Mal d’africa?

Dopo vari pensamenti e ripensamenti, accetto l’invito di Elisa e mi aggrego a lei , Claudia e Lella nella loro ennesima discesa in Africa. Mi sento una macedonia di sentimenti: sono un po’ eccitata, un po’ spaventata, un po’ ansiosa di partire, un po’ diffidente…In Africa non ci sono mai stata e forse per questo ho un po’ paura… Mi...
Scritto da: Roberta Scapinello
mal d'africa?
Viaggiatori: in coppia
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Dopo vari pensamenti e ripensamenti, accetto l’invito di Elisa e mi aggrego a lei , Claudia e Lella nella loro ennesima discesa in Africa. Mi sento una macedonia di sentimenti: sono un po’ eccitata, un po’ spaventata, un po’ ansiosa di partire, un po’ diffidente…In Africa non ci sono mai stata e forse per questo ho un po’ paura… Mi preparo un mesetto prima, faccio tutte le vaccinazioni di rito e, per puro scrupolo, visto che alla mia pellaccia ci tengo, inizio la profilassi antimalarica che si riduce ad un impegno settimanale di ingurgito di una pillola… Per eccesso prudenziale partiamo con ampio anticipo, circa alle 12.30 e alle 16 siamo già Milano. Il nostro volo non partira’ prima delle 21.30. Ci inventiamo qualcosa per ingannare l’attesa. Il volo non presenta particolari problemi, circa 12 ore di tranquillità. L’unico neo, è che durante tutto il tragitto non chiudo occhio un momento… Alle 8 si fa scalo a Zanzibar. Già qui il caldo si fa sentire. Dopo circa 2 ore approdiamo a Mombasa. Il primo impatto quando scendo dall’aereo, ce l’ho con il caldo torrido e l’odore che l’aria trasporta. L’aria in Africa ha un aroma particolare, difficile da spiegare. Un mix di odori acri e odori speziati. Preleviamo le valigie e ci dirigiamo verso l’uscita. Dobbiamo raggiungere Diani, che si trova a circa 50 km da Mombasa.

