Frammenti di Sudan
Sette viaggi attraverso il nord del Sudan, eppure non è che una lacrima all’interno di un mare. I miei 12 mila chilometri sono solo una parte di un tutto che non avrò mai modo di colmare. Ho attraversato questi deserti lungo tutte le direttrici, ne ho toccato gli angoli più nascosti, vivendo la gioia della scoperta e l’ira della tempesta, tornando bambino tenendo in mano una macina neolitica o un frammento di tronco fossile. Ho vissuto con la più bella gente d’Africa, un popolo non ancora plagiato dal deleterio contatto con il turismo occidentale, per il quale l’ospitalità è ancora un valore sacro, scevro da secondi fini. Ho mangiato con persone mai viste, pescando dal loro piatto con le mani, accovacciato in un campo di fave o sdraiato sotto l’ombroso portico di una casa imbiancata a calce. Ho bevuto l’acqua dei pozzi, rinfrescandomi la pelle e l’anima sotto il getto copioso del liquido vitale, strappato alle viscere della terra da pompe diesel che potrebbero essere pezzi da museo. Ho ascoltato le storie dei pastori Bicharin, la sera, vicino ai miei attendamenti, a tentare di toccare l’anima di questo popolo sovrano degli spazi e del vento. Ho sentito scorrermi dentro le vene la polvere, onnipresente piaga del Sudan, polvere sottile e bianca che impregna ogni cosa, ogni persona, ogni animale. La mangi, la bevi, la respiri, e ne divieni parte anche tu di polvere. Ne riconosci l’odore così diverso dall’odore acre delle spezie che veste le città più a nord, in Sahara, quello stesso strano odore che ti coglie quando scendi dall’aereo in Khartoum la prima volta, e ancora non sai cosa sia, da dove provenga. Ho vissuto la gioia di giungere nei villaggi ed incontrare persone che mi chiamvano per nome, amico e non straniero, parte del clan e non sconosciuto…
Sudan è Africa Nera senza nulla del mondo Arabo che conosco. Sudan è approssimazione, caos, anarchia in tutto ed in tutti, cuscinetto naturale tra le culture sahariane ed i tam tam delle foreste equatoriali. Sudan è un mondo a parte, in cui ti puoi perdere. Sudan è un un mondo di donne vestite di sgargianti colori, dal portamento regale, orgogliosamente fiere di mostrare il loro splendido volto sfilando tra le altre donne ricoperte di veli neri che le celano completamente. I bus colorati sanno di Senegal, di Mali. Ii taxi sgangherati sono fuori luogo a fianco dei piccoli motocarri sferraglianti a tutto gas per le vie, eppure ci sono, come ci sono il carro trainato dall’immancabile asino e la Mercedes ultimo modello del ricco signore locale.
Sette milioni di abitanti brulicano tra le strade della capitale, un mondo nel mondo. Buona parte sta in mantega, il quartiere dei meccanici, in cui i rottami delle auto fiancheggiano vie e viali sterrati anneriti dalla ruggine e dai liquidi oleosi come piccoli ouidian nella polvere che sa di grasso. Mille botteghe, e forse di più, una a fianco all’altra, e decine di migliaia uomini in tuta blu affaccendati su altrettanti cofani spalancati, col rombo dei motori a riempire l’aria, i richiami soffocati dalla cortina eterna dei fumi di scarico di asfittici diesel che ti chiedi come ancora possano funzionare.
Khartoum è invece la città dei militari, dei blocchi armati ad ogni incrocio nella notte, vestigia di un coprifuoco ufficialmente abolito ma che ancora perdura. Khartoum è il volto di ragazzini troppo giovani con i loro AK47 in spalla, è la paura negli occhi di ritrovarsi faccia a faccia non con me ma con un fanatico rivoluzionario. Khartoum è il grido “kawajia”, “uomo bianco”, che ti raggiunge ovunque tu vada, in città, fuori, in deserto, nei villaggi, tanto che diventa il simbolo stesso di un viaggio in queste terre.
