Il mio weekend a new york
Ci sono due voli per New York oggi, uno courtesy of Alitalia e uno of Delta. Con un pizzico di fortuna ero riuscito, nel mio giovedì di passione, a trovare un posto sul volo che batte “ STARS AND STRIPES” cosicché mi dirigo verso il desk per consegnare il mio bagaglio. L’11 settembre non è solo la data di uno degli eventi più cruenti che la storia ricordi ma anche l’inizio della sindrome da terrorismo che contagia qualsiasi aeroporto in questo momento. Con molto candore la signorina (no, ehm, scusate la bonazza) addetta mi controlla il biglietto e il passaporto e “ attacca” con un ritornello che non mi andrà più via dalla mente per quanto buffo era: “ Ora signore le dovrò fare alcune domande sulla sicurezza, è pregato di rispondere onestamente. Da quando è arrivato in aeroporto le valigie sono state sempre con lei? Mi viene in mente di citarle “la Wanda e la Luisa” di Mascia che erano su GQ ma preferisco soprasedere. Qualcuno le ha dato qualcosa con cui poter arrecare danno una volta a bordo? Ha qualcosa nelle valigie che sta trasportando per conto di qualcun altro? Si! Una bomba ad orologeria vorrei risponderle. Il teatrino si chiude qui ed io posso raggiungere il desk per far il tanto agognato check-in. Pensavate l’avessi gia fatto? Anch’io onestamente. Comunque il tipo è simpatico, mi chiede se so parlare americano( e per tutta risposta si becca un YA GOTTA BE KIDDING, MAN), e, dietro pressioni, mi dà il miglior posto in economy che ci sia in un aereo. Ma i posti in economy non sono tutti uguali? Lo credevo anch’io, ma dopo 4 voli intercontinentali avrò pure imparato qualcosa. Se viaggiate su un boeing( 767 o 747 fa poca differenza) il numero chiave è 21. Cos’è? La fila dove c’è la porta di emergenza. Certo se dovesse succedere qualcosa dovrete dare una mano ed essere pronti ad aprire il portellone ma, se non succede niente, vi sembrerà di stare in business. E se ve lo dice uno di 1.90 potete fidarvi. Prima di montare “ on board” passo altri due controlli, all’ultimo dei quali non vengo neanche degnato di uno sguardo( tanto se avessi avuto la bomba ad orologeria lo avrei certamente detto alla signorina che mi aveva ricevuto all’inizio). Oltre alla comodità di avere un buon 70% percento in più di spazio rispetto al tradizionale “economy seat” non c’è nessuno seduto accanto a me. Guarda un po’ se non vado a passare( ah come è dura dimenticare il francese) le prossime nove ore e quaranta come LL Cool J nella sua jacuzzi da 5 metri. Ma prima di poter solamente aver finito di pensare questo, quel distinto signore che era seduto dietro di me si alza e si viene ad accomodare next to me. Dico io: ma doveva aver per forza sbagliato posto? Ecco che il mio buon 70% ridiventa in un sol colpo 40%. Perché come ogni americano che si rispetti questo, pound per pound, è la cosa che più si avvicina a Derrick Coleman. Ovviamente senza il tiro!!!. Ma al contrario di quanto pensassi si rivela un ottimo compagno di viaggio, parliamo di archeologia( era stato a Roma tre settimane proprio per questo) anche se i reperti a cui è maggiormente interessato sono la Wanda e la Luisa ben in mostra sulla copertina di GQ. Tutto ok se non fosse per il fatto che ci provasse con ogni hostess della Delta che avesse un “degree” appeso in camera. E che ogni mezz’ora voleva, dal sottoscritto, un aggiornamento su “ how much left?”. Alla fine ho capito il motivo di tanta agitazione: doveva prendere un altro volo per San Francisco. Non ero mai arrivato al Kennedy, solamente partito. Ora capisco perché è uno dei più grandi del mondo. Passo la dogana, solita domanda di routine dell’”officer” di turno ( che sei venuto a fare in America?) e rispostina che mi condurrà ad una lunga mezz’ora. “Spero di vedere i Knicks giocare domenica perché poi devo subito ritornare a Roma lunedì mattina” è quello che esce dalle mia labbra. “ Ah, è perché sta cosi poco a New York?”