Nicaragua con famiglia

Partenza: aeroporto di Bologna 25 giugno 2002 volo Iberia, siamo in quattro, io, mia moglie, Mattia di 15 anni e Tommaso di 5, un piccolo veterano con già cinque viaggi sulle spalle (Azzorre, Turchia, Giordania, Cuba e Nepal) Arrivo a Managua lo stesso giorno alle 23.30 dopo circa 16 ore di volo e due scali (Madrid e Miami). La temperatura è...
Scritto da: Claudio Giacchetti
nicaragua con famiglia
Partenza il: 25/06/2002
Ritorno il: 14/07/2002
Viaggiatori: fino a 6
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Partenza: aeroporto di Bologna 25 giugno 2002 volo Iberia, siamo in quattro, io, mia moglie, Mattia di 15 anni e Tommaso di 5, un piccolo veterano con già cinque viaggi sulle spalle (Azzorre, Turchia, Giordania, Cuba e Nepal) Arrivo a Managua lo stesso giorno alle 23.30 dopo circa 16 ore di volo e due scali (Madrid e Miami).

La temperatura è calda nonostante l’ora, il che fa presagire giornate torride… In effetti questo periodo è la stagione delle piogge, con frequenti ma brevi acquazzoni specialmente di notte e una forte umidità dell’aria, comunque abbastanza tollerabile.

Dopo le procedure doganali piuttosto sbrigative e il pagamento di un “visto” di 10 dollari a testa, usciamo sul piazzale esterno e stranamente non veniamo assediati da un nugolo di tassisti vocianti come ci aspettavamo, ma solamente da qualche discreta richiesta; questo ci permette di renderci conto della tariffa giusta per trasferirci in centro, cioè 10 dollari.

Percorriamo i tredici chilometri che ci separano dalla città guardando dai finestrini dell’auto i cartelloni pubblicitari dipinti a mano e i murales inneggianti al FLSN (partito sandinista) e al PLC (partito liberale ora al potere); il tassista si ferma a un semaforo rosso ogni 5, che qui sembra essere più un consiglio che un ordine perentorio, d’altronde il traffico è scarso, qualche camion, un paio di pickup ed alcune vecchie moto.

Ci facciamo portare all’hotel Jardin de Italia, nel quartiere centrale di Martha Quetzada perché è compreso nella scarna guida, l’unica in italiano, di cui siamo dotati e perché ci fa pensare a qualcosa di familiare… L’albergo, con la porta sprangata sembra chiuso, ma dopo aver bussato più volte ci apre una signora con la quale contrattiamo il prezzo di 30 dollari per due stanze con bagno e ventilatore (e niente altro a parte i letti). Dopo un paio d’ore la prima difficoltà: Tommaso con il suo orologino biologico saldamente regolato sull’ora di Roma (+8 ore) non ha sonno, gli altri sono stremati dal viaggio per cui tocca a me raccontare storie, leggere Topolino fino alla resa, dopo altre due ore interminabili.

Alle sei e mezzo tutti di nuovo in piedi, nel piccolo giardino dell’hotel la prima bella sorpresa: un colibrì vola di fiore in fiore succhiando nettare col lungo becco, sospeso nell’aria battendo le ali a velocità supersonica.

E’ ancora presto per la colazione, così Dimo, un meticcio che fa il fattorino nell’albergo ci cede la sua tazza di caffè nero… il prezzo? Un’ora e mezzo di prediche e consigli sui modi di salvare la nostra anima e letture di salmi, il tutto in uno spagnolo per noi ancora ostico da capire appieno.

Finalmente alle otto, a dio piacendo (mai frase fatta calza così a pennello), ci accompagna in un comedor (ristorantino familiare con due o tre tavoli, a volte ricavato in una parte di una abitazione) dove facciamo un’abbondante colazione a base di caffè, latte e toasts con burro e marmellata, declinando l’offerta del “gallo pinto” (pron.: gajopinto) cioè riso con fagioli neri, la locale tipica colazione mattutina. Paghiamo in dollari (due) ricevendo i primi cordobas in resto.

Facciamo quindi un giretto nelle calles vicine e scopriamo così l’hotel Los Felipe, che sarà il nostro albergo preferito a Managua..

A prima vista sembra un hotel costoso, per cui entriamo titubanti già decisi a dare solo un’occhiata, ma sorprendentemente ci viene proposta una camera a tre letti, perfetta per noi, a soli 25 dollari, inoltre c’è un bel parco-giardino con una rigogliosa flora tropicale, pappagalli e scoiattoli e perfino un pavone (purtroppo in gabbia).

C’è addirittura una piccola piscina per cui in meno di dieci minuti ci siamo già trasferiti, ma le sorprese non sono ancora terminate: nell’hotel gira libero e tranquillo un ocelot di sei mesi delle dimensioni di un cane di media taglia; fatichiamo a contenere l’esuberanza di Tommaso che vorrebbe prenderlo in braccio come fa con la gatta di casa, qualche ruggito sordo ci consiglia un po’ di prudenza e almeno inizialmente optiamo per qualche attenta carezza sulla groppa del felino che sembra gradire abbastanza. Si chiama Danièl, (come Daniél Ortega, il capo del partito sandinista) ed è stato trovato orfano nei dintorni di Matagalpa, una zona vulcanica nel nord del paese.

A metà mattinata facciamo la prima uscita alla scoperta della capitale.

Managua è una città di oltre un milione di abitanti, distrutta più volte da terremoti (l’ultimo molto forte nel 1972 con oltre 6000 vittime) priva quindi di un vero centro storico e ricresciuta disordinatamente senza un’anima. Si affaccia su un grande lago (lago di Managua) senza una spiaggia (l’acqua è così inquinata che un bagno sarebbe letale) né un lungolago. Si può visitare ciò che rimane del centro in una mezza giornata, praticamente alcuni palazzi governativi futuribili e la vecchia Cattedrale semidistrutta dal sisma e chiusa. Noi riusciamo ad entrarvi per pochi minuti con un operaio il quale ci spiega che attualmente si fanno solo lavori di conservazione in quanto la ricostruzione richiederebbe uno stanziamento di 5 milioni di dollari, altamente improbabile in un paese col reddito pro capite di poche centinaia di dollari e con governi che non brillano certamente per stabilità… La chiesa è comunque un pregevole esempio di architettura coloniale spagnola con un notevole interno che meriterebbe sicuramente l’attenzione internazionale prima che il prossimo terremoto la faccia scomparire letteralmente.

Vicino alla Cattedrale, in stile neoclassico, ci sono il Palacio Nacional, sede del Parlamento, il teatro Ruben Dario intitolato al maggior poeta nicaraguese morto alcolizzato e alcuni palazzi ministeriali con improbabili pareti a specchio o dorate, costruiti di recente.

