Traversata oceanica sulla rotta di Colombo

Siamo partiti con il minimo indispensabile. Siamo rimasti per alcuni giorni senz’acqua dolce,ci siamo lavati ed abbiamo cucinato con acqua di mare. Non avevamo mezzi né strumenti per comunicare con il resto del mondo. Non è una puntata della serie “Survivors – sopravvissuti”, ma il resoconto della mia traversata...
Scritto da: Cesare Spada
traversata oceanica sulla rotta di colombo
Partenza il: 27/12/2002
Ritorno il: 11/01/2003
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 500 €
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Siamo partiti con il minimo indispensabile. Siamo rimasti per alcuni giorni senz’acqua dolce,ci siamo lavati ed abbiamo cucinato con acqua di mare. Non avevamo mezzi né strumenti per comunicare con il resto del mondo. Non è una puntata della serie “Survivors – sopravvissuti”, ma il resoconto della mia traversata atlantica in barca a vela, finita solo pochi mesi fa, che mi ha visto protagonista insieme a due miei amici.

Partiti da Mindelo (arcipelago di Capo Verde) il 27 Dicembre su uno sloop di 13mt a vela abbiamo percorso oltre 2200 miglia (circa 4000Km) seguendo la stessa rotta percorsa da Cristoforo Colombo fino ad arrivare ad Antigua (Caraibi) l’11 Gennaio. Abbiam trascorso in mare quasi 15 giorni, senza riuscire a comunicare con i ns. Familiari, a causa di un guasto alla strumentazione satellitare. IL viaggio e’ iniziato a Capo Verde dove ho incontrato una coppia di ragazzi che erano alla ricerca di un compagno di viaggio che li potesse aiutare a raggiungere i Caraibi. Non ho saputo resistere alla tentazione e mi sono aggregato. Come me erano anch’essi alla prima esperienza di traversata oceanica.

Si tratta di un’esperienza molto particolare, dove occorre sopportare un grande sforzo psicologico, oltre che fisico. Quando si parte per una traversata di questo tipo, si va incontro ad un tragitto di non ritorno: nel senso che è assai complicato (in barca a vela) risalire i venti Alisei che soffiano in direzione ovest, dall’Africa verso i Caraibi,.

Psicologicamente, è difficile quindi accettare il fatto che se capita qualunque incidente non hai via di scampo: un attacco di cuore, un’infezione, un taglio, una frattura, sai che dovrai aspettare altri 15 giorni di viaggio prima di raggiungere una postazione medica. E’ questa la cosa che pesa di più.

Oltretutto, la strumentazione satellitare si è rotta accidentalmente durante il viaggio e non avevamo quindi la possibilità di comunicare all’esterno: abbiamo fatto la traversata rimanendo isolati, senza riuscire a sapere quello che succedeva nel mondo, né tantomeno ai nostri familiari.

Eravamo quindi completamente isolati, l’unico sistema con il quale riuscivamo a comunicare con l’esterno era una radio VHF, di poca potenza, che ci ha permesso di contattare i mercantili che intravedevamo nel raggio 20 miglia circa.

All’equipaggio chiedevamo di comunicare ai nostri familiari, grazie al il telefono satellitare, che stavamo bene. Ovviamente durante il viaggio non sapevamo quando avremmo potuto incontrarne uno, infatti nell’arco di 14 giorni è successo solo tre volte. Oltretutto, ci trovavamo in acque internazionali e quindi nessuna Capitaneria aveva competenza in quelle zone.

L’organizzazione per un viaggio simile dovrebbe essere estremamente accurata, ma se si volesse davvero pensare a tutto credo che non si partirebbe mai.

Per quanto riguarda l’alimentazione, i professionisti utilizzano cibi liofilizzati, noi in realtà ci siamo organizzati un po’ “alla vecchia maniera”: scatolette di tonno e di carne, barattoli di legumi, frutta fresca – che ovviamente è finita nei primi giorni – poche bibite, molta acqua, un po’ di vino, pane secco. Tutto cibo che riesce in qualche modo a saziarti e allo stesso tempo ti aiuta a sopportare meglio le onde e le turbolenze dell’Oceano.

Siamo quindi riusciti in poco tempo ad equipaggiacii in maniera sufficiente, anche se l’ultima settimana ci siamo ritrovati con pochi viveri. L’unica cosa rimasta da mangiare erano delle patate, delle cipolle e della pasta. Anche l’acqua dolce che veniva utilizzata per la cottura o per la pulizia, è terminata, visto che i serbatoi delle barche da diporto non sono pensati per tragitti cosi’ lunghi.

Quindi non abbiamo potuto far altro che utilizzare l’acqua marina, sia per lavarci che per cuocere la pasta: era un po’ salata, ma gustosa. Per fortuna l’acqua dell’Oceano Atlantico ha un coefficiente di salinità molto più basso di quello del Mediterraneo, che dà meno fastidio alla pelle e si può usare anche per cucinare. La convivenza a bordo e’ stata difficile poiché all’interno della barca lo spazio da condividere è assai limitato: si vive nella “dinette”, una specie di salottino centrale, dove ci sono anche le cuccette per riposarsi. A bordo avevamo una piccola biblioteca, e trascorrevamo il tempo principalmente leggendo libri di storie di mare. Queste letture in qualche modo servono per capire come se la sono cavata gli altri, anche in circostanze d’emergenza.

