I sogni di chiara: los roques, diario di viaggio
Gran Roque è l’unica isola montuosa ed è il centro dell’arcipelago, ospitando quasi l’intera popolazione (1200 residenti) che vive di pesca e servizi per il turismo. Tutte le altre isole sono sostanzialmente banchi corallini piatti e sabbiosi, quasi prive di vegetazione, fatta eccezione per le basse mangrovie che si estendono come tappeti irregolari spesso fino alla battigia. Spiagge bianchissime e soffici, il clima caraibico umido e ventoso, acque cristalline e fondali da sogno, abitati da una popolazione di pesci, piante e conchiglie protetti dall’estesa barriera corallina, lo spettacolo dei pellicani: Los Roques è questo e molto altro. Ai colori e alla magia dei Caraibi si aggiunge infatti un’atmosfera latinamericana di dimensione lettararia L’arcipelago è il paradiso degli amanti dello snorkelling e delle immersioni subacquee: negli ultimi anni sono aumentate le infrastrutture turistiche, grazie (indovinate un po’) ai numerosi italiani sbarcati sull’isola per una vacanza caraibica e che hanno deciso di rimanere a vivere su un’isola dove si ha l’impressione che ‘tutto sia ancora da inventare”. Estate tutto l’anno, Los Roques vive almeno un paio di ‘alte stagioni’ turistiche: il periodo delle festività natalizie fino alla prima settimana di gennaio, e il classico luglio-agosto. Il clima nell’arcipelago è quello tipico delle isole caraibiche: La temperatura media è di 28°C con punte massime di 33°C in luglio e minime di 24°C in gennaio. Le giornate sono molto calde ma rinfrescate da brezze piacevoli, che attutiscono l’impatto dell’umidità, che nel periodo più caldo raggiunge percentuali vicine al 100%.
Diario di viaggio 30 dicembre 2001 – Ci prepariamo a un viaggio lungo e imprevedibile, abbiamo solo i biglietti aerei, senza nessuna prenotazione. Portiamo lo stretto necessario e affrontiamo i -10° delle 4 del mattino milanesi armati solo di giubbotti jeans. La sofferenza dura poco, un quarto d’ora di attesa del pullman per Malpensa, poi sarà tepore: dal riscaldamento dell’aeroporto ai 30° del Venezuela. Sfruttiamo un’offerta della compagnia di bandiera francese (paghiamo il biglietto 877 euro, 1 milione e 700 mila lire), a circa metà prezzo rispetto alle tariffe normali e a quelle, pur scontate, dell’Alitalia). Il viaggio è comodo e dura dieci ore, più uno scalo di corsa a Parigi. Le misure antiterrorismo rischiano di farci perdere la coincidenza, ma alla fine voliamo sull’Atlantico dormicchiando e guardando Moulin Rouge in spagnolo. Mettiamo piede in Venezuela all’aeroporto di Maiquietìa, alle cinque del pomeriggio, quando l’ultimo volo per Gran Roque è già partito. Un po’ storditi dal cambio di fuso, travolti dai 30° e dall’aria condizionata, gironzoliamo per l’aeroporto per capirci qualcosa. Ci sono diverse compagnie aeree che volano per l’arcipelago, si tratta di scegliere quella giusta, o almeno una che garantisca di non mollarti sull’isola. I prezzi variano da un minimo di 35 dollari (la moneta Usa è accettata come quella locale, il Bolivar) in bassa stagione, ai 120 dollari (andata e ritorno) dei periodi di massima affluenza: luglio-agosto e dicembre-gennaio. Ci divincoliamo fra tassisti che ci offrono di portarci a Caracas, ‘manager’ del turismo che vogliono occuparsi di noi, e attenti scippatori pronti ad approfittare di ogni minima distrazione su zaini e borse. Trattiamo sul volo con la truccatissima mulatta al banco informazioni, ma non otteniamo nessuna garanzia sul ritorno. Troviamo un tassista sufficientemente affidabile che da Maiquetìa, abbastanza fuori Caracas, ci porta in una posada a Catia la Mar. Alla ‘Parada’ la stanza è dignitosa, 35 mila bolivares (54 euro) e un aereo sopra la testa ogni tre minuti. Il gestore è cordiale, mi offre la prima Polar, la vera birra venezuelana, e mi presenta due italiani appena arrivati, Paola e Luca: anche loro un biglietto per Caracas e poi Los Roques, all’avventura. A cena inauguriamo la serie dei batidos tropicali, frullati ghiacciati di frutta esotica da leccarsi i baffi. Ci facciamo i primi due in un bar di fronte alla posada e scopriamo i batidos de fresa e melon, quello de lechosa (papaya) e il melocoton. Niente Parchita e Pina, ma ci rifaremo. Oltre all’aria condizionata a mille, notiamo all’interno un uomo armato. E’ una guardia che si occupa della sicurezza. Non è una banca né una gioielleria, ma questa è la zona di Caracas, una delle meno sicure del paese. Alla fine degli anni ottanta una grande massa di rurali si riversò in città, andando a ingrossare le fila dei disoccupati, dei poveri, degli emarginati. Appena sopra l’aeroporto, le colline rossastre colorate di palme, sono invase dai ranchitos, i barrios più poveri della zona. Caracas è la città più pericolosa e violenta del Sudamerica, e i pericoli cominciano appena fuori dall’aeroporto. Decine di taxi clandestini, vecchie auto americane macinate dal tempo, molti dei taxi ufficiali, quasi tutti potenti fuoristrada neri con vetri oscurati, non hanno neppure le targhe. Le truci maschere della Guardia Nacional non li degnano di uno sguardo, concentrati sui controlli antidroga. Eppure può capitare, e in genere capita più facilmente a nababbi turisti diretti a Isla Margarita, di salire su un taxi, essere portati chissà dove, derubati, malmenati e abbandonati. E qualcuno ci ha anche lasciato la pelle.
