Tibet,il tetto del mondo
In realtà ci sono due modi per entrare in Tibet : o attraverso il Nepal o via Chengdu in Cina.
In Nepal ci si deve aggregare fino al confine con la Cina ad un gruppo di almeno 5 persone. Il vantaggio è il numero di ore di volo ( in tutto dall’Italia circa 10 ), ma spesso è necessario aspettare a Kathmandu molti giorni e a volte il confine tra Cina e Nepal viene chiuso costringendoti a annullare il viaggio. Da Chengdu è più facile ottenere il permesso necessario appoggiandosi ad un’agenzia locale , non ci sono di solito problemi di accessibilità perché sei già in Cina e quindi non c’è frontiera da attraversare, ma le ore di volo dall’Italia diventano circa 18.
Non avendo la possibilità di aspettare giorni a Kathmandu e data la situazione politica del Nepal abbiamo optato per Lhasa via Chengdu.
20/04/02 Aeroporto di Venezia ore 14.45 volo Venezia- Roma. Alle ore 18.05 con un’ora di ritardo prendiamo il volo Roma –Pechino. Arriviamo alle 10 ( durante il volo, probabilmente a causa di un collasso, Silvia è svenuta due volte ma abbiamo proseguito lo stesso; era troppo importante arrivare a Lhasa ). Alle 15.25 prendiamo il volo per Chengdu dove arriviamo alle 18.00 del 21/04. La scelta di volare con la CAAC ( Air China ) è praticamente obbligatoria dato che la tratta interna Pechino- Chengdu diventa carissima se il volo internazionale collegato viene fatto con un’altra compagnia aerea. Rispetto ad una decina di anni fa notiamo però un netto miglioramento del servizio offerto dalla CAAC che si è guadagnata in passato una pessima fama (“China Airlines always crash” ). All’aeroporto ci viene a prendere come d’accordo Ku Ling, “Il permesso non è ancora pronto, ve lo consegno domani quando vi accompagno all’ aeroporto”, ci dice dopo averci portati in un hotel di Chengdu : non illudiamoci , non è ancora detto che riusciamo ad arrivare a Lhasa. Abbiamo conosciuto Ku Ling, che si è interessato per farci avere tutti i documenti necessari per arrivare in Tibet tramite il nostro amico indiano Baghwan. E quindi “A domani allora, se avete bisogno di qualcosa questo è il mio biglietto da visita…”, già quasi dimenticavamo la mania cinese per le cartine plastificate, ricambiamo con i nostri biglietti da visita e Ku Ling sorride soddisfatto e si inchina.
Salutiamo e andiamo in camera accompagnati da 3 persone , una cameriera, un facchino e una signora che ci apre la porta. In Cina la manodopera non costa molto e quindi ovunque c’è un enorme spreco di gente che nella maggior parte delle volte non ha niente da fare. Gli hotel come il nostro sono spesso enormi e vuoti: dove alloggiamo noi ci saranno circa 400 camere di cui solo una decina occupate. Siamo gli unici occidentali e questo crea un certo scompiglio. Stanchi dal lungo viaggio ,appena appoggiata la testa sul cuscino, iniziano le telefonate : ci chiamano dalla hall e chiedono se possiamo portare giù i passaporti perché hanno sbagliato a compilare il modulo. Scendiamo e risaliamo sempre accompagnati “dall’addetta all’apertura della porta” che salutiamo nuovamente tra sorrisi e inchini. La scena si ripete per altre 2 volte e quando suona nuovamente il telefono, e chiedono “ Qual è la vostra nazionalità?” con il terrore di far “ perdere la faccia “ e di offendere il personale dell’hotel chiediamo di aiutarli a compilare il modulo, così possiamo finalmente dormire. Il far perdere la faccia ad un cinese rappresenta una delle offese più gravi che si possano fare : mai mettere in evidenza specie in pubblico gli errori commessi da qualcuno anche se si è convinti di aver ragione. Andare su tutte le furie in pubblico e mettere così in serio imbarazzo la persona che si ha di fronte provoca un ulteriore irrigidimento. Per ottenere qualcosa conviene evitare sempre le critiche dirette, reclamando in tono calmo, evitando gli scontri. In situazioni simili occorre sorridere e parlare d’altro per un po’.
22/04 La mattina dopo sveglia alle 5.40, il nostro amico puntualissimo ci aspetta :” Vi ho fatto preparare la colazione da portare via” Ci da’ due scatole che emanano un odore troppo forte per i nostri nasi occidentali. Arriviamo all’ aeroporto , Ku Ling fa il check in per noi e confabula con il personale addetto. Alla fine “ Ecco le carte d’imbarco” : ormai è fatta, Lhasa è vicina !! Ci consegna un foglietto scritto in cinese “ Questo è il permesso per il Tibet da dare al signor Ranchine quando vi viene a prendere “. Speriamo bene … 22/04 Volo Chengdu – Lhasa, ore 7.20 !! Leggiamo e rileggiamo, sembrano proprio due validi e regolari biglietti per Lhasa! Non ci possiamo credere , è tutto così perfetto, noi che ci aspettavamo giorni di trattative, ritardi, problemi vari ! In un attimo svanisce la stanchezza accumulata in 16 ore di volo e tutto diventa improvvisamente così bello : pensiamo ai dubbi, ai preparativi, agli ultimi mesi trascorsi nell’incertezza di un viaggio pieno di difficoltà, e invece tutto sembra a posto. Paghiamo la tassa d’imbarco e veniamo accompagnati gentilmente al gate. L’odore è insopportabile e così decidiamo di liberarci della colazione, ma siamo curiosi e apriamo i misteriosi pacchetti composti da una specie di wurstel rosso fuoco, un pezzo di carne maleodorante , alcune noccioline e una pera. Presi da un improvviso appetito tentiamo di mangiare comunque qualcosa , quando una signora vicino a noi “scatarra” rumorosamente e ci fa cambiare idea. Come per tutti i paesi asiatici anche in Cina sputare sembra essere lo sport preferito: mai passare sotto i finestrini di un autobus, sotto le terrazze delle case e tutti quei luoghi esposti al “tiro incrociato”. Finalmente saliamo in aereo e dopo un’ora dal finestrino vediamo l’ Himalaya e in lontananza la punta dell’Everest: “Siamo noi che voliamo bassi o sono i monti che sono alti??” Alle 9.20 arriviamo in Tibet… Il cuore ci batte fortissimo, probabilmente è dovuto all’altitudine.. Non ci pare vero: siamo arrivati! Camminando per uscire dall’aeroporto Silvia è tutta emozionata, una sensazione bellissima e vorrebbe baciare il suolo ma qualcosa la trattiene ( Marco che la trascina verso l’uscita ).
Ci vengono a prendere tre amici di Ku Ling, un tibetano e due cinesi: “siete fortunati , ieri hanno annullato i voli per il maltempo!! Oggi c’è il sole”.
Saliamo in macchina e tutto sembra così familiare: è come se fossimo arrivati a casa, la jeep vecchia senza ammortizzatori, le strade tutto come i nostri soliti viaggi e come pensavamo che fosse. Il primo impatto quando si arriva in un paese asiatico è sempre molto forte se non si è preparati almeno psicologicamente. Molta gente che abbiamo conosciuto appena scesa dall’aereo voleva tornarsene a casa ma se si riesce a superare questi primi momenti normalmente ci si entusiasma a tal punto da volerci rimanere più a lungo.
Percorrendo la strada verso Lhasa ammiriamo le molte bandiere di preghiera, villaggi senza tempo, panorami stupendi. I Cinesi hanno piantato esili alberi ( fino ai 4000 mt possono crescere ) , circondandoli uno ad uno con mattoni per proteggerli dal vento e dal freddo. Ogni giorno devono essere ripetutamente innaffiati uno ad uno prelevando l’acqua da cisterne. La strada è stranamente in buone condizioni e qua i cinesi hanno fatto un buon lavoro, anche se ad essere sinceri ci da’ fastidio perché questo rovina l’immagine che tutti noi abbiamo di un Tibet selvaggio; personalmente preferiamo le scomodità perché fanno sembrare tutto più genuino e più vero, anche se ci rendiamo conto che è solo egoismo.
Arriviamo in hotel dopo un’ora e mezza di strada; è un bell’hotel se non fosse così vicino al Potala. Lo stile cinese con i vetri blu non si addice alla sacralità del luogo. I nostri amici ci lasciano suggerendoci di stare in camera, di bere molto e di non esagerare perché dobbiamo abituarci all’altitudine.
Noi però ci sentiamo bene, fuori c’è il sole e sarebbe davvero un peccato sprecare tempo inutilmente; così, dopo 5 minuti decidiamo, nonostante le raccomandazioni, di uscire ugualmente.
