di barche che al buio totale calano le reti e attendono l’alba per raccogliere il frutto del faticoso lavoro. Ciò costringe ad una massima attenzione per evitare pericolose collisioni ed i segnali fatti con le torce sono l’unico avviso della presenza delle piroghe e delle reti tese da una sponda all’altra… Si naviga come attraverso un labirinto fantasma e la consumata esperienza del pinassiere è di vitale importanza !.
Anche questi attimi accrescono l’immersione in un mondo che per noi è passato da tanto tempo, dandoci sensazioni che rimarranno con noi a lungo…
…Dogon Questo nome ultimamente alla ribalta del turismo etnico, non basta da solo a rendere l’idea di ciò che è veramente la cosmogonia dei Dogon ma va senza dubbio associato alle vicessitudini che negli ultimi mille anni hanno portato alla attuale distribuzione umana nella zona di confine tra il Mali e il Burkina Faso; la Falesia di Bandiagara.
Attraversando le pianure antecedenti la falesia, già si notano villaggi Bobo e Bambara con i granai ispirati nelle forme e decorazioni a quelli tanto fotografati dei villaggi Dogon, anch’essi mostrano le porticine in legno magari meno decorate ed il “cappello” a cono in canne di miglio.
Un altro capitolo va aggiunto, la sorte del popolo Tellem, abili pigmei dediti alla caccia…
Questa etnia viveva precedentemente ai Dogon proprio sotto la falesia, anzi per meglio dire “dentro” la parete di roccia a strapiombo.
I villaggi erano costruiti un po’ come i nidi degli uccelli muratori, fatti col fango, incastonati nelle fessure e grotte ricavate nei secoli dall’azione dell’acqua e per discendere dalle case, usavano corde di baobab intrecciate (delle vere e proprie liane artificiali…) che venivano ritirate per garantire la sicurezza degli abitati di fronte ad attacchi da parte di tribù ostili. Questo anche perché la pianura sottostante la falesia era tutta un immenso bosco d’alto fusto ricco di acqua e animali (anche feroci) che erano da una parte un pericolo e dall’altra la fonte principale di cibo per i villaggi.
Quando i dogon (forse a loro volta cacciati via…) decisero di stabilirsi lungo la falesia, per un periodo tutto filò liscio e i due popoli non si intralciavano minimamente, i primi cacciatori e i secondi coltivatori diedero anzi vita ad un interscambio probabilmente anche culturale, chissà quale sia realmente la paternità dell’attuale “cosmogonia Dogon” e delle loro esternazioni artistiche… ma ad un tratto, i Dogon diedero inizio ad un feroce disboscamento proprio per privare i Tellem dei loro sostentamenti fino a “cacciarli” da casa loro per chissà dove… e appropriarsi del fertile territorio. Da allora i Dogon sono i signori della falesia e, della foresta che c’era non rimangono che poche tracce.
Eppure nell’immaginario collettivo solo i Dogon si applicano nelle “belle arti”, sono i depositari di formule e riti antichi come l’uomo e hanno una visione “cosmica” della vita in tutte le sue forme. Questo è almeno quanto molto sinteticamente viene proposto ai nostri occhi dai maggiori tour-leaders forti del fatto che è l’accreditata teoria perseguita dai seguaci di Marcel Griaule che con il libro “Dio d’acqua” ha portato alla conoscenza (almeno per noi) di questo popolo.
Griaule…, studioso e antropologo francese che negli anni trenta si è dedicato a questa etnia e che per primo e unico è stato ammesso a far parte della comunità Dogon, ha scavato nelle tradizioni, nei riti magici (non dimentichiamo che l’essere animisti in Africa significa anche prodursi in feticci e sacrifici di vario genere in onore delle divinità) e nella complessa gerarchia che governa i villaggi.