Al ritorno alla ‘Parada’ incontriamo Paola e Luca. Confrontando prezzi e informazioni, viene fuori che sarà difficile trovare posto sull’isola: è la settimana tra Natale e capodanno, i venezuelani festeggiano come si deve e Los Roques è una delle mete predilette. Sono loro che ci parlano di Johny Farias, ‘operador turistico’ che li ha abbordati all’aeroporto. Johny li ha aiutati a trovare il volo per l’isola. Luca e Paola ci raccontano un po’ di viaggi fatti in passato e ci offrono un passaggio sul taxi di Farias domattina. Grazie lo stesso, anche il nostro tassista ci ha promesso di farsi trovare qui davanti alle 7 in punto. Ma è una promessa da 8 mila bolivares: troppo pochi per essere mantenuta, e ce ne accorgeremo.
31 dicembre 2001 – Poco prima delle 7 siamo nel patio a bere un caffè versato dal thermos che Angel tiene sul banco all’ingresso. E’ lì che ci imbattiamo nei denti bianchissimi e nel naturale sorriso di Johny Farias, pronto a condurre all’aeroporto Luca e Paola. Gli spieghiamo che dobbiamo ancora comprare il biglietto per Los Roques e naturalmente si offre di aiutarci. Si attacca al telefono e in dieci minuti risolve tutto. Del nostro tassista neppure l’ombra, così ci imbarchiamo tutti con Johny alla volta di Maiquietia, su una vecchia Ford del ’77 dalle imbottiture rosicchiate e con un sottofondo musicale di salsa. E’ una bellissima giornata e i colori del primo mattino illuminano la periferia che ci lasciamo alle spalle. In aeroporto stiamo molto attenti al biglietto aereo: decine di persone si alternano come interlocutori e non è facile mantenere il controllo della situazione. Alla fine pretendiamo che ci stampino i biglietti e la ragazza della compagnia sembra stranita dalla nostra richiesta! I prezzi sono quelli d’alta stagione, paghiamo 120 dollari a testa per andata e ritorno. Sono i nostri ultimi contanti, le guide avvertono che sull’arcipelago non ci sono banche e consigliano caldamente di rifornirsi di denaro sulla terraferma. Noi rischiamo di perdere il volo e Johny ci assicura che da poche settimane Gran Roque ha finalmente una banca. Esitiamo un po’, ma alla fine ci fidiamo. Regaliamo gli ultimi spiccioli a Johny (che comunque becca le percentuali dalle compagnie e dalle posadas) e ci imbarchiamo per l’isola. E’ lì che conosciamo Mari, una ragazza italiana che gestisce l’unica posada di Rasquì, uno scoglio proprio di fronte a Gran Roque. Ci avverte che non sarà facile trovare da dormire, e ci offre ospitalità – oltre a uno sconto – se dovessimo restare senza un tetto. Il volo è emozionante: l’aereo ha venti posti e una hostess che offre patatine e aranciata. Voliamo sulla barriera corallina e vediamo scorrere alcune delle isole che esploreremo nei giorni seguenti. Ci colpiscono Cayo Sal e Isla Larga, due lingue di terra in mezzo all’Oceano, poi atterriamo sulla pista stretta a ridosso della costa di Gran Roque. E’ la più grande e l’unica abitata delle 42 isole coralline e degli oltre 250 isolotti e banchi di sabbia che compongono l’arcipelago di Los Roques, posta all’estremità settentrionale. Il turismo e le case trasformate in ‘posadas’ sono conquiste molto recenti: la popolazione ha sempre vissuto di pesca in silenziosa solitudine. A Gran Roque non ci sono automobili né motorini (ma una volta a settimana un vecchio camion fa il giro dell’isola per il rifornimento idrico), solo pochi trabiccoli elettrici utilizzati a volte da una specie di vigilanza. Non ci sono strade asfaltate e le stradine sabbiose rendono inutile, oltre che fastidioso, l’uso delle scarpe. Johny Farias non ci ha tradito: da poco è stata inaugurata la prima banca dell’isola, che si trova ‘en el pueblo’, ovvero nella piazza principale, naturalmente ‘Plaza Bolivar’. Pagata la tassa d’ingresso al Parco Naturale ci avventuriamo nella terra sabbiosa a caccia di una posada. Il primo giro è fortunato: troviamo un altro italiano, sull’isola dal ’98, che