Completano il “centro storico” la piramide dell’hotel Intercontinental, punto di riferimento primario e la piazza con il monumento a Cesar Augusto Sandino talmente deteriorata che dalla ruggine affiorano in più parti le strutture interne di sostegno e con un falso storico: Sandino impugna un Kalasnikov, arma ai suoi tempi ancora da progettare… Siamo quindi andati in banca per cambiare i primi cento dollari (1420 cordobas), in contanti ovviamente, in quanto i traveller cheques richiedono il pagamento di un’alta commissione e non sempre vengono accettati, le carte di credito, quando riconosciute sono anch’esse sottoposte a commissioni da rapina e l’euro poi…Mai visto! Entrare nelle banche può essere un’esperienza devastante, innanzitutto hanno il portone chiuso, bisogna oltrepassare un piccolo esercito di vigilantes con mitragliatori e fucili a pompa (che sono onnipresenti, davanti a qualsiasi ufficio, magazzino o negozio) e all’interno la temperatura dell’aria condizionata è talmente bassa rispetto alla calura esterna da essere quasi dolorosa… Comunque scopriamo presto che se ne può tranquillamente fare a meno, vicino ai mercati ci sono i cambiavalute, cosiddetti coyotes, che a tutte le ore del giorno offrono cambi in linea con quelli ufficiali, si riconoscono perché hanno sempre in mano una grossa mazzetta di denaro che agitano in continuazione.

Dopo esserci “descanzados” seduti all’unico tavolino di un chiosco bevendo coca cola, cerchiamo di visitare un mercato, ma chiedendo informazioni sulla strada da percorrere, un gentilissimo vigilante ci dissuade in quanto il quartiere da attraversare era controllato da “ladrones” e quindi molto pericoloso.

A questo riguardo, in base all’esperienza accumulata in anni di viaggi auto organizzati, secondo me si può andare ovunque evitando di esibire accessori di valore, gioielli, orologi, marsupi rigonfi ecc. E la presenza stessa dei bambini può essere un deterrente contro eventuali malintenzionati.

A questo punto, la pazienza e la voglia di camminare dei giovani vengono meno, la fame prorompente da 15enne di Mattia ci fa decidere per il pranzo così, percorrendo calles e avenidas andiamo a cercare un posto dove gustare il primo pasto nicaraguense.

Quasi tutte le città fondate dagli spagnoli in America centrale e meridionale hanno la pianta quadrangolare con calles parallele da nord a sud intersecate da avenidas da est a ovest e in genere un indirizzo è composto, come nella battaglia navale dalle coordinate dei nomi o più spesso dalla numerazione delle vie. A Managua no.

A parte quelle principali, in questa città moltissime vie non hanno nome, quindi un qualsiasi indirizzo (di abitazione privata, hotel o negozio) fa riferimento ad un punto conosciuto da tutti, ad esempio l’hotel Los Felipe ha come indirizzo: Tica Bus 1 e mezzo calle al Abajo che significa letteralmente: a metà di una via a sud rispetto alla stazione della Tica Bus, facile no? Dopo aver zigzagato un po’ troviamo un discreto comedor dove pranziamo.

Il menù di questi ristorantini è simile in tutto il paese e comprende res (bue), cerdo (maiale) e pollo (pron.: pojo) che possono essere cucinati in quattro modi: encebollado, con cipolle e sugo, rostizado, alla brace, empanizado, cioè ricoperto con una pastella di uovo e pan grattato o frito simile al nostro arrosto in padella. Il tutto è accompagnato da patatine fritte o platanitas (banana verde tagliata sottile e fritta), insalata di verza e pomodori e riso al vapore al posto del pane che non sempre si trova e che bisogna comunque chiedere a parte.

In alcuni ristoranti un pochino più pretenziosi si contemplano a volte penosi tentativi di imitazione di spaghetti, conditi malamente con salse fantasiose a base di ketchup e dadini di formaggio, esperienze da tentare solo in caso di fortissima nostalgia di casa.

Generalmente i piatti locali sono abbondanti e gustosi, nonché economicissimi (20/25 dollari in quattro comprese bibite e caffè), ma bisogna sorvolare molto velocemente sull’esame della pulizia della tovaglia (quando c’è) e del cameriere, e tollerare lo sguardo supplice di uno o più cani scheletrici in attesa di avanzi.

Raggiunto l’hotel dedichiamo il pomeriggio al riposo e alla piscina, mentre Tommaso va a “caccia” di ogni tipo di animale nel giardino (dai coleotteri ai pappagalli) ed è a sua volta cacciato da Danièl che, conquistato dall’intraprendenza del piccolo, lo aspetta dietro ogni angolo e cespuglio.

Un’altra bella sorpresa: l’albergo ha un servizio di internet, quindi comunichiamo a casa le prime nostre impressioni.

Durante la cena prepariamo un programma di massima sui prossimi spostamenti: in venti giorni visiteremo le tre città principali (Leòn, Granada e Masaya), alcune spiagge sul Pacifico (Las Peñitas, Montellimar, Pochomil e San Juan del Sur), andremo sull’isola di Ometepe (in mezzo al grande lago de Nicaragua), cercheremo di andare all’estremo sud ai confini del Costa Rica (San Carlos e isole Solentiname) e infine passeremo qualche giorno nella parte caraibica a Corn Island.

Che cosa non faremo: le escursioni alla bocca dei vulcani ancora attivi, per problemi di età (non nostra, ma dei giovani al seguito); la risalita del rio Escondido dalla costa Atlantica, per rischio di malaria e dengue; la parte nord del paese non perfettamente controllata dal governo dove sono presenti bande di ex contras convertitesi al brigantaggio.

Il materiale assolutamente da avere nello zaino comprende abbondante scorta di Autan, un grosso tubo di spray insetticida e una torcia elettrica.

Alle dieci tutti a letto, l’indomani andremo alla stazione dei bus, dove prenderemo uno dei vecchi scuolabus americani rappezzati che sono l’ossatura del trasporto pubblico del paese, in quanto da circa un decennio, sotto il governo di Violeta Chamorro, la fatiscente rete ferroviaria nazionale è stata dismessa del tutto.

Ci addormentiamo col ronzio del ventilatore che ci rinfresca tutta la notte.

La mattina successiva dopo un’abbondante colazione, usciamo dall’albergo con gli zaini in spalla e contrattiamo con un tassista il prezzo della corsa fino alla stazione principale dei bus.

Il taxi è un mezzo molto comodo per effettuare gli spostamenti a breve raggio, perché oltre ad essere economico (con 10/15 cordobas, cioè un euro, si va da un capo all’altro delle città), i tassisti offrono volentieri molte informazioni e chiacchierando nel tempo passato in auto, riusciamo ad avere notizie ed impressioni sul modo di vivere e di pensare della gente. Raggiungiamo in un quarto d’ora il mercato Israel Lewites, da dove partono i bus per quasi tutto il paese.

Una grande area è occupata da una baraccopoli variopinta dai tetti in lamiera dove si vende di tutto, dalla frutta tropicale alla carne, dai casalinghi agli indumenti, attrezzi agricoli, pezzi di ricambio e machetes, pesci di ogni dimensione freschi ed essiccati, ceste contenenti polli, granchi e crostacei. Molti banchetti offrono “refrescos”, bustine di plastica con strani liquidi colorati dai vari sapori tenuti al fresco in bidoni di ghiaccio triturato, friggitorie di banane verdi, un’area è dedicata ai ristoranti dove aleggia nell’aria un miscuglio di odori… La vendita sembra essere completo appannaggio delle donne, che indossano anche una “divisa” uguale in tutto il paese, ovvero un grembiule bianco ornato di pizzi con due o più grandi tasche sul davanti dove vengono tenuti i soldi.