Questa sua opera di scoperta e divulgazione è però andata di pari passo con opere di bonifica del territorio (le barrage), con l’introduzione dello scalogno (che ora fa parte dell’alimentazione e del commercio locale) e con l’appropriazione (con i più strani sotterfugi…) proprio di quei simboli tanto cari alla vita del villaggio, sono così state sottratte maschere rituali, statue, scale, e le famose porte decorate come citato dall’antropologo M. Aime in uno dei suoi diari, e ha dato il via al commercio di antichità che tanto “prende” i collezionisti di tutto il mondo…
Ed è così che oggi non si trova più nulla di originale e che ha trasformato i contadini in abili contraffattori proprio di ciò che un tempo era per loro più sacro.
Basti pensare che le porte (che sono insieme alle maschere le cose più ambite dagli occidentali) vengono fatte a mano come da sempre e poi installate nelle case e nei granai così che il turista creda che solo perché vengono “staccate” su sua richiesta dalle pareti siano antiche, in realtà sono sì originali ma anche se invecchiate artificialmente con i mezzi più strani sono nuove di zecca.
Anche in questo caso viene in mente un dilemma che spesso percorre la mente di chi legge dell’Africa…; perché si insiste nel rappresentare questo continente come “immutabile” realtà e museo della vita passata! Viaggiando per le sue strade, ci si può accorgere che nulla è immutabile e peraltro tutto protende al futuro solo che non è facilmente percepibile…, se una maschera viene scolpita oggi ma nello stesso modo di sempre e altri strani idoli appaiono nelle botteghe di artigianato (ricordo una statua lignea raffigurante un medico, ed un’altra che era un fotografo), non bisogna indignarsi! Ogni cosa fa il suo tempo e serve un preciso scopo, magari ciò che oggi è di legno sarà di plastica o metallo e avrà forme diverse… anche questo fa parte del lento migrare verso un domani migliore, almeno per far fronte alle sue quotidianità, quelle sì che resteranno immutate ancora a lungo! …La falesia di Bandiagara, questo è il luogo dove i Dogon vivono come isolati dal resto del paese e che li ha (forse ancora per poco…) preservati dall’assalto del turismo di massa.
Per giungere sulla falesia, bisogna percorrere circa 150 km di pista in terra rossa (che haimè sarà presto asfaltata) a partire da Sevarè e passando per il villaggio di Bandiagara fino a giungere a Sangha che è il primo villaggio alla sommità del dirupo che caratterizza questo ambiente.
Nel percorrere lo sterrato, ci si accorge che (almeno nella stagione delle piogge) è come attraversare un immenso giardino roccioso confezionato e curato dalle abili mani di un giardiniere orientale. È tutto un susseguirsi di prato inglese, tamerici, baobab, fiori colorati, tappeti di ninfee e ruscelli limpidi che scorrono tra le rocce arenariche.
A corollario di tutto questo “ben di Dio” fanno capolino uccellini coloratissimi, capre al pascolo, asini e gruppi di donne che nelle prime ore del giorno si ritrovano su di una spianata di fronte ad ogni villaggio per adempiere alla “pulatura” del miglio attrezzate di enormi mortai, lunghi bastoni-pestello e calebasse (recipiente fatto con la metà svuotata di una zucca) e che gioiosamente cantano ritmando la faticha quotidiana.
È il paradiso o cos’altro ?… è possibile che finito il periodo del monsone tutto ciò come per un malefico incantesimo svanisca nel nulla ? Ebbene sì, è proprio così… anche in quest’angolo sperduto convivono le due facce di un’unica medaglia, quella che perpetua è al collo dei “saheliani”.
Sempre lungo lo sterrato, poco prima di Bandiagara se si svolta a sinistra e si fanno alcuni chilometri tra le piantagioni di miglio e riso, si giunge al villaggio di Songho che appoggiato ad un’altura rocciosa si sviluppa per un bel pezzo di questa pianura coltivata. È uno dei più belli e grandi della zona e tra l’altro sulle rocce adiacenti è possibile visitare il luogo dove viene tuttora praticata il rito della circoncisione che per i bambini (ma anche le bambine…) avviene in un’età compresa tra 8 e 12 anni e che coinvolge tutto l’abitato. Qui vi è una parete totalmente ricoperta di simboli totemici dipinti in bianco e rosso, vi è la grotta che contiene gli strumenti musicali che servono alla cerimonia (una specie di maracas giganti ottenuti con le zucche e che vengono agitate per ottenere un suono simile ad un battere di mani assordante) e non ultimo, si ha una visione davvero splendida della zona sottostante.
