La magia di Koh Lanta
Sono le 7.30 del mattino e la “sala delle colazioni” dell’albergo, in realtà costituita da un ampio porticato ci accoglie con il profumo delle uova e del bacon ben cotto.
Mario e Chiara, i nostri compagni di viaggio, ci hanno preceduto e stanno già servendosi un’abbondante dose di caffè’ nero e pane tostato.
Ordino un paio d’uova fritte e bacon per me, mentre Moon e Giulia si orientano verso il vasto assortimento di frutta fresca: cocomero, piccole banane, e “lamoot” dolci e succosi.
Il tempo di divorare il tutto ed un minibus della Royal Fern si ferma dinanzi alla reception.
Si parte.
Anche quest’anno abbiamo deciso di utilizzare come base per la nostra vacanza l’isola di Phuket. Ormai la conosciamo a memoria e non fatichiamo a notare i cambiamenti dall’ultima nostra visita. E’ sempre più affollata ed occidentalizzata, è stata ormai stravolta, e con lei i suoi abitanti travolti dal rullo compressore dell’industria turistica. Ha perso molti dei connotati tipici di un’isola tropicale, sono spariti molti degli stereotipi che popolano i sogni dei turisti occidentali, ma ha mantenuto indubbiamente il pregio di essere un’ottima base di partenza per escursioni a medio raggio ed è ancora in grado di regalare, al visitatore attento, angoli di rara ed incomparabile bellezza.
Mentre il minibus corre sulla larga strada che conduce a Phuket Town, mi soffermo a vedere il netto contrasto tra il sonnacchioso mattino dei centri turistici costieri e la fervida attività delle località dell’interno, dove gli abitanti sono già tutti al lavoro.
Al terminal marittimo di Rassada Port il battello ha già cominciato ad imbarcare i passeggeri. La sua destinazione è la famosa isola di Phi Phi Don, quindi l’imbarcazione è al completo.
I bagagli dei viaggiatori sono stivati alla rinfusa e quelli che non hanno trovato posto in stiva formano una montagna nelle prime file di sedili.
Durante la notte un forte vento caldo ha soffiato impetuoso, lo sentivo fischiare attraverso le palme del resort, e sono un po’ preoccupato per le condizioni del mare.
All’orario previsto il battello molla gli ormeggi percorrendo un breve e basso canale prima di lanciarsi in mare aperto. Le onde s’infrangono contro l’alta prora mentre l’imbarcazione, probabilmente ben appesantita dal centinaio e passa di passeggeri, le supera senza problemi.
A bordo servono caffè e biscotti e molti approfittano di questo per integrare la colazione consumata in fretta.
Ora il mare si è fatto più calmo e ha abbandonato il colore smeraldo del sottocosta per assumere quella tonalità di blu tipica del mare aperto.
Esco sul ponte e cominciano a sfilare ai lati della barca isolotti senza nome, panettoni di granito ricoperti da alberi verdi; in lontananza le due sagome delle Phi Phi Islands.
Dopo un paio d’ore i diesel riducono i loro giri e la massa vociante di turisti inizia la ricerca dei bagagli. L’imbarcadero di Ton Sai Bay, con la sua bianca scritta “welcome” pitturata sul tetto, ci accoglie sotto un sole abbagliante Il battello che ci condurrà alla nostra meta non è ancora arrivato, perciò non resta che attenderlo all’ombra della “stazione marittima”. Ero convinto che pochi avrebbero proseguito il viaggio ed invece mi accorgo che molta gente si sta radunando sul molo. Mentre Giulia distribuisce briciole di pane ai pesci corallo che nuotano sotto il pontile, osservo i passeggeri in attesa: mentre nella prima tratta del viaggio la maggior parte dei viaggiatori era accompagnata da capaci valigie, ora la quasi totalità dei turisti in attesa è munita di capaci zaini da dove spuntano stuoie, bottiglie d’acqua e cuffie di walkman. Sono quasi tutti giovani di evidente provenienza nordeuropea o statunitense, questi nuovi “backpackers” non sfoggiano bagagli ingombranti o attrezzature fotografiche di lusso e non hanno bisogno di consultare continuamente mappe o cartine, passano l’attesa leggendo libri: probabilmente loro il viaggio lo hanno studiato a tavolino e sanno alla perfezione cosa li aspetta. Personalmente non condivido il loro comportamento, mancano di spontaneità, dell’euforia del nuovo e dell’insolito, di quell’infantile curiosità che spesso circonda il mio modo ideale di viaggiare.