La piccola zona dedicata ai prodotti artigianali, oltre a ciotole e vasi in terracotta, utensili in legno scolpito e monili in argento, comprende anche coccodrillini e pesci imbalsamati, orripilanti rospi essiccati disposti su piedistalli nell’atto di suonare (!) una chitarra o una tromba e portafogli ricavati da una rana intera che ti guarda con lo sguardo spento. Scopriamo così che in Nicaragua il rispetto per gli animali assume un valore molto diverso che da noi; oltre a queste cose da museo degli orrori, molte volte dovremo assistere all’allontanamento a calci dei cani dai ristoranti nonostante le nostre proteste. Ma la cosa peggiore riguarda l’offerta, per poche decine di dollari, di intere tartarughe marine centenarie per il pasto di sconsiderati turisti o alla distruzione dei loro nidi per depredare le uova che vengono poi bevute crude dalla gente del luogo.

Nel vicino Costa Rica, i turisti pagano centinaia di dollari per poter vedere, senza disturbarle, la deposizione notturna delle uova delle tartarughe, ma al di qua del confine la tutela dell’ambiente è tuttora un concetto astruso.

Raggiungiamo la parte esterna, un immenso piazzale con due o tre file di ex scuolabus per lo più gialli (almeno all’origine) sovraccarichi di lucine, decalcomanie e scritte, da religiose (REGALITO DE DIOS, JESUS GUARDE ESTE BUS) a roboanti (EL COGUARE, EL BAQUEANO), alcuni tra i più scalcinati hanno una scritta involontariamente umoristica: GUARDE SUSTANCIA! Verniciati sulla carrozzeria o sulle vetrate ci sono anche il percorso e gli orari di partenza di ogni mezzo, che ci fa capire come ogni tratta abbia sempre lo stesso bus e lo stesso autista. Scopriamo che quello che verrebbe considerata da noi una insopportabile routine, qui ha senso: bisogna conoscere perfettamente il percorso ed i paesi da attraversare, non abbiamo mai visto un cartello di segnalazione, ma bisogna assolutamente conoscere tutte, dico tutte le buche della strada perché finirci dentro significherebbe lasciarvi almeno un semiasse o parte della carrozzeria.

Comunque, la vita di una stazione di autobus credo sia uguale in tutti i paesi del mondo, il continuo via vai di mezzi stracarichi di persone e merci, dalle biciclette ai sacchi di verdure, ceste con galline starnazzanti, maialini legati distesi lungo il corridoio, il vociare continuo dei bigliettai che urlano la destinazione, i venditori con le ceste sulla testa che bussano ai finestrini, quelli che entrano dentro e percorrono il corridoio arrancando faticosamente tra sacchi e bidoni mettendoti sotto il naso panini, patatine, bibite, dolcetti, penne e biglietti della lotteria. Ho visto una venditrice di bassa statura che aveva un assistente con una scaletta che appoggiava alle pareti dell’autobus per permetterle di arrivare ai finestrini… Tutto questo è molto pittoresco, ma…C’è un ma. La maggior parte di questo popolo di venditori purtroppo è costituto da bambini e bambine, queste ultime già col loro grembiulino ornato di pizzo e a piedi nudi… Ad alcuni compriamo delle caramelle che poi regaliamo a quelli, ancora più malmessi, che chiedono spiccioli.

Tommaso è un po’ perplesso dal vedere bambini della sua età lavorare e ne rimane abbastanza colpito nonostante le mie spiegazioni edulcorate sulla loro povertà.

Io non do mai l’elemosina ai bambini, non so se sia giusto o meno, ma non voglio contribuire a far perdere loro la dignità, sono convinto che possano avere ancora delle chances, un anziano invece è diverso, ha il bisogno prioritario di un sostentamento a qualsiasi costo.

L’aria è impregnata di polvere e fumo nero proveniente dai motori non perfettamente carburati e il terreno è cosparso di buste, carta e bottiglie di plastica, nonostante ciò noi rimaniamo con le bucce di banana in mano, non vedendo bidoni della spazzatura… Nei paesi poco sviluppati, da sempre la gente getta gli scarti in terra e se ci pensiamo questo ha un senso perché bucce, ossa, croste, foglie e anche carte unte servono da cibo alla notevole quantità di animali che vivono in libertà, dai cani, gatti, uccelli, rettili ed insetti, fino alle vacche sacre indiane.

Tutti questi rifiuti inoltre sono completamente biodegradabili e prima o poi un acquazzone ripulisce le strade rimettendo in circolo tutte le sostanze, ma questo sistema non funziona più dall’avvento delle confezioni e delle bottigliette in plastica a cui non è corrisposto un adeguato grado di consapevolezza della popolazione che se ne sta sommergendo letteralmente.

Saliamo sull’autobus per Leòn, e continuiamo a guardare la vita della stazione dai finestrini respingendo con cortesia tutte le proposte dei venditori che evidentemente ci ritengono potenziali clienti anche perché il buon Tommy accetta tutto quello che gli viene offerto.

Partiamo solo quando l’autobus è pieno, in barba all’orario impresso in modo indelebile sul vetro anteriore e ci accorgiamo subito di un’altra caratteristica del Nicaragua: la musica viene sparata ad altissimo volume attraverso casse acustiche che sono sicuramente l’attrezzatura più costosa di tutto il mezzo (la cosa più economica invece sono i freni…). La radio universalmente ascoltata dagli autisti in tutto il paese è Radio Romantica sui 102.500 Mhz, che trasmette Eros Ramazzotti che canta in spagnolo e Laura Pausini in italiano, chissà perché! Percorriamo i 95 chilometri del percorso in appena tre ore, allietati dalla presenza di un predicatore di non so quale setta evangelica che prima ammonisce tutti minacciando i più severi castighi divini per un gran numero di peccati, (ai quali io aggiungo per Tommy le dita nel naso), poi passa a raccogliere qualche spicciolo in offerta; noi ci trinceriamo dietro un comodo “non comprendo” e un’aria moderatamente dispiaciuta… Durante il viaggio vediamo uno dei tanti vulcani attivi, il Momotombo con un pennacchio di fumo che sale perennemente dal cratere.

Siamo a Leòn poco prima dell’ora di pranzo, quindi adottiamo subito la nostra usuale tecnica per trovare una sistemazione: entriamo in un caffè, ci piazziamo ad un tavolo con tutta la nostra roba e mentre ordiniamo qualcosa da bere, io vado a vedere gli alberghi vicini e senza l’affanno delle valigie contratto il prezzo di una camera..

Al primo tentativo trovo un ottimo hotel vicino al centro, ma con un prezzo un po’ eccessivo (50 $) per le nostre finanze, quindi mi dirigo alcune calles più a nord dove vedo un’altra possibilità di sistemazione: l’albergo è un po’ tetro con il soffitto e le pareti della camera dipinte di blu, ma c’è il bagno con acqua calda, ventilatore e giardino, inoltre si trova nei pressi di un mercato con tanto di coyote (cambiavalute) all’angolo e vari comedores dove mangiare; è perfetto.

Il prezzo? Poco più di 11 dollari a notte, affare fatto, l’hotel Avenida è nostro.