Banani… Questo villaggio insieme a pochi altri nei dintorni regala emozioni stupende, basti pensare che arrivandovi a piedi da Sangha, attraverso una grotta dove gruppi di assordanti ragazzine intonano canti “in onore” dei turisti (è bello ascoltarle e doveroso offrire loro qualcosa…), e scendendo attraverso tutta la falesia si è accompagnati da un succedersi di immagini che hanno del fiabesco! Alla sinistra la cascata, nascoste dalla colonna d’acqua le vecchie mura Tellem, in basso le case del villaggio ed in fondo, quasi a delimitare l’orizzonte, un imponente cordone di dune dal colore rossastro… È da qui che si parte per ore ed ore di faticosi ma altrettanto ricompensanti trekking a piedi -sotto il sole- attraverso i villaggi di Ireli, Tireli, ecc… Attraversando la pianura coltivata con maestria si vivono situazioni che aprono il cuore: il fabbro che armeggia con gli antichi attrezzi nell’intento di scolpire asce e vanghe, i bambini che giocando vanno e vengono incessantemente dal pozzo carichi d’acqua, le donne intente a cucinare e gli onnipresenti animali da cortile che vagabondano qua e là. Ma dopo una rapida analisi ed un battito di ciglia come per destarsi da un sogno, si capisce delle fatiche cui tutti, uomini ed animali, sono sottoposti per tutta la loro vita eppure… sorridono…!.
Solo la sera se si è fortunati con il clima e le zanzare non c’è l’hanno con tutto e tutti, si hanno dei momenti di sano relax ed in tal caso volgendo lo sguardo alla imponente parete rocciosa, nella più totale oscurità, si intravedono i lumini ad olio che illuminano le case e le ombre lasciate dai passanti che vanno su e giù per i ripidi viottoli.
Se non fosse che il presepe della nostra infanzia risiedeva in Palestina, questo sarebbe il suo vero sito.
Già, il clima, questo sconosciuto… Quello che di peggio può capitare da queste parti è il classico temporale tropicale serale, gonfio d’acqua e vento! Ma proprio qui, per colpa del vento che precede prima e chiude poi il lungo scroscio, la cosa si fa più difficile…, con esso arriva –sempre- una tempesta di sabbia (ricordate il cordone di dune…) che annerisce il cielo in pochi minuti, tutto ne viene ricoperto -noi compresi- e quando inizia a piovere, la sabbia cade a gocce pesanti e si attacca ovunque! Mangiare è un’impresa e di dormire non se ne parla. Ma non crediate che almeno il caldo si faccia da parte…, continua imperterrito e soffocante.
Non c’è di che scoraggiarsi!, basta lasciarsi alle spalle la giornata e fare come tutti lì fanno, una buona birra fresca e quattro chiacchiere tra amici seduti al riparo di un improbabile tetto… e domani, se il fato vorrà, andrà meglio! Questa situazione a prima vista disperata e scomoda, non fa che rendere ancora più mistico l’inoltrarsi quaggiù; solo così si avrà appreso seppur minimamente qualcosa da questo splendido ma austero ambiente .