-“ Ho un impegno di lavoro a Roma”. Alla seguente domanda iniziano i miei problemi perché non ho la minima idea di come far a spiegare che lavoro per un patronato. Butto li un “ government office” che mi da ancora più problemi, allora cerco di fargli capire che non credo in America esiste un ente simile. Per tutta risposta mi manda in un posto di controllo da un altro agente, di chiare origine italiane come la scritta sulla targhetta( Corona) suggeriva che mi controlla ogni cm della mia valigia e del mio zainetto. Ricordate: se vi chiedono che lavoro fate rispondete con un generico STUDIO… Dopo 30 minuti riesco a prendere l’uscita: il Kennedy non è come Newark, dove la massa di tassisti abusivi ti avvolge e quasi non ti lascia prendere il taxi regolare. Qui ce ne sono pochi, forse meno, cosicché la scelta è fra i 13 dollari del bus e i quasi 40 del cab. Decido che il bus è la cosa migliore anche perché mi dà la possibilità di vedere gran parte del Queens (l’altra parte me la farà vedere il tassista al ritorno, God bless him) e stare accanto ad uno schianto di ragazza. Infatti aveva appena fatto un incidente( questa è per te Dima). Dall’altro lato sono seduti due ragazzi, uno è di Chicago mentre l’altro sta in zona. Per il ragazzo di Chi-town è la prima volta qui a New York City e capisco ben presto che è un inesauribile fonte di domande. A cui il tassista e il viaggiatore accanto rispondono volentieri. Intanto lo schianto di ragazza è sempre più mummificata. A cominciare dal cappellino che non si muove di un centimetro. E di buche ce ne sono per la strada!!. La chiacchierata si accende quando il ragazzo di Chicago chiede dove sia il Marriott Marquis. “Ragazzo- esordisce l’autista dalla barba lunga quasi totalmente grigia e due occhiali che si incastrano alla perfezione tra le linee del suo viso di colore- Marriott Marquis è Times Square più di qualsiasi altro albergo sulla faccia della terra. Sei sicuro che non ti stai confondendo con un altro? The fare is 450 dollars!!!Ya know what i mean?” Al che lui calmissimo: “ Intanto non pago io. Ho vinto il pernottamento per quattro giorni con un concorso”. Vi risparmio i commenti di tutti noi là davanti. Perfino la ragazza accanto a me si è svegliata dal suo sonno letargico e ci ha degnato di uno sguardo. Grand Central Station e The Port Authority sono, in pratica, i punti dove confluiscono, prima o poi, tutti gli autobus che entrano a Manhattan. Opto per la prima fermata, scendo, preparo il mio trolley e mi incammino per la mia strada senza prima aver rifiutato l’ennesimo invito a prendere un taxi. La quarantacinquesima è la famosa X che si trova nella mappe del tesoro: sono 10 minuti a piedi che assaporo. Park Avenue è sempre la stessa, il traffico è sostenuto ad ogni ora, figuriamoci alle 16:40 di venerdì. C’è un leggero venticello che viene da Est ma non fa freddo, il sole quando riesce a farsi largo fra gli angoli dei grattacieli, riscalda. Dio com’è tornare a New York. Per 90 dollari la doppia il Best Western Ambassador è fin troppo centrale. Non è grandissimo, anzi a dirla tutta la camera sarebbe l’ideale per una singola con “queen bed” ( lettone) ma se appena esci dall’albergo volti la testa verso sinistra e vedi gli studi di MTV capisci che, per questa volta, può andare bene cosi. Pomeriggio inoltrato e, come da consuetudine, gli uffici si stanno svuotando lasciando questa parte di Manhattan in mano ai turisti. Chi lavora qua infatti vive, in genere, da un’altra parte dove la frenesia non è di casa. Times Square non sembra conoscere pause, davanti al Planet Hollywood ci saranno gia almeno una trentina di persone in coda per entrare in quello che, nella serata di sabato, si rivelerà una grossa bufala e nient’altro. L’ESPN ZONE, il mega building della rete televisiva, è preso d’assalto, impossibile pensare di trovare un tavolo per mangiare qualcosa. Impossibile addirittura pensare di raggiungere l’ultimo piano: la disneyworld più a Nord di tutti gli Stati Uniti è concentrata in questi 150 metri quadri. Vuoi giocare a golf? Eccoti il tuo green. Nostalgia di un canestro? Voilà un campetto con tanto di linea del tiro libero. Perché non provare a lanciare l’ovale da football nel buchetto nella rete? Oppure impugnare il bastone da hockey?. Se a ciò aggiungete una quantità industriale di videogames, numerosi televisori che pendono dalle colonne e dal soffitto con su delle immagini di qualche evento sportivo in onda sui canali di Espn e la possibilità di “hangin’ ‘round” senza pagare un soldo. Capite ora il senso delle mie parole? Entrare a Fort Knox sarebbe più semplice. Anche solo per il fatto che lì non hanno due energumeni che l’Espn paga per mantenere l’ordine. Il mangiare che la Delta mi aveva gentilmente offerto sul volo di andata è ormai un ricordo, decido quindi di fermarmi da Sbarro per qualcosa di veloce. Un petto di pollo, qualche verdura condita da un sugo leggermente piccante