Al mio ritorno al bar vedo che Tommaso è entrato nelle simpatie delle cameriere che permettono che scorrazzi tra i tavoli alla ricerca dei soliti insetti e scarafaggi di cui studia costantemente le abitudini e l’anatomia e che peraltro non fatica a trovare… Nel corso del viaggio devo ammettere che in genere Tommy conquista facilmente le simpatie soprattutto delle donne sia per la sua intraprendenza e sia perchè non sono poi molti i turisti con bambini che girano il paese. Anche Mattia, 15 anni alto biondo non fatica a catturare lo sguardo interessato delle coetanee, mia moglie, seppure non alta, non bionda ha un suo appeal, vista la cultura del macho dell’uomo latino, io invece, alto e grigio sembro interessare (alcuni foschi giovanotti per giunta) unicamente perché portatore di marsupio e macchina fotografica. Va beh, tanto noi non facciamo turismo sessuale… Visitiamo quindi la città. Leòn è la vecchia capitale del paese. L’attuale ubicazione è lontana 32 chilometri dalla prima Leòn fondata dagli spagnoli, che oggi si chiama Leòn Vejo (la vecchia Leon) perché completamente distrutta nella prima metà del 1600 da un terremoto causato dall’eruzione del vulcano alle pendici del quale sorgeva. Una visita alle rovine di Leòn Vejo fa drammaticamente capire come la forza della natura può facilmente distruggere l’opera dell’uomo, praticamente nessuna costruzione rimasta arriva al metro e mezzo… L’attuale città sempre a pianta rettangolare concentra i luoghi d’interesse intorno al Parque central, una bella piazza alberata dove si svolge gran parte della vita sociale, circondata da alcuni piacevoli edifici pubblici in stile coloniale e su un lato dall’imponente Cattedrale Metropolitana che sembra sia la più grande dell’America Centrale. All’interno riposano le spoglie del poeta Ruben Dario, morto alcolizzato in una strada limitrofa. Sotto la cripta un leone triste è scolpito nel marmo e altri due leoni in pietra rosa sono posti ai lati della scalinata sul vasto sagrato.

A pochi isolati di distanza c’è un’altra chiesa interessante, piccola e dipinta di un giallo vivace con la facciata scolpita di strani simboli quasi cabalistici, che a me ricordano le processioni di paese della mia infanzia, con la croce traboccante di attrezzi come una scala, un martello o una spugna.

Nel pomeriggio inoltrato traffichiamo un po’ con i venditori di CD e i lustrascarpe (bambini!) in cerca di lavoro nonostante noi avessimo scarpe sportive e sandali.

Bisogna riconoscere che in tutto il Nicaragua, non saremo mai importunati pesantemente da orde di venditori particolarmente insistenti, qui non arrivano ancora i gruppi di turisti che scendono dai grandi bus con aria condizionata e regalano con munificenza monetine e penne, spingendo così all’accattonaggio interi villaggi.

Leòn è una delle città che si sono maggiormente distinte nella partecipazione alla rivoluzione sandinista ed è stata poi severamente “tartassata” per questo, ma ancora si respira, girovagando per le vie centrali un’atmosfera quasi da comune, si legge nello sguardo della gente cordialità e solidarietà.

Arriva la sera e prepariamo i costumi da bagno, domani faremo il nostro primo giorno di spiaggia.

Il primo contatto con le spiagge del Nicaragua l’abbiamo a Las Peñitas, sull’oceano Pacifico.

Partiamo dall’albergo la mattina e dopo un’abbondante colazione a base di caffè e pan tostato con marmellata di guajaba, siamo alla piccola stazione degli autobus locali, il mare dista meno di 20 chilometri da Leòn ed in mezz’ora saremo lì.

In effetti le spiagge sono due, attigue e divise da un grande scoglio, solo che una, Poneloya, è famosa per avere le correnti più forti del centro America e noi, che abbiamo deciso di ritornare tutti e quattro in Italia, scegliamo l’altra.

Il vecchio scuolabus decrepito, declassato ai trasporti locali per evidenti limiti di età, si riempie presto di passeggeri. Cominciamo a notare un caratteristico accessorio delle donne nicaraguensi: un piccolo asciugamano di tela che viene portato sempre in mano, serve a detergere il sudore dalla fronte o a pulire i sedili impolverati, ma soprattutto viene tenuto in mano quasi come un rosario, probabilmente dà sicurezza come fosse la coperta di Linus.

Gli uomini invece si danno sicurezza con l’onnipresente machete, un coltellaccio lungo quasi un metro, affilatissimo, che portano alla cintola o semplicemente in mano.

Vedendo tanta gente girare praticamente armata, si potrebbe pensare di vivere in una specie di Far West dove continue risse possono degenerare in duelli all’ultimo sangue, ma non è così.

I nicaraguensi, forse stremati da anni di rivoluzioni e controrivoluzioni, sono tranquillissimi, quasi timidi nei confronti degli stranieri, ben disposti a fornire aiuti ed indicazioni sforzandosi di capire e farsi capire. Quello che noi vediamo come un’arma è per loro solo uno strumento utile in svariati campi, dai lavori di campagna alla pulizia delle strade o nell’edilizia e anche per tagliare e ripulire le noci di cocco. Facendo le dovute proporzioni, è come se noi portassimo sempre in tasca un coltellino svizzero multifunzione.

Non prendete mai appuntamenti confidando sull’orario degli autobus in questo paese; arriviamo infatti dopo un’ora intera di viaggio dovuta alla salita di una collina fatta tutta in prima e alla conseguente discesa del versante opposto sempre in prima a causa dell’evidente mancanza dei freni.

Il paesaggio comunque è stupefacente e rigoglioso, palme altissime, piantagioni di banani e mais, agglomerati di capanne con i tetti di foglie, uccelli di vari colori, pappagalli e maialini scorrono lentamente dai finestrini e Tommaso, oggi stranamente interessato al fuggi fuggi delle galline che provoca il passaggio del bus, sta sempre attento col naso fuori dai vetri, mentre Mattia, annoiato dalla lentezza del viaggio, dorme nonostante i continui sobbalzi e le brusche sterzate.

In prossimità della spiaggia poco oltre il villaggio di capanne di Las Peñitas, c’è una fila di belle villette ad un piano, dai colori vivaci con giardini e patii interni, tutte rigorosamente sprangate con cancelli di ferro e alti muri con i bordi ornati da cocci di bottiglia. Anche le finestre sono sbarrate quasi a voler significare che i ladrones non sono una favoletta per turisti. Sono le villette per le vacanze della Leòn bene, ovvero parte di quel 5 o 10 percento che detiene la quasi totalità della ricchezza del paese. Si riconoscono dai potenti gipponi americani o giapponesi con i vetri completamente oscurati, a specchio o addirittura dorati, uno status symbol dal quale difficilmente si separano, hanno i ray-ban perennemente calati sugli occhi e si permettono qualsiasi manovra sotto gli occhi dei poliziotti che li guardano accondiscendenti come fossero frugoletti birbantelli ma simpatici.

Arriviamo dunque in spiaggia, il colpo d’occhio è notevole. Per una lunghezza di un paio di chilometri si stende davanti a noi una distesa di sabbia larga almeno cinquanta metri, delimitata da boschi di mangrovie e dall’oceano Pacifico fino all’orizzonte.

Sulle onde volano alla ricerca di pesci, gabbiani ed eleganti fregate nere come l’inchiostro, ogni tanto passano lentamente tre o quattro grossi pellicani in formazione.

La spiaggia è completamente deserta.