Un’emozione ci assale davanti al Potala, un tempo antica sede del Dalai Lama e ora trasformata dai cinesi in un gigantesco palazzone vuoto , praticamente un museo. Eppure i tibetani continuano a pregare, ad inginocchiarsi e a prostrarsi davanti a questa sacra e immensa costruzione.
Davanti all’antica residenza del Dalai Lama i cinesi hanno costruito una piazza: essa contrasta con la sacralità del luogo e non ha niente a che fare con la cultura e lo spirito tibetano. Intorno vediamo palazzi e case cinesi. La sensazione è quella di essere in Cina e non in Tibet, il senso di disprezzo nei confronti dei cinesi è alle stelle, non riusciamo ad immaginare come abbiano fatto a rovinare tutto in questo modo: piazze enormi, piastrelle a fiori stile bagno, negozi e case cinesi, ma dove è finito il Tibet?? Poi ripensandoci è sbagliato giudicare e questa dovrebbe essere la prima regola nei nostri viaggi. Chissà però come si sarebbe sentita Alexandra David-Néel di fronte a questo scenario, lei che ha impiegato tre anni, nascondendosi tra i pellegrini, digiunando e attraversando a piedi l’Himalaya per giungere nella città proibita di Lhasa. Andiamo verso il Barkhor, la zona di Lhasa che si estende attorno al tempio del Jokhang e rappresenta il cuore tibetano della città. A parte la solita piazza fatta costruire dai cinesi davanti all’edificio sacro, il resto del quartiere è rimasto praticamente e miracolosamente intatto ed ha saputo resistere alla Rivoluzione Culturale .
La sensazione che si prova di fronte a questa parte di Lhasa è indescrivibile, è come passare improvvisamente da Cina a Tibet e da 21° secolo al medioevo.
L’odore forte del burro di yak diventa ormai parte integrante di te: ti penetra nei vestiti fino alla pelle e non va più via. Edifici in puro stile tibetano, di mattoni bianchi con bandiere di preghiera e decorazioni varie si stagliano all’orizzonte in un elegante groviglio di tetti.
Pellegrini, nomadi , gente di tutti i tipi, si mischiano insieme per formare quasi una cartolina: sembra proprio di essere dentro una di quelle immagini da libro illustrato come in un sogno. Gente che viene da tutto il Tibet e dal Kham , che ha camminato per giorni, faticando e ha vissuto condizioni estreme per arrivare fino a qui. Pellegrini che portano burro da offrire in dono, lampade, un termos per il te e quel poco che possiedono.
Il Barkhor è il simbolo della fierezza di un popolo che vuole fermamente resistere e mantenere i propri usi e costumi a discapito di tutti cambiamenti che qualcuno vuole imporre loro. Nel Barkhor i tibetani così solari, felici di quel poco che hanno, in armonia con se stessi e con il mondo si contrappongono al grigiume del popolo cinese che, vittima di un processo di modernizzazione troppo rapido, troppo spesso imita gli occidentali perdendo la propria identità e le proprie radici. Nel quartiere tibetano di Lhasa troviamo l’Occidente contrapposto all’Oriente, il necessario contro il superfluo, la gioia contro l’insoddisfazione. Due comunità convivono distintamente: da una parte i cinesi con i loro negozi spesso sfarzosi e una prematura modernità da esporre, dall’altra i tibetani che già dal mattino fino sera sgranano rosari camminando senza sosta tra i nuovi edifici cinesi.
Noi occidentali siamo così abituati al superfluo che le cose inutili sono diventate necessarie e viviamo in un continuo stato di bisogno; non ci basta più quello che abbiamo e vogliamo sempre di più. La noia e l’insoddisfazione che regolano la nostra vita sono parole che per i tibetani non hanno senso . Ci sentiamo sereni e felici quando ci sediamo a guardare per ore il via vai continuo di pellegrini, un fiume di gente, suoni e colori. L’occidente ci sembra sempre più lontano e inutile. Pensiamo alle nostre giornate, al lavoro, ai discorsi che in fondo non hanno alcun senso. Pensiamo a quello che staranno trasmettendo in televisione, ai dibattiti politici e al nostro modo così innaturale e finto di vivere.
Il concetto di tempo stesso, la fretta, l’ansia della lancetta dell’orologio che scorre in questo posto perde di significato. Il Tibet è una dimensione senza spazio e senza tempo.
La gente non ha problemi di orario, non ha fretta, non deve correre da nessuna parte. Molti di loro vengono dalle zone più sperdute del Tibet attraverso un viaggio interminabile e adesso sono qua a testimoniare inconsapevolmente un modo di vivere. Loro non lo sanno, ma sono ai nostri occhi realmente meravigliosi e veri.
E pensare che molti di loro non hanno mai visto una macchina o un telefono. Cerchiamo di immaginare quale possa essere stato l’impatto con la modernità una volta arrivati a Lhasa; saranno sicuramente spaventati e curiosi allo stesso tempo.
Intorno al Jokhang ci sono bancarelle di tutti i tipi che vendono oggetti sacri come bandiere, rulli di preghiere e amuleti. Un gruppo di nomadi si avvicina divertito e osserva la merce esposta: ad un certo punto inizia una lunga trattativa , per comprare ornamenti colorati di lana per gli yak.
Gli altri viandanti continuano a girare in senso orario per ore, alcuni fino a sera inchinandosi davanti all’ingresso del Jokhang, prostrandosi con i piedi legati. Molti monaci si mischiano alla folla e il Kora continua dall’alba al tramonto.
Anche noi giriamo molte volte come rapiti da quanto vediamo. In breve diventiamo motivo di interesse e curiosità: la gente fa a gara per salutarci e chiamarci. La videocamera poi è proprio un oggetto irresistibile e siamo travolti da curiosi e divertiti passanti. Una signora ci afferra per un braccio sorridendo e urla qualcosa di incomprensibile, poi ci saluta e fa Okay con la mano.
Intanto i negozianti ci chiamano da ogni direzione “ looky, chaepy, justy looky “ e sentiamo le loro voci da lontano.
In un angolo vediamo uno “studio dentistico” simile a quelli nepalesi con il disegno di una bocca sorridente. All’interno dentiere e accessori “take away”, abbiamo fatto proprio bene a farci una visita di controllo prima di partire! Per disgrazia ci viene l’idea di entrare in un negozio di Tangka , dipinti sacri, gestito come tutti i commerci di un certo rilievo da un cinese che non ci molla più. Ci fa tutta la descrizione ad uno ad uno dei dipinti e tenta in tutti i modi di venderci qualcosa. La sua insistenza è quasi fastidiosa e pensiamo che lui non abbia nessun diritto di parlare di qualcosa che non gli appartiene dal punto di vista culturale. E’ disgustoso sentire come parla , le cose che dice che comunque sono in gran parte completamente sbagliate. Probabilmente molte opere che vende a carissimo prezzo sono state portate via gratuitamente o per poco a qualche famiglia tibetana e questo è orribile anche perché per un tibetano un tangka ha un valore profondamente religioso e viene tramandato di padre in figlio.
Sfuggiti al negoziante, continuiamo a curiosare tra i vicoli per qualche ora, decidendo poi di tornare in hotel a causa di un forte malessere dovuto sicuramente all’altitudine.
Ci fermiamo alla sede dei telefoni, ma rinunciamo quasi subito a chiamare perché nel giro di qualche secondo siamo circondati da tibetani curiosi, che si appoggiano alla cornetta e ridono sentendone il suono. Qualcuno timidamente azzarda un “ U FROM” e gli rispondiamo Italy, chissà se capiscono ma sorridono felici e anche noi lo siamo.
Per oggi basta siamo distrutti , il mal di montagna è diventato insopportabile, è meglio se rientriamo in hotel.
Dopo il tramonto fa molto freddo, non c’è riscaldamento e, a causa dell’altitudine, dormire è quasi impossibile, così passiamo la notte con il piumino addosso e beviamo molto te.
23/04. La mattina dopo cerchiamo di farci indicare dai cinesi che gestiscono l’hotel dove dobbiamo andare per la colazione. Non parlano inglese e così leggendo il frasario mandarino-italiano esclamiamo “ Chi fan ! Mangiare! Food! Breakfast !“. Dopo una serie di tentativi ci capiamo a gesti e ci indicano il posto. Che fatica! Arriviamo al ristorante che dovrebbe essere quello giusto e sempre a gesti cerchiamo di far capire che veniamo dall’ hotel. Ci portano la colazione: zuppa di colla di pesce, aglio e noccioline, te e latte di capra . Dopo una rapida occhiata al pasto Silvia esclama “ Sono le 8, ho il mal di montagna , mi viene da vomitare , c’è un odore terribile , forse è meglio rinunciare alla colazione”.. “ Non sarebbe educato” replica Marco “ facciamoci coraggio e mangiamo lo stesso “, impresa per niente facile perché le uniche posate sono le immancabili bacchette cinesi.