ci offre una stanza senza bagno a un prezzo ragionevole. Continuiamo a cercare, fa caldo ma l’atmosfera è bellissima: sabbia e terra tutto intorno, i colori pastello delle case, i bambini scalzi che si rincorrono per le vie e armeggiando con petardi e stelle luminose si preparano alla notte di capodanno. Alla posada del Recuerdo ci propongono una stanza con quattro letti al prezzo di una doppia. La posada è proprio sulla piazza dell’isola, gli aromi forti di pesce fritto e uova strapazzate ne autenticano il legame alla tradizione culinaria del luogo: ci fermiamo. Nei giorni seguenti scopriremo la storia dei proprietari del Recuerdo, una delle famiglie più antiche di Gran Roque. La prima escursione è sull’atollo di Francisquì, che come le altre isole dell’arcipelago prende il nome dagli esploratori inglesi che le scoprirono (Francis Cay). Nel tempo, i pescatori del luogo tramandarono la tradizione orale dei nomi delle isole (Francisky), finchè i colti cartografi spagnoli riportarono le denominazioni alle regole della grammatica galiziana (Francisquì). A nord-est di Gran Roque, Francisquì si raggiunge in un quarto d’ora di navigazione a bordo di una delle tante barchette di legno a motore. Ci accoglie una fitta vegetazione di basse mangrovie, che nascondono la meraviglia della ‘piscina’, uno stagno d’acqua di mare immerso nel verde appena dietro la spiaggia. Non abbiamo il tempo di tuffarci nella dimensione caraibica che facciamo conoscenza con i peggiori abitanti dell’isola: i ‘puri-puri’. Non sono cannibali ma minuscoli insetti neri che si annidano nella vegetazione e assaltano a tradimento, in branchi di centinaia. Ci si accorge di averli addosso solo quando si avvertono centinaia di morsi, simili a punture di spillo. In pochi minuti siamo ricoperti di minuscole bollicine che nei giorni e nelle notti successive non ci daranno pace. Ci consoliamo con gli splendidi fondali e un’acqua color turchese che ci fa increduli dei -10° lasciati a Milano. L’atollo è piccolissimo, lo giriamo in poco tempo, difendoci con repentini tuffi dagli insistenti attacchi dei ‘puri-puri’. Il ritorno a Gran Roque avviene con una delle frequenti variazioni climatiche tipiche dei Caraibi: gonfie nubi nerastre minacciano pioggia, ma in pochi minuti sono spazzate via da un vento fresco e leggero. In Italia stanno per avere inizio cenoni e serate di gala, qui la pelle brucia per il primo sole tropicale, siamo in barca, tra l’Oceano e la barriera corallina, e di fronte a noi il cielo si colora di un tramonto arancio e viola. Quando sbarchiamo a Gran Roque, Dismelia e le sue donne stanno preparando una comida criolla, una cena speciale di capodanno a base di carne e delizie locali. Cominciamo con un herbido, una minestra preparata con manzo, patate, carote e verdure. Si continua con un piatto di hallaca, a base di maiale, manzo, pollo a pezzi, con verdure e olive, il tutto dentro una pasta di mais avvolta in foglia di banano e cotta al vapore. Tutto accompagnato dalle cachapas, frittelle di mais dolci e spesse. Beviamo vino rosso cileno. Siamo a tavola con tre giovani venezuelani e un italiano trapiantato a Caracas. Maurizio parla metà spagnolo e metà veneto, e ci racconta che si occupa di arredamento per grandi ambienti, alberghi, ristoranti, scuole. Commercia con tutto il Venezuela, e Chiara scopre che ha arredato un grande albergo di suo cugino a Merida, ai piedi della cordigliera Andina. Brindiamo alla mezzanotte in spiaggia all’insegna del ‘quanto è piccolo il mondo’. Canti, balli e feste andranno avanti fino alle cinque del mattino, in modo semplice, spontaneo e incredibilmente vitale. Ci sentiamo lontani dalla civiltà dei consumi, dal problema del ‘che fare la notte di capodanno’, dell’emergenza di esagerazione e divertimento a tutti i costi. Beviamo rum e tequila con ghiaccio, la notte è luminosa e stellata. A due passi dal ‘pueblo’, sulla spiaggia, è subito silenzio.