…Hombori e la “Main de Fatima” Uscendo dalla falesia e dirigendosi verso Est in direzione di Gao, dopo poco più di 350 km e passando per Gossi, si giunge in prossimità dell’abitato di Hombori. Ci si accorge subito che il paesaggio è fortemente diverso, ci troviamo di fronte a pianure qua e là ricoperte d’acqua, gli alberi sono sempre più radi e volgendo lo sguardo a Nord, si possono intravedere le dune di sabbia… è il segno che il “nulla” è vicino. Una cosa però colpisce lo sguardo attraverso i finestrini del 4×4…, imponenti montagne distanti tra loro escono dalla pianura e formano un paesaggio che ci fa pensare ai film western della miglior tradizione americana. Tra queste spiccano la più alta cima del Mali chamata “Hombori Tondo” dalla forma di una gigantesca balena a protezione del villaggio di Hombori e, poco distante la “Main de Fatima” che detiene il primato per la più alta parete rocciosa di tutta l’Africa… si tratta di una conformazione simil-granitica che ben si presta alle scalate e misura nel punto più alto circa 630 mt. A proposito, si chiama così per la sua forma che se guardata in direzione O-NO ben somiglia ad una mano protesa verso il cielo. In questa vasta landa, vi si possono trovare più di 130 vie alpinistiche per tutte le capacità ed anche alcune (2 o 3…) buone guide per le ascensioni.
Il capostipite di questa fresca dinastia, è un ragazzo di Hombori di nome Moussa Maiga ma, tutto il Mali lo conosce con il nome di “Giovanni Pascoli”… ed è nostra immensa fortuna averlo come guida ed amico… Dall’animo fiero e gentile è stato il primo ad accompagnare come “sherpa” gli alpinisti europei ancora quando era un bambino, da li la passione lo ha colto e con l’insegnamento proprio di quei turisti che accompagnava ha imparato ad arrampicare un po’ ovunque.
Insomma, un “diverso” da tutto e da tutti, altra passione che è scaturita in lui con il tempo è quella per la poesia italiana… sì, avete capito bene, proprio la poesia che noi a scuola tanto odiavamo!.
Ed è così che incominciò a sfogliare libri donati da qualche italiano di passaggio finchè non gli capitò tra le mani un saggio di G. Pascoli che prontamente cominciò a leggere imparando la nostra lingua nel modo più dolce e strano possibile; attraverso le rime… Tant’è che oggi parla un buon italiano e si diletta nello scrivere poesie sull’anima della sua amata terra. Ciò lo ha reso davvero famoso ed è benvoluto e rispettato un po’ ovunque anche se, stizze di invidia a volte solcano gli sguardi altrui!.
Si sa, quando si emerge dalla massa si corre il rischio di passare per un “fortunato arrivista” ma nel suo caso la fortuna si c’entra ma è l’orgoglio per la sua terra che lo ha spinto fin qui e non per mero arrivismo che peraltro è fortemente presente e biasimabile laddove la vita è ardua per tutti.
A proposito di poesie, questa l’ha scritta una notte passata in pinassa tra Tombouctou e Mopti a meravigliarsi del cielo: – NOTTI D’AFRICA – E le notti si fecero lunghe di silenzi e parole, a volte di stelle compiacenti occhi fissi del cielo.
Carezzate da brezze leggere frange perse di venti, protette da profili di roccia ombre mute e severe.
Cullate delle acque del Niger pura essenza di vita, ritmate da tamburi ossessivi inebrianti suoni.
E le notti si fecero brevi di sogni e riposo, sorprese tra albe inaspettate, luci di caldi giorni, salutate da lune sfuggenti complici di sospiri, riscaldate da fluidi orientali, droghe di casti amanti.
Gioie di cuori uniti, rapite da lacrime d’amore, Disperata illusione.
Moussa (G.Pascoli) Maiga …Moussa Averlo per compagno di viaggio è veramente un onore e una fortuna…, con lui tutto è più semplice e anche laddove si presentano delle difficoltà (e a noi ne sono capitate…), si può essere certi che una possibile soluzione è sempre dietro l’angolo, questo fa bene al morale e allevia le fatiche di un viaggio lungo e affascinante come percorrere il Mali in lungo e in largo.
La discrezione che gli fa onore è tipica di chi ama profondamente una cosa ma non insiste nel dipingerla agli occhi di chi non sa, nel suo credo qualsiasi esperienza è lasciata a chi la vive e solo se è il caso lui intercede…, cosa si può volere di meglio da una guida? “Guida”…, dopo poche ore questa parola sparisce dalle nostre menti e quella di “Amico” prende il suo posto.