Ci liberiamo dei vestiti e facciamo subito un tuffo tra le onde, l’acqua è fresca e pulitissima e dopo giornate di caldo umido con le magliette attaccate alla pelle, non ci sembra vero di poterci refrigerare.

Anche in questa zona però la corrente è abbastanza forte tanto che per contrastare il riflusso delle onde piantiamo mani e piedi nel basso fondale sabbioso.

Tommaso trova il modo di sfruttare il fenomeno facendosi rotolare dalla risacca sul bagnasciuga e dopo poco è talmente insabbiato da sembrare un sofficino.

Sulla sabbia bagnata ci sono minuscoli granchi che spaventati dalla nostra presenza corrono velocissimi dentro i buchi delle loro tane, ma le ferree leggi della selezione naturale fanno sì che i più vecchi e meno veloci vadano a far parte della collezione di mio figlio.

All’ora di pranzo scopriamo la versione marinara del menù tipico locale; i modi di cottura sono sempre gli stessi (rostizado, encebollado, empanizado ecc.), ma compare il pescado, in genere un grosso dentice dalla carne saporita, i camarones, ovvero i gamberoni e l’eccezionale aragosta che cucinata e preparata con contorni e riso costa solamente 7 dollari! Tutte le volte che pranziamo o ceniamo dobbiamo fare i conti con la lunghissima attesa dopo l’ordinazione, a volte più di un’ora; questa è una costante in tutto il paese e le motivazioni sono essenzialmente due: non solo tutti i piatti vengono preparati al momento, le patatine devono essere prima sbucciate, il riso deve essere bollito e così via, ma addirittura gli ingredienti devono essere spesso mandati a comprare… E’ normale, dopo l’ordinazione, veder schizzare via di corsa un ragazzino che torna dopo un po’ con un incarto comprato magari al negozio del paese vicino… Dopo pranzo torniamo a prendere il sole, a leggere ed a cercare conchiglie e solo troppo tardi ci guardiamo scoprendo di essere diventati…Viola! La preesistente abbronzatura da Adriatico non ci ha protetti come pensavamo, fortunatamente abbiamo portato notevoli scorte di crema doposole.

Ci vestiamo e torniamo in città con lo stesso autobus del mattino.

Durante il tragitto, vinti dalla curiosità, chiediamo ad un ragazzo come mai una spiaggia così bella fosse completamente deserta e la risposta è: “ma perché è inverno!” Rimaniamo senza parole.

Nei paesi tropicali, le stagioni sono due, quella delle piogge e quella secca.

Mentre la temperatura più o meno rimane costante tutto l’anno, durante la brutta stagione, non sono le piogge a dare fastidio, perché sono acquazzoni di pochi minuti o cadono prevalentemente di notte, ma è il forte grado di umidità che rende faticoso ogni sforzo e movimento. Nei mesi di luglio ed agosto sono anche probabili gli uragani.

Il periodo migliore per visitare questo paese è durante i mesi da febbraio ad aprile, quelli immediatamente precedenti alle piogge, oppure in ottobre e novembre, l’inizio della stagione secca.

Il periodo clou delle ferie per i nicaraguensi è la settimana santa, il paese si blocca, sono tutti in vacanza, le spiagge sono stracolme di famiglie accampate e tutti gli alberghi e pensioni sono esaurite come pure i voli interni per le località di villeggiatura. I prezzi lievitano e difficilmente si ottengono sconti.

La sera andiamo a dormire con le schiene incandescenti; domani niente mare, proseguiremo il nostro viaggio lungo la costa verso sud.

Non c’è una strada parallela alla costa occidentale perché le zone sabbiose sono interrotte da lunghi tratti rocciosi a picco sul mare, quindi per proseguire verso sud, dobbiamo tornare a Managua e prendere poi un autobus che ci porti a Pochomil, di nuovo sul mare.

Questa volta orari e coincidenze vengono rispettate, e dopo appena tre ore, riposati e sorridenti quasi fossimo in una pubblicità delle Ferrovie dello Stato, raggiungiamo la destinazione.

Pochomil non è un villaggio o una città, ma semplicemente una rotatoria vicino ad una enorme spiaggia, intorno alla quale sono cresciute alcune caffetterie, dei ristoranti specializzati in pesce, un emporio e un solo albergo, l’hotel Altamar. L’autobus riparte dopo averci sbarcato, siamo gli unici turisti e dirigendoci verso l’hotel siamo avvicinati da alcune donne col classico grembiule da venditrici, ognuna delle quali ci decanta le prelibatezze del proprio menù e ci assicura di avere la posizione migliore.

Il sistema funziona in questo modo: ogni ristorante ha un lato direttamente sulla spiaggia ed ha anche una o più tettoie di foglie di palma fornite di amache e tavolo, così che scegliendo il posto dove pranzare, si ha diritto ad usufruire per tutta la giornata della tettoia e delle amache.

Avendo in progetto di rimanere un paio di giorni, ci facciamo guidare da una delle signore al proprio tavolo, assicurando alle altre una nostra visita successiva.

L’hotel è buono ed economico (spendiamo 15 dollari a notte), è su una collinetta, ha un bel giardino con alte palme e una scalinata che dà direttamente sulla spiaggia; dal ristorante (che scopriremo essere uno dei migliori di tutto il Nicaragua) si gode una splendida vista. Un solo problema, l’acqua è razionata e c’è solo la mattina, per il resto della giornata ci dovremo arrangiare con alcuni secchi, ma la bellezza del luogo ci compensa abbondantemente della scomodità.

Una volta sistematici in albergo, andiamo subito in spiaggia dove ci hanno preparato un tavolo sotto le palme vicinissimo alla riva e dove rimaniamo tutta la giornata dopo aver gustato un superbo pranzo a base di dentici ed aragosta sempre a prezzi da saldo.

Questa è la spiaggia più vicina a Managua ed è più attrezzata, oltre alle tettoie per l’ombra c’è la possibilità di fare escursioni a cavallo e di noleggiare moto con larghe ruote con le quali scorrazzare sul largo bagnasciuga.

Pochomil è parte di un insieme di tre spiagge lunghe complessivamente 5 chilometri, la più bella delle quali è Montellimar, dove sorge la faraonica ex villa al mare del dittatore Somoza, provvista di tutto, dal molo privato ai campi da tennis, fino ad una pista di atterraggio, dalla quale nel 1979, durante la rivoluzione sandinista, il dittatore fuggì a Miami prima di riparare in Paraguay, dove fu assassinato l’anno successivo.

Dopo la vittoria dei rivoluzionari, la grande residenza venne adibita a luogo di relax per i guerriglieri, finché nel 92 il governo la vendette per 5 milioni di dollari al gruppo spagnolo Barcelò che la fece diventare quella che è oggi: il complesso turistico più bello (e più caro) del Nicaragua. Serviti da uno stuolo di camerieri in guanti bianchi, con a disposizione campi da tennis, piscine, ristoranti, centro fitness e molto altro, i ricchi turisti stranieri si godono questo luogo esclusivo. Talmente esclusivo che non ci hanno fatto entrare.

La mattina seguente infatti, ci facciamo portare in macchina dal figlio del padrone del nostro albergo, fino all’ingresso di questa mirabilia con l’intenzione di dare un’occhiata, prendere qualcosa da bere e ritornarcene poi indietro facendo una passeggiata lungo la spiaggia.