Sembrano pendolari in attesa del solito bus che li riporterà a casa, non si guardano mai intorno, ogni tanto distolgono gli occhi dalla loro lettura giusto per controllare quanto manca all’arrivo. Sembrano completamente indifferenti alla realtà che li circonda. Sarà un effetto della globalizzazione? Finalmente il traghetto, più piccolo e “geloso” del primo, accosta al pontile; gli addetti fanno scendere le persone sottocoperta per poi indirizzare i restanti passeggeri sul ponte superiore. A noi tocca il ponte, i marinai ci fanno segno di sederci per terra mentre l’imbarcazione lascia l’approdo.
Lasciata Phi Phi Don e superato il promontorio di Laem Poh, vediamo le vicine isole di Bamboo e Mosquito, mentre sfilano sullo sfondo Krabi e le sue decine di isole.
A bordo alcuni procacciatori d’affari stanno cercando, nel breve tempo della traversata, di catturare clienti per questo o quell’albergo, proponendo prezzi e mostrando foto e depliants.
Conosciamo già i nomi di qualche albergo, letti sulla Lonely Planet o scovati su Internet; Mario e Chiara propendono per un resort abbastanza nuovo dai prezzi incredibilmente bassi, personalmente preferirei qualcosa di più noto come il Lanta Villa o qualcun altro nella parte settentrionale di Lanta, ma alla fine scegliamo per la spesa minore.
Passa poco più di mezz’ora ed eccola apparire nel caldo sole invernale.
Koh Lanta ci viene incontro con la sua sagoma verde scuro separata dal blu del mare dalla sottile striscia bianca delle sue spiagge.
Guardandola di lato l’isola sembra immensa; in realtà ciò che si staglia davanti alla prora del traghetto è l’insieme di due isole ben distinte: Lanta Noi a nord, dalla forma rotondeggiante, piu’ vicina alla terraferma, quasi disabitata, la cui parte orientale è costituita da un complicato intreccio di canali e di mangrovie, Lanta Yai a sud, più montuosa della sorella è lunga e stretta, da nord a sud è attraversata da una piccola catena montuosa le cui pendici ricoperte di fitta foresta scendono verso il mare fino a costituire un anello pianeggiante ove corre la stretta strada che, nel fare il periplo dell’isola, collega i numerosi resort ed i pochi villaggi. Entriamo in quello che sembra l’estuario di un fiume, mentre in realtà è lo stretto che separa Lanta Yai da Lanta Noi, costeggiando quello che fino a pochissimo tempo fa doveva essere un tranquillo e dimenticato villaggio di pescatori. Si notano senza difficoltà le sue povere origini, i tetti in lamiera e le stinte assi di legno di alcune abitazioni, ma si notano anche i segni premonitori di un turismo in via di progressiva espansione: ristoranti realizzati su palafitte, negozi, insegne e bar.
Con una secca virata che fa inclinare non poco lo stretto battello, ci fermiamo al Saladan Boat Pier dove veniamo accolti da una moltitudine di persone che, innalzando un cartello con il nome di questo o di quel resort, si contendono i clienti indirizzandoli quindi verso diversi pick-up e pochi minibus.
Individuiamo a fatica il cartello dell’albergo da noi scelto e veniamo indirizzati verso un malandato pick-up modificato artigianalmente per trasportare i clienti. Per me e Moon non è una novità, nel nord della Thailandia molti collegamenti sono effettuati con veicoli di questo tipo chiamati “songthaew”, i nostri amici invece sono molto perplessi. A loro scusa va certamente il fatto che per la prima volta in vita loro si ritrovano proiettati fuori del dorato, comodo e, per molti aspetti, falso mondo dei viaggi all inclusive dove al turista è richiesto solo di divertirsi e di pagare. Ora si ritrovano seduti sulla stretta e scomoda panca della vettura, lamentandosi del cospicuo numero dei passeggeri e della mancanza dell’aria condizionata.