Si, perché è di un vero amico che si tratta, a volte allegro, irascibile, pensieroso, triste o malato (ha subito “la palude” per tutto il viaggio) ma sempre pronto ad allietare il giorno a suon di musica rigorosamente locale o ad intrattenerci con racconti di esperienze passate lungo le interminabili ore di trasferimento.
Molti aneddoti si possono scrivere a suo proposito, un in particolare mi torna spesso in mente e forse ne lascia trasparire il carattere; eravamo a zonzo per le vie di Tombouctou nelle prime ore del mattino cercando qualche “scatto” di quotidianità, quando ci imbattiamo in alcuni dei famosi forni da pane e le donne stavano cuocendo le forme per la giornata. Preso dall’ansia di “congelare” con la mia fotocamera quegli attimi, quasi non mi accorgo che Moussa acquista per una manciata di spiccioli una decina di pagnotte appena sfornate … gli chiedo allora se quello sarà il nostro pane per i giorni futuri di navigazione (dura moltissimo) ma lui mi risponde di no…
Ci allontaniamo salutando cordialmente e lungo la strada che conduce al centro comincia a regalare il pane ai bambini che via via ci corrono incontro, solo allora capisco… quel pane era per loro troppo caro e quindi grazie a quel gesto potevano assaporarlo con il poco “tou” a loro destinato… Anche questa è l’Africa, dove un ragazzo qualunque si trasforma nel migliore incontro che puoi fare e dove le vicende di tutti i giorni assumono da li in poi una dimensione diversa!
…Mopti La Venezia del Mali, è questo il nome che viene dato a questa singolare città sulle rive del Niger, forse per la presenza dell’imponente porto colmo di pinasse (che tanto somigliano alle ns. Gondole) o forse perché come Venezia un tempo, Mopti è il punto di partenza per quel lungo viaggio attraverso il “mare sahariano”… Poco importa, quello che più colpisce non è tanto la sua origine quanto la sua multietnicità, tutti vanno e vengono da qui, tutti almeno una volta vi sono stati e il suo mercato, che peraltro non ha nulla a che vedere con quello ben più celebre (anche in terra africana…) di Djenne, fa una certa impressione. Vi si trova di tutto e perlopiù tutto a bordo delle pinasse attraccate nell’ansa o sul battuto adiacente. Diverso è invece quello dei manufatti (anche per turisti…) che si trova tra i viottoli del “centro”, è qui che si possono acquistare pezzi d’artigianato provenienti da buona parte dell’Africa sub-sahariana e a prezzi abbastanza buoni.
…Il bar Bozo, questo nome rievoca la permanenza a Mopti degli esploratori di un tempo… era qui che si fermavano prima di partire alla volta di Tombouctou e tranne pochi ritocchi pittorici, è rimasto come allora… squallido e un po’ demodè ma carico di suggestione.
La sua posizione di dominanza sull’ansa del porto fluviale, regala ancora oggi belle immagini di vita , mentre seduti ai tavolini -come ad un bistrò parigino…- si sorseggia una birra gelata, tutto intorno il fervore dei mercanti è assordante.
Ancora oggi è da qui che si parte o si torna da Tombouctou e da dove si possono fare delle escursioni in barca per visitare le molte isole che compongono il distretto della città.
Si possono vedere al lavoro i pescatori e le loro famiglie, incontrare gruppi di twareg esiliati dal deserto, ma non è come sulle rive del fiume a centinaia di chilometri da qui, qui è tutto più “turistico”, e le attività come per incanto cominceranno al vostro arrivare…
Altra peculiarità della cittadina è la splendida moschea rigorosamente in stile sudanese, ben tenuta ma come tutte le altre -haimè- interdetta a noi occidentali.
