Mantega, Khartoum, Sudan
Attendo fiducioso che la decina di sudanesi arrampicati intorno al cofano del mio HJ60 riescano finalmente ad estrarre un pezzettino grosso così, che va tornito perché ormai squilibrato da anni ed anni di giravolte in connubio con i giri del motore su non so quante migliaia di km di piste, sabbia, sassi… Sono oramai entrato in sintonia con la mancanza assoluta del concetto di “fretta”, parola qui sconosciuta, e ne approfitto per fotografare con gli occhi e con la mente questa realtà così differente dalla mia italiana, divenuta ormai da mesi il mio quotidiano.
Mantega è una scacchiera immane di strade perpendicolari, sterrate, che si sviluppa su un’area vastissima intorno a due fulcri principali: un canale di scolo (sempre asciutto tranne in giugno, quando le piogge torrenziali lo fanno mugghiare tra i suoi argini in cemento come un toro infuriato) ai cui lati scorrono le due ali della via principale, costellata di ricambisti dei colossi Giapponesi… Ed il grande stabilimento della Mercedes, al margine occidentale del quartiere.
Intorno a questi “centri” si snoda la babele di arterie polverose su cui aprono le loro porte di lamiera arrugginita infinite botteghe di meccanici, fresatori, tornitori, carrozzieri, elettrauto, insomma tutti coloro che possono essere messi in relazione alle magagne tipiche delle auto.
Le strade ed i vicoli sono costellati di grandi dossi di terra, il tipo di crick più utilizzato in Mantega, semplicemente facendo salire una o due ruote sul cumulo per avere spazio sufficiente ad infilarsi sotto il ventre della vettura ammalata. Ma ciò che più colpisce sono i rottami, l’oceano di rugginosi pezzi di motore abbandonati un po’ ovunque, posti lungo le vie a costituire davvero dei veri e propri vialetti, cornici di metallo ormai inutile, abbandonati nella polvere, a raccontare di chissà quante piste percorse. Chiazze di olio e di nafta si raggrumano nella sabbia sottile, in questa eterna polvere che è il vestito stesso di Khartoum, ne impregna l’aria, le case, la gente.
Un concerto di rumori riempie l’aria, come una musica futurista, sottofondo continuo dalle 8 del mattino sino a sera, quando il calare del sole assisterà all’esodo di massa dei lavoranti in fuga verso le loro case… Il frastuono dei generatori si confonde con il ritmico martellare dei fabbri forgiai e con il timbro più acuto dei martelletti dei carrozzieri, capaci di riportare a nuovo splendore le carrozzerie più malconce solo con abili colpi di attrezzi che sembrano accessori della Barbie.
Uomini in logore tute blu e ciabatte infradito lavorano sui mezzi piantati in mezzo alle strade, meccanici privi di un’officina propria che prestano la loro opera all’aperto utilizzando i ferri delle botteghe vicine… I motori vengono tolti e messi nei cofani spalancati con la forza delle braccia, raramente con dei vetusti paranchi a catena… La mano d’opera è un fiume in piena, migliaia di uomini e ragazzi che intasano Mantega in attesa di un breve ingaggio come uomini di fatica, sempre in scia ai santoni locali, l’”ingegnere” specializzato nella regolazione delle valvole o il “siriano” che ancora oggi, nel 2003, costruisce splendide balestre da lastre d’acciaio arroventate sulla fiamma e modellate sull’incudine… Intorno al popolo in tuta blu una coorte di figure secondarie contribuisce al colore unico di questo quartiere; decine di giovanissimi lustrascarpe giungono a frotte, la sera, pronti a ripulire per pochi spiccioli le calzature dei lavoratori in procinto di raggiungere le loro case… Figure spettrali, vestite di stracci, si aggirano per i vicoli con secchi di grasso da ingranaggi, chiedendo ad ogni passante se possono ingrassare le crociere o gli snodi dello sterzo, per pochi centesimi… Le donne, nei loro veli variopinti, siedono ad ogni incrocio, nascoste dietro ai loro minuscoli tavolini colmi di barattoli misteriosi, con cui preparano a ritmo incessante quantità ciclopiche di chaij ( il tè), Jebnah ( caffè) e carcadè, portando i loro bicchierini a destra ed a manca in un fruscio di seta e cotone che sa di musica.
Gruppi di ragazzini muniti di immense bacinelle di acqua saponata fanno la spola nelle varie officine, nella speranza di essere assoldati per lavare… E lavare qualsiasi cosa, dagli indumenti ai pezzi di meccanica unti di grasso. E poi i cercatori di tappi, sì, tappi delle bibite, che ricoprono come un manto tutte le vie di Mantega: i bambini passano con i loro sacchi di iuta a raccogliere i dischetti di lamiera deformati dal calpestio delle auto, probabilmente per rivenderli in non so quale mercato e non so a quale scopo.
Poi ancora i lavavetri, con la loro sfilza di bottigliette di strane pozioni saponose multicolori, che se assoldati si attaccano come mosche all’auto, e con movimenti veloci e resi sicuri dalla consuetudine la portano a brillare come appena uscita dalla concessionaria, anche se per brevi attimi, prima che la solita polvere renda assolutamente vano il loro sforzo.
Ed infine l’esercito degli sfaccendati, di coloro che qui vengono semplicemente a guardare, a chiacchierare con quelli che lavorano, a bersi decine di chaij sdraiati all’ombra dei muri, incuranti degli sbuffi neri delle marmitte dei generatori, magari in funzione a pochi centimetri… La marea umana mi scorre davanti lasciandomi ammutolito, perso in questo frastuono… Il mio alberino da tornire intanto è stato sconfitto, e giace senza gloria sul pavimento di terra battuta della bottega, tra i sorrisi compiaciuti del gruppo di guerrieri che dopo lunga battaglia è riuscito ad estrarlo dalla sua sede… E dire che bastava un estrattore; già ma qui sono in Sudan… La Pepsi è finita e guardo costernato il mio pezzetto d’acciaio prendere la via del tornitore, a qualche centinaio di metri; inch Allah tra un ‘ora avrò finito, chissà.