Finito di mangiare e ancora un po’ storditi dall’esperienza, viene a prenderci il nostro amico che ci porta a visitare il Potala. L’interno del palazzo è molto buio, c’è qualche neon ma più che altro le stanze vengono illuminate da qualche lampada al burro di yak che i pellegrini riempiono con le loro offerte. In realtà non ci sono molti fedeli rispetto al Jokhang e tutto sembra confermare l’idea che ci siamo fatti guardando il Potala da fuori: i mobili e gli arredi sono scarsi e solo una ventina di monaci abita il palazzo. Dalla terrazza esterna ci appare l’enorme piazza quasi vuota e la parte cinese della città, costruzioni fuori luogo che limitano la vista sui monti circostanti. La sensazione di disgusto ci impedisce di continuare a guardare e preferiamo rientrare. In un cortile interno alcuni pellegrini stanno ricamando il grandissimo tangka che verrà esposto durante il festival il 15 Aprile del calendario tibetano che è “sfasato” di circa un mese rispetto al nostro. Terminata la visita Rachine ci invita a pranzo e non possiamo rifiutare; sapendo che normalmente gli stranieri non apprezzano eccessivamente il cibo tibetano ci porta in un ristorante cinese.
Rachine è molto riservato e di lui non sappiamo praticamente quasi niente : è benestante , dimostra una cultura al di sopra della media , è molto educato e parla l’inglese fluidamente con un leggero accento indiano che rende la sua parlata perfettamente comprensibile a noi italiani. E’ anche bene introdotto tra i cinesi, ha molte conoscenze ed è riuscito a farci ottenere i permessi di cui avevamo bisogno.
Nonostante la nostra curiosità evitiamo di porgli domande dirette che lo potrebbero mettere in imbarazzo, quando vorrà ci parlerà di se stesso. Terminato il pranzo decidiamo di andare al monastero di Sera e ci facciamo dare un passaggio da un trattore carico di pellegrini: il tragitto è una lenta agonia, il rumore è continuo e assordante e la strada , che in realtà è di pochi chilometri, sempre eterna. I nostri compagni di avventura scherzano e ridono facendoci continuamente domande: come al solito siamo al centro dell’attenzione. Sul trattore siamo in 12 persone schiacciate una alle altre, noi tre e una famiglia di tibetani che viene dalla parte nord-occidentale del paese a circa 5000 km da qui. Non sanno dirci da quanto tempo sono in viaggio, i loro volti sono sudici e neri, i capelli annodati e sparpagliati, ma non danno segni di stanchezza, ridono e scherzano. Ci offrono alcuni dolcetti conservati chissà per quanti giorni nella tasca esterna del loro sporchissimo e lacero vestito; contraccambiamo con un pacchetto di chewingum.
Arrivati a destinazione incontriamo un monaco amico di Rachine che vive nel monastero da qualche anno e che si offre di accompagnarci nella nostra visita.
I pellegrini portano offerte e doni di vario genere: soldi, burro di yak e amuleti fatti di tsampa (impasto a base fi farina di orzo e birro). Nessuno è obbligato e tutti donano secondo le possibilità e in base a quello che rappresenta per loro la figura da invocare. In alcuni casi i monaci vagano per i villaggi elemosinando, condizione questa ritenuta normale e non avvilente dai tibetani.
Nel cortile esterno al monastero c’è la zona dei dibattiti dove si radunano ogni pomeriggio i monaci. Alle 15.30 inizia la discussione; i novizi restano seduti per terra, mentre i maestri a turno avvolgono il rosario attorno al braccio, applaudono e battono il piede facendo una domanda che riguarda un argomento religioso. Se la risposta data dal discepolo è esatta, battono le mani verso l’interno del palmo, altrimenti verso l’esterno. C’è la possibilità di balzare poi in avanti ponendo un’altra domanda. In realtà il chiasso impedisce di capire in modo completo il quesito che di solito non è comunque spontaneo, ma è una citazione tratta da qualche testo sacro.
Il dibattito continua così per tutto il pomeriggio e in questo modo gli allievi imparano quello che poi, dopo aver superato gli esami di fine anno, costituirà la base della loro cultura religiosa. Andiamo poi a visitare le pitture sacre rupestri sulla collina dietro il monastero. Facciamo fatica a camminare e l’altitudine ci impedisce di andare velocemente: ci sembra di essere sulla Luna.
Prima di lasciare il monastero siamo invitati a bere del te al burro di yak e a mangiare qualcosa nella cucina . Beviamo per non offendere i nostri ospiti, mentre una grosso ratto gira indisturbato per la cucina. I buddisti tibetani non possono uccidere nessun essere vivente, e quindi anche topi, vermi, scarafaggi, pulci, perché potrebbero essere la reincarnazione di qualcuno. Al pensiero di un topo che potrebbe essere passato sopra la ciotola da cui stiamo bevendo ci fa quasi svenire e l’odore di burro di yak è diventato insopportabile… Silvia :”Voglio solo uscire..”, Marco continua a fissarla e a maledirla….:” Dove mi hai portato?? Non ce la faccio più!”. La risposta è :” Resisti e sorridi !”.
Ritornati in città salutiamo Rachine e andiamo a fare un po’ di spesa in un negozio che vende biscottini cinesi, crackers ed altre cose apparentemente commestibili. Tra le corsie del supermercato incontriamo altri due italiani, un medico e una biologa, che lavorano in un centro ricerche a Shigatse. Ci consigliano cosa comprare: “ Fate attenzione questo sembra zucchero, ma in realtà è detersivo “ ; ci raccontano che ormai questo è diventato il loro modo di vivere, sempre in viaggio da un centro ricerche e l’altro. “Ogni tanto torniamo in Italia, ma per poco perché ci sentiamo completamente fuori posto, stranieri a casa nostra e così appena possibile ripartiamo “.
Diversamente da quello che si può pensare, ci sono molte persone che decidono di lasciare tutto e andare a vivere in paesi come il Tibet. “Anche per noi “ rispondiamo” ogni volta è sempre più difficile ritornare a casa: da un lato capiamo di non potere rinunciare alle comodità del nostro modo di vivere e ai legami familiari, dall’altro la pace e la serenità non hanno prezzo “. Forse è solo una questione di tempo, nel senso che se ci si ferma più di tre mesi in un paese del genere, ritornare diventa poi veramente difficile , è come se si superasse un confine, quello che noi chiamiamo “punto del non ritorno”. Rientriamo in hotel e mangiamo avidamente i biscottini cinesi fosforescenti che sanno di dentifricio alla fragola…” Sono buonissimi! “ Dice Marco tutto contento” A proposito, ieri abbiamo digiunato e non ce ne siamo neanche resi conto… Dobbiamo stare più attenti , il mal di montagna non perdona. Da oggi imponiamoci di mangiare e di bere per forza . “ Si alza “Vado a chiedere due bustine di te alla reception , siamo rimasti senza “. Dopo qualche minuto si sentono delle risate fortissime che arrivano dal corridoio, Silvia esce e vede Marco circondato da un gruppo di cinesi che ridono “Bustine te, tea bags, tea.. Cha cha “ esclama lui indicando il termos per l’acqua calda. Gli portano un altro termos “ No , bustine, tea bags” Gli portano altre due tazzine “ No, acqua, water, glu glu, tazza, bustina, pling pling “. Le ragazze ridendo portano un frasario cinese- inglese con scritto frasi del tipo” avete camere libere, voglio una camera con bagno”. Finalmente arriva il manager che è evidentemente più sveglio e capisce che mancano le bustine di te. “ La prossima volta vai tu a chiedere qualcosa “ e si distende sfinito sul letto.
24/04 Partenza ore 8.30. In jeep con Rachine andiamo a visitare il monastero di Drepung. Al rientro, salutato il nostro amico, decidiamo di visitare il tempio del Jokhang. All’interno il flusso di pellegrini è costante, ci sono file di lampade al burro di yak, nomadi in preghiera e persone di tutti i tipi. Saliamo sul tetto, anche se non si potrebbe, e vediamo un gruppo di persone che batte il pavimento per ore danzando ritmicamente e cantando per compattare il solaio, la stessa tecnica che viene utilizzata per pavimentare le strade.