Ciò che era davvero pesante erano i turni di notte. Essendo in tre, facevamo turni mediamente di quattro ore per notte ciascuno. Ma se qualcuno non si sentiva bene era necessario sostituirlo, quindi è capitato di fare anche turni da 6/8 ore se non addirittura di tutta la notte. In mare non ci si riposa praticamente mai, perché sottocoperta in realtà si veglia, con occhi e orecchie sempre all’erta.

E’ fondamentale rimanere vigili, per controllare l’andamento del vento e soprattutto la rotta: con il vento in poppa arrivano onde molto grosse (in media sui 4 metri), che provocano un’andatura comoda che però fa sbandare spesso la barca. E bisogna mantenere alto il livello di attenzione, perché qualsiasi errore lo si paga con la vita. Se durante la notte, quando si è soli, qualcuno dovesse accidentalmente cadere in acqua, e’ molto difficile ritrovarlo. Ammesso che gli altri se ne accorgano, dovrebbero fermare la barca, tornare indietro e quindi cercare il disperso, cosa che con queste onde è praticamente impossibile.

Sembra che si stabilisca quasi un tacito accordo di “reciproca fiducia”, che può risultare un po’ strano tra persone che non si conoscevano prima…infatti in mare esiste un’etica, un “codice deontologico”, secondo il quale occorre collaborare e darsi una mano l’un l’altro. Chiunque avrebbe rischiato la propria vita per salvare gli altri. Ho riscontrato questo fatto anche durante le brevi comunicazioni avute con i mercantili, che si sono fatti in quattro per comunicare alle famiglie che eravamo vivi. Sono stati estremamente disponibili.

Sicuramente questoi viaggio non è stata una vacanza, né un viaggio semplice. Se mi chiedessero se lo volessi rifare, certamente direi di no, perlomeno nelle stesse condizioni. All’inizio non abbiamo considerato tutti i rischi che questo viaggio poteva comportare, sia per lo spirito di avventura che ci ha animato, sia per il poco tempo che avevamo a disposizione per i preparativi. E certamente avevamo sottovalutato quello che ci sarebbe potuto accadere.

Abbiamo affrontato il viaggio con una semplice barca da diporto di 13 metri, che si utilizza nei mari locali. Per traversare l’Oceano occorre invece una barca attrezzata in modo adeguato, con le sartie e gli stralli rinforzati, (i cavi di acciaio che tengono fisso l’albero alla barca), le vele adatte e con tutti i sistemi di sicurezza necessari. Oltretutto la nostra “Fantaghirò” era in vetroresina: bisogna tener conto del fatto che nell’Oceano si possono incrociare oggetti o animali potenzialmente pericolosi, come tronchi o container caduti accidentalmente dalle navi mercantili, che galleggiano a pelo d’acqua. Se nelle nostre condizioni ne avessimo incrociato uno, si sarebbe potuta creare una falla molto pericolosa. Allo stesso modo, un colpo della coda di un’orca marina o di una balena può generare grossi danni alla struttura di una barca in vetroresina. L’ideale sarebbe un’imbarcazione di 20 metri di lunghezza, come quella utilizzata dall’equipaggio dei “Velisti per caso”, che oltretutto è in acciaio. Se uniamo tutto questo alle difficoltà legate al vento, alle onde, al brutto tempo, la cosa comincia ad essere molto pesante.

Abbiamo sfruttato gli Alisei, in inglese “tradewinds” o “venti del commercio”, venti portanti che soffiano per mesi e mesi sempre nella stessa direzione e che sono stati utilizzati per secoli dalle navi mercantili che effettuavano la traversata oceanica in direzione dei Carabi.

Le condizioni meteorologiche erano buone, anche se ci sono stati dei momenti in cui il vento ha superato i 35-40 nodi e abbiamo dovuto togliere il Genoa (la vela di prua) e terzarolare la randa (la vela principale attaccata all’albero), cioè ridurre la capacità della vela. Il mare era spumeggiante e anche con una vela molto ridotta raggiungevamo gli 11 nodi l’ora (20Km) con solo tre mani di terzaroli. Per quanto fosse regolare questa situazione, sostenerla per quindici giorni non è stato certamente semplice: l’onda dell’Oceano è un’onda molto lunga, talmente alta che quando si è nel cavo si vede solo un muro di acqua tutto intorno.

Non abbiamo visto ne’ squali ne’ balene, ne’tanto meno polipi giganti, ma molti delfini a parte le decine di pesci volanti che saltavano generalmente di notte dentro la barca. Alla fine è andato tutto più o meno secondo i programmi…anche se in realta’ avevamo considerato di arrivare un paio di giorni prima, anche se ciò non è avvenuto. A 300 miglia dall’atterraggio abbiamo infatti trovato un giorno di bonaccia, e quando sei in oceano e c’è la bonaccia, bisogna solo aspettare che passi…

Come per Colombo il primo segnale che ci ha fatto credere di essere ormai vicini a terra e’ stata la presenza di gabbiani ed altri volatili marini oltre ad un aereo della guardia costiera caraibica che ci ha intercettato e registrato a circa 120 miglia da Antigua, la meta del nostro arrivo.



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