All’uscita dell’aeroporto una folla nera e sudaticcia si scaraventa contro di noi: sono i taxisti che cercano di promuovere il proprio mezzo. Dopo qualche minuto di contrattazione, Elisa ci indica il taxi che ci porterà fino a Diani. Mentre ci incamminiamo sbucano da tutte le parti persone che vogliono portarci le valigie. Ci sistemiamo, anche se il baule della macchina non si chiude per via dei bagagli troppo ingombranti. Il taxi è una vecchia mercedes, ridotta piuttosto male, ma, se paragonata agli altri catorci del parcheggio, tutto sommato è quasi un macchinone di lusso… Passiamo il mercato di Mombasa. E’ irreale. Si respira povertà e miseria. La gente è seduta nel ciglio della strada, alcuni uomini sono distesi sotto a degli alberi. Pero’ è un arcobaleno di colori. Le donne sono fasciate in mille parei multicolori e sulla testa trasportano qualsiasi genere di cosa: dai cesti con la frutta, alle taniche di acqua, dai fasci di legna, ai sacchi di farina. E’ incredibile come riescano a mantenere inalterato il baricentro mentre camminano. Non usano quasi mai le mani per mantenere in equilibrio il carico che hanno sulla testa. Sicuramente sono state abituate fin da piccole, per me questa sarebbe un’azione improponibile! La strada è molto dissestata. Tratti semiasfaltati si alternano a strade di terra battuta. Dobbiamo traghettare per raggiungere la costa opposta. Uno scenario allucinante. Decine, centinaia, migliaia di persone sono in attesa a piedi . Appena vedono il taxi, chiunque ci batte sul vetro per cercare di venderci qualcosa o chiedendo la carità. Per lo piu’ le persone sono vestite di stracci. Sinceramente sono un po’ allucinata, sono incredula a questo spettacolo. Raggiungiamo la sponda opposta, ma la macchina non si mette piu’ in moto. Il taxista ci spiega che è rimasto senza benzina. La solita sfiga. Allora accorrono in molti e ci spingono fino al distributore che fortunatamente non è molto distante. Piu’ ci avviciniamo a Diani, piu’ il paesaggio diventa bello e rigoglioso. E’ un’esplosione di natura. Palme altissime e piante verdi contrastano il rosso della strada. Elisa indica la strada all’autista. Svoltiamo in una stradina piccola e sassosa che si addentra nella savana. Dopo circa un Kilometro raggiungiamo la nostra dimora. E’ una casa meravigliosa. E’ costruita in puro stile africano. Un enorme gazebo fatto di paglia e sorretto da pali di legno intarsiato è la “sala” principale dell’abitazione. Poi ci sono lettoni ovunque (jumbo bed). E la piscina. La parte in muratura è riservata esclusivamente alle camere e ai bagni. Nei letti, avvolti dalle zanzariere, ci sono mazzolini di fiori variopinti. Il caldo è veramente soffocante e l’unica cosa che riusciamo a fare è transitare da un jumbo bed ad un altro… Dopo qualche giorno di vita dedicata all’ozio, io ed Elisa, le sportive del gruppo, decidiamo che è giunto il momento di mettere scarpe da ginnastica e dedicarci allo jogging. S. Ha un fisico “da far paura”. Fa palestra e ha degli addominali fatti a forma di scalino…Quale miglior soggetto da eleggere a nostro “personal trainer”? Gli chiediamo se la mattina seguente è disposto a portarci a fare jogging. E’ entusiasta ed incredulo. Dice che j: è un gran corridore, e, se siamo d’accordo, possiamo chiedere anche a lui. Così facciamo. La mattina seguente, all’alba (alle 7.00) eccoci pronte con calzoncini a scarpe da ginnastica. I nostri personalissimi trainer probabilmente ci stavano aspettando da ore. Sono palesemente orgogliosi di accompagnarci nel nostro sforzo ginnico. Si attraversa un minuscolo agglomerato di capanne. Donne, bambini e uomini sono tutti seduti in cerchio. Al centro c’è un pentolone puzzolente. Mi spiegano che stanno bollendo la “ciccia” che è un’erba che mangia la popolazione locale. Questa erba lessa viene poi accompagnata dall’”ugali” una specie di polenta bianca. Qui mangiano sempre e quasi solo questo. Ecco perché sono tutti magri… Raggiungiamo la spiaggia. Saliamo faticosamente le dune bianchissime. Costeggiamo il mare, c’è una marea bassissima e la spiaggia è veramente profonda. Lo spettacolo è bellissimo, quasi non sento piu’ la fatica. In fondo ci sono dei pescatori che prendono granchi. Ci avvinciamo. Sono enormi, grandissimi. I pescatori, con grande esperienza, li prendono, evitando che questi gli trancino le dita con le enormi tenaglie. Proseguiamo calpestando una distesa fitta di alghe dalla quale spuntano di tanto in tanto grandi stelle marine. Bisogna fare attenzione a non scivolare e a non mettere i piedi dove la sabbia è mobile perché troppo intrisa di acqua. Ovviamente l’unica che compie il “passo falso” sono io. In tre secondi mi trovo sprofondata fino a quasi le ginocchia. I miei personal trainer mi tirano su. Sono piena di melma e alghe. Le scarpe sono inzuppate. Decidiamo di sospendere la corsa e ritornare a piedi. Così nel ritorno, ci spiegano della loro terra, della loro vita, dei loro sogni…Un sogno comune a tutti gli africani incontrati in questo viaggio, è quello di raggiungere l’Italia. E’ vista come la terra promessa, il paese ideale, il sogno collettivo. Cinicamente sconsiglio a tutti di proseguire nella ricerca di raggiungimento di tale sogno. Forse mi rendo antipatica, ma perlomeno sono realista.

Per combattere l’ozio, io, Elisa e questa volta anche Claudia, inventiamo un’idea bellissima. Proponiamo quest’idea ai ragazzi nativi, che, ancora una volta, sprizzano entusiasmo e felicità da tutti i pori. Uno scambio culturale, un baratto. Dalle 14 alle 15, la loro ora di pausa, ci improvvisiamo maestre di italiano. Noi insegniamo italiano ai ragazzi, se loro ci insegnano lo Swaili, la lingua ufficiale Kenyota dopo l’inglese. E’ un successo. Gli allievi sono davvero volonterosi ed apprendono molto meglio di quanto noi apprendiamo lo Swaili. Mi rendo conto di come questi ragazzi siano affamati di contatti con i mondi esterni, di come lottino con qualsiasi mezzo per migliorare la loro sfortunata condizione.