Seguiamo il kora interno del Jokhang per osservare la gente. Alcuni bambini incuriositi si avvicinano ed iniziano a giocare con noi.
Terminata la visita ci sediamo nell’orrenda piazza progettata dai cinesi per riposarci un po’ …. Due ragazze si siedono vicino a noi e con qualche parola d’inglese e molti gesti cercano di intavolare una conversazione: vogliono sapere tutto di noi, da dove veniamo, che lavoro facciamo e sono attratte dalla nostra guida sul Tibet. Gli facciamo vedere le nostre foto e cerchiamo di farci capire con l’aiuto del frasario tibetano – italiano.
Sono molto contente di parlare con noi. Ad un certo punto ci chiedono se possono fare una foto ricordo e chiamano uno dei fotografi che è in piazza. Dopo un po’ si avvicina un giovane monaco che stranamente parla correttamente l’inglese ; questo ci insospettisce immediatamente perché dicono che tra i religiosi ci siano alcune spie che lavorano per il governo cinese per scoprire eventuali dissidenti e antigovernativi.
Inizia a parlare male dei cinesi, dicendo che torturano i tibetani, che sono crudeli, che lui li vorrebbe tutti morti. Il modo così aperto con cui si esprime fa aumentare i nostri sospetti, anche perché è raro che un buddista parli male di qualcuno. Per evitare i guai, facciamo finta di niente dicendo che non sappiamo nulla di quello di cui parla. Il monaco a questo punto si alza e va via; notiamo che ha uno zaino militare su una spalla. Sarà una coincidenza ? Rientrati in hotel veniamo raggiunti da Rachine che ci porta da un suo amico cinese per noleggiare la macchina per i prossimi giorni. Purtroppo i cinesi hanno praticamente il monopolio sulla gestione delle agenzie e ai tibetani arriva ben poco del guadagno derivato dal turismo. Ci accoglie il signor Pin Lu che ci consegna immediatamente il solito biglietto da visita , ci fa sedere su un divano e ci porta del te. Ci prepariamo: la trattativa sarà, come sempre in questi casi , eterna. Marco dice” Ho già mal di testa al pensiero” ma sappiamo bene che non ci sono altre strade e che questa è la prassi. Cercando di anticipare i tempi, Silvia prende la parola e con convinzione spiega l’itinerario che vogliamo seguire e, usando un cartina dettagliata, indica il numero di giorni di noleggio e esattamente cosa vogliamo. Sappiamo che è perfettamente inutile, ma tentiamo lo stesso. E infatti il cinese ci ringrazia per la precisione della richiesta, ma propone, in un inglese fluente, un giro alternativo” Sarebbe meglio arrivare al confine nepalese e magari al Campo Base dell’Everest. E’ un itinerario più interessante che tutti richiedono”. “ Grazie per la proposta ma non ci interessa, vogliamo andare a Ganden, Namtso Drok e Tsurphu “. Il tempo passa tra tazze di te, sorrisi reciproci, ringraziamenti ma le posizioni rimangono totalmente divergenti. “ Io non ce la faccio più, un altro po’ e lo prendo a sberle!” dice Marco ormai sfinito . Resistiamo convinti anche se a causa dell’altitudine la difficoltà aumenta, il battito accelera e la testa batte come un tamburo, “ Ma sicuramente un trekking è meglio per voi, vi permette di vedere panorami che non potete assolutamente perdere!” “Certo, ma guardi non è quello che cerchiamo , magari un’altra volta!” Dopo più di un’ora il cinese cede “ Lei e’ una donna forte, va bene andrete dove volete anche se comunque non è l’itinerario migliore per voi. ” Tiriamo un sospiro di sollievo… Inizia la trattativa per il prezzo a colpi di te e dolcetti vari.. Dopo un’altra oretta il cinese sorride ci stringe la mano, la trattativa si è finalmente conclusa. “ Non andate via , permettetemi di offrirvi la cena”. “ Ci mancava anche questa ! ” dice Marco “ Siamo orgogliosi di accettare” risponde Silvia sorridendo.
Rachine ridacchia contento “ Siete bravi , avete vinto voi! Datemi i passaporti, devo andare al posto di polizia a chiedere tutti i permessi necessari. Penso che, però, dovrà venire con noi uno studente cinese.” 25/04. Partenza ore 9 per il monastero di Ganden. C’è il sole, ma questa notte è nevicato e il monastero a 4500mt è circondato da colline innevate. Attraversando tipici villaggi tibetani si arriva dopo alcune ore al monastero completamente ricostruito dopo che i soliti cinesi l’avevano raso al suolo. Veniamo circondati da venditori di burro di yak e bandiere di preghiera. Entriamo con i pellegrini in una delle sale del monastero: il soffitto e le colonne portanti sono piene di drappi e di decorazioni. I muri sono coperti da magnifici e colorati tangka e, anche se, come sempre in Tibet, la sala è molto buia, tutto sembra risplendere in un carnevale di colori su cui dominano il rosso e il giallo. Ci sono numerose lampade al burro di yak e statue di vario genere. Siamo fortunati, è appena iniziato il festival dei tre giorni. La vista del gruppo di più di cinquanta monaci in preghiera è emozionante: sono tutti seduti su stuoie e divani paralleli disposti su diverse altezze a seconda dell’importanza e del rango a cui appartengono e in un angolo c’è un sommo Lama che siede su una specie di trono. Leggono i libri sacri ad alta voce e intonano canti accompagnati dalle lunghissime trombe tibetane. Alcuni monaci suonano tamburi mentre i novizi sono seduti per terra e sono molto concentrati a curare i dettagli della preghiera. Bevono molto te durante la cerimonia, questo li aiuta ad andare avanti per giorni. Tutti i monaci hanno sotto i vestiti la ciotola di legno personale. Il te viene fatto cuocere in enormi recipienti e poi vengono riempiti i termos o viene distribuito tenendolo in appositi catini. Durante i raduni di preghiera l’unico alimento è il te anche se raramente viene servita della tsampa.
In realtà la maggior parte dei monaci non ha una grande cultura, né ha alcuna possibilità di istruirsi in modo completo. Come sempre avviene in tutto il mondo solo i figli dei ricchi grazie ai doni dei loro genitori possono realmente accedere al sapere, mentre gli altri devono accontentarsi di poco. In realtà molti monaci sono comunque in grado di recitare pagine intere di testi sacri e di commentarli in modo completo, dimostrando una grande conoscenza filosofica e religiosa dell’argomento. Altri invece , forse meno dotati, recitano a memoria senza capire il significato di quello che dicono ( cosa comunque molto frequente anche nelle nostre messe in cui vengono riportate frasi senza senso e strafalcioni vari ). I novizi sono costretti a dedicarsi ai lavori più umili, come la pulizia dei contenitori di te, dei bagni e del monastero.
Un monaco ci benedice colpendo la nostra testa con un bastone per infonderci il suo potere benefico. Che botta ! Terminata la visita decidiamo di provare a seguire il kora più facile, anche se camminare a questa quota è un’operazione realmente ardua e per niente piacevole; il sentiero non è indicato e ci perdiamo un paio di volte, ma poi riusciamo a trovare la strada giusta seguendo i pellegrini .
I tibetani sono convinti che aiutare un viandante sia importante per accorciare il periodo di tempo che intercorre tra l’abbandono di un corpo e la rinascita successiva. Tutti si adoperano per aiutarci e ci continuano a fare domande che non capiamo. La strada continua tra inchini e sorrisi; il panorama è stupendo, bandiere di preghiera ovunque, sciarpe e pietre sacre. In fondo alla valle si vede il fiume sacro Bungamati che arriva a Kathmandu in Nepal dove gli induisti gettano le ceneri dopo aver cremato i morti.
I pellegrini camminano velocemente ( o siamo noi ad essere lenti ?? ) e ci superano facilmente. Riusciamo comunque a percorrere tutto il kora e dopo una breve sosta in una cucina del monastero dove ci invitano a bere una tazza di te, arriviamo in una locanda dove mangiamo la solita tsampa e qualche dolcetto in allegra compagnia di alcuni curiosi pellegrini. La videocamera li diverte tantissimo e fanno a gara per essere ripresi. Ritorniamo a Lhasa in tarda serata.
26/04. Partenza alle ore 9 per il monastero di Tsurphu. La strada si trasformata in un sentiero appena segnato, ovunque cime aride e innevate; il silenzio viene interrotto solo da un fortissimo vento.
