La Sardegna a 1.000 Euri da Roma
Già da dentro l’aeroporto ho preso accordi con una tizia per giungere col taxi collettivo fino all’albergo: 150 pesos e saremo a casa. Saliamo e via, verso Cancún, Gringolandia come la chiamerà un signore a Mérida giorni dopo, il luogo privilegiato delle vacanze messicane dei ricchi turisti USA stanchi della solita Acapulco. Già, qua siamo negli Stati Uniti: hotel colossali, ritmi di vita e costumi Yankee, tutto su misura per chi ha passaporto USA. Non ci sono spiagge a Cancún. La sabbia è proprietà degli alberghi, e il nostro avrebbe dovuto avercela se dall’agenzia di Roma del CTS non fosse partita una prenotazione sbagliata ai colleghi in Messico. Dalla spiaggia bianca dell’oceano siamo passati all’acqua scura della laguna. Sì, affacciati sulla grande fogna. Telefonando e spiegandoci, siamo riusciti a farci spostare, e il giorno successivo siamo passati dove la sabbia c’era. Inconvenienti di viaggio! Isla Mujeres è un’isoletta a mezz’ora da Cancún. È lì che facciamo la nostra prima escursione. Per l’occasione ho portato le pinne e la maschera nuove nuove: si fa snorkeling! Contrattiamo con un pescatore il giro in barca per l’immersione. È un anziano signore che, con un ragazzo che s’immergerà con noi, ci porta con la sua lancia a vedere i pesci e la barriera corallina. Solo noi tre: costa di più, ma siamo unicamente noi, senza occhi indiscreti che scrutino la nostra esperienza nautica. È impossibile che non ci si emozioni a nuotare in un mare tanto limpido, circondati da centinaia di pesci dai colori assurdi. Mi sento un bambino, sono affascinato. «Mamma, guarda, un pesce a strisce gialle e blu! E quello lì è fosforescente!» Non lo dico a voce, ma lo penso.
Io non so nuotare e vado piano, un po’ arranco, ma è bello ciò che vedo e mi piace. La seconda immersione è più nociva: ho la testa che mi bolle dal gran sole, ho un buco allo stomaco per la fame, faccio fatica a stare dietro agli altri e mi sforzo troppo per stare al passo. Il cuore comincia a ballare la rumba. Batte come un disperato, mi manca il respiro. Eccola là, è il momento che ci stiro le zampe! Porca vacca dopo solo un giorno di Messico! Elisa, Fede, ciao, vi ho voluto tanto bene, ci vediamo in Paradiso! Certo però che non posso lasciarle sole in mezzo all’oceano col mio cadavere galleggiante, non è elegante e non me lo perdonerebbero mai. E poi, chi avrebbe avvertito mia madre? «Salve signora, la chiamo da parte di suo figlio, dice di dirle che è un po’ morto, ma dice anche che tornerà tra 15 giorni con noi, fresco di surgelatore». No, non mi pare il caso. Faccio cenno al ragazzo di aspettare. Poverino, mi attacco al suo salvagente e mi faccio trascinare x un po’. Poi confesso che il cuore è lì che balla ancóra e chiedo di chiamare il barchino. Fine dell’avventura sottomarina del sottoscritto. Se ho sempre odiato il mare, ci dev’essere un motivo! I bagnetti, però, non sono finiti. No, perché il dì che segue si va al parco di Xcaret. Trattasi di una parte di costa adibita a parco marino con giardini, specchi d’acqua e un fiume sotterraneo. Pinne e boccaglio e vai! Nuotata di circa un’ora al fresco della grotta. Ma c’è il trucco. Per ¾ del percorso si tocca! Il parco offre ai suoi visitatori uno spettacolo di commiato dalle sette alle nove di sera. È una carrellata rapida lungo la storia messicana e poi una sarabanda di canti e danze tradizionali e folkloristiche. Il tutto è ispirato da una buona dose di nazionalismo alla messicana. La cosa che mi colpisce di più è che, durante la rievocazione storica, quando si rappresenta lo sbarco del conquistatore spagnolo Cortés, dagli spalti del pubblico parte una serie di fischi da stadio all’indirizzo del nuovo arrivato. Che non l’abbiano ben digerita i Messicani la storia della conquista? Oggi relax. Dopo l’Isla e Xcaret, oggi mare (loro, le amiche) e camera d’albergo (io). Sì basta, l’ho già detto, io e il mare non siamo molto amici. Faccio un bagno e poi mi rifugio nell’aria condizionata a 16°C della mia camera. Televisión Española Internacional! Che grande invenzione! Passo la giornata con lei. Mi si dirà: ma vai ai Carabi e passi la giornata a vedere la TV spagnola internazionale? Ma sarai mica scemo? Sì passo la giornata a vedere la TV spagnola internazionale! Vuoi mettere i 16°C della stanza contro i 40° altrettanto centigradi che fa fuori? No, dico, vuoi mettere? E poi mi tengo aggiornato sui fatti della cronaca. Ogni tanto cambio canale e mi guardo un po’ di Discovery Channel