I progressi che fanno sono strabilianti. Diciamo pure che studiano molto piu’ di noi. Fanno i compiti per casa e la sera è evidente che studiano e ripassano tutto quello appreso nella lezione del giorno. Dopo circa una settimana sono già in grado di formare frasi semplici grammaticalmente corrette. Per quanto riguarda noi invece, dopo una settimana siamo in grado di contare fino a cento, di dire a memoria i nomi dei giorni della settimana, e di approciare qualche frase di convenevoli.

Dopo una settimana di soggiorno in Kenya, il mio morale si sta calmando. Il primo contatto con questa realta’ africana, se devo essere sincera, mi ha un po’ stravolto. Mi sono fatta prendere da sensi di colpa sulla mia condizione di europea in vacanza in un paese dove avere un pasto al giorno è una conquista. Dopo una settimana, percio’ guido la macchina e la sera mi inoltro fino ad Ukunda, un villaggio poco distante ad accompagnare il cuoco, a casa. Pero’ per la notte non mi fido ad uscire. A Diani ci sono molte discoteche, le vedo ogni mattina quando andiamo al mercato della frutta. Nonostante le pressioni di Elisa, pero’, non ho ancora trovato il coraggio di affrontare il Kenya di notte. Ho paura. Appena usciamo le persone ci si appiccicano addosso e ci tormentano. Arriva il giorno del compleanno di Elisa. Elisa mi chiede se, almeno per questa ricorrenza, possiamo uscire a festeggiare. Un po’ a malavoglia accetto. Elisa è gia’ stata un paio di volte a Diani, conosce abbastanza bene la zona. Mi faccio convincere. Mancano alcuni giorni a Natale, la massa di turisti non è ancora arrivata e allora ci troviamo io ed Elisa a girovagare da un locale ad un altro, sempre semideserti.. Sconsolate decidiamo la ritirata. Mentre stiamo per imboccare la stradina del ritorno pero’ Elisa propone l’ultimo tentativo: Disco Tropicana, solo Reggae Music. Accetto, per Bob Marley ho sempre avuto un debole. Entriamo. Anche questo locale è praticamente semivuoto, ma la musica mi prende. Ci sediamo al bar, e da questa postazione osserviamo un gruppetto di ragazzi rasta impegnati nei loro balli.

Elisa inizia a parlare con un tipo grossissimo, altissimo, pelatissimo e nerissimo. Dalla mia postazione non riesco a capire di cosa parlano. Sinceramente mi sto un po’ annoiando. Vorrei andare a ballare, ma mi sentirei decisamente a disagio…Elisa mi chiede cosa vorrei fare per allietarmi la serata. L’unica cosa che potrebbe migliorare la serata sarebbe conoscere un bel ragazzo rasta, non appiccicoso, simpatico e non puzzolente. Come lo dico mi sento battere dietro alla spalla. Mi giro. Ho la consapevolezza che Dio esiste e che mi ha ascoltato. Così conosco rasta R., un rasta dal fare gentile e pacato. Parliamo per tutta la sera. Mi racconta un sacco di storie sui rasta e sui loro credo. I suoi racconti sono affascinanti. Mi sembra di conoscerlo da una vita. Si fa tardi ed è ora di tornare a casa. Ci accomiatiamo dai ragazzi, dando loro appuntamento per il giorno dopo in spiaggia, e felici ce ne andiamo a letto.