Il cinese che ci portiamo dietro forse è una spia del governo, ma dice di essere uno studente che vuole diventare una guida in Tibet; ha anche un quadernetto su cui scrive tutto quello che vede e sembra molto impegnato nello studio. Non è, però, molto intelligente, non sa una parola di tibetano e ha un pessimo senso dell’orientamento e una scarsissima memoria. La strada è talmente dissestata e piena di buche che è assolutamente impossibile dormire anche perché prendiamo colpi alla schiena e alla testa continui. Nonostante questo, lui dorme beatamente, tanto che sospettiamo che gli abbiamo messo del sonnifero nel te per liberarsene. Attraversiamo alcuni villaggi: le tipiche case tibetane assomigliano a fortini in mattoni bianchi. Di solito sono costruite su due livelli , al piano terra c’è la stalla, mentre al primo piano, a cui si accede attraverso una scala, troviamo la cucina, la cappella e la parte centrale della casa che può avere anche un cortiletto interno.
Arriviamo al monastero di Tsurphu dove arriviamo dopo ore di agonia attraverso una strada che sembra un letto di un torrente in secca, tanto che quasi rimpiangiamo gli yak che , pensandoci bene, non erano poi così scomodi.
Siamo a circa 4500 mt, quindi più o meno alla stessa altitudine degli ultimi giorni, però qui facciamo fatica a camminare e a respirare. Ogni gradino diventa un ostacolo quasi insormontabile e dobbiamo fermarci spesso per prendere fiato. E’ da tenere presente che nessuno si è mai preoccupato seriamente di tracciare una cartina topografica decente dei rilievi e della posizione delle principali località del Tibet e quindi, Everest a parte, ci possono essere anche differenze notevoli. I tibetani poi non avendo alcun senso della distanza e del tempo certo non sono di molto aiuto … Entriamo nel monastero che è stato completamente ricostruito dopo la Rivoluzione Culturale, durante la quale era stato raso al suolo. L’ordine monastico è quello dei “Berretti Neri” che sono stati duramente perseguitati dalla furia devastatrice delle Guardie Rosse. Dicono di stare molto attenti perché il controllo del governo è ancora molto forte e ci sono spie tra i monaci veri. I Gelupa sono molto ricchi perché sono sponsorizzati da numerose associazioni straniere, in particolare americane. All’interno del monastero ci sono tantissimi doni portati dai vari visitatori.
La 13ma reincarnazione del Karmapa , il Lama depositario della saggezza dei Berretti Neri, è un ragazzo di 18 anni che viveva fino a poco tempo fa nel monastero e ora è in India. Quando è arrivato qui aveva solo 9 anni. Pensiamo che debba essere terribilmente noioso per un bambino vivere in un posto del genere circondato solo da adulti.
La giornata di un Lama trascorre tra preghiere, lezioni di religione e filosofia e appuntamenti con i fedeli. Resta poco tempo per giocare e per vivere come gli altri bambini della sua età. Appoggiati su un tavolo ci sono alcune macchinine regalate da qualche turista. Per la famiglia da cui proviene la reincarnazione di un Lama è un grandissimo onore, anche se lasciare un figlio è comunque molto doloroso. I bambini vengono riconosciuti, normalmente tra i ceti più poveri, e devono superare varie prove che testimoniano la vita precedente, come il riconoscimento di alcuni oggetti personali del Karmapa defunto e la risposta ad alcuni quesiti.
Tutto questo ci fa venire in mente la Dea Bambina a Kathmandu in Nepal costretta a rinunciare alla sua infanzia per vivere fino all’adolescenza rinchiusa in un palazzo. In quel caso il destino è ancora più crudele perché la bambina, una volta cresciuta, ritorna al villaggio d’origine e non trova marito ( unica reale possibilità di sopravvivenza per una donna nepalese ) perché averla in sposa porta sfortuna. Un monaco ci benedice e, in cambio di un’ offerta, ci regala tre fagioli sacri che, se usati nel modo corretto, preservano dalla fame e dal freddo “ Non sono molto convinta, ma comunque non si sa mai.. Sai com’è: non è vero ma ci credo !” Prima di morire, la 12ma reincarnazione del Karmapa morto nel 1981, aveva scritto un libro in cui è riuscito a prevedere con assoluta precisione la storia del Tibet e quello che sarebbe successo negli anni successivi nel mondo.
In un’urna viene conservato un osso della sua gamba che per effetto di un miracolo cambia colore “ Tipo San Gennaro!”dice Silvia “ Ma devi sempre dire la tua ?” borbotta Marco.
Usciti dal monastero e con i semi in mano andiamo a mangiare qualcosa nella locanda vicina in compagnia di Rachine e dei cinesi. Due bambini figli di un pellegrino ci guardano incuriositi ma rimangono ad una certa distanza; sembrano affamati e così decidiamo di regalargli il nostro pasto. Sono felicissimi e il più piccolo, che avrà circa 3 anni, sta in piedi a fatica con tutto il cibo che gli abbiamo dato. Si portano via anche i contenitori e le bottiglie d’acqua vuote. Dopo un po’ arriva il papa’ e ci viene a ringraziare e a salutare. Rachine ci offre del te nepalese “ Il te al burro è troppo pesante per il vostro stomaco a questa altitudine”. I nostri amici ci aspettano al ristorante mentre noi decidiamo di seguire una parte di kora : Il terreno è molto scosceso, manca il respiro e non so se riusciremo nell’impresa ma vogliamo tentare ugualmente. Lungo il torrente alcuni monaci stanno lavando il bucato e ci chiamano per parlare con noi e per una foto. Gli regaliamo una penna. Proseguiamo fermandoci continuamente chiamati da pellegrini e viandanti curiosi. Ai lati del sentiero ci sono cumuli di pietre sacre di tutte le dimensioni con iscrizioni di vario genere.
C’è un vento molto forte e yak ovunque. Dopo una camminata di un paio di ore ( in realtà abbiamo fatto veramente poca strada ) ritorniamo al monastero.
27/04. Ore 5 partenza per Gyantse. La strada è come al solito impraticabile e piena di buche e corriamo lungo strapiombi panoramici ma spaventosi . Il cielo è blu intenso senza una nuvola , siamo veramente fortunati. Ci fermiamo per prendere una boccata d’aria e scendiamo dalla jeep senza piumino: ci travolge un vento fortissimo e gelido e non riusciamo più a respirare . “ La prossima volta mettetevi la giacca o vi congelate!” dice ridendo Rachine.
Dopo il passo di Kampala a 5200 mt si presenta ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso : il lago Yamdrok, il più grande tra i 4 laghi sacri del Tibet. La sensazione che si prova è indescrivibile: il silenzio, la bellezza del panorama, le cime innevate l’acqua di colore azzurro intenso. Il cielo è veramente vicino, sembra quasi di toccarlo. All’improvviso una folla di tibetani ci travolge e siamo costretti velocemente a ritornare con i piedi per terra.
Anche questo lago è salato e ancora oggi scavando tra le rocce si trovano conchiglie variopinte e fossili di vario genere, testimonianza del fatto che una volta il Tibet era sommerso dalle acque . E pensare che in un luogo così sacro e pieno di significato i cinesi hanno deciso di costruire una centrale idroelettrica che potrebbe in breve prosciugare il lago stesso. Incontriamo un ciclista che sta facendo Lhasa – Kathmandu in mountain-bike, un itinerario che mette a dura prova la resistenza fisica e la capacità di sopportazione umane.
Lungo la strada ci fermiamo in un paese e andiamo a mangiare in un ristorante cinese i soliti spaghetti fritti con verdure e te. Dopo 9 ore di macchina tra polvere, buche, deviazioni varie dovute ad una serie ponti crollati, finalmente arriviamo a Gyantse. Andiamo a visitare il Kumbum , uno dei più famosi templi del Tibet sud- occidentale. Siamo circondati da cani che , secondo la credenza tibetana, sono la reincarnazione dei Lama defunti che non sono riusciti a raggiungere il Nirvana e quindi sono molto rispettati. Stiamo molto attenti a mantenere la distanza perché potrebbero essere rabbiosi e quindi sono potenzialmente pericolosi e comunque, spelacchiati come sono, non si possono certo considerare l’immagine della salute.
Sulla cima della rocca, dietro il monastero, si vedono i resti della fortezza che è stata espugnata dagli inglesi senza trovare praticamente resistenza da parte dell’esercito tibetano. Il comandante delle truppe britanniche, colpito dalla magia dei posti e dal fascino a cui nessuno può resistere, si è poi ritirato in un monastero dove è vissuto fino alla morte.