messicano o la TV Mundo Maya. Lì dopo le previsioni del tempo che dicono pioggia (e vai! Rinfresca un po’!), dànno informazioni su come salvarsi la pelle in caso di uragani. Oh cazzolino! Spengo ed esco! I 24 gradi di escursione termica mi assalgono tutti come una spruzzata di fiamma ossidrica appena apro la porta! Mi faccio un giro verso la spiaggia dell’hotel con l’idea degli uragani nella testa. Due chiacchiere rapide con le amiche, poi rimpiango i 24 gradi in meno che ci sono in stanza e vi faccio ritorno. Ora parlano di un serial killer americano su Discovery. Starò ai Carabi, ma ribadisco che 16°C con serial killer sono meglio dei 40°C con il mare cristallino.
Nel pomeriggio c’è la visita ad un centro commerciale con aria condizionata e ad alcuni negozi di artigianato: che altro vuoi fare a Cancún? Dopo la cena, si va a Cancún città. Si fanno due passi, due spesucce e poi si rincasa. Domani si va a Mérida, la “ciudad blanca”. Per la buonanotte ci facciamo un cocktail a bordo piscina. Freschetto appena accennato, luci soffuse, piña colada. Io scelgo anche un daiquiry alla banana: di un buono! Al bar dell’albergo servono cocktail quasi del tutto analcolici: ci mettono giusto l’odore di liquore, ma quella sera nei miei daiquiry e nella piña ce n’era a sufficienza. Sì una bella serata, ronf! Mi dico: dopo sta botta di “Born in the iù ès èi”, a Mérida troverò un po’ di Messico. Àpperi! Dagli hotel interstellari del lungomare di Cancún siamo passati alle casette basse e brutte della Capitale dello Yucatán. Mérida ruota intorno alla sua piazza principale, lo Zócalo: qui si affacciano la Cattedrale, il Palazzo municipale, il Palazzo del Governo e la Casa Montejo, oggi sede di una banca, ma prima residenza della famiglia Montejo, una delle più ricche di Mérida. È intorno allo Zócalo che sono stati costruiti gli edifici più importanti della città ed è qui che si svolge la vita commerciale e mondana. L’architettura del centro di Mérida non sarebbe male. Le costruzioni sono antiche, molte ben fatte, risalgono al XIX secolo per lo più: sono case basse con belle decorazioni, solo sono lasciate all’incuria, e sono spesso scrostate e corrose dal tempo. In più i fili dell’alta tensione corrono per le facciate e sui tetti: è un continuo di fili elettrici che appesantiscono la vista; più in là, invece, i palazzi sono più moderni, bruttini, sbiaditi, tutti uguali. Per terra è sporchissimo e nell’aria c’è un forte odore di sporco e di smog. Il caldo è terribile: a sentire le previsioni del tempo abbiamo 40 e rotti gradi col 100% di umidità, da morire! Giorni dopo chiederò ad un ragazzo messicano perché chiamino Mérida la “ciudad blanca” se non ci sono edifici bianchi, o comunque ce n’è qualcuno solo qua e là; lui mi risponde che blanco va inteso come pulito, cioè che i cittadini la tengono pulita e ordinata. Parliamo della stessa Mérida? Oggi è in programma la visita a Celestún. È un villaggio di pescatori che mettono a disposizione le loro barchette per visitare la laguna in cui soggiornano i fenicotteri. Scesi dal pullman incontriamo una coppia di Milano e proseguiamo insieme a loro verso la spiaggia da cui partono le barche. Un pescatore ci ferma per invitarci ad andare con lui. Dice che ci sono altri Italiani e che tra un po’ parte per la laguna. 150 pesos a testa. Ci pare un po’ troppo, la guida dice che costa assai meno. Quando arriviamo, un gruppetto di italofrancesi già sta coi soldi in mano sotto la tettoia per salpare. Al momento di pagare i francesi dànno i loro soldi mentre tra gli Italiani serpeggia un po’ di malcontento. S’inizia la contrattazione. 150 è troppo. No, è giusto! No è troppo: siamo in 9 e la barca è omologata per 8: 100 a testa o niente. No, no si può. Mezz’oretta di tira e molla. Alla fine paghiamo il prezzo di noleggio della barca: 130 pesos a testa. La ragazza francese ci fa i complimenti: dice che ci si guadagna a stare in vacanza con gli Italiani. Il mio ego italico s’inorgoglisce e gonfio il petto come un gallo cedrone. Modestamente… Si parte! Il giro della riserva naturale prevede alcune tappe. La prima è al bosco pietrificato. Dove prima c’era un laghetto d’acqua dolce che dissetava un’ampia popolazione arborea, l’uragano che negli anni ’90 si è abbattuto sulle coste dello Yucatán ha portato l’oceano, e l’acqua salata ha bruciato gli alberi: ora hanno un aspetto arso e brullo. Il tempo di scattare qualche foto e, come 9 bravi Giapponesi, i componenti del gruppo italofrancese risalgono sul barchino.