Dopo aver stipato bagagli e persone, il pick-up parte lasciandosi alle spalle il piccolo abitato di Saladan, il fondo stradale è solo in parte asfaltato e grosse buche costringono l’autista a compiere brusche frenate e gimcane improvvise che però non evitano ai passeggeri sobbalzi notevoli.
La strada scorre ad una certa distanza dalla spiaggia dove sono stati costruiti la maggior parte delle costruzioni, decine di cartelli ed insegne indicano le strade secondarie che portano a questo o quell’albergo. Sono tutti nomi esotici: Sun Fun & Sea, Golden Bay, Diamond Sand, Ocean View, Sea Pearl, Long Beach. Mi sorge spontaneo il raffronto con le strutture della ben conosciuta Versilia, quando si percorre in auto la statale dalle parti del Forte. Ma lì non ci sono palme e noci di cocco. Una piccola strada sterrata ci conduce verso il mare e verso una bassa costruzione dove una mano imprecisa ha disegnato sul muro la scritta “Lanta Palace”.
A Lanta non esistono costruzioni a più di due piani in quanto le autorità locali, memori degli scempi urbanistici di Phuket, hanno imposto l’avveduta regola che ogni costruzione non possa superare le fronde delle palme da cocco. Questa regola fa sì che, da lontano, i pur numerosi alberghi siano quasi invisibili, salvaguardando il carattere quasi selvaggio dell’isola.
Il resort da noi scelto è di recente realizzazione, la costruzione più grande ospita la casa dei proprietari, la reception ed il ristorante, sulla sinistra una trentina di piccoli, ma moderni bungalows in cemento, a destra un’ampia costruzione di legno e stuoie è destinata ad ospitare il personale di servizio. Il tutto all’interno di un palmeto immediatamente a ridosso di un piccolo tratto di spiaggia racchiuso tra due punte rocciose. L’acqua cristallina fa intravedere decine di piccoli scogli che faranno capolino durante la bassa marea, alcune minuscole barche di pescatori locali sono state tirate a secco e la loro povertà stride con i vicini e variopinti ombrelloni e sdraio destinati a “farangs” affamati di sole.
Mario, al contrario della sua compagna, non riesce a riprendersi dal breve viaggio su quello che continua a chiamare “carro bestiame”. Cerca di superare l’impatto con questa realtà per lui strano, ma non riesce a vedere oltre i lati negativi della situazione. Si aggira per il giardino con l’immancabile videocamera riprendendo ciò che lo circonda e registrando per i futuri spettatori le sue impressioni e perplessità.
Il pomeriggio ci vedrà distesi sulla spiaggia nell’attesa di un tramonto che si annuncia degno di numerosi scatti fotografici. Il vento della notte precedente è ormai lontano ed una leggera brezza porta fino a noi il profumo del mare e di terre lontane.
Moon e Giulia sono sulla spiaggia e stanno raccogliendo decine di minuscole e variopinte conchiglie che quotidianamente la marea regala a coloro che sanno apprezzare quest’angolo di paradiso. Qualche barca passa al largo puntando verso il nord dell’isola. La spiaggia è completamente priva di rumori, qui non sono ancora arrivati i potenti motoscafi e le moto d’acqua che fanno da contorno alla maggior parte delle spiagge thailandesi; persino le barche dei pescatori sono ancora a remi ed il mare sembra salutarci con lo sciacquio della marea che si ritrae.
Mi distendo su di una sdraio, la Nikon posata sulle ginocchia, ed aspetto senza fretta.