1 gennaio 2002 – Alle 8 di mattina l’isola è deserta, assolata, ovattata nel silenzio. Dismelia Rodriguez si sta lavando i pochi denti seduta davanti all’ingresso, beve e sputa l’acqua da una ciotola di plastica. Dismelia è una delle donne ‘forti’ di Gran Roque. E’ piccola e muscolosa, i capelli corti, corvini. Quando fa sera fuma un sigaro cubano davanti alla porta della posada che dà sul pueblo. Manda avanti El Recuerdo a piedi scalzi e con mano ferma. Ha un numero imprecisato di figli sparsi per il continente. Si racconta che una decina d’anni fa, quando sull’isola il turismo cominciò a crescere e a diventare un affare, decise di ingrandire casa e costruire un piano di sopra con qualche camera in più per ospitare i turisti. L’isola era già Parco Nazionale, e la Guardia Civil tentò di fermare i lavori. Dismelia promise paga doppia ai suoi operai per non farli smettere di lavorare e il giorno previsto attese che arrivassero i funzionari governativi con l’ordine di demolizione. Intorno al pueblo si raccolse una nutrita folla, preoccupata e interessata. Li accolse a piedi scalzi, come sempre, e con il sigaro in bocca. Gridando e a pugni chiusi spiegò loro che gli stranieri continuavano ad arrivare a Gran Roque, pagare i funzionari come loro e i loro capi, e costruivano case e posadas. E disse che nessuna legge e nessun funzionario avrebbe potuto impedire a lei, alla sua famiglia e agli abitanti dell’isola, da sempre in lotta con la fame e con la disperazione, di rendere più accoglienti e grandi le loro case per guadagnare qualche bolivares in più. Indovinate come andò a finire.
Oggi la nostra escursione prevede di approdare a Crasquì, a sud-ovest di Gran Roque, a venti minuti di navigazione. Questo viaggio, come la maggior parte degli altri, ci costa 3500 bolivares a testa, poco più di 5 euro. A Crasquì c’è la spiaggia bianca più lunga dell’intero arcipelago: forse per questo sulla lancia facciamo il primo incontro con un gruppo di fiorentini che sembrano usciti da un film di Virzì. Poco male, la spiaggia è grande, piena di insenature: non è difficile isolarci. Uno spazio sconfinato, con poche palme e con due orizzonti diversi. A est cielo blu intenso sereno, a ovest nuvole nere che porteranno la pioggia tropicale, una scarica di qualche decina di minuti e poi di nuovo il sole. Lo scenario non cambia: mangrovie e botuto adornano la spiaggia, mentre il vero spettacolo sono i pellicani. Pellicani bruni dalla criniera rossa, che trascorrono il tempo galleggiando placidi vicini a riva, interrompendosi solo per andare a pesca. Allora volteggiano a pochi metri d’altezza e poi d’imporvviso avvistano la preda e si lanciano come missili pennuti contro il pelo dell’acqua, annegandovi con tutto il corpo e lasciando fuori, a volte, solo le zampe palmate e gommose. Riemergono placidi, scrollandosi l’acqua dagli occhi e gonfiando il gozzo dentro il quale si intravedono le forme delle vittime dei loro appetiti. E ritornano placidi, a galleggiare occhieggiando i bagnanti. Sarà anche osservandoli che i nostri biscotti non ci fanno gola: andiamo in spiaggia a caccia di qualche ‘rancheros’, delle baracche di legno dove è possibile trovare ‘pescado’ freschissimo e aragoste. Sull’isola abbiamo sentito parlare di Juanita, tosta e decisa isolana oltre che cuoca sopraffina. Ma ci facciamo catturare da un rancheros molto più urfido gestito da due loschi figuri che parrebbero contrabbandieri. Li destiamo dalla siesta e a fatica li convinciamo ad arrostirci un paio di saraghi. Sono le tre del pomeriggio, mangiamo il pesce accompagnandolo a Polar sotto una tettoia di frasche e canne sulla spiaggia. Poco lontano dal rancheros dei contrabbandieri c’è la capanna di Luis, che cucina pesce e vende ‘jugos naturales’. Luis fa a pezzi il pesce con una specie di mannaia e ci racconta una storia di pescatori, di quando il mare una notte si alzò così tanto da coprire il cielo. E nessuno di loro sapeva spiegare come avevano fatto a cavarsela, perché rimesso piede in terraferma nessuno aveva fiato, e all’alba del mattino dopo parlare costava fatica, mentre costruivano un nuovo altare alla Madonna de Crasquì.