Si va all’ojo de agua: uno specchio d’acqua dolce sotto la foresta. Qui abbiamo 15 (!) minuti per fare il bagno, così ha sentenziato il pescatore/cicerone. Io non mi immergo, mi godo solo la frescura del luogo. I famigerati mosquitos messicani devono essersi dati appuntamento per l’ora dello spuntino: sono ovunque, soprattutto nei pressi delle mie caviglie. Dopo il bagnetto si va dai fenicotteri. Passiamo attraverso una grande distesa di mare, qui parecchi pescatori di crostacei spingono le loro barche lentissimamente e intanto dragano il fondo. Sono messi in una strana posizione, sembra che dormano appesi al bordo della zattera. Ed eccoli là i fenicotteri! Se il pescatore avesse evitato di arrivare come un pilota di Formula 1 forse non sarebbero scappati, ma visto che si è avvicinato sparato a gran velocità, salvo inchiodare all’ultimo, son volati via. Ci siamo anche ingolfati! Dopo aver scrutato l’altra colonia di fenicotteri lontana da noi, ci dirigiamo in retromarcia verso la Isla de los pájaros dove vivono numerosi uccelli. Da lì si passa nel corridoio delle magrovie e poi si torna alla spiaggia. Fine dell’escursione sulla laguna: una bella esperienza! Dopo un frugale pasto in un ristorantino sulla spiaggia, la comitiva si scioglie ed ognuno va per la sua strada. Noi si torna a Mérida. La cena è in un ristorante molto turistico segnalato dalla guida, una buona cena.
La Ruta Puuc: presto presto di mattina, si va a vedere un po’ d’archeologia. Fin’ora il Messico l’abbiamo giusto annusato, adesso cerchiamo di trovarlo un po’ nel suo passato, già che nel presente ci sfugge via e si fa vedere poco. Cancún era quello che era, troppo posticcia per piacermi, Mérida è più autentica, ma l’unico contatto che abbiamo coi Messicani è di quelli che dopo un’ora già ti snerva: «Señor, vieni, compra! Prezzo basso! American? Español?» ad ogni caspita di negozio; ti puntano quando ancora sei distante. Basta! Questo lato del carattere delle persone che incontro non mi va a genio. Se non si tratta di negozianti, i Messicani con cui ho a che fare si dimostrano sempre molto carini e assai disponibili: chiacchierano, ti aiutano se serve; i negozianti non li sopporto. Son lì che ti inseguono anche dentro il negozio, ti assillano: alla fine raramente compro qualcosa, se lo faccio è solo dove sono lasciato in pace a guardare e a decidere.