Il globo luminoso cambia man mano la sua tonalità, passando dal bianco incandescente al giallo e quindi al rosso intenso. Sulla battigia Giulia rincorre felice frotte di piccoli granchi che scavano le loro tane nella sabbia. Ora il disco del sole si è fatto di porpora e si è appoggiato sull’orizzonte. Attraverso l’obiettivo lo vedo affondare nella massa liquida e quasi immobile del mare lucido, mentre nella foschia della sera s’intravedono le ombre di isole lontane.
Il mare è d’oro e il cielo di un rosa intenso. Tutti sono immobili con lo sguardo rivolto ad occidente, mentre il silenzio del tramonto è rotto dalla roca voce di un muezzin che chiama i fedeli alla preghiera.
Dopo una notte tranquilla trascorsa in un silenzio quasi innaturale, il sole spunta da dietro la piccola catena montuosa che costituisce la spina dorsale di Lanta.
Abbiamo deciso di fare un giro in barca alla ricerca di fondali su cui fare snorkelling ed alla scoperta di altri isolotti vicini.
Per la felicità di Mario ci vengono a prendere alle otto in punto con un altro pick-up, questa volta privo di panche e di ripari. Siamo circa una decina stipati nell’esiguo cassone, penso a quello che sta passando nella testa del nostro amico, Moon lo guarda e ride osservando la sua espressione quasi disperata. A Saladan un grosso battello ha già avviato i motori ed in breve ci avventuriamo attraverso stretti canali in mezzo alle mangrovie. L’acqua non è certamente invitante, col suo colore verdastro, ma in questo momento e’ la vegetazione la primadonna della scena. Migliaia di tonalità di verde ci scorrono velocemente intorno, dalla riva una foresta ininterrotta arriva fino ai 500 metri della sommità della montagna. Qui la mano dell’uomo non è ancora arrivata e la natura la fa ancora da padrona. Superato il piccolo ed isolato villaggio di Thung Yée Phang la barca entra in mare aperto e si dirige verso uno dei tanti isolotti della zona. Sopra una piccola punta rocciosa è stato costruito un minuscolo riparo per i pescatori, alcune boe da ormeggio consentono alle barche di fermarsi senza dover buttare l’ancora rischiando di distruggere le formazioni coralline.
Una sgradita sorpresa ci accoglie in acqua, alcune specie di coralli in questa stagione rilasciano invisibili spore urticanti. Pur non essendo pericolose, rimanere a lungo in acqua può rivelarsi veramente difficile. Una miriade di pesci multicolori ci passa accanto, grossi carangidi fanno capolino dalle loro tane ricavate nell’intreccio dei coralli blu e rossi. Un vero peccato non poter rimanere a lungo in mezzo a questi splendidi animali.
Il battello riparte verso altri isolotti e nuove spiagge mentre un marinaio distribuisce fette di cocomero e di ananas.
Dopo una sosta a Koh Chueak, la barca si dirige verso la costa sabbiosa di Koh Ngai, una tra le più grandi delle tante isole del mare tra Lanta e la costa di Trang. Subito a ridosso dell’arenile l’equipaggio allestisce un’improvvisata mensa da campo, servendo riso all’ananas e calamari in umido. Ci stendiamo all’ombra di un grande albero di casuarina le cui radici sbucano nella sabbia e sembrano raggiungere la cristallina acqua del mare.
Mario e Chiara preferiscono saltare il pranzo e fare snorkelling nelle tranquille acque della piccola baia. Sulla spiaggia il grosso scheletro di un peschereccio semidistrutto.
Il tempo di una piccola sosta ed il comandante della barca ci avvisa che è ora di riprendere il mare. La nota prossima meta sarà l’isola di Muuk che cela al suo interno una meraviglia della natura: la Emerald Cave.
Le poche miglia che ci separano da Koh Muuk sono superate in pochi minuti; la barca si ferma a fianco di un paio di grossi traghetti intenti a scaricare in mare decine di turisti per la maggior parte cino-thailandesi che si concedono un periodo di vacanza in occasione del Capodanno Cinese.
In mare alcune grosse cime delimitano un corridoio che conduce verso un’ampia grotta che penetra all’interno del granitico monolito dell’isola. Moon indossa per sicurezza un giubbotto salvagente, Giulia un paio di braccioli gonfiabili, mentre io prendo, piu’ per prudenza che per necessità, una maschera subacquea.