…Djenne, o per meglio dire, “Le Grand Marchè” per antonomasia… per arrivarci si percorrono circa cento chilometri in direzione N-NE seguendo il fiume partendo da Mopti, giunti sulla riva si prende un traghetto fatiscente ma perfettamente funzionante (è l’unico modo per giungere sull’isola) insieme a moltitudini di bambini, donne, carri, bestiame.
Tutti che, come tutti i lunedì, vanno al mercato.
Già, perché è proprio il lunedì che bisogna andarci… in questo giorno tutto è un vocio, e una moltitudine di persone, chi in pinassa, chi a piedi o con miseri carri vi giunge con un unico intento, quello di vendere per poi con il ricavato acquistare il fabbisogno per la famiglia!.
È una visione biblica quella che ci appare!… Si possono scorgere donne che chissà quanta strada hanno fatto solo per vendere un pollo o solo per comperare poche manciate di miglio, riso, o del pesce affumicato.
Le stesse si incontrano mentre contrattano splendide collane Peul fatte da corolle di medaglioni di ambra, o mentre provano abiti dai tessuti coloratissimi…
…Il mercato, raramente si può assistere a qualcosa di così gigantesco, ordinato, colmo di gente e soprattutto “vero”…, passeggiare per le bancarelle abilmente improvvisate è uno spasso, una delizia per i nostri sensi e se ci si lascia portare dal “flusso umano” sicuramente è una delle più belle esperienze che si possono fare in terra africana.
Vi si incontrano venditori di medicina tradizionale (con i banchi ricolmi di teschi di animali, pelli, amuleti e quant’altro necessario per fare gri-gri, feticci o rimedi per il corpo e lo spirito…), botteghini di barbieri con i “tagli” dipinti sulle pareti in legno, piuttosto che vecchi fotografi che armeggiano con apparecchi fotografici (dei veri banchi ottici) che per noi sono solo un ricordo da museo, eppure la coda per la foto-tessera è molto lunga…
Ne ho incontrato uno che data la coda doveva essere molto bravo, e quando gli ho chiesto della provenienza e della datazione della sua apparecchiatura mi ha risposto dicendo: “molti altri prima di me hanno usato quella macchina fotografica e con ottimi risultati!, e così accadrà al mio allievo quando gliela venderò…” Non è difficile farsi coinvolgere in trattative o assistere a canti improvvisati dalle venditrici di pesce oppure salire sui tetti delle case che contornano la piazza per cogliere da una diversa prospettiva quegli splendidi attimi di caos…, il tutto sulla soglia della Moschea di Fango, il più grande edificio religioso realizzato con questa tecnica.
La spianata della moschea ridiventa vuota subito dopo il mercato e così rimane fino alla settimana successiva dove come per incanto tutto ricomincia…, solo le guglie dell’edificio fanno da contrapposto al sole serale…
L’edificio si erge su un terrapieno di alcuni metri ed ha più gradinate di accesso sapientemente orientate come l’Islam prevede.
La visione è delle più emozionanti, se solo si pensa che le piogge non riescono a scalfirne la bellezza (merito della cooperativa di artigiani e gente comune che effettua una assidua manutenzione!) e che l’interno spoglio e austero viene trafitto solo dai raggi solari. Si capisce perché da molto tempo viene considerata con ragione la più bella moschea di tutto l’Islam sub-sahariano ed uno dei più incredibili esempi di architettura africana! Nota dolente è che non si può accedere ne alle gradinate ne all’immensa sala di preghiera… dicono per colpa di un “infedele” fotografo europeo che, colto dalla bellezza del luogo, ne ha approfittato per fare un servizio fotografico di moda, e la cosa non è piaciuta affatto!.