Il pullman che percorre la Ruta Puuc inizia dal sito di Uxmal, scarica quattro turisti italiani e poi inizia il giro coi siti minori per tornare a Uxmal nel pomeriggio. È domenica: il turista medio furbino e oculato, fidandosi dell’immancabile vangelo secondo Lonely Planet sceglie questo giorno per visitare i siti Maya perché l’evangelista dice che sono gratis. Per noi è una combinazione, non l’abbiamo fatto per risparmiare, è che s’incastra bene col nostro giro. «Veinte y siete pesos por favor!» Siamo a X’Lapac e la signora mi chiede i soldi per entrare «Come? Non era gratis?», «No, solo per i residenti in Messico!», «Vabè, io ho la carta studente, mi serve a qualcosa, in caso?» «No, lo sconto c’è solo per gli studenti messicani!». Lonely? Allora? C’hai dato il bidone! Un pullman pieno di gente delusa! Perché mettono in giro notizie false e tendenziose? Vabè, dopo X’Lapac vediamo Labná, Sayil, Kabah e alla fine Uxmal. Il sole è fortissimo, io apro l’ombrellino e mi riparo un po’. Mi sento leggermente ridicolo, ma etimologicamente l’ombrello serve per fare ombra, giusto? E io per quello scopo lì lo uso. E comunque Uxmal è proprio carina. È un sito ben curato e ben sfruttato: sembra un parco nel quale i resti della città antica sono incorniciati dalla vegetazione rigogliosa ma ordinata. Di ritorno a Mérida ceniamo al Cafè Habana, trovato sulla guida. Alle mie amiche sono spariti i pigiami. Tornando in albergo la sera di ieri non li hanno più trovati. Ho sùbito avvertito il portiere, ma lui non ne sa niente, dice che chiede alla signora delle pulizie. Ne ritrovano solo uno. Intanto che discutiamo per capire che fine abbia fatto il secondo chiediamo se ci possono chiamare un taxi per arrivare al terminal dei pullman; di solito li cerchiamo noi, ma è un’impresa trovare un taxi a Mérida. La ragazza della reception prima lo chiama, poi dopo una ventina di minuti dice che è meglio se ce lo cerchiamo da noi: c’è traffico. Come? Adesso ce lo dici? Tra mezz’ora nemmeno dobbiamo prendere il pullman per Valladolid! Usciamo e camminiamo, camminiamo. Il parcheggio che ci aveva indicato la tipa è stato spostato, i taxi che passano sono pieni, finché la fortuna ci aiuta e ne arriva uno che ci porta a destinazione giusto in tempo. E dopo tre ore di viaggio, eccoci a Valadolid. La città è un esempio di villaggio coloniale messicano: l’architettura è bella e vivace. Lì nei pressi c’è il cenote di Dzitnup ed è lì che andiamo. Acqua fresca che invita a tuffarsi. Un cartello dice che chi non sa nuotare non deve immergersi. Ma scherziamo? Io mi immergo e come, resto attaccato alla corda come un caciocavallo ma m’immergo. Ah che frescura! Prima del cenote mi bevo un cocco fresco. Non è che sia proprio il massimo della bibita, ma bere il succo da un cocco appena còlto mi piace: a casa non potrei farlo. Non rinuncio mai a mangiare il cibo tipico dei paesi che visito: è uno dei piaceri del viaggio! Tornati dal cenote ci facciamo un giretto per la città. Andiamo verso il convento di San Bernardino da Siena che dovrebbe essere la prima struttura religiosa cristiana costruita in Centroamerica. Arrivati, lo troviamo desolatamente chiuso. Io ho sempre deplorato la brutta usanza che c’è da noi di tenere le chiese chiuse nel pomeriggio: oltre al fatto che dovrebbero essere aperte per chi ha esigenze spirituali, credo che siano un luogo di interesse artistico e di riparo dal caldo o dalla pioggia che dovrebbe essere fruito tutto il giorno come usa in molti Paesi fuori d’Italia. In Messico però esagerano. Da quello che ho capìto le chiese restano aperte circa quattro ore in tutta la giornata. Ma non erano tanto devoti i Messicani? Lungo la strada per il convento spulciamo un po’ di negozi di quelli normali, senza il buttadentro che ti accalappia già un chilometro prima del suo uscio. Tra questi c’è un supermercato. Mamma mia, il bambino che è in me fuoriesce in tutta la sua foga! Prendo il cestino e m’infilo tra gli scaffali. Neanche al lunapark a quattro anni mi sono divertito così. Ogni volta che entro in un supermercato oltre confine vado in sollucchero. Cibi, detersivi, casalinghi tutti diversi dai miei: mi sembrano gioielli e oro zecchino. Mi rendo conto che sto provando sensazioni esagerate, ma è una cosa che mi càpita sempre: è il gusto della cosa diversa. E poi che prezzi! A Cancún avrei pagato 3 volte tanto. Per non tediare le amiche che nel frattempo sono uscite dopo aver acquistato una bottiglietta d’acqua, limito la mia contemplazione e compro un paio di salse, una confezione di biscotti, un’acqua e le sigarette. Appena fuori, c’è un venditore di pannocchie: buone! 