Rientriamo a Gran Roque prima di sera, e l’isola è di nuovo in festa, Giorno di vacanza per tutti, el pueblo è seminato di lattine vuote di Polar, l’intera piazza risuona di musica e canti festosi, la gente balla scalza per le strade, mentre nelle case le tv trasmettono le finali del campionato di baseball. Carlos e Diego mi invitano a bere wiskhy e ghiaccio, mentre va avanti la loro interminabile partita a domino con Antonio. L’Aquy y haora vende Polar a metà prezzo, dentro le quattro mura di cemento grezzo si alternano agli strumenti talentuosi musicisti neri che danno il ritmo a tutta la piazza. Bonghi, chitarre, strani strumenti a fiato e ritmo caraibico contagioso e incessante. I bambini continuano a esplodere i loro fuochi d’artificio in mezzo alla folla, nessuno si preoccupa, la musica impazza, la gente pensa solo a danzare mentre il sole si tuffa colorando la sera. 2 gennaio 2002 – Mattina di pioggia che va e viene, un classico del Caribe, ci spiega Antonio. Antonio Fernandez, spagnolo delle Asturie, viaggiatore, navigatore e pescatore. E’ sbarcato trent’anni fa a Gran Roque, ha incontrato Dismelia e le ha promesso che sarebbe tornato. Promesse da marinaio, gli rispose lei, sprezzante. E Antonio, tenace e cocciuto, non è più ripartito, è rimasto qui con lei. Adesso si gode una settimana di vacanza, poi tornerà per mare a caccia di pescado. Il mare e la pesca sono la sua vita, al Recuerdo si occupa dell’amministrazione. Passa le giornate seduto al tavolino davanti casa, non beve e non fuma, al tramonto divora un pesce arrostito che gli prepara Dismelia e ci beve su un paio di bicchieri di coca. L’ultimo boccone è sempre per la testa, ingoiata intera: ‘el mejor del pescado!’ urla con soddisfazione. E’ un giorno dal tempo variabile, quello giusto per visitare l’isola più vicina a Gran Roque, Madrizquì, in direzione sud. E’ più frequentata delle altre, ed è l’occasione per godere dello spettacolo offerto da venezuelani veraci, grandi pance gonfie di alcool, borse frigo colme di bottiglie di wiskhy e ghiaccio a pezzi, cocktail tonificante che sorbiscono, uomini e donne, giovani, vecchi e bambini, sulle sedioline colorate in riva al mare. Quest’isola in effetti è la preferita dai ricchi ‘caraquenos’, che da qualche decina d’anni l’hanno eletta meta delle loro gite fuori porta (a circa un km da Gran Roque) e residenza estiva. Prima che l’intero arcipelago fosse dichiarato Parco Nazionale, qui sono sorte alcune ville di facoltosi abitanti della capitale. Niente di sfarzoso o di paragonabile a Isla Margarita, ma insediamenti abitativi per qualche centinaio di persone. In ogni caso l’isola è sprovvista di rancheros, e i gestori delle posadas più ricche organizzano per i loro ospiti gite comprensive di vitto e bevande. Spaccati dal sole ci siamo riparati sotto un tendone occupato da un gruppo di facoltosi turisti venezuelani, e i marinai delle loro lance ci hanno offerto paella e Polar. La spiaggia di Madrizquì è lunga e ventosa: l’abbiamo percorsa tutta fino a guadare una lingua di sabbia che separa l’isola dalla barriera corallina. Ci siamo trovati su un’altra isoletta grande come un atollo dei fumetti. Intorno poche baracche dove pare ogni tanto si possano comprare aragoste appena pescate, un piccolo recinto con qualche gallina e una spiaggia stretta costeggiata da botuto e frammenti di coralli. Non c’era nessuno, a parte noi e qualche discreto pellicano. Abbiamo fatto il bagno in silenzio, mentre intorno il giorno finiva.