L’acqua e calda e limpida, ci dirigiamo verso l’interno della grotta tenendoci a debita distanza da una sorta di trenino umano di cinesi, il fondo marino illuminato dai raggi del sole pomeridiano fa da contrasto alla volta nera dell’antro.
Nuotiamo tenendoci per mano ed in breve ci ritroviamo nell’oscurità quasi assoluta. La caverna compie una serie di curve e quindi la luce esterna non raggiunge mai la parte centrale; nel buio le voci degli altri nuotatori rimbombano assumendo i toni di una dantesca cacofonia. Dopo aver abituato gli occhi alla semioscurità, mi dirigo verso una tenue luminescenza che appare in lontananza facendo ben attenzione a non urtare le taglienti sporgenze della roccia; andando avanti la penombra viene man mano spazzata da una lama di luce sempre più intensa fino a quando non arriviamo alla fine del lungo tunnel naturale.
Meraviglia delle meraviglie! Una piccola baia appare all’interno dell’isola. Circondata da altissime pareti verticali, senz’altra via d’uscita se non la grotta appena percorsa, una piccola e bianchissima spiaggia si stende davanti a noi, un fitto boschetto di alberi di vari tipi ne costituisce il contorno. L’acqua, molto bassa, è così limpida che non riusciamo a individuare la linea del bagnasciuga. La sabbia, impalpabile e bianca come talco, luccica illuminata dai pochi raggi di sole che la raggiungono.
Molte persone ora sono uscite dalla caverna, eppure non si odono più le grida di finto terrore o gli schiamazzi dei più giovani. Quasi in silenzio, tutti guardano il limitato orizzonte per poi alzare lo sguardo verso la piccola porzione di cielo visibile tra le scoscese pareti.
E’ una sensazione indescrivibile; in questo momento, come in un mondo parallelo, impenetrabili pareti di roccia ci separano dalla civiltà, dalle macchine, dal mondo intero. Le nostre preoccupazioni, i nostri pensieri ed il nostro stress sono rimasti fuori, al di là di quella lunga grotta scura che, ahimè, prima o poi dovremmo riattraversare.
Il mio più gran disappunto in questo momento è quello di non avere avuto a disposizione un contenitore stagno per trasportare la Nikon, ma forse non è stato un male. Il lavoro che la natura ha compiuto nel corso di millenni non avrebbe potuto essere adeguatamente riprodotto su di un pezzo di carta, quando invece è tuttora vivo e completo nei miei ricordi.
Con un pizzico di malinconia nel fondo del cuore c’immergiamo nuovamente nel buio della caverna, nuotiamo più in fretta quasi per allontanare da noi l’impossibile desiderio di restare.
Giunti al battello il metallico freddo della scaletta di risalita ci richiama alla realtà, per fortuna addolcita da una fresca fetta di anguria che un marinaio sta distribuendo ai passeggeri.
Il motore diesel si avvia e, dopo pochi minuti, il bianco faro di Ta Noad Cape, estrema punta meridionale di Koh Lanta, appare sulla nostra destra, mentre i colori, nel tramonto tropicale, assumono tonalità sempre più calde.
Mai Pai, Khlong Jak, Nui, Kantang, le piccole baie situate nella parte meridionale dell’isola custodiscono numerose barche alla fonda.
Ecco iniziare la lunghissima Khlong Nin Beach, interrotta di tanto in tanto da piccole punte rocciose che talvolta separano i già numerosi resort nascosti dalla verde fila costiera delle palme. Nella sua parte settentrionale la spiaggia assume il nome di Khlong Khoang Beach e diventa più rocciosa, specie con la bassa marea; mentre i resort si fanno più numerosi la costa ritorna sabbiosa prima con Long Beach e quindi con il cuore turistico di Lanta, l’ampia e stupenda baia di Khlong Dao Beach. E’ qui che sono stati realizzati le prime strutture turistiche, prima semplici capanne con il tetto di paglia, poi moderni e raffinati bungalows in muratura con aria condizionata, piscine e ristoranti di livello sempre più elevato.