Sudan senza ponti, con il Nilo attraversato da vecchi traghetti che diventano passerelle per film d’autore, in un tripudio di colori e grida che erompe dalle centinaia di carri in attesa che si accalcano intorno alle poche auto in un marasma che se non vivi non potresti mai immaginare. Sudan delle piramidi – mio Dio quante piramidi, che l’Egitto al confronto sembra una barzelletta – piccole ma meravigliose, dai fianchi scoscesi a bucare il cielo sempre terso, senza nuvole, scacciate dal sempiterno vento, respiro stesso della Nazione. Sudan dei templi, culla delle grandi civiltà che precedettero i Faraoni, e di altre che poi li soggiogarono.
Ho visto i faraoni neri, quella XXV dinastia che cambiò definitivamente la storia d’Egitto. Ho camminato per le vie delle loro città, sfiorato le colonne dei loro templi, visitato i loro sepolcri bui affrescati con i più bei dipinti che la mente umana possa immaginare. Ho toccato la sabbia che essi toccarono, calpestato sacrilego i cocci sparsi a miliardi tutt’intorno, vestigia di uno dei più grandi imperi del passato.
Sudan del Nilo, linea di verde e di vita a tagliare il deserto e l’arsura, meravigliosamente selvaggio e non ancora contaminato dai grandi scafi del turismo di massa, acque torbide di limo prezioso in cui è ancora facile incrociare feluche condotte da uomini vestiti di bianchi burnus, oggi come 4000 anni fa, e passare con la prua tra stormi di oche egiziane, aironi, cicogne, gru, coccodrilli sonnecchianti tra i canneti, a pochi passi dal contadino che sciacqua la sua riglah nella corrente lenta, sonnacchiosa.
E Sudan delle persone che vi ho accompagnato, italiani, tedeschi, francesi, spagnoli, americani. Un mondo di volti diversi, anime diverse, gioie e delusioni, persone con cui ho diviso lunghi giorni, notti, emozioni, passate nella mia vita come meteore. Ed a ciascuno di loro ho lasciato frammenti di me non solamente nelle loro fotografie, nei loro ricordi: ognuno, andandosene, si è portato via nei loro bagagli, nei loro occhi, qualcosa di mio insieme al profumo di questa terra arida e splendida, asciandomi ogni volta svuotato, indifeso, perché quando vivi per 20 giorni con le stesse persone ti entrano dentro, diventano parte di te come tu sei parte di un insieme. Ed alla fine, se a chi parte qualcosa di te resta, mi rendo conto che tra le mie dita non rimane che la polvere di 2 o 3000 chilometri, e qualche briciola di tempo per riposare prima di riprendere la via del deserto. E la sensazione passa perché ricominci daccapo, spazzo la mente e cerco di renderla nuovamente linda e pulita, pronta a ricevere nuovi nomi, nuovi caratteri, nuove emozioni. Sono come questo Toyota rosso che è stato la mia casa per 4 mesi, un frammento di questo paese, io stesso parte della sua polvere di cui ora ho l’odore, il colore. Ho migliaia di storie da raccontare, giorni da ricordare, altri da dimenticare. Momenti di vissuto che regalerò a chi vorrà leggerli, altri che terrò nel cuore, altri ancora che ho dimenticato nel turbine di ore e minuti che mi è scivolato addosso tenendo stretto tra le mani il volante lungo piste infernali o tra dune troppo soffici. Ho poco tempo, dannazione a questo concetto così occidentale che faccio fatica a sentire mio dopo aver vissuto in luoghi in cui esso è solamente scandito dalle parole “inch Allah”, ma non posso sfuggire all’ingranaggio di questa cultura che in fondo è la mia, il mio mondo. Tra poco ripartirò, nuove sabbie,nuova Africa…Ma l’odore del Sudan mi è rimasto addosso,dentro. E pian piano ve lo racconterò.
RoboGabr’Aoun