Dopo aver superato il posto di guardia già con qualche difficoltà, siamo inesorabilmente respinti dal personale della reception nella hall, dove addirittura ci chiedono 40 dollari, dieci a testa, compreso Tommaso, solo per lasciarci passare nella “loro” spiaggia! Mia moglie Paola, poco diplomaticamente dà loro dei ladroni, annullando così ogni margine possibile di trattativa, essendo la parola purtroppo molto simile nelle due lingue.

Iniziamo così la nostra passeggiata un chilometro dopo, passate le recinzioni dell’hotel.

Tra Montellimar e Pochomil attraversiamo il villaggio di Masachapa con la spiaggia disseminata di pangas, barche strette e lunghe con le quali ogni mattina i pescatori sfidano le onde dell’oceano e possiamo così vedere il rientro di un paio di queste, cariche di grossi pesci che sono venduti direttamente sulla riva.

Ripensando alla delusione mattutina, ci confortiamo dicendoci che “quelli” sono rinchiusi all’interno di una bolla di vetro da dove non vedono la realtà del paese che visitano, i veri viaggiatori dopo tutto siamo noi… Rimaniamo ancora un’altra giornata a goderci questo mare da cartolina, in tempo per prenderci un acquazzone di proporzioni bibliche durante il quale, da sotto una delle tettoie, inaspettatamente molto resistenti, faccio le mie foto più “drammatiche”, dai colori lividi e con le alte palme piegate dal vento.

La mattina seguente dobbiamo prendere un paio di autobus per raggiungere la cittadina di Rivas, il punto di imbarco per andare sull’isola di Ometepe, in mezzo al lago più grande del paese, appunto il lago de Nicaragua.

Partiamo presto, salutati dalle donne che aprono all’alba i loro negozietti, perché dobbiamo prendere l’autobus che ci lascerà ad un incrocio dove passano quelli della linea Managua – Rivas.

Dopo circa un’ora di viaggio, salgono a bordo quattro transessuali, giovani, i vestiti attillati dai colori vivi, che trasportano due ceste coperte ed un cavalletto, probabilmente vanno a vendere dolci o focacce in un mercato.

Abbiamo così modo di vedere come gli altri passeggeri accolgono la loro presenza: un coro di risate, commenti pesanti ed ammiccamenti che continuano per parecchi minuti nonostante la presenza di alcuni poliziotti che anziché far smettere il clamore, sorridono divertiti.

Anche le donne, pur non partecipando direttamente, si scambiano tra loro sguardi che sanno di disprezzo e riprovazione. Le quattro poverette se ne stanno quasi accucciate in due sedili, in silenzio o scambiando qualche parola tra loro.

Questo episodio ci fa meditare su come sia difficile in un paese latino, dove il machismo è imperante, esternare la propria diversità. I quattro, con il rossetto un po’ troppo carico, lo smalto screpolato e qualche pelo di troppo, anziché sembrare sciatti o patetici, affermano dignitosamente il loro diritto alla diversità, ma la strada da percorrere è purtroppo ancora molta.

Scendiamo poco dopo ad un incrocio dove passerà l’autobus per Rivas. Il tempo che minaccia pioggia ci induce a sperimentare un altro mezzo di trasporto, che la nostra guida sconsiglia vivamente. Invece dell’autobus “di linea”, saliamo su un pulmino a nove posti dove stiamo in quindici stretti come sardine, con gli zaini quasi in bocca e lanciati a forte velocità sulla strada dissestata. Questi pulmini sono più veloci dei bus, in genere percorrono gli stessi itinerari, ma sono pericolosissimi proprio a causa della forte velocità e del numero elevato di passeggeri di cui sono letteralmente stipati. Un italiano incontrato successivamente ci dirà che i frequenti incidenti stradali causati da questi mezzi provocano delle vere e proprie stragi. Per nostra fortuna senza problemi, arriviamo a Rivas verso mezzogiorno e un tranquillo taxi ci porta al molo dove ci dovremo imbarcare per l’isola di Ometepe.

Facciamo in tempo a pranzare in un rustico comedor prima di prendere il lento battello di legno che sbuffando (e non è una concessione letteraria), dopo un ora di navigazione ci porta sull’isola, nella cittadina di Moyogalpa.

Nella lingua degli indios che per primi la abitarono, Ometepe significa “due montagne”, con riferimento ai due vulcani che la formano, uno dei quali, il Concepcìon, ancora attivo. E’ anche l’isola lacustre più grande al mondo.

Quasi tutto il suo territorio è stato dichiarato zona protetta e sono stati istituiti ben quattordici parchi naturali, la flora tropicale è rigogliosissima e la fauna comprende oltre al resto, le inquietanti scimmie urlatrici, diverse specie di pappagalli e il mot-mot, l’elegante uccello blu dalla lunga coda simbolo del Nicaragua.

Sperimentando la cattiva qualità dell’unica strada che percorre tutta l’isola formando un otto, arriviamo un’ora dopo ad Altagracia, dove ci sistemiamo in pieno centro, all’hotel Castillo che per 10 dollari ci fornisce camera con due letti matrimoniali, bagno e ventilatore, un discreto ristorante dai prezzi modici e la connessione internet che ci permette di comunicare con i nostri familiari in attesa di notizie.

La cittadina è piccola e tutta concentrata intorno al parco centrale, dove maialini scuri e pelosi pascolano tra un’altalena e gli scivoli arrugginiti, e alla bella chiesa in legno nel giardino della quale vi sono, quasi sul ciglio della strada due grandi statue precolombiane che rendono il luogo surreale. La loro collocazione ci sembra un po’ strana, è come se due preziose statue romane fossero situate ai bordi di un qualunque incrocio, ma sembrano resistere egregiamente alle intemperie.

Questa isola meriterebbe sicuramente una visita approfondita, perché le escursioni da fare sono molte ed interessanti, l’ascesa alla cima dei vulcani, la passeggiata nella giungla per arrivare ad una cascata, la ricerca di petroglifos, i disegni incisi sulle rocce in epoca precolombiana ecc.

Noi, con i ragazzi poco inclini alle camminate, riusciamo soltanto a fare una visita alla Hacienda Magdalena, una grande fattoria che funziona come una comune, nata ai tempi della rivoluzione, dove si possono fare escursioni alle piantagioni di cacao e di caffè, gite a cavallo in cerca di antiche iscrizioni e dove si può anche pernottare in pittoresche camerate. La siesta dopo pranzo sulle amache sotto un porticato ci ritempra in compagnia di colibrì, pappagalli e mot-mot, mentre una pacifica scolopendra che se ne stava tornando a casa è costretta a fare una lunga escursione nel patio in compagnia di Tommy… Dedichiamo un po’ di tempo anche ai bagni, dopotutto siamo su un isola, così scopriamo la bellezza di playa Santo Domingo, larga e ornata da una vera e propria foresta di palme dove incessanti si sentono le grida dei pappagalli.

Nel pomeriggio una grossa mandria di bovini viene ad abbeverarsi nelle acque del lago a qualche decina di metri da noi, l’atmosfera è magica.

Il giorno successivo siamo costretti a cambiare i nostri piani al volo, infatti vorremmo proseguire fino all’estremo sud del paese, a San Carlos, ma l’unico battello che fa servizio da Ometepe parte il giovedì, tra due giorni, e non avendo abbastanza tempo a disposizione decidiamo di andare intanto a Granada, la città coloniale meglio conservata del Nicaragua che si trova verso nord.