10 pesos e mi mangio una pannocchiona con maionese e formaggio sotto gli sguardi disgustati delle amiche che temono la maledizione di Montezuma e, quindi, evitano ogni cosa che abbia l’aspetto di frutta o ortaggio. Prima di tornare in albergo a goderci una buona cenetta, passiamo al terminal dei bus per spostare la prenotazione per Chichén Itzá. Volevamo prendere il pullman delle 7 di mattina per arrivare prima del solleone e delle orde dei turisti, poi abbiamo optato per riposarci un po’ di più e per fare una lauta colazione, compresa nel prezzo della stanza, che viene servita dopo le 7. Alla panza non si comanda! Alle 8 si parte, alle 9 si arriva. Già da Roma avevo immaginato la visita a Chichén Itzá come un’impresa di quelle dure e difficili, vuoi per l’arrampicata alla piramidazza che è d’obbligo, e solo Dio sa quanta fatica mi costi salire le scale, vuoi, soprattutto, per il caldo con cui avrei dovuto affrontare l’impresa. Per questo, già prima della partenza avevo dato fondo ai miei rituali propiziatori, invitando Giove Pluvio e Chac-Mool, il dio Maya della pioggia, a far passare quel giorno una bella nuvola che tenesse il sole lontano dalla mia cucuzza durante la visita. Ora non so bene quale divinità abbia esaudito la mia richiesta, ma l’unica giornata di nuvole è questa! Sì! Ed eccolo il Castillo di Chichén Itzá coi suoi 91 gradoni per lato: si erge in tutta la sua minacciosa maestosità davanti a me, piccolo turista romano indolente. Mi scruta come a dirmi «Allora, Ciccio, che fai? Resti lì? Vigliacco! E pigrone!» Senti piramide, ho pagato più di 80 pesos, non so se rendo: ti pare che resto qua giù a farmi sfottere da te? Non se ne parla nemmeno. Prepàrati ad assaggiare la gomma delle mie scarpe, infingarda! Mi lego il fazzoletto intorno alla fronte come un pirata, tiro un forte respiro e salgo. 1, 2 , 3, 4, 20, 50, 70, 90 e 91! Sono in vetta! O Dio! Un polmone m’è rimasto a metà stada, lo vedo intorno al 60° scalino che si riposa, l’altro si riempie d’un’arietta frizzantina, mentre il viso si gode il venticello e gli occhi gustano il panorama. Troppo bello! Le amiche mi salutano da sotto, chiedo loro se vogliono salire, ma non ne hanno voglia. Io ripiglio fiato e mi gusto la vista dall’alto. Chiedo ad una tipa se mi fa una foto e poi mi siedo a fumare una sigaretta appena l’altro polmone mi raggiunge in vetta. I turisti sono ancóra pochi, il silenzio è rilassatissimo. Una bella sensazione! Appena metto piede a terra dopo la ridiscesa il cielo si apre e il sole splende. Ormai è andata, la scalata l’ho fatta, ora il sole lo posso sopportare. La sete di Elisa ci riporta verso l’ingresso del sito a bere qualcosa e a rifocillarci. Il caldo si è fatto terribile, mi compro una bandana nuova e la uso come cappello e come fascia per il sudore. Che schifo sudare così tanto, ma qui sudano tutti e vanno sempre in giro con le maglie bagnate: come faranno a resistere. A Cancún ho chiacchierato con un tale che mi ha detto che qui i 40°C sono normali, ma d’inverno si scende anche a 28! Morirei! La visita continua e ci giriamo il lungo e in largo tutto il sito saltellando da un’ombra all’altra. L’ultima tappa è il cenote. Mentre mi riposo sotto un albero lì vicino, ascolto una guida che racconta le varie teorie su come si sia formata quella grande buca. Dice che ogni tanto alcuni archeologi sub s’immergono in quell’acqua fredda e sudicia per vedere se riescono a trovare i resti di un meteorite, quello che dovrebbe aver dato origine al cenote. Io credevo che ci saremmo potuti fare il bagno, invece è tutto transennato. Peccato perché una rinfrescata non avrebbe fatto per niente male! E all’ombra del grande albero, passiamo in rassegna la varia umanità che frequenta il sito. C’è Mister Panza, un americano enorme con due metri di circonferenza che gira a torso nudo e bermuda accompagnato dalla moglie, una signora magrissima che gli spalma il latte abbronzante sulla schiena. Poi