Di nuovo in macchina per Shigatse . Ad un certo punto l’autista si ferma: scendono, parlano, consultano carte e cartine: ci siamo persi!! Chiedono indicazioni a varie persone, ma i tibetani notoriamente non hanno alcun senso della distanza e quindi continuiamo a girare in tondo tra un campo e l’altro, riempiendoci di polvere dappertutto . Ad un certo punto si presenta davanti a noi un ponte pericolante; Rachine scende per controllarne la tenuta, aggiunge pietre e sassi per rinforzarlo e passiamo per fortuna indenni ! Lungo la strada incrociamo un camion di pietre sacre che si è rovesciato nel fiume . Ci fermiamo e ci chiedono un cacciavite. E’ curioso vedere come nei paesi orientali, dove i mezzi di trasporto sono vecchissimi e mancano totalmente i pezzi di ricambio, gli autisti si ingegnano per riparare guasti che dai noi sarebbe considerati non recuperabili. Così camion e macchine vengono rimesse in funzione andando contro tutte le leggi della fisica.
In questo caso a cosa serva un cacciavite dal momento che il camion è capovolto è un mistero, ma sembrano convinti di quello che fanno. Ripartiamo per poi fermarci poco dopo perché due camion che viaggiavano in direzioni opposte si sono incastrati. Dopo un paio d’ ore finalmente riescono a sbloccare i due mezzi e possiamo ripartire ma veniamo di nuovo fermati, prima da un gregge di pecore che non si sposta e poi da un tibetano che dice di essere autorizzato a riscuotere un pedaggio e mostra una serie di carte scritte in cinese. Inizia una discussione animata e alla fine ripartiamo senza pagare cercando di evitare varie persone che fanno l’autostop. Continuando, la strada che è un letto di un torrente in secca, finisce e proseguiamo attraverso un cava. Tanto per cambiare ci perdiamo e ritroviamo il percorso giusto solo dopo una serie di tentativi. Arriviamo ormai distrutti in città. E’ quasi buio. 28/04. Partenza alle 8. Andiamo subito a visitare il monastero di Tashilunpo, residenza del Pancen Lama, figura antagonista del Dalai Lama istruito dai cinesi per contrastarne la popolarità. E’ domenica e i cinesi hanno deciso di chiudere i templi nei giorni di festa. E’ però molto difficile riuscire a spiegare a decine di pellegrini il concetto di festività: questi si ammassano disorientati davanti alle porte chiuse del monastero. Sono qui da questa mattina e non se ne vanno, così alla fine i monaci aprono e anche noi possiamo entrare a visitare la parte principale del complesso religioso. Un gruppo di nomadi proviene dal Tibet nord occidentale, da una regione che è a più di 5000 km da qui. Sono vestiti con pesanti drappi decorati con motivi che mi ricordano molto la carta da parati. Le donne portano i figli più piccoli sotto il braccio come se fossero sacchi di farina e salgono con fatica le scivolose scale a pioli che accedono al tempio. Anche in Tibet i bambini sembrano assolutamente sereni e raramente si sentono piangere.
Proseguiamo per Tsetang. Ci fermiamo varie volte lungo la strada che, anche se viene chiamata “ Friendship highway” , non è esattamente quello che si intende per autostrada : buche, ponti crollati, strapiombi e tanta paura quando, nel tentativo di superare un camion , per poco non cadiamo giù dalla scarpata .
Ad un certo punto ci travolge una tempesta di sabbia e dobbiamo fermarci perché non vediamo assolutamente più niente. Dopo più di otto ore arriviamo finalmente nella tanto agoniata città di Tsetang, all’inizio della sacra valle dello Yarlung, da cui secondo la tradizione ha avuto origine la civiltà tibetana.
Per qualche strana ragione, forse perché Tsetang è considerata luogo di diffusione di idee antirivoluzionarie, gli stranieri possono visitare la città sono se sono in possesso di un permesso speciale. I requisiti di cui si deve essere in possesso per ottenerlo sono come al solito del tutto soggettivi e non si ha mai la certezza del risultato finale.
Rachine va con i nostri passaporti al posto di polizia e torna sfinito dopo due ore. “Mi hanno creato problemi, ho dovuto compilare una decina di moduli e rispondere a domande senza senso; vogliono sapere tutto di voi e hanno chiesto di vedervi. Venite con me.” Al posto di polizia ci attendono tre ufficiali che evidentemente non hanno niente di meglio da fare e quindi hanno deciso di usarci come passatempo. Se è vero che i tibetani non sopportano i cinesi è altrettanto vero che i cinesi non sono per niente felici di vivere in Tibet lontani da casa circondati da “selvaggi” e con quel clima rigido. Uno dei cinesi parla un po’ di inglese. Sempre cercando di sorridere iniziamo a rispondere alle domande evitando di sembrare il più possibile antirivoluzionari. Ad un certo punto capiamo che uno dei militari è di Chengdu e Silvia inizia a parlare della Cina dicendo che è un paese straordinario e che non sa come facciano a vivere in Tibet. I cinesi iniziano a sorridere ,ci fanno sedere e ci offrono una tazza di te, chiaro segno di distensione . L’argomento successivo è il calcio italiano. Inizia così una conversazione interminabile e alla fine ci mettono timbri di tutti i tipi e ci consegnano una serie di fogli scritti in cinese. Ci è andata bene anche questa volta. Usciti dal posto di polizia decidiamo di andare un po’ in giro e seguendo la cartina arriviamo alla parte tibetana della città. E’ come se ci fosse un confine invisibile tra le due parti . Le due comunità vivono completamente separate tra loro . La Tsetang cinese è costruita in modo ordinato con viali enormi, lastricati di piastrelle, palazzoni, lampioni e negozi di tutti i tipi. La parte tibetana ha le fogne a cielo aperto, strade buie, case di fango, mucche, capre e bandiere di preghiera, queste ultime appese ai tetti.
Le case sono ammassate in modo disordinato su strade in terra, ai muri sono attaccati strati di sterco di yak, ovunque il solito odore di burro e fumo. Eppure mentre nella parte cinese si coglie solo un grande senso di vuoto e di squallore, i tibetani sono felici, i bambini giocano allegri , gli anziani chiacchierano e ti contagiano con la loro voglia di vivere. Ci divertiamo a esplorare, a girare per i vicoli visitando i piccoli templi, tentiamo di rispondere alle domande della gente che ci corre incontro. In breve tutta la città è in strada a osservarci. Qualcuno grida da in fondo alla strada “ Hallo!Hallo! How are you? Nice to meet you!” altri ridono, ci parlano in tibetano. Alcuni ci seguono stando per prudenza ad una certa distanza. Da lontano si vede un’enorme scritta sul monte dietro a Tsetang “ om mani padme om” o almeno lo pensiamo perché non abbiamo idea di quello che ci potrebbe esserci scritto.
Un gruppo di persone , forse un’intera famiglia, sta setacciando i chicchi d’orzo davanti ad una casa. Sono seduti per terra e occupano tutta la strada , ridono e cantano felici. Tutti partecipano lavorando in armonia con gli altri e anche i bambini e gli anziani aiutano. Ci offrono qualcosa da mangiare e ci invitano a fermarci con loro, poi ci fanno entrare in casa e ci fanno vedere come viene tostato l’orzo. Passiamo un po’ di tempo con i nostri ospiti e poi ci congediamo perché è quasi buio e rischiamo di perderci per le stradine della città vecchia.
29/04. Partiamo da Tsetang in macchina perché ci hanno detto che c’è una nuova strada per Samye e quindi non è necessario usare il traghetto. Chiamarla strada è eccessivo, sembra più una percorso in mezzo ad una cava, tra buche, camion che ci fanno quasi cadere nel fiume e ostacoli vari. Comunque alla fine arriviamo al monastero insieme ad un autobus di pellegrini .
Visitiamo il luogo sacro e seguiamo il kora che attraversa templi minori molto interessanti.
Mangiamo nel ristorante del monastero e i proprietari ci fanno sedere in una sala aperta per l’occasione apposta per noi unici turisti del momento “ Qui starete più comodi “ ci dice Rachine contento “ Ordinate quello che volete , offro io”. Il menu è scritto anche in inglese e finalmente possiamo mangiare qualcosa di diverso : riso fritto alle verdure con te nepalese. Ad un certo punto ci portano un piatto pieno di qualcosa di strano. Rachine commenta: ” Sono patatine fritte, so che a voi occidentali piacciono molto e così le ho fatte cucinare!” E’ stato realmente molto gentile anche se vedendole tutto sembrano tranne che patate fritte. Mentre mangiamo contenti arriva una comitiva di turisti americani stile viaggi di lusso che , dopo aver consultato il menu e evidentemente schifati dal posto, dicono alla loro guida che non hanno fame e preferiscono solo bere qualcosa. Ci viene da ridere pensando che i primi giorni anche noi eravamo così .