Poi, ci siamo resi conto che si era fatto tardi. La barca che doveva riportarci a Gran Roque era già ripartita, e ci siamo procurati un passaggio in cambio di un po’ d’aiuto a ripulire sedioline e tende da sole, e a caricare la lancia. Al Recuerdo abbiamo trovato una sorpresa: la nostra camera è stata ceduta a quattro nuovi arrivati che avevano prenotato, ma per noi è tutto tranquillo. Dismelia e suo marito Antonio ci offrono, gratis, la loro camera. Sono abituati, dicono, e dormiranno in terrazza su due amache. Anche questa è America latina. Giovedi 3 gennaio – Al Recuerdo è arrivata Chulita, una signora di mezz’età che arriva da Merida. Viene qui ogni anno in questo periodo, ed è ormai un’amica di famiglia. Chulita insegna latino in una scuola per bambini di famiglie ricche, e ha in faccia i segni della vecchiaia che avanza e di una stanchezza nascosta. Suo padre era cubano, un dirigente del regime di Batista, catturato e giustiziato dai rivoluzionari. Lei e la madre ripararono a Miami e da lì si trasferirono a Merida, ospiti di alcuni parenti. Storie raccontate all’ombra dell’albero di Natale colorato davanti alla porta della posada. A Gran Roque è giorno di temporale, ma come al solito dura poco. Il mare è molto mosso, e il rifornimento di benzina e gasolio tarderà, così scegliamo un’escursione non troppo lontana, a Noronquì. In direzione sud-ovest, è l’isola delle salamandre. Piccoli rettili simili a lucertole, nere e con una pelle che muta con incredibile frequenza. Non sono aggressive ma non temono l’uomo, e non è difficile assistere a scene d’isterismo di qualche bagnante abbandonato al solleone che schizza in piedi d’improvviso per un incontro troppo ravvicinato. Noronquì è molto piccola, praticamente un’insenatura con una sottile striscia di sabbia bianca che costeggia la pianura verde di mangrovie. La spiaggia è quasi deserta, animata da una coppia di giovanissimi campeggiatori venezuelani attrezzati di tutto punto. Non gli manca davvero niente, dalla poltroncina gonfiabile alle racchette per il tennis acquatico, fino al lettore cd che trasmette – per pochi minuti – Laura Pausini! Cristobal ed Eufemia hanno diciassette anni e sono novelli sposi in viaggio di nozze. Vengono da Caracas e hanno piantato la tenda su questo atollo da più di una settimana. Intorno non c’è davvero niente, a parte le mangrovie, con gli eserciti di ‘puri-puri’ e le salamandre impertinenti. Proviamo a scommettere quando durerà questo matrimonio: le puntate sono annullate per eccesso di sfiducia nel sacramento. A metà pomeriggio sbarca un tender di lusso con due camerieri in livrea marinara: senza sollevare un granello di sabbia preparano la corte per una ricca combriccola a bordo di un panfilo giallo e nero che ha ormeggiato in rada. I venezuelani ricchi, in genere ‘caraquenos’, sono uno spettacolo allegro e prevedibile. Mai privi di Rolex e di occhiali da sole vistosissimi, si muovono in genere in branchi familiari. Sbarca per primo il figlio più piccolo, sedici anni o giù di lì: magro e annoiato, gironzola intorno al panfilo con il suo tenderino padronale. A breve approdano il figlio maggiore e la fidanzata, appariscenti più che belli, esattamente come appaiono nelle telenovelas di successo, remando coordinati a bordo di una fiammante canoa a due posti. Dell’intera famiglia, sono quelli che vantano i denti più bianchi e luccicanti.
Madre e figlia seguono in scia, depositate dai mozzi di bordo che si curano dello sbarco e delle borse frigo. Il capostipite, il fondatore della dinastia, quello che ha fatto i soldi, in pratica l’unico che abbia mai lavorato dell’intera compagine di assolazzati, vanta un fisico e una resistenza invidiabili, nonostante la pancia prominente gonfia di wiskhy e pesce fritto. Lui la traversata, i cinquanta metri d’acqua che separano il transatlantico dalla spiaggia, se li fa a nuoto da sempre. Emerge a pochi passi dalla riva, tira indietro i pochi capelli rimasti sulla testa tonda e abbronzata e viene fuori fino alle ginocchia, offrendo al sole il costume rosso a pantaloncino con cintura bianca firmata D&G. Italian fashion in the world. Venerdi 4 gennaio 2002 – ‘El desayuno està servido!’ ci urla Rosa da dietro la porta. Anche stamattina una sveglia lieve. Rosa è un’amica di Dismelia, non ha più un marito e non ha mai avuto figli. Vive quasi tutto l’anno a Gran Roque e ogni tanto parte per andare a casa. Ma al Recuerdo tutti sanno che non c’è nessuno che l’aspetta. Nessuno sa dove vada quando parte, ma non sta fuori mai più di una settimana. Torna perché a casa non riesce a stare più di tanto, e nessuno le fa domande. Talvolta la notte prega su in terrazza, e aspettando che il vento umido asciughi i panni canta a bassa voce una specie di ninna nanna. El desayuno anche stamattina prevede perico, uova strapazzate con pomodoro e cipolla. Lo stomaco vorrebbe ribellarsi. Per fortuna ci sono sempre le arepas, focaccine tonde di farina di mais che al mattino ci servono calde e croccanti, da farcire con marmellata ai frutti tropicali. Stamattina ci sono anche i platanos, le piccole banane fritte con la margarina. Vorrei annegare nel succo freddo di guayaba, un frutto tropicale simile al kiwi ma di colore rosa e ancora più dolce. Il ‘sagace’ Oscar, che gestisce e organizza le escursioni in barca, anche stamattina è depresso: i rifornimenti di benzina non arrivano ancora, e ci tocca rimandare all’ultimo giorno l’escursione più lunga (Cayo de Agua, Dos Mosquises ed Espenquì). Incontriamo Luca e Paola, i viaggiatori italiani che alloggiano nella posada di una cuoca internazionale, e decidiamo di tornare a Crasquì per fare un po’ di snorkelling. Noi non siamo esperti, e Luca ci fa scoprire a pochi metri dalla costa un mondo mai visto: barracuda, coralli, pesci sega e gli allucinati pesci pappagallo. Maschera e boccaglio, senza pinne, ci immergiamo in uno scenario spettacolare e misterioso, colorato e sconosciuto, popolato da abitanti discreti e a volte sospettosi, come un barracuda che nuota a pelo d’acqua e prova a farci la faccia cattiva. Luca è abituato e risponde con la faccia di Bugs Bunny, io no, e ad ampie bracciate riparo verso lidi più tranquillamente frequentati. A Gran Roque è la notte dell’aragosta, e noi ci accomodiamo da Angelo, un pittore di Bagheria che dalla provincia di Palermo è venuto qui nel 1990, quando non c’era quasi la luce elettrica e l’acqua dolce era un lusso. Angelo Belvedere ha trentasei anni e ha inventato, costruito e arredato la posada ‘Aquerela’, undici stanze a tema e un piccolo ristorante in cui fa anche il cuoco. Nel tempo che gli resta espone le sue opere a New York, dipinge e di rado riesce a tornare in Sicilia. Ha mollato gli studi alla vigilia della laurea in architettura, ma vedendo quello che è riuscito a metter su con la sua immaginazione, si comprende l’inutilità del ‘pezzo di carta’. Almeno in questo paradiso, dove dice di non sentire nostalgia dell’Italia, né si sente isolato. Tre o quattro volte all’anno vola a New York per comprare tele, pennelli e colori, per portare qualche nuovo dipinto in galleria e respirare l’aria della grande metropoli. ‘Ma resisto poco – dice – io non sopporto le grandi città, e questa è la dimensione ideale per esprimere la mia creatività e vivere in un’ambiente pulito e tranquillo’. Ha sposato una bellissima donna del luogo, che sfoggia un pancione carico di promesse. Sabato 5 gennaio 2002 – E’ l’ultimo giorno a Los Roques, domani partiamo per l’Italia. Ci alziamo presto perché ieri sera è arrivata la benzina, e oggi potremo fare l’escursione più lunga e avventurosa. A colazione ci saluta Haidi, una delle figlie di Dismelia che lascia l’isola per andare a lavorare a Caracas. Ci dice addio con gli occhi tristi che abbiamo conosciuto in questi giorni. Gli stessi che la notte di capodanno, dopo il brindisi, hanno pianto nascosti dalla gente in festa. Era sposata, Haidi. Poco più di trent’anni, uno sguardo dolce e triste, e lunghi capelli morbidi che le cadono sulle spalle. Ha una bambina piccola, Johanna, che ha una brutta tosse di cui non si preoccupa troppo. Il marito se n’è andato con un’altra, semplicemente. E lei è tornata a casa, con Johanna e il suo fallimento. Una delle tante storie, una delle tante donne abbandonate e tornate in famiglia. La barca è piena di una ventina di persone, il pilota Gonzalo, grasso e truce, barba incolta e occhiali da sole Bollè tenuti al collo con una cordicella. Un viaggio lungo, quasi un’ora in un’atmosfera irreale: siamo a favore di vento e non ci soffia in faccia neppure un alito. Facciamo amicizia con l’assistente di bordo, Miguel, che parla benissimo l’italiano e ha storie con la Sicilia. Ci racconta che portando i turisti in giro per le isole guadagna duecento dollari al giorno, ma ai tempi della Trinacria, lavorando ‘tra Castellammare del Golfo e New York’ ne guadagnava duemila. Una giovane venezuelana si incuriosisce su quel tipo di lavoro così redditizio, Miguel le spiega che non si tratta di contrabbando di conchiglie. Il sole è caldo, il cielo pulito, senza fine. Ci abbaglia una lingua biforca di sabbia bianca, in mezzo all’oceano. Cayo de Agua è piatta, a semicerchio, con una collinetta al centro che avvia verso una foresta di basse mangrovie, dominata da una piccola oasi di palme che si erge al centro dell’atollo. A sud-ovest da Gran Roque, la corrente fortissima da nord alza un vento soffice e increspa le onde, cinquanta passi più giù l’isola è esposta alla bonaccia del sud, e sotto la collinetta l’aria e il tempo sembrano essersi fermati. E’ il sole più accecante che abbiamo