c’è il professor Franz, Svizzerotedesco incazzatissimo: pantalone allacciato sotto le ascelle, cappello di paglia che declama alla moglie e alla figlia non so bene cosa con piglio minaccioso e autoritario. C’è il Giappamaya: uno strano tizio che sembra mezzo giapponese e mezzo Maya che si siede accanto a noi e pare che stia esalando l’ultimo respiro, vinto dalla calura. C’è la sciura Camilla, una tipa milanese di cinquanta anni vestita come una Barbie con le treccine colorate seguìta da marito e figlio stanchi e rassegnati. E poi arrivano Laura & Sandra: due ragazze dell’Alabama, grassissime, giganti che portano in giro i loro corpi enormi con una leggiadria da fare invidia. Noi ci sentiamo spesso in imbarazzo a mostrare i nostri chili di troppo, loro son lì che passeggiano fiere in pantaloncini minutissimi e canotta attillata che evidenziano i loro quasi 200 chili. Viva la faccia! Chissà noi altri come siamo visti da coloro che ci incontrano? Accaldati, con la bandana da pirata, macchinetta fotografica al collo, chi lo sa! Finita la visita si torna a Valladolid per prendere il pullman per Playa del Carmen. Aspettiamo il bus sotto un albero, circondati da gente che balla. 10 minuti, 20… niente bus. Dopo mezz’ora di ritardo vediamo un responsabile della compagnia dei pullman: gli chiedo che ne sia stato del nostro mezzo di trasporto. Dice che non c’è, non è partito, ma un’ora dopo ne parte un altro. Un’ora dopo? Ma noi abbiamo la coincidenza per Playa del Carmen! Niente da fare, dobbiamo prendere il taxi. Contrattiamo sul prezzo e per 200 pesos ci porta di corsa a Valladolid. Io gli dico che dobbiamo arrivare con una certa urgenza, e lui ci prende talmente in parola che si fa quasi tutta la strada a 140 kh/h. Dal sedile di dietro mi arriva una flebile voce impaurita «Còss, gli dici che abbiamo fretta, ma poi, non così tanta? Io ci vorrei arrivare intera a casa». In effetti è un po’ inquietante sfrecciare in quel modo su una strada, tutto sommato, non proprio bellissima. Il problema è che non vorrei offenderlo; che gli dico, alle amiche qui dietro sta per venire un embolo per paura di morire sfracellate? Io poi mi diverto, col vento in faccia, sul sedile davanti senza cintura: è il massimo! Taccio. Arriviamo in tempo, prendiamo i bagagli e via, verso Playa! La lentezza dei pullman messicani è estenuante. Per quanto il limite sia di 110 km/h, i bus camminano pianissimo e, se la velocità sale un po’, s’accende una luce sul tetto e il conducente rallenta. Sarà una regola di sicurezza, ma viaggiare a circa 60 km/h è snervante. La prima sera a Playa serve solo per andare a cena e poi a dormire. L’indomani è giornata di relax. L’albergo è convenzionato con una spiaggia vicino, la signora ci dà gli asciugamani e noi ci dirigiamo allo stabilimento. Già in albergo siamo circondati solo da connazionali (tra cui la proprietaria dell’hotel), in spiaggia sentiamo parlare solo italiano. Ci tuffiamo nelle acque azzurrine e poi inizia la fase lucertola al sole. Io non reggo sdraiato sul lettino più di 5 minuti, faccio fagotto e inizio a camminare nei paraggi. Raggiungo una spiaggia solitaria, vuota, senza nessuno. Il sole mi tormenta e me ne torno in albergo. Il pomeriggio si va sulla “Quinta”. L’Avenida Quinta è il Corso di Playa del Carmen. Qui ci sono i negozi, gli alberghi centrali e i turisti che fanno lo struscio. A Playa si fa questo: mare e passeggiata sulla Quinta, stop. I petulanti buttadentro dei negozi suonano una musica diversa dal solito. «Español? Italiano? Sicilia, Mafia? Berlusconi capo della Mafia?». Ecco, quando attaccano con la Mafia mi girano le palle! Si cena in un ristorante consigliatoci oltre che dalla guida anche da varie persone durante il viaggio. Il cibo è buono e i prezzi sono meno cari. Finisce che quasi tutte le sere mangiamo lì. Oggi si va a Tulúm, l’unico sito Maya costruito sul mare. È organizzato come gli altri siti, coi ruderi circondati dalla vegetazione, con in più una bella vista sull’oceano e la possibilità di rinfrescarsi le idee gettandosi in acqua per un bagno ristoratore. Anche qui il caldo e l’afa non mollano. Anche per l’orario più tardo rispetto al solito, i turisti sono tantissimi: a volte bisogna fare la fila per prendere una foto o godersi uno scorcio di bel panorama.