Altro aneddoto che contraddistingue la cittadina di Djenne, è quello che riguarda le “vergini sepolte”…, proprio così…, un tempo era usanza di sacrificare delle ragazzine illibate seppellendole nei pressi della piazza (la allora Djenne “Djeno” era un villaggio di pescatori di lì poco distante) come ad erigere una barriera che con la sua misticità contrastasse l’ira del fiume e permettesse l’esistenza dell’abitato. Ovviamente di tutto ciò non rimane che il ricordo e la storia ormai fa presa solo sul viaggiatore occidentale…
Andando a zonzo per i vicoli della città vecchia si possono vedere gli anziani alla presa con altrettanto vecchi telai mentre tessono le strisce che una volta dipinte e cucite insieme vanno a formare i famosi “bogolan”, altra cosa che rapisce lo sguardo è come le attività vertano proprio sull’uscio delle case o nelle piazzette antistanti…, si incontrano scuole coraniche ricolme di ragazzini intenti a ricopiare su tavolette di legno le “sure” del Corano, botteghini che vendono cassette musicali, ragazzine intente a badare ai loro fratellini o mentre lavano le stoviglie con l’acqua del fiume, mercatini improvvisati che offrono stoviglie di terracotta o chiaccherare con il capo del quartiere mentre si beatifica seduto di fronte alla propria abitazione che è sempre la più bella e la più grande delle altre…
Basta solo fare attenzione a dove si mettono i piedi! Ebbene sì… tutto quello che ho descritto lo si vede solo si dimentica cosa c’è per terra, “la rete fognaria” non esiste o meglio… esiste in superficie perciò come recita un proverbio… ” non metter piede dove prima non hai messo gli occhi!” e qui è proprio valido…
…Gao Proseguendo sempre verso Ovest, alla fine del viaggio si arriva sulla riva di fronte (in realtà ad alcuni chilometri…) alla città di Gao.
Preso il traghetto di turno, e fatta la polverosa strada che separa l’asfalto dalla città, si arriva in quello che un tempo era il crocevia a Sud del sahara!.
Qui si sente l’odore del posto “dimenticato”, quel posto pieno di gente strana e ricco di traffici più o meno regolari che da sempre ci affascina…
Ed in realtà c’è del vero in quella sensazione, da qui in poi ed in tutte le direzioni non vi è più nulla, sia che si arrivi dal Mali, sia che dall’Algeria o dal Niger! La presenza dell’esercito è forte e ovunque ma -con un po’ di discrezione- si può sentir parlare dei disordini avvenuti (con molte uccisioni) negli ultimi anni per tentare di sedare la rivolta twareg ed il fiorente contrabbando…
Il resto è storia presente, quella di una città assediata e non solo dalla sabbia e dal vento! Che tenta a fatica di risollevarsi e contrastare il proprio destino…
Come tutte le altre città, anche Gao ha il suo mercato e come di solito tutta la vita della popolazione ruota attorno ad esso!.
Qui però le cose sono un tantino diverse…; le bancarelle sono disseminate ovunque e il tipico ordine non è rispettato, così si vaga tra chi vende pesce, carne, pellame, coccodrilli, ferramenta, vestiario e quant’altro viene in mente…
Sì, coccodrilli, avete capito bene… questo è forse l’unico posto dove con un po’ di fortuna e una buona dose di sfacciataggine (il suo commercio viene fatto di nascosto da occhi indiscreti!) si può assistere alla vendita di questi animali la cui carne, oltre che il pellame… è molto apprezzata!.
Solo una cosa tra tutte è come “archiviata” in maniera logica, si tratta delle preziose lastre di sale che arrivano fin qui da Taudenni…, si possono trovare in una casa ai margini del porto, poco distante dall’hotel ??? e la visita ha dell’incredibile!. Sono sistemate secondo la qualità, il peso, la grana ed il taglio.
Per entrare nella casa si attraversa un portone “marocchino” molto antico e ben decorato e sulla soglia c’è sempre seduto il capo del consorzio dei venditori del sale pronto ad accogliere chiunque si avvicini.
Si tratta però di persone schive ed affaccendate pertanto non stupitevi se non vi considerano affatto o vi lanciano delle “maledizioni” nel vedervi fotografare tutto ciò che vi capita… qui la vita è più difficile di quel che sembra!.
…La duna rosa, poche sono le cose da fare a Gao, tra queste la più –affascinante- è la gitarella in pinassa che porta ad approdare vicino alla “duna rosa”.