30/04. Ci svegliamo alle 6.30 , alle 10 abbiamo l’aereo che ci porterà a Chengdu. Il nostro viaggio attraverso questo paese straordinario che è il Tibet ormai è arrivato al termine.
All’aeroporto internazionale di Gompa, che sembra più che altro un campo da calcio, Rachine ci saluta e ci regala le classiche sciarpe di seta tibetane che sono di buon auspicio per chi viaggia.
Saliamo sull’aereo con la promessa di ritornare il più presto possibile in questo luogo magico, magari per un pellegrinaggio al Sacro Monte Kailash..
Arrivati a Chengdu usciamo dall’aeroporto e siamo travolti dalla solita folla di procacciatori di affari che vogliono portarti nel loro hotel. “ hallo, hallo, cheap, hotel !” Un attimo di esitazione e sarebbe la fine , l’importante è la velocità. Anticipare i tempi è essenziale in questi casi se vuoi avere la meglio e sopravvivere alle agenzie turistiche. Dalla nostra parte abbiamo una certa esperienza acquisita in anni di viaggi del genere e il fatto che noi non veniamo direttamente dall’occidente, ma dal Tibet. Altra cosa importante è avere solo il bagaglio a mano, il che ti rende più agile , più veloce e ti fa uscire prima degli altri dall’aeroporto. Tiriamo un sospiro, afferriamo saldamente gli zaini “ Pronto? Via!” e ci buttiamo nella mischia , muovendoci a zig zag ,evitando gli ostacoli e le persone, camminando con passo deciso e urlando a chiunque ci rivolga la parola “ No, Thank you !” .
Un tizio ci si attacca ad un braccio “ Do you need a room? “ ce lo scrolliamo di dosso con decisione e riusciamo ad uscire miracolosamente illesi dall’aeroporto.
Fuori ci troviamo di fronte ad una serie di autobus straripanti con scritte in cinese, quale sarà quello giusto? Mi avvicino ad un militare e dico “ Chengdu!” ci indica un autobus sul marciapiede opposto. Avrà capito? Chiedo al conducente “Chengdu ??” annuisce, saliamo e speriamo bene. Partiamo, la direzione sembra quella giusta, una signora ci consegna una serie di volantini pubblicitari con l’elenco di alcuni hotel, ma a parte il nome in inglese di alcuni, il resto del biglietto è tutto scritto in cinese. Scendiamo al capolinea : vediamo l’inconfondibile statua di Mao che sta al centro della città come in tutte le città cinesi e quindi siamo sicuri di essere arrivati.
Ma dove sarà l’hotel? La cartina che abbiamo non è molto dettagliata e non riusciamo ad orientarci. Si avvicina un vecchio che ce ne vuole vendere una. Stiamo per comprarla, ma Marco vede che è tutta scritta in cinese e quindi non serve a niente. Saliamo su un risciò contrattando a gesti il prezzo e solo dopo scopriamo che l’hotel è a due minuti di strada; pazienza ! Entriamo nella hall: è il solito hotel in stile cinese con 400 stanze e tantissimo personale che non ha niente da fare. In questi hotel di occidentali non se ne vedono molti e quando ci avviciniamo alla reception ci osservano meravigliati. Cerchiamo di fargli capire che abbiamo una prenotazione fatta dal nostro amico Ku Ling , ma non sanno una parola d’inglese, né si sforzano in nessun modo di aiutarci. Ci guardano come se fossimo due scemi. A questo punto chiediamo se, visto che l’hotel sembra vuoto, hanno una camera libera indipendentemente dalla prenotazione, ma continuano a non capire. Non c’è niente da fare non collaborano. Una scritta in inglese sulla parete ci fa capire come stanno le cose : siamo finiti in un hotel statale, ecco perché hanno questo modo di fare ! Usciamo e andiamo a cercare un telefono per chiamare Ku ling , ma non abbiamo una scheda. Forse l’hotel non è questo, controlliamo ad una ad una le forme, le linee e i pittogrammi che indicano il nome. Sembra che la scritta sia identica a quella che ci ha scritto Rachide sul biglietto.
Da lontano vediamo un’insegna in inglese , è proprio il nostro hotel ! Torniamo dentro convinti ma la scena si ripete.
Sfiniti entriamo in un ufficio turistico vicino e per fortuna parlano in inglese. Ci sentiamo sollevati, spieghiamo quello che è successo e chiediamo di potere fare una telefonata. Sono veramente gentili e riusciamo a chiamare Ku Ling che ci dice di tornare in hotel e lui provvederà a sistemare tutto.
Infatti come per miracolo, appena arrivati ci chiedono i passaporti e ci consegnano la tessera magnetica. Saliamo accompagnati dalla solita addetta all’apertura della porta. Ci stiamo lavando quando irrompe in camera una cameriera per portarci il termos con il te : si vede che in Cina non si bussa prima di entrare ! Decidiamo di andare a visitare il tempio taoista di Scintu a 18 km da Chengdu. Prendiamo un taxi e scandendo le parole e a gesti riusciamo a farci capire. Arrivati a destinazione seguiamo il flusso di fedeli e aiutati da alcune persone entriamo nel tempio.
Che differenza rispetto ai monasteri tibetani! I cinesi hanno la mania di trasformare tutto in un grande parco di divertimenti, luoghi religiosi compresi. Bancarelle , giardini , ristoranti. Tutto questo non ha veramente niente a che fare con la fede! Anche qui siamo al centro dell’attenzione e ci sono molti curiosi che ci salutano e ci indicano con il dito. Notiamo un bambino che, cosa ancora comune in Cina, non indossa il pannolone, ma ha una fessura sui pantaloni, attraverso cui espleta le sue funzioni fisiologiche.
Dai vari ristoranti arrivano odori di tutti i tipi la maggior parte dei quali per noi nauseanti. Decidiamo di ritornare in hotel, ma come ?? Stiamo vagando per le vie del paese quando un autobus , fa retromarcia , il controllore scende e urla “Chengdu” , facciamo finta di niente ma insiste ci afferra per un braccio e ci carica sul bus. “ Ma come fa a sapere dove vogliamo andare se noi non abbiamo aperto bocca ?“ , “ Scusa ,ma secondo te ,dove vuoi che vadano due occidentali sperduti per le vie di Scintu? E’ logico che vogliano andare a Chengdu!” Ci fanno sedere liberando due posti e a gesti riusciamo a capire quanti soldi costa il viaggio. E così eccoci di nuovo in città ,da non crederci! Andiamo a sederci sui gradini sotto la statua di Mao : i cinesi sono proprio tanti ! Le strade sono invase da una massa immensa di persone che corre in tutte le direzioni, si accalca davanti ai negozi, migliaia di biciclette, tantissimi taxi e bus. Se questi decidono di trasferirsi in Europa siamo finiti! Adesso iniziamo a capire la campagna per il controllo delle nascite. Il risultato di decenni di questo nuovo ordine nazionale è una società di figli unici viziati ed irresponsabili: la Cina è diventata la nazione del “2-2-1” ( due nonni, due genitori e un figlio ) in cui non esiste la parola fratello o sorella, in cui il figlio unico, specialmente se è maschio, è venerato e amato dai propri genitori a tal punto che gli si concede tutto. Molti si chiedono cosa succederà quando tra una decina di anni il governo e la classe dirigente in Cina sarà formata da figli unici. Riusciamo anche a trovare un supermercato dove compriamo qualcosa di commestibile per la sera. Rientrati in camera accendiamo la televisione: è come vedere il TG4 di Emilio Fede a reti unificate! Ci sono 4 canali ma tutti uguali: le trasmissioni parlano del presidente che, generoso e giusto , visita una fabbrica, o una scuola accolto da folle di bambini e di lavoratori in festa o di parate , concerti a cui partecipano felici i minatori o gli operai o i fornai. Tutti sono felici e lavorare per loro è un vero piacere. Dopo un po’ spegniamo presi da un senso di sconforto tremendo. I telegiornali parlano praticamente solo della cronaca interna, dei progressi cinesi in tutti i campi e della felicità del popolo. Le notizie internazionali sono relegate alla fine e liquidate in cinque minuti. Nel frattempo decidiamo il programma per la giornata successiva : andremo a Quinchengchang , la montagna sacra taoista a 70 km a nord di Chengdu.
Disgraziatamente non abbiamo il nome del posto scritto in cinese e così l’unica cosa che possiamo fare è tentare di ripetere a voce alta Quinchengchang sperando che qualcuno ci capisca. Così ,consultando la pronuncia di vocali e consonanti nel nostro frasario mandarino- italiano, ci alleniamo “ Q come la c ceci “, “ Ch come sci ma con al lingua retroflessa “ , “ Chang, come cia con tono labiale”, sembriamo solo due deficienti.