Ormai, da veri esperti ci muoviamo nell’intricato sistema dei trasporti locali e dopo circa due ore suddivise tra barca, bus e taxi arriviamo in questa città che si affaccia sul lago de Nicaragua ai piedi del vulcano Mombacho ormai spento, ma che in tempi antichi con una sua immane eruzione pare abbia creato le oltre 350 isolette che sorgono di fronte ad essa, alcune delle quali sono state usate per le riprese del film “Il mondo perduto” di Spielberg.

Importante centro mercantile prima dell’apertura del canale di Panama, Granada ricca e sfarzosa è stata più volte assaltata da corsari del calibro di Henry Morgan fino a diventare territorio indipendente sotto il filibustiere William Walker che la occupò finché, nel 1854, fu costretto a fuggire mettendola a ferro e fuoco, tanto che le facciate delle chiese ancora oggi sono annerite dal fumo.

Oltre al primato economico e commerciale, la città vanta una notevole vivacità culturale, è qui infatti che negli anni venti nasce il movimento letterario “Vanguardia” e molti poeti e scrittori, tra tutti Ernesto Cardenal, sono granadesi.

Oggi è una piacevole e tranquilla cittadina, la terza del paese, con il suo Parque Central, gli edifici pubblici in stile neoclassico o tipicamente coloniali ben tenuti, la Cattedrale all’interno della quale si può vedere una della rare rappresentazioni di Dio in persona, con tanto di aureola triangolare.

Dalla piazza parte la Calzada, il viale che arriva fino al lago, dove sono concentrati tutti gli alberghi economici e i ristoranti migliori.

Proprio lì, a due passi dalla piazza, troviamo l’hotel Cocibolca, 14 dollari a camera, grande patio interno con giardino, internet e ottima cucina.

Oltre ai soliti giri in città, faremo da qui una escursione a Masaya, il centro artigianale dove si possono trovare a buon prezzo manufatti in terracotta, legno e pellame provenienti da tutto il paese.

Una mattinata la dedichiamo alla navigazione tra le isolette e scopriamo che molte sono state acquistate da privati che vi hanno costruito amene villette per il relax. Una intera isola di mezzo chilometro quadrato, ci spiega il barcaiolo che ci accompagna, costa poco più di 30mila dollari, cifra irrisoria per noi, ma completamente fuori della portata del 95 per cento dei nicaraguensi.

Purtroppo, per problemi di tempo, dobbiamo rinunciare a visitare una delle isole più belle, Zapatera, dove sono concentrate le tracce delle civiltà precolombiane che la ritenevano luogo sacro. La sera facciamo la conoscenza con Don Luca, proprietario dell’omonimo ristorante a due passi dall’albergo, un ingegnere italo-svizzero convertitosi in pizzaiolo.

Normalmente, il connubio Italia/Svizzera in cucina non mette certo l’acquolina in bocca, ma noi dobbiamo ringraziare Luca per averci rimpinzato di ottimi spaghetti (Barilla) al ragù e di vera pizza cotta nel forno a legna.

In questo locale si respira inoltre un’atmosfera cosmopolita resa ancor più piacevole dalla cordialità del personale.

Insomma, va tutto bene fino alla serata della festa in piazza.

Quella sera, notando un certo movimento e sentendo musica latina, c’imbattiamo in una cena in piazza con tanto di palco e musica dal vivo. Subito approfittiamo dell’occasione per partecipare al divertimento locale e prendiamo un tavolo dove ceniamo con i piatti tipici (gallo pinto, pollo rostizado, tortillas, platanitas ecc.) preparati in barbecue all’aperto.

Tommaso, come sempre alla ricerca di animali, finalmente subisce la loro giusta vendetta, infatti tutto preso a scompaginare una fila di formiche, non si avvede di aver messo un piede sul formicaio stesso e, in un attimo ha una gamba invasa dalle bestiole, piccole ma estremamente mordaci, come anch’io avrò modo di constatare alcuni giorni dopo.

Piangente e scioccato dal vedersi “invaso” corre al nostro tavolo dove lo liberiamo e lo confortiamo, cosicché, poco dopo, di nuovo baldanzoso, decide di andare a vedere da vicino i musicisti.

Proprio mentre questi eseguono “Nicaragua, nicaraguita”, praticamente la “Romagna mia” locale, il vispo frugoletto, nell’atto di arrampicarsi sulla struttura del palco per vedere meglio, come facevano altri bambini, aggancia con un sandalo il cavo di uno dei due fari dell’illuminazione, che cadendo a terra si disintegra.

Quasi tutto il palco al buio, la musica si interrompe tra lo sconcerto generale, mentre l’autore del misfatto corre a nascondersi tra le mie gambe.

Vista l’impossibilità di riparare la lampada e non avendo un ricambio, si decide di continuare con un unico faro, raggruppando i suonatori al centro del palco in modo che possano vedere gli spartiti.

Interviene anche la polizia che fa allontanare tutti di alcuni metri per proteggere l’unica lampada rimasta.

Dopo la movimentata serata, il giorno dopo facciamo un’escursione nel paese di montagna di Catarina, dal quale si scopre un panorama mozzafiato del lago con le isolette e la bocca del vulcano.

Dobbiamo però rinunciare definitivamente a visitare San Carlos e le isole Solentiname, perché l’unico aliscafo che faceva servizio sul lago, rottosi il motore anni fa, non è stato mai riparato né sostituito.

Questo la dice lunga sull’organizzazione e le potenzialità economiche di questo paese, che a causa di un guasto meccanico lascia quasi abbandonato uno specchio d’acqua che copre un quinto del proprio territorio e collega l’estremo sud al resto della nazione.

Con grande rammarico per non poter visitare una zona a cui tenevamo molto, centro artistico del paese dove è cresciuta la scuola di Ernesto Cardenal, decidiamo di raggiungere la capitale e da lì, prendere un volo interno che ci porterà ai carabi, sull’isola di Corn Island.

Due sono le compagnie aeree che fanno servizio da Managua a Corn Island, la Costeña e la Atlantic Airways, entrambe con piccoli aerei mono o bi-elica, entrambe con ufficio all’aeroporto, entrambe con un vociante procacciatore di clienti sul piazzale antistante le partenze nazionali, i quali, entrambi si avventano su chiunque capiti da quelle parti con una valigia in mano.

Assediati dai due imbonitori, allettati con proposte di sconti e accalorate assicurazioni di avere aerei migliori, scegliamo la Costeña, il cui volo parte mezz’ora prima dell’altro.

Il costo del passaggio fino all’isola per noi quattro e ritorno con data aperta, si aggira sui 350 dollari, che paghiamo con carta di credito senza difficoltà e senza le famigerate commissioni.

Poco prima della partenza, al check-in veniamo anche pesati e dopo aver pagato la tassa di 5 dollari a testa, saliamo su un piccolo monomotore da quattordici posti e partiamo verso est.

Il volo dura poco più di un’ora, durante la quale sorvoliamo la parte centrale del paese, in gran parte ricoperta da una fitta vegetazione e piuttosto desolata.

Un altro modo per raggiungere la costa atlantica, è prendere un autobus che in 12 ore arriva fino a El Rama da dove ci si imbarca su una lancia che via fiume raggiunge Bluefields sulla costa, da dove si arriva a Corn Island in battello.