Per arrivarci occorrono circa quaranta minuti di lenta e precaria navigazione… Precaria perché lo stato di servizio della flotta di pinasse di Gao è quanto di peggio si possa trovare, non risentitevi allora se sarete seduti su uno scafo fatiscente e che imbarca acqua a gò-gò mentre un ragazzino cerca di rimediare alle falle con pezzi di straccio conficcati nel legname a suon di coltellate…
Non allarmatevi però, tanto nulla cambierà e poi il pericolo di finire a bagno nelle limacciose acque del Niger è abbastanza remoto.
Giunti ala duna rosa tenuto conto della luce che secondo le stagioni ne modifica i colori, lo spettacolo è assicurato, è proprio rosa!, finisce direttamente in acqua e l’effetto che ne deriva ha del surreale…
Oltre a ciò, e se si ha ancora voglia di rischiare il bagno, si può tentare anche di andare a “caccia” della numerosa comunità di ippopotami che dicono essere a un paio d’ore da lì. Il fatto è che ammesso che la notizia sia vera e non uno specchio per turisti, vederli non sarà certo facile dato il carattere schivo dell’animale e solo alle prime ore dell’alba o al buio dopo il tramonto si avranno maggiori chances.
…Da qui in poi il nulla! Come dicevo, siamo ai confini della realtà abitativa del Sahel… L’unica strada asfaltata porta verso il confine nigerino, tutto il resto è un dedalo di piste che conducono chissà dove!, alcune portano verso la città di Kidal e L’Adrar des Iforas, imponente massiccio al confine con l’Algeria dove si possono ammirare alcune tra le più belle testimonianze rupestri pre-sahariane, altre tracce conducono alla lontana Tombouctou e altre ancora dirigono a Nord verso il grande mare di sabbia…
Insomma, solo se si è ben attrezzati ed esperti viaggiatori delle dune si possono fare puntate oltre la città di Gao ma, salvo restrizioni dettate da leggi locali o di natura militare, vale senz’altro la pena pensarci e perché no, assoldare una buona guida twareg che funga da “lasciapassare” e garantisca della vostra incolumità un po’ in tutta la zona.
Da queste parti è più facile essere derubati della vettura, bottino ambito dai contrabbandieri che sono sempre alla ricerca di mezzi in buono stato!, piuttosto che dei propri averi, ma non vanno certo per il sottile nel trattare i malcapitati… e il governo quaggiù “conta come il due di picche a briscola…”, occhio quindi agli incontri e ricordate sempre che il rispetto, l’anonimato e la calma molte volte possono salvare la situazione e la vita!.
…Sahel, Solo a chi lo vive almeno un po’ esso scopre le sue carte, e provoca nella mente un turbinio generale fatto di immagini, situazioni, considerazioni, sensazioni, odori, rifiuto, impotenza, rabbia e gioia…
Ma dopo l’impatto con il ritorno alla “nostra realtà” e dopo la conseguente fase di rigetto che ci induce a dire -no!, non tornerò più laggiù…- come per incanto ecco che il Sahel riappare ma non più nella nostra mente, va a prendere per sempre posto, un posto rilevante…, nel nostro cuore.
Ci dice che anche noi almeno un po’ siamo stati parte di esso e che tutte quelle sensazioni che ci ha trasmesso saranno proprio la molla che ci spingerà -ancora una volta- ad incamminarci verso quella terra dai mille contrasti e profumi, piena di voglia di vivere…, quel luogo dove se si aprono la nostra mente ed il nostro cuore si possono fare esperienze uniche e dove l’amicizia, i valori semplici e la fatale quotidianità della vita amalgamano tutto e tutti!.
Un cammino fatto “in punta di piedi” per non disturbare, con umiltà, voglia di sapere e di condividere, che alla fine ci porta laddove avevamo ormai rimosso, verso noi stessi…
…Quel luogo si chiama “Africa” ed il Mali è senza dubbio uno dei suoi figli prediletti.
l Mali