Il giorno dopo andiamo a fare colazione alle 8.35 ma scopriamo che al massimo viene servita entro le 8.30 e quindi non c’è niente da fare, la cameriera si rifiuta di servirci, questi cinesi ci sono sempre più simpatici ! In ogni caso sarebbe stata immangiabile e quindi non ci siamo persi niente .
Andiamo alla stazione degli autobus . E’ un groviglio di gente che corre in modo disordinato: qualcuno grida , altri gesticolano e alcuni addetti con un megafono conducono le persone nella direzione giusta. C’è una confusione spaventosa; ci adeguiamo alla situazione e urliamo Quinchengchang, ma nessuno capisce. Nel giro di cinque minuti si raduna attorno a noi una folla di persone che cercano di aiutarci e ripetono con noi Quinchengchang , ma in questo modo riusciamo a produrre solo un rumore assordante. Anche il tentativo di mimare la montagna sacra non porta a niente. Stiamo quasi per rinunciare quando una ragazza ci fa segno di aspettare e sparisce dietro una porta. Dopo una ventina di minuti ritorna con un’altra ragazza che indossa una striscia rossa molto vistosa con scritto qualcosa in cinese. “ May I help you , sirs? What can I do for you? “ E’ un angelo mandato da qualcuno per aiutarci! Non ci sembra vero, le spiegiamo dove vogliamo andare e , dato che ci siamo , ci facciamo scrivere su un foglietto in cinese tutte le parole che potrebbero servirci in futuro. E, mentre sta riempiendo il pezzo di carta di misteriosi e contorti segni, ci spiega che dobbiamo prendere due autobus. Tentiamo di avvicinarci alla biglietteria ma a quanto pare i cinesi non hanno assolutamente il senso della parola coda : quando cammini per la strada ti devi continuamente inchiodare perché vanno piano, si fermano e rischi di andare addosso a qualcuno; quando invece c’è qualcosa da prendere si ammassano caoticamente pestandoti i piedi e passandoti davanti. Così ci troviamo circondati da cinesi che urlano, spingono e non riusciamo ad arrivare allo sportello, l’unico vantaggio è che sono bassi e quindi riusciamo a respirare perché siamo più alti di loro. All’improvviso arriva di nuovo l’angelo con la striscia rossa ( che deve voler dire qualcosa come “ SONO INTELLIGENTE “ ) e, vista la difficoltà , interviene e urlando prende i biglietti per noi. Ci accompagna poi al bus e ci affida ad una signora che ci deve dire quando scendere. L’autobus è pieno e per farci sedere nel posto migliore un signore scende e prende quello dopo.
Durante il viaggio tutti bevono enormi quantità di te che si portano da casa e conservano in appositi vasetti : sul fondo del recipiente mettono foglie e ogni tanto aggiungono acqua.
Dal bus piovono sputi e bisogna assolutamente tenere i finestrini chiusi. La guida è come sempre molto particolare: il traffico è caotico, taxi che si sfiorano, pedoni ,biciclette formano un groviglio tremendo. Per far prima il bus esce dalla strada e entra nella pista ciclabile. Poi fa una bella inversione ad U e si ferma perché la bigliettaia deve andare a comprare le sigarette. Per finire il conducente tra un brivido e l’altro , chiede dei soldi perché per far prima vuole prendere l’autostrada !! “ Sono tutti matti , speriamo di arrivare vivi !” Per fortuna scendiamo dall’autobus sani e salvi e cerchiamo di capire dove andare per prendere l’altro. Entriamo in un’agenzia di viaggi e la commessa capisce qualche parola in inglese, vede il foglietto magico con il nome del posto dove vogliamo andare e ci porta alla fermata giusta indicando al conducente dove farci scendere. Finalmente arriviamo all montagna sacra ma anche questa sembra un parco giochi e non ha niente di bello. Dopo un po’ decidiamo di ritornare a Chengdu e con l’aiuto di una persona con la fascia rossa che non sa l’inglese, ma è “INTELLIGENTE” , torniamo in città. Recuperiamo i bagagli e andiamo in aeroporto in taxi perché non riusciamo a capire qual è la scritta che indica la fermata dell’autobus. Con il foglietto magico e qualche gesto riusciamo a farci portare alle partenze internazionali.
04/05. Alle ore 12 abbiamo il volo per Pechino dove arriviamo dopo 2 ore alle 14.15. Riusciamo anche questa volta a sfuggire alla folla dei procacciatori di affari e in taxi arriviamo in hotel. L’insegna in cinese coincide con quella data da Ku Ling e quindi entriamo. Si ripete la scena di Chengdu. Per fortuna capiscono un po’ di inglese ma non trovano la prenotazione. Gli diciamo di chiamare Ku Ling ma ci viene risposto.“ long distance call” . Sempre sorridendo e cercando di stare calmi promettiamo di pagare la telefonata , ma non si smuovono. Ci sediamo nella hall fermamente convinti di avere la prenotazione e alla fine telefonano; ci passano Ku Ling e dopo una decina di minuti ci danno le chiavi e si scusano: non avevano visto il foglio sopra il bancone della reception. Iniziamo a pensare che in Cina questa sia la prassi. Dopo la solita ora passata a compilare moduli vari e a soddisfare la curiosità del personale dell’hotel finalmente riusciamo ad andare in camera. Dopo poco siamo già in strada e iniziamo la visita della città che nonostante le sue dimensioni e i suoi 12 milioni di abitanti è facilissima da visitare. Ci spostiamo in metropolitana contando le fermate e anche piedi: le strade sono disposte in modo concentrico rispetto alla Città Proibita, formando una struttura simile ad una rete viaria romana.
Sono passati dieci anni da quando siamo stati a Pechino e la città è completamente cambiata: è diventata una metropoli moderna con vie trafficate, centri commerciali e enormi insegne luminose che ricordano molto New York.
A qualunque ora del giorno e della notte c’è gente per le strade e non c’è nessun pericolo, la criminalità è quasi inesistente. In piazza Tienamen ci sono bambini che giocano felici, aquiloni che volano di fronte al ritratto di Mao .
C’è sempre una fila interminabile davanti al suo Mausoleo. I cinesi in vacanza scattano foto con sfondi privi di qualunque interesse per un occidentale: un palo della luce, la striscia bianca di una strada o un muro possono essere per loro soggetti stupendi; cosa ci trovino è un mistero. Visitiamo la Città Proibita, il Palazzo d’Estate, la Grande Muraglia, ma soprattutto è bello girare per le strade e osservare la gente: vagare per i pochi vicoli rimasti nella parte vecchia della città con i suoi ristorantini che offrono cose che da noi sono considerate immangiabili come cani, gatti, insetti, larve, carne cruda e scarafaggi.
Rinunciamo a fare colazione in hotel perché ci danno da mangiare un buonissimo uovo marcio e della zuppa di colla di pesce. Abbiamo individuato un supermercato dove andiamo ogni giorno; ormai ci conoscono, siamo praticamente gli unici clienti e con noi fanno affari d’oro. In realtà anche a Pechino i prezzi sono bassissimi e la vita costa pochissimo. Una mattina ci svegliamo alle 5 e, dopo vari tentativi, riusciamo a farci portare da un tassista al parco di Tien Tien ( Tempio del cielo ) dove si radunano ogni giorno i pechinesi prima di andare al lavoro. Decine di persone formano spontaneamente gruppi di Tai Chi, ballo, danza, ginnastica con le spade. Il parco è pieno di gente che canta , suona la tipica chitarra cinese e si diverte; c’è anche qualcuno che cammina all’indietro o salta la corda. Un signore sta scrivendo dei pittogrammi per terra con un pennello e dell’acqua come inchiostro. Cose che da noi non sono neanche lontanamente immaginabili.
Purtroppo il nostro viaggio è finito. La mattina del 11 maggio sveglia alle 5.30, l’aereo parte alle 9.20 ma dobbiamo passare i controlli, farci fare timbri e carte varie e ci vuole tempo.
Alle 8 attraversiamo il controllo bagagli e ci fermano come sempre a causa del contenitore delle batterie di riserva per la videocamera che ha l’aspetto di una vera e propria bomba: un scatola con fili che fuoriescono e all’interno un groviglio di cilindri simili a piccoli detonatori. Chiamano i responsabili della sicurezza e iniziamo con calma e sempre sorridendo a parlare . Spieghiamo a cosa serve, facciamo anche una piccola dimostrazione ma per niente. La burocrazia cinese non ha limiti e quindi la situazione si complica sempre di più . Alla fine decidiamo di lasciare a loro la scatola, tanto ormai la vacanza è finita e non ci serve più.