Il giorno dopo Fede ed Elisa vanno all’isola di Cozumel: snorkeling e mare. Io passo. Già ho avuto i miei begli imprevisti con lo snorkeling e il mare m’ha stufato! Passeggio per un po’ lungo la spiaggia vuota: è mare anche questo, ma almeno risparmio i soldi del traghetto, poi torno in albergo e mi dedico alla TV messicana. Non è certo il classico passatempo caraibico, ma oltre al mare o una visita al sito di Cobá, da qui non c’è altro da fare. Ormai di siti ne ho visti parecchi, mi sarebbe piaciuto andare in qualche paesino verace, ma le guide e le cartine non ne riportano da queste parti, per cui opto per conoscere il Messico via TV. Io ho sempre ritenuto che guardare la televisione dei posti che si visitano sia utile per capire un po’ il Popolo che ti ospita. Quindi mi distendo sul lettone, telecomando in mano, aria condizionata a palla, bibita, sigaretta, ventilatore acceso e vai con la tele! Ogni sera guardo un po’ di TV prima di addormentarmi, e mi piace. Vedo un paio di film, uno messicano in bianco e nero sulla storia delle lotte dei Campesinos d’inizio ‘900 e uno americano doppiato in spagnolo. Vedo qualche pezzo di varie soap opera: a mio giudizio delle gran porcate. Parlano tutte di storie d’amore nell’alta borghesia bianca di città del Messico: fuori dal mondo, o comunque diversissime da quello che vedo io qui tutti i giorni, ma è normale; anche chi vedesse le fiction italiane, come “Vivere” o “Un posto al sole” crederebbe che gli Italiani hanno tutti case da favola, soldi che escono dalle orecchie e torbide storie di sesso. Poi è la volta del “Reality show” alla Messicana: peggio di così non si può! Storia: lui, lei, l’altra. La moglie non sa dell’amante, l’amante non conosce la moglie. La moglie insulta l’amante, l’amante offende la moglie e entrambe insultano lui. Fin qui tutto regolare. Ma c’è un ma: colpo di scena! La conduttrice, Laura o qualcosa di simile, fa vedere un filmato. Lui al parco che si bacia con una donna! Oooooooh! Chi sarà costei? «Non lo so, non la conosco!». La moglie si avventa sul marito e lo picchia, le guardie del corpo li separano; l’amante si avventa sull’uomo e lo picchia, le guardie del corpo li separano. Entra in studio la terza donna. Applauso.
«Maledetto, farabutto, mi hai detto che ero l’unica! Mi hai giurato amore eterno!» «Ma chi ti conosce, io non ti ho mai vista! È tutto un falso, il video è un montaggio». La terza donna si avventa contro l’uomo e lo picchia, le guardie del corpo li separano. Laura, o come si chiama, chiede all’uomo perché sia così schifoso, lui dice che è tutto un montaggio, Laura si arrabbia, dice che di finto c’è solo lui, chiama le guardie del corpo che lo abbrancano e lo portano di peso fuori dallo studio mentre Laura gli grida dietro «Sei solo immondizia, sei solo immondizia!». Ovazione. Quello che mi colpisce di più, però, della TV messicana, sono le pubblicità. Hanno quasi tutte i sottotitoli. Sono sottotitoli educativi, del tipo: pubblicità della maionese e delle merendine, sotto c’è scritto “aliméntati in modo sano!” come a dire “non mangiare queste porcherie”. Pubblicità del succo di mela, sottotitolo: “la mela è sana”. Birra: “fanne uso moderato”, biscotti: “mangiali col latte”, latte: “bevine tutti i giorni”. Strana ‘sta cosa! Sotto alla pubblicità del deodorante per ambienti, in cui il bambino fa la pupù, tira la catena, spruzza il deodorante e se ne va, c’è scritto di lavarsi le mani dopo aver fatto i bisogni. Questa cosa è scritta anche in tutti i bagni pubblici e su qualche muro: serve ad evitare il colera.