Immagino come doveva essere pochi anni fa, quando il business non era ancora iniziato o, perlomeno, era solo agli albori. E’ il destino dei paradisi turistici thailandesi, e forse del mondo intero; i luoghi più incantevoli sono all’inizio avventura per pochi, poi scommessa per piccoli imprenditori coraggiosi, quindi preda per grosse società dai capitali illimitati. Trenta anni fa Pattaya, venti anni fa Phuket, poi Samui, Phi Phi, ed ora luoghi come Lanta, sempre alla ricerca di nuovi paradisi da proporre sui cataloghi dei tour operators.
Intanto la barca ha superato la punta settentrionale dell’isola; quello che durante l’alta marea sembra un isolotto, ora è la propaggine estrema del promontorio che, protendendosi verso il largo, separa Khlong Dao Beach dal villaggio di Saladan, nostra meta finale.
Mentre il sole scende oltre le palme, percorriamo a ritroso la strada che collega Saladan con il nostro resort. Il tempo di una doccia per sciacquarsi dal sale di un’intera giornata e l’oscurità della notte, seguendo alcuni gruppi di scimmie che escono dal folto della vegetazione, scende dalla montagna.
Il ristorante dell’albergo è posto sotto l’edificio principale, in un ampio porticato che guarda verso il mare. Dal vicino bar, illuminato da decine di lampadine multicolori, ci arrivano le note di una canzone di Tata Young.
Mario e Chiara sono stanchi della cucina locale e sognano qualcosa di più italico. Con l’aiuto di Moon sfogliamo il menu mentre la cameriera, avvolta in un vestito tradizionale color porpora e oro, attende paziente. L’attenzione dei nostri amici è richiamata dalla scritta “spagetti bolognaise” e, pur superando qualche nostra perplessità, ci convincono a tralasciare l’onnipresente riso a favore di un piatto di pasta.
Con gradita sorpresa, forse anche dovuta al fatto che ormai da lungo tempo non assaggiamo qualcosa di mediterraneo, gli “spagetti” sono veramente buoni ed abbondanti.
Al bar alcune persone si sono sedute sugli alti sgabelli, in realtà semplici grossi tronchi d’albero piantati a terra; la musica di sottofondo riesce solo in parte a superare il rumore del mare che lentamente s’infrange sulla battigia.
Dopo un caffè all’americana ci accomodiamo in alcune poltrone di vimini nel giardino vicino alla spiaggia. Qualche chiacchiera e diversi momenti di silenzio in cui ognuno è assorto nei suoi pensieri, Giulia ha trovato una coetanea thai, probabilmente figlia di qualcuno del luogo, ed entrambe giocano tra il prato e la spiaggia, mentre nel buio della sera migliaia di stelle ci fanno da tetto.
Il sole è già alto quando ci svegliamo dopo una notte tranquilla, a tratti rotta dal rauco richiamo di un “tuckee”, una specie di lucertolone che nottetempo contribuisce a mantenere accettabile il numero di zanzare ed insetti. Decidiamo di dedicare la giornata all’ozio e, dopo una discreta e rilassata colazione, ci stendiamo sotto gli ombrelloni.
Qualche barca raggiunge la riva per far salire piccoli gruppi di turisti in gita, qualcun’altra passa lontano, oltre gli scogli che la marea non ha ancora cancellato.
Il sole è bruciante, per cui passiamo la mattinata a fare la spola tra l’ombrellone e l’acqua del mare.
Dolce far niente. Un altro dei lati positivi di Lanta. A Phuket o a Krabi saremmo stati probabilmente invogliati a muoverci vuoi dalla voglia di acquistare qualcosa, vuoi dalla necessità di sentirsi il mare addosso. Qui invece c’è tutto e niente nello stesso tempo. Il mare ci aspetta a pochi metri dal bungalow, mentre sono lontani i negozi pieni di souvenirs o i drivers di taxi o barche che propongono questa o quella meta.