Non puo’ mancare un safari. Una mattina, alle 4, partiamo verso lo Tzavo che dista circa 150 km e si trova all’interno del Kenya. Dai vetri del pulmino assaporo i colori di un’alba africana. Passiamo tanti paesi con un unico denominatore: la povertà. Nonostante la condizione disagevole, la gente ha una gran dignità. Il tragitto è molto movimentato. Continui scossoni e salti per via dell’asfalto oramai usurato. Entriamo dalla parte est. Il parco è immenso. Subito avvistiamo un enorme pachiderma. Ci avviciniamo. E’ impressionante. Le zanne sono lunghissime ed è molto alto. Mi spiegano che è un esemplare molto vecchio. Piu’ avanti incontriamo un gruppo di elefantesse con i loro piccoli. Hanno gli occhi dolcissimi. Le zebre e le gazzelle sono presenti in quantità industriale ed in quasi ogni anfratto è possibile intravederne. In fondo, all’orizzonte anche degli struzzi. Mi sento molto coinvolta. Avrei la pulsione di scendere dal pulmino ed andare ad accarezzare ogni animale. Dopo qualche ora, raggiungiamo un grande lago, nel quale è possibile intravedere le teste degli ippopotami che a filo dell’acqua sembra ci vogliano spiare. Incontriamo animali e rettili di tutti i tipi, come quelli che vedo nei documentari e mi sento un po’ Licia Colò e un po’ Piero Angela. Ma il top dei top è riuscire a vedere i leoni…Per tutto il giorno zigzaghiamo tra le strade polverose, rincorrendo tam tam di avvistamenti di branchi di leoni. La nostra “caccia”però, non sembra avere gran successo…Quando stiamo per mollare, ecco che all’orizzonte, sotto ad un albero delle sagome…Sono loro! Ci avviciniamo. La tensione in me è così alta che mi tremano le gambe… Ci fermiamo a circa 2 metri dal branco. E’ un gruppo di leonesse con i loro piccoli. Non ci badano proprio per niente. Sotto tutti accovacciati sotto ad un fazzoletto di ombra e hanno visibilmente molto caldo. Lo spettacolo è bellissimo. E’ difficile pensare che queste leonesse così dolci ed amorevoli con i loro cuccioli, possano diventare belve feroci. I cuccioli sembrano tanti gattini e giocano con la coda delle mamme. Ora possiamo finalmente tornarcene a casa soddisfatte. La giornata è stata lunghissima e molto stressante, siamo tutte ricoperte di un velo di sabbia rossa, ed io mi sento felice.

Nei giorni seguenti, grazie all’amicizia con rasta R., abbiamo la possibilità di addentrarci nei mercati e nei piccoli villaggi, escursioni normalmente sconsigliate ai turisti. Il mercato è una esplosione di colori e di odori. La gente è molto cordiale, mi sorridono e A. Mi presenta un po’ a tutti. Al mio seguito, sempre, un groviglio di bambini alla ricerca di una penna, di una caramella, di un soldino…Mi sto proprio ben adattando a questa vita, che, inizialmente, mi aveva un po’ spaventato. Per entrare nel ruolo fino in fondo, decido di andare da una parrucchiera nel villaggio di Ukunda a farmi fare le treccine rasta. La prima operazione è quella di andare ad acquistare i capelli per le estensioni. Mi spiegano che bisogna comprarli in farmacia (?). La farmacia è poco piu’ di una baracca, e vende un pochino di tutto, dalle erbe medicinali, alle saponette, dai generi alimentari, alle tinture naturali per i capelli. Una parete intera è dedicata ai capelli per le estensioni. Ce ne sono di tantissimi tipi: ricci, lisci, con le trecce già fatte, di tutti i colori. Ne prendo sei pacchi, mi dicono che sono sufficienti per fare tutta la testa. Tutte e tre decidiamo di sottoporci a questa tortura. Per ben tre giorni A., fedele amico, ci assiste una per una in questo rito che sa di pazienza e di precisione. Non è la prima volta che le faccio, ma sono ansiosa di vedere il risultato. Entro nel negozio, che poi non è altro che una baracca fatta di lamiere. Mi siedo in una sedia di plastica e mi sento scrutata dalle ragazze del posto. Mi sento un po’ a disagio, e nervosamente inizio una conversazione senza ne’ capo ne’ coda. Le ragazze mi osservano attentamente e scrutano ogni mio dettaglio. Dalla borsa estraggo dei campioncini di profumo. Chiedo loro se gli piace. Annuiscono. Dico che se hanno piacere possono tenerlo. Abbiamo rotto il ghiaccio. Durante le 6 ore di seduta, vengo a sapere che hanno tutte la mia età, che una è sposata con un atleta che ha gareggiato anche in Italia, che nessuna ha figli, che ho dei bei capelli morbidi, che sono strani i miei tatuaggi, che fin da piccole hanno imparato l’arte di fare le treccine, che sono orgogliose di essere kenyote e via dicendo. Fedele, arriva anche A., che si fa lavare i dread in un rudimentale lavandino di plastica. Si spalma ogni dread con olio di cocco, che, mi spiega, serve per tenerli morbidi e profumati. Si taglia le unghie con una lametta da barba (come abbia fatto a non tranciarsi un dito- è un mistero!), va a comprarmi un pezzo di dolce, mi porta una spremuta di papaja e mango e mi fa i massaggi sui piedi oramai atrofizzati da questa seduta forzata. Nel “negozio” entrano ed escono persone continuamente. Vogliono vedermi. Qualcuno ha detto che c’è una bianca al villaggio. Mi sorridono tutti e sono orgogliosi che sia scesa fin qui, snobbando le parrucchiere del centro turistico. Ormai le trecce sono quasi finite, basta fermarle. Viene accesa una candela ed ad ogni treccia, una per una, viene dato fuoco alle punte per farle colare insieme, in modo che rimangano chiuse. Durante tutta questa operazione sono terrorizzata dal fatto di rimanere scottata. Nel negozio sale una puzza di gallina bruciata. Mi alzo, ho la schiena ed il sedere a pezzi. Mi guardo allo specchio. Sono proprio belle. A. Mi riaccompagna a casa nel suo catorcio cantando a squarciagola le canzoni di Bob Marley.