incontrato, ci tuffiamo con maschere e pinne a caccia di pesci tropicali da spiare sott’acqua. Incontriamo un messicano, piccolo e dai baffi sottili, insiste per scattarci una foto in riva al mare. Dividiamo i nostri panini con lui, che nel cestino ha solo delle gigantesche carote. Un paio d’ore dopo siamo di nuovo a bordo, diretti più a sud, alla stazione biologica di Dos Mosquises. Il viaggio, non lungo, tra Cayo de Agua e Dos Mosquises avviene controvento e la bagnarola di Gonzalo imbarca acqua da tutte le parti. Il sole bruciante e il vento della navigazione ci hanno spinto a indossare maglie e calzoni, e adesso siamo zuppi e infreddoliti. Sbarchiamo e stendiamo i panni ad asciugare su una palma. Dos Mosquises è un’isolotto minuscolo, quasi uno scoglio, dove si curano e allevano le tartarughe marine. Il laboratorio è in realtà un grande capannone di legno e paglia, con una ventina di vecchie vasche da bagno utilizzate come acquario per gruppi di piccole tartarughe, divise per specie e dimensioni. Osservarle è un incanto, ma su quelle vasche proliferano i ‘puri-puri’, e ce la battiamo in fretta. Risaliamo in barca, e ci vogliono quaranta minuti di spruzzi e nausea per arrivare ad Espenquì, spostata verso est rispetto a Dos Mosquises e sulla rotta per Gran Roque. Il cielo sì è lentamente coperto di nubi, tira un vento fresco e abbiamo tutti i vestiti bagnati. Non rinunciamo a un bagno con i placidi pellicani e con strafottenti ibis dalle zampe gialle che si fiondano sulle prede a pochi centimetri da noi. Un venezuelano che ha tentato tutto il giorno di parlare italiano e fare il simpatico, corre ululando sulla striscia di sabbia, si toglie il costume e si tuffa di pancia. E’ quasi il tramonto e vorremmo accendere un fuoco aspettando la bonaccia, ma un paio di francesi ci implorano di ripartire mentre si alternano a vomitare un pranzo troppo pesante. Abbiamo il tempo di vedere sbarcare sull’isola un tender minuscolo, tenuto quasi completamente sommerso dal peso di due mature coppie di allegri ubriachi, uomini e donne che ridono e schiamazzano con un paio di bottiglie ed enormi bicchieri di wiskhy. All’orizzonte non si vede nulla che assomigli a uno scafo più grande, non si capisce da dove vengano questi simpatici beoni, né soprattutto dove e come proveranno a ripartire. Si sta facendo buio, Gonzalo sorride e dice che se la caveranno: nella peggiore delle ipotesi, se la saranno goduta. Il viaggio di ritorno a Gran Roque è epico, nel senso che imbarchiamo più acqua di quanto ognuno di noi riesca ad assorbire su vestiti e zaini. Una coppia di giovani venezuelani, lei bellissima con un costume che sfida le leggi geometriche della copertura di superfici irregolari, continua a limonare come se i francesi vomitassero Chanel invece che la paella andata a male. Noi quattro più che altro ridiamo e tremiamo dal freddo, tranne Paola che difende il suo timpano malaticcio avvolta in un asciugamano e rannicchiata su Luca. Arriviamo a Gran Roque che è già sera, offro l’ultimo spettacolo della giornata precipitando da prua in caduta libera in fase di attracco. Vendo cara la pelle e salvo la macchina fotografica da un bagno che le sarebbe stato fatale. Per me, solo qualche starnuto in più. Rimane quello, comunque, l’ultimo bagno nell’arcipelago di Los Roques. Consumiamo l’ultima cena al Recuerdo prendendo un appuntamento a Merida per prima o poi con la giovane Annamaria, una delle tante amiche di Dismelia che un paio di volte l’anno passa qualche settimana a Gran Roque in vacanza-lavoro. E’ una maestra elementare e sta per diventare direttrice della Casa della cultura di Merida. Sempre in gran tiro, con diversi fidanzati sparsi per il mondo, compresa l’Italia, ci confessa di aver flirtato con Bruno, un massiccio barbuto, gentile e di buone maniere, la notte di capodanno, e adesso lui vorrebbe sposarla, mentre lei non ne vuoe sapere. Dismelia fuma il sigaro davanti alla sua televenola, Antonio osserva la piazza in silenzio e mi offre l’ultima Polar ‘vestida de novia’. Domenica 6 gennaio 2002 – E’ il giorno dell’addio, difficile e irrimediabile. La gente in fila da Oscar per trattare un’escursione ci sembra irreale. Saliamo a bordo di un bimotore a dieci posti, dove il primo passeggero siede accanto al pilota. Un paio di cani sulla pista sembrano voler ritardare a tutti i costi la partenza, ma alla fine ci alziamo in volo, sorvolando l’arcipelago e la barriera corallina, Quaranta minuti di volo con un vuoto d’aria che ci toglie il respiro e a qualcuno mette voglia di pregare. Alla fine siamo a Maiquetìa, pronti a riprendere il volo per l’Europa. Dopo ore di attesa ci imbarchiamo e l’ultima sorpresa è lo sbarco forzoso di tre passeggeri ‘su ordine della polizia di Caracas’. Panico e preoccupazione, siamo tornati nella civiltà.