Dopo esserci rosolati a dovere ed aver indossato un minimo di vestiario, decidiamo di andare a cena a Saladan. Una breve contrattazione con il proprietario del resort per il prezzo della corsa e siamo pronti a partire; il pickup ci porterà in paese e, alle 22, ci ritornerà a riprendere.
Alle porte di Saladan già si respira un’atmosfera diversa; nell’ampio cortile di una scuola è in corso una sorta di festa paesana: bancarelle, giostre, musica e perfino una piccola ruota panoramica.
Io e mia moglie saremmo dell’idea di fermarci qui, ma l’ambiente e’ troppo al di fuori dei canoni dei nostri compagni di viaggio. Preoccupati per la polvere e per il cibo per loro inusuale, preferiscono il classico ristorante all’atmosfera chiassosa della festa. Mentre ci dirigiamo a piedi verso il centro del villaggio Mario chiacchera al telefonino con la figlia rimasta in Italia descrivendo la situazione con partigianeria e disgusto. Con la coda dell’occhio osservo Moon, osservo i lineamenti del viso contratti nel sentir parlare male del suo Paese. Mi rivolgo a lei in inglese, lingua sconosciuta ai nostri amici, cercando di calmarla nell’evidente tentativo di evitare di guastare una serata di vacanza.
Vicino al mare, appena superata la minuscola stazione di Polizia, troviamo un ristorante gestito da pescatori locali dove sono esposti pesci dall’aspetto invitante.
Scegliamo una bella cernia e diamo le dovute istruzioni al cuoco per cuocerla a dovere. Un inserviente ci guida attraverso una costruzione dove sono appesi a seccare decine di pesci, alcune donne stanno riempiendo capaci scatole di vimini con altri pesci più piccoli cospargendoli quindi di sale. Superata questa zona di lavoro il locale si allarga in una gran terrazza coperta su palafitte dove molti dei tavoli sono già occupati. Ci viene riservato un grosso tavolo al centro del porticato.
Malgrado i commenti negativi di Mario, la cena è veramente notevole, un susseguirsi di bontà semplici quanto prelibate preparate sul momento. I dolci poi, manane fritte e torta di cocco e cioccolato, sono veramente superlativi, tanto da addolcire anche l’umore di Mario stesso.
Il pickup del resort è già in attesa al punto stabilito e il viaggio di ritorno e’ scandito solo dal rumore del vecchio motore.
I nostri giorni sull’isola passano lenti ed in fretta nello stesso tempo. Sembra un paradosso, ma la mancanza di orari e regole lascia spazio al riposo assoluto rende la giornata libera e selvaggia. Niente pantaloni, scarpe, camicie …, usciamo dal bungalow al mattino con addosso il costume da bagno, una maglietta e con il telo da spiaggia sottobraccio. Solo pochi passi, prima di sentire le calde conchiglie sotto i nostri piedi. Vorremmo andare a visitare la foresta, le splendide cascate, le grotte, ma l’essenziale abbigliamento che ci siamo portati non consiglia percorsi di trekking e purtroppo, o per fortuna, molti dei luoghi magici dell’isola sono accessibili solo a piedi.
Preferiamo quindi rimanere tranquillamente tra la spiaggia e le palme, in quel alternarsi di sole ed ombra che rende le nostre rimanenti giornate pigre e rilassanti.
Ecco il paradosso: lente giornate in una vacanza che vede il calendario sfogliarsi velocemente.
Quando siamo arrivati a Lanta? forse ieri? o una settimana fa? e che giorno è oggi? Vorresti che non finisse mai. Il collegamento ad Internet ci porta notizie di un mondo lontano, probabilmente un altro pianeta, chiamato Terra.
Talvolta ci viene voglia di fare qualcosa di diverso, andare da qualche parte, vedere qualcosa di nuovo, ma la forza del profumo del mare e del riposante silenzio ci tengono prigionieri in questa cella azzurra ed abbagliante che ha come mura solo la nostra fantasia. Questa è la grande magia di Koh Lanta.