E poi molte pubblicità progresso: c’è quella che dissuade i Messicani dall’emigrare in USA: “Ogni anno tot Messicani muoiono cercando di attraversare la frontiera, non fidarti di chi ti pota dall’altra parte illegalmente: Mai più Messicani morti!”, quella che contrasta la violenza sulle donne: “Ogni anno tot donne vengono uccise tra le mura domestiche. Fermiamo la strage!” O quelle che sensibilizzano contro lo spreco di acqua ed elettricità.
La televisione è la mia compagna di soggiorno per tutto il resto della vacanza. La mattina vado a passeggiare vicino al mare, poi mi rintano in camera, il pomeriggio andiamo sulla Quinta a fare un po’ di vasche e a far compere, la sera si va al solito ristorante, quello della guida. Solo l’ultima sera mi stacco dal gruppo e vado a cena da solo da un’altra parte. È un ristorantino per Messicani. Ceno con 20 pesos, un quinto rispetto a quello solito, un decimo rispetto agli altri posti per turisti che si vedono lungo le strade. Mangio cose buone, dal sapore diverso dal solito: più saporito.
L’ultimo giorno a Playa è il penultimo della nostra vacanza: domani si farà tappa a Philadephia e poi di nuovo a Roma; vacanze finite! Non c’è una volta che non mi prenda la prenostalgia del viaggio. Già prima di ripartire, mi sarei voluto nascondere e non farmi trovare, sarei voluto scappare in pullman e proseguire il mio itinerario alla scoperta del Messico. La vacanza però è pianificata, a Philadelphia è prenotato, il biglietto aereo è fatto. Tocca tornare! A Roma, la prima cosa che faccio è sviluppare le foto: sono curiosissimo di rivedere stampate le cose che ho conosciuto dal vivo. Mi telefona la mia zia sarda, zia Giovanna, mi chiede se può venire a trovarmi per chiedermi del viaggio e per vedere le foto: è molto curiosa. Quando viene, parliamo; s’informa del Messico, dei Messicani, della cucina, dei problemi sociali, poi vuol vedere le foto. Non è mai stata in Messico e le guarda con ammirazione. «Ma che bei posti, che bello». Una foto ritrae la laguna di Celestún, mia zia esclama: «Ma che mare meraviglioso! Sabbia bianca, mare che sembra di latte, è come quello nostro in Sardegna: bellissimo!». Appunto zia. Già c’avevo pensato, tu me l’hai confermato: quest’estate sono stato in Sardegna; a 1.000 e rotti Euri di volo da Roma, ma è lì che sono stato.
Il Messico era un compromesso tra le mie esigenze di un posto fresco e che avesse qualcosa da raccontarmi, e la voglia di mare e di relax delle amiche. Quando sono andate in agenzia e hanno detto Messico, la ragazza ha capito Yucatán, ma lo Yucatán non è Messico. È Stati Uniti (Cancún), è Europa (Playa del Carmen), è Sardegna, Italia, è Rimini, è Mikonos, è un po’ Romania (Mérida) ma non è Messico. Potevamo chiedere all’agenzia di organizzarci una tappa in Chiapas, dove c’è qualcosa di autentico, dove la gente che vedi è più vera dei commercianti e dei taxisti che abbiamo incontrato, ma le distanze sono lunghe e non tutti sono disposti a farsi 15 ore di pullman insieme a me per andare nei villaggi in mezzo alla foresta. Avrei potuto allontanarmi da solo, ma la vacanza è stata pianificata, è già tutto pagato, e poi siamo partiti in tre, e ho scelto di rimanere in Yucatán. Avrei potuto aggirare le istruzioni della guida, affidarmi al mio naso come ho sempre fatto, cenare in luoghi non turistici, scoprire qualcosa di diverso, prendere un pullman a caso e via, dove mi porta il cuore! Ma anche lì avrei dovuto uscire dal gruppo. Avrei potuto, ma non l’ho fatto, colpa mia. D’altra parte, ho comprato la mia guida Routard solo dopo aver pagato l’agenzia, e solo allora ho scoperto cosa m’aspettasse realmente: bel mare, bei ruderi, fauna caraibica, hotel e tanta tanta plastica! Alla fine non importa, in ogni caso ho passato due settimane diverse, ho riso, ho nuotato, ho mangiato un buon cibo messicano, ho visto luoghi mai visti prima, ho parlato con qualche persona, ho conosciuto un pezzo di mondo lontano dal mio; e poi posso dire «Sono stato in Messico», come tutti coloro che ritornano dallo Yucatán!