Il costo totale del viaggio è di 15 dollari a persona, ma va affrontato da viaggiatori particolarmente avventurosi e senza bambini.

Arriviamo quindi nel primo pomeriggio, atterrando su una pista in parte erbosa che attraversa tutta l’isola, dove i locali passeggiano o vanno in bicicletta come se fosse una via del centro. Appena fuori dall’aeroporto (una baracca di lamiera con una scrivania per le compagnie aeree e un’altra per il funzionario dell’immigrazione), incontriamo un ragazzo italiano in partenza che ci dà alcune dritte sulle possibilità di sistemazione.

Corn Island, ex rifugio di pirati, contornata da baie sabbiose che compongono i suoi cinque chilometri di spiagge, è oggi abitata da circa 2500 persone, in gran parte neri garifuna discendenti degli schiavi africani fuggiti o naufragati durante il trasporto in nave.

Gli abitanti preferiscono parlare l’inglese caraibico, dalla cadenza musicale; sembra così di essere lontani migliaia di chilometri dal resto del Nicaragua, un po’ come accade a Livingston, in Guatemala, dove si respira la stessa atmosfera di frontiera.

In realtà le isole sono due, a poche miglia dalla sorella maggiore, detta La Isla Grande, c’è Little Corn Island, la Islita (l’isoletta) dove vivono appena 350 persone e non ci sono strade, ma solo viottoli che si inoltrano nella giungla che la ricopre interamente, per raggiungere spiaggette amene ed angoli con viste meravigliose che mi fanno ritornare alla memoria i libri di avventure letti da ragazzino come “L’isola del tesoro” e “Robinson Crusoe”.

Quei luoghi, solo immaginati durante la lettura, ora li ho davanti agli occhi e…Ci sono in mezzo! Avendo dovuto tagliare dal nostro itinerario l’estremo sud del paese, abbiamo quasi cinque giorni da trascorrere sulle spiagge, per cui ci troviamo subito una buona sistemazione.

Ai tropici i venti soffiano sempre nella stessa direzione, quindi abbiamo una costa settentrionale rocciosa battuta dal vento, perfetta per i surfisti, mentre la parte meridionale ha spiagge sabbiose, acque poco profonde e mare sempre calmo, perché sottovento.

Qui la zona più bella è Picnic Beach, una baia da cartolina contornata da palmizi dove, direttamente sulla spiaggia, ci sistemiamo al Picnic Center, una tipica costruzione caraibica in legno tra le palme da cocco, al costo di 30 dollari per una grande camera con aria condizionata.

Anche qui siamo gli unici turisti e per un paio di giorni ci godiamo questo paradiso tutto per noi.

Le vacanze dei nicaraguensi si concentrano nel periodo della settimana santa, durante il quale l’isola è presa d’assalto e per trovare posto sui voli e negli alberghi bisogna prenotare con mesi di anticipo. Nel resto dell’anno si incontra al massimo qualche coppia di turisti europei o americani, con gli zaini in spalla.

Non c’è neanche una vita notturna ad eccezione di un paio di rustiche balere dove si suona musica reggae, sconsigliate perché teatro di frequenti risse tra i giovani, alimentate dalle abbondanti bevute del forte rum distillato artigianalmente.

La vita sull’isola si svolge lentamente, tutti sembrano passeggiare indolenti senza una meta precisa, sull’unica strada sterrata piena di buche alcuni taxi girano incessantemente a passo d’uomo e scopriamo che la tariffa è unica, 10 cordobas, meno di un dollaro, sia per fare cento metri che per essere trasportati da un capo all’altro, coast to coast .

Il nostro albergo è l’unica costruzione della zona, così la prima sera, tra l’altro senza cena a causa di un equivoco sull’orario del ristorante, rimaniamo un po’ sconcertati dalla solitudine del luogo e mangiando scatolette seduti sui gradini, ipotizziamo assalti notturni di indigeni armati di machete e la nostra imminente fine prematura. Grossi granchi grigi escono come fantasmi dalla sabbia e illuminati dalla torcia elettrica ci mostrano minacciosamente le chele.

Il mattino dopo ci trova ancora in vita e, rincuorati dall’abbondante colazione, osserviamo il rientro delle barche dalla pesca delle aragoste.

Trascorriamo così due giorni praticamente sempre in costume da bagno, con l’unica incombenza di spruzzarci ogni tanto di Autan, per allontanare i sandflies, specie di moscerini fastidiosissimi, che fanno la loro comparsa nel pomeriggio.

Ci nutriamo a base di dentici alla griglia e di aragoste che sono presenti sui menù di tutti i ristoranti allo stesso prezzo del pollo (5 dollari).

Mentre mia moglie ed io diamo fondo agli ultimi libri portati da casa, Tommaso trascorre la maggior parte del tempo in acqua cercando conchiglie oppure giocando con gli animali del proprietario dell’hotel, il quale un pomeriggio lo porta addirittura con sé nella giungla facendogli tenere il suo machete.

Dopo un po’ il piccolo torna trionfante avendo ricevuto una noce di cocco in pagamento per il suo “lavoro”… Mattia, il cui principale interesse sembra essere l’orario del pranzo, ha un barlume di vitalità quando conosce una ragazza della sua età con la quale tenta di comunicare col suo incerto spagnolo, scoprendo che, seppur originaria dell’isola, da alcuni anni…Vive a Bergamo! La nostra indole nomade ci spinge ancora a muoverci, così decidiamo di passare un giorno sull’Islita, che raggiungiamo con mezzora di barca e dove ci sistemiamo in un bungalow in mezzo alla vegetazione tropicale dell’hotel Casa Iguana, tenuto in maniera impeccabile da due simpatiche americane che lo gestiscono insieme ai mariti che si occupano di pesca ed immersioni.

Little Corn Island è talmente piccola che si esplora tutta a piedi ed è particolarmente indicata per gli appassionati di pesca d’altura e subacquea, le spiagge invece sono piuttosto rocciose e battute costantemente dal vento.

Ritornati a Picnic Beach per l’ultimo giorno di mare, troviamo l’albergo animato dalla presenza di una decina di turisti con i quali dobbiamo condividere la “nostra” spiaggia.

Passiamo la serata a chiacchierare davanti ad una birra e conosciamo così Alex, l’unico italiano residente, proprietario di un piccolo hotel, “La Princesa de la Isla”, approdato qui una decina di anni fa e mai ripartito, come Paula, un’altra italiana che gestisce un ristorantino sulla spiaggia a Little Corn Island.

L’indomani noi invece riprenderemo il volo per Managua per proseguire poi per l’Italia.

Passiamo l’ultima notte nella capitale, all’hotel Los Felipe dove ritroviamo Danièl, che ci sembra cresciuto rispetto a venti giorni prima e che, forse contento di rivederci, si lascia addirittura fare i grattini sulla pancia.

Il mattino successivo, andando all’aeroporto, ci scorrono davanti agli occhi attraverso i finestrini di un taxi, le ultime immagini del Nicaragua, strade già trafficate, bancarelle che riaprono, venditori di giornali, studenti in divisa, insomma, niente di trascendentale, ma saranno proprio queste che ci ritorneranno in mente nei primi giorni un po’ surreali, del rientro a casa.



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