Una sera, mentre percorro il viottolo che dalla spiaggia mi riporta a casa, mentre le scimmiette dalle palme mi tirano sassolini, incrocio un gruppo di masai. Fieri, maestosi e bellissimi, avvolti nei loro tipici collari fatti di perline, mi guardano e mi sorridono. Probabilmente ho un’espressione un po’ idiota, ma è la prima volta che ho un contatto così ravvicinato con questa popolazione incontrata solo nei sussidiari di scuola. Un’altra sera, sempre rincasando in questo sentiero, mi trovo la strada sbarrata da tre cammelli. Non so come fare per passare. Prima provo con uno “scio’ scio”, poi con un bastoncino, ma i risultati sono deludenti. Ho paura a passare da dietro, hanno delle gambe lunghe quasi quanto me e se mi scalciassero farei proprio una brutta fine. Il sole inizia a tramontare, e in questo angolo di mondo, il buio arriva subito. Comincio a preoccuparmi. Urlo e chiedo aiuto finchè dal fondo del sentiero arriva un uomo. Mi chiede perché sto’ strillando. Spiego che ho paura dei cammelli e che non so come oltrepassarli. Lui inizia a ridere. Si avvicina, accarezza loro il muso e semplicemente fa loro il gesto di scansarsi, e loro ubbidiscono. Mi sento una stupida, una gran stupida! L’uomo mi spiega che i cammelli sono animali docili e che la paura è del tutto ingiustificata. Mi insegna come accarezzarli. Mi spiega che sono di un arabo che abita poco distante e che è il padrone di un albergo della zona.

Un giorno A. Mi porta in un posto bellissimo. Ci addentriamo un pochino nella foresta e alla nostra sinistra una scena bellissima. E’ pieno di babbuini. I maschi, grandi, con il pelo irto e il sedere rosso hanno l’aria un po’ minacciosa. Le femmine sono tranquille e quasi tutte hanno un piccolo appeso nel petto o nella schiena. A. Mi spiega che in quel posto, verso sera, arrivano sempre, perché gli abitanti della zona lasciano loro del cibo. Prendo da terra una carta colorata di quello che doveva essere l’involucro di un gelato. La agito un pochino e i piccoli subito si avvicinano attirati dai colori. Bisogna fare pero’ attenzione ai grandi, e allora lascio perdere e ce ne torniamo per la nostra strada. Qualche giorno dopo, la stessa comitiva di babbuini ci attraversa la strada mentre io ed Elisa stiamo andando a fare la spesa. Ci fermiamo. Il maschio capobranco vigila su tutta la troupe. I piccoli cercano di salire sulla macchina. E’ una scena emozionante.

I giorni scorrono, oramai è quasi passato un mese dalla mia partenza. Mi sono adattata bene, mi dispiace tornarmene a casa. So già che mi mancheranno queste spiagge bianche, immense e deserte, questa gente povera ma dolce, questi odori e questi panorami. Ho pero’ la piena consapevolezza di avere fatto una grande esperienza. Saluto tutti gli amici, i miei “alunni”che ormai sono bravissimi in italiano, saluto i gechi, questi animaletti simili alle lucertole, saluto i treni di mombasa, i millepiedi carrozzati che ora non mi fanno piu’ tanto schifo, saluto le stelle marine giganti che non ho mai osato prendere in mano, saluto il caro amico A., che con un fiore incastrato tra i capelli, in lacrime, ci porta all’aereoporto. Ripiombo a casa, in pieno inverno e con un potente “mal d’africa” in corpo. Habari Jako!!



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