L’ora passa, intanto è arrivata la pausa sacra delle 10 del mattino, e tutta Mantega si accuccia a terra intorno ai giganteschi piatti da portata di stagno, ricolmi dell’immancabile Full, la zuppa di fave che rappresenta l’alimento principale in Sudan. Mi accuccio anche io, invitato dai ragazzi in tuta, ad intingere il mio pane nel grande vassoio unto, a leccarmi le dita prima di rituffarle nell’intingolo, assolutamente uguale agli uomini che mi circondano. Non mi associo al rito del rutto liberatorio, costume diffusissimo in questo Paese, né a quello del tabacco da masticare, che ancora non sono abbastanza “africano” da riuscire a contemplare l’idea di camminare sputacchiando qua e là sugo di tabacco come fosse la cosa più naturale del cosmo. Bevo il mio carcadè annegando la noia dell’attesa cercando di non pensare alla mole di cose da fare che mi attendono, che tanto non ci posso fare nulla, inutile parlare di tempo che stringe qui.
Accade in un attimo: tutti si alzano improvvisamente, le porte di ferro dell’officina chiuse, le luci spente, i generatori ritirati… Che succede? Fuggi fuggi generale, tutti in strada. Oddio, ma che succede? Nella via polverosa tutte le botteghe stanno serrando i battenti, e la striscia di ombra ai piedi dei muri si sta popolando di centinaia di uomini, seduti o sdraiati, insomma tutti sembrano deporre le armi. Mi volto sconsolato a guardare il cofano aperto del mio Toyota, penso al mio minuscolo alberino che in Italia mi avrebbero già piazzato da circa tre ore… Mi viene da piangere! Ma cosa cavolo succede? Niente, kawajia, niente di grave: tra un’oretta riapriamo tutto, stai tranquillo… Come stai tranquillo! E il mio alberino da tornire???… E mi spiegano, senza pudore: alla periferia di Mantega sono arrivati i funzionari del Governo, gli esattori delle tasse… Il passa parola si è diffuso come un’onda tra i vicoli, di bocca in bocca, con i pochi telefoni disponibili, con le urla dei ragazzini mandati avanti come messaggeri della sventura incombente… E tutti hanno chiuso. Perché? Bè, semplice, mi dice un sudanese con le braccia che paiono querce: gli esattori prelevano denaro per le tasse da chi ha degli utili; se la bottega è chiusa è ovvio che non c’è lavoro, e se non c’è lavoro non ci sono utili da tassare… Chiaro no? Mi cadono le braccia, battuto da questa logica primordiale. Mi siedo anche io all’ombra del muro, accendo la mia Bringi, sigaretta insapore buona solo a far tossire come un tisico, arreso a questo mondo che non ha regole, non ha certezze, non ha ore… La limousine dei governativi passa per la via, seguita dai sorrisi sornioni degli uomini. Nessuno riapre, mica sono fessi i governativi: sanno bene che aspettano solamente la loro dipartita per riprendere a lavorare… Passa un’ora, in stallo; il mio alberino è nascosto nella tenebra dell’officina del tornitore, addirittura sprangata con il chiavistello! Lo sento, non andrò mai più via di qui, invecchierò seduto accanto a questo muro… La mia mente vacilla, sono in preda alle visioni, impazzisco… Un’altra ora ancora, e tracanno non so quanti chaij, carcadè, caffè, pepsi… Gioco con i sassi della via, facendo piramidi di ciottoli da abbattere a sassate: gli uomini seduti mi guardano quasi con pietà, povero kawaija… Non si riapre di oggi; troppo rischioso. Il meccanico, preso da un qui raro senso di umanità, spinge in strada il mio 4×4, richiudendo velocemente i battenti della bottega, non si sa mai. Ha in tasca una manciata di chiavi e cacciaviti… Capannello di uomini intorno al mio cofano, voci che discutono; guardo assente, facciano cosa vogliono.
Un’altra porta si apre e si richiude come un lampo, ed il borbottio di un generatore sfugge dall’uscio sbarrato… Pochi minuti, compare il mio alberino, lucidato come nuovo ed alesato. Una cortina di uomini fa da schermo intorno al Toyota, mentre un discreto numero di schiene sta chinato sopra il mio cofano aperto. Vedette ai lati della via scrutano il movimento veicolare nelle traverse, mentre l’esercito degli sdraiati scommette sul fatto che la limousine comparirà come un gatto sul topo… Non arriva. Rumore di lamiera che sbatte, poi la voce celestiale del mio 6 cilindri rompe il brusio del chiacchiericcio nella via, un rombo possente quasi come un grido, certo anche il Toy non ne può più di aspettare… Mi mandano via velocemente, ci vediamo domani per pagare, mica apriamo l’uffico ora, sei pazzo? Scappo come un ladro, alzando la polvere, inconsciamente anche io terrorizzato dall’immagine della limousine, come un’auto diabolica, una Christine sudanese… Ecco il canale, ecco l’asfalto, ecco il traffico bestiale di Khartoum… Sono fuori, oddio sono fuori.
Guardo l’orologio, sepolto nel cassettino dell’auto, che tanto qui a che serve un orologio: le 17! Il giorno se n’è andato, penso mentre mi infilo nel serpentone di mezzi scalcagnati che intasa la strada per il centro. Mi aspetta ancora il mercato, altra babele, altri colori… Ma questa è un’altra storia.
RoboGabr’Aoun