e l’immancabile fetta di cheesecake allungate con una bud light fanno felice il mio stomaco. Di fronte a me è seduto un gruppo di ragazzi, coca cola e pezzi di pizza in mano stanno parlando di una non precisata festa della settimana precedente. I pantaloni decisamente larghi, la fellona e la bandana arrotolata in testa mi fanno credere che questi sapranno trovare una risposta alla mia fame di musica black. Il posto si chiama Joe’s Pub (wow, credevo che fosse stato chiuso vista la vicinanza con round zero), si trova in LaFayette Street e meriterà una visita stasera. Continuo in direzione nord e dopo poco sono già all’angolo con la 57esima, che sta alla fifth come Via Roma sta a Via Calzaiuoli a Firenze. Volto a destra e lascio la settima. La mattina Central Park dà il meglio di se, non c’è motivo di andarci ora. Sono le 19 inoltrate e molti negozi stanno per chiudere , l’atmosfera sta scemando ma riesco ad arrivare in tempo nel tempio( e scusate il gioco di parole). Niketown è ancora aperto, mi lasciano entrare a patto che faccia una cosa veloce mi dicono. Quando sono al terzo piano un commesso si avvicina e mi spiega che, se non intendo comprare, devo raggiungere l’uscita. Ecco come partono i miei primi 500 dollari. Con le mie shox nuove di zecca esco dallo store e mi dirigo verso Avenue of The Americas. Passo il Radio City Music Hall, quella decina di banche e vari negozi prima di svoltare nella via del mio albergo. Meglio che inizi a conservare gli articoli acquistati. Una doccia e sarò pronto per la cena. Visto che il Planet è all’angolo perché non approfittarne?. Fortunatamente non c’è tanta fila, riesco a salire abbastanza bene camuffato in mezzo ad un gruppo di spagnoli (qualcosa come 30 persone, in gran parte di sesso femminile). Mi viene assegnato un numero di prenotazione e un pager, la tipa mi comunica che non appena il mio tavolo sarà pronto mi faranno uno squillo. Attendo circa una decina di minuti prima di potermi mettere a sedere, il cameriere che mi accompagna mi chiede come va, a lui girano un po’ perché oggi si dovrà fare il turno di 9 ore e mezza così non vede l’ora di andarsene. Non capisco proprio tutto questo clamore intorno al Planet Hollywood: d’accordo l’ambiente è curato, ci sono tantissimi souvenirs legati al cinema, musica orecchiabile ma in fondo è un normale pub come ce ne sono a migliaia in Italia. E tutto sommato il livello di integrazione fra gli avventori è più o meno simile al grado di sopportazione di Sprewell verso i Knicks. Con 20 dollari in tasca in meno qualcosa mi dice che forse avrei dovuto prendere un altro hot dog in un chiosco per la strada. 07:30 23 febbraio ’02 ora di New York.
Il risveglio non è proprio dei migliori essendo avvenuto per piccoli gradini. Un occhio che si apre alle 6, l’altro che si apre verso le sei e mezza, tutti e due che si richiudono per poi riaprirsi definitivamente. La doccia mi riporta nel mondo degli Homo Sapiens ma il rammarico per non essere andato da Joe’s la sera precedente mi tiene compagnia fino da Pluffy’s. E meno male che stamattina hanno gli apple croissant altrimenti non so proprio come avrei reagito. Pantaloni due taglie più grandi( i miei amici non gradiranno sicuramente), felpa dell’And1 e vassoio in mano mi metto seduto “in vetrina” a consumare la colazione. Accanto a me c’è una signora che avrà il finito il suo caffè da almeno venti minuti( il bordo del cup non tradisce mai in questi casi) e mi chiede di dove sono. Credeva fossi californiano(pensa un po’ te), quando sa che sono italiano mi riempe la mattinata parlandomi di quando è stata a Venezia. Con il cappuccino ancora bollente esco per disperazione da Pluffy’s e percorro quelle 4 strade per arrivare a Central Park South. Nonostante siano quasi le nove ci sono già diverse persone che corrono, rollerblades o sneakers fa poca differenza, ancora una volta il tempo è magnanimo e il sole riscalda i corpi accaldati dei podisti. Mi inoltro verso The Sheep Meadows ma quello che richiama la mia attenzione è la pista di pattinaggio dove una decina di insegnanti stanno seguendo dei ragazzini pattinare. E mentre su un parte di ghiaccio si consumano questi insegnamenti l’altra porzione di ice-pack vede svolgersi una partita di hockey. Protagonisti ragazzini dai 6 agli 8 anni, tutti con maglie più grandi contenute a stento nei loro pantaloni. Mentre uno della squadra segna un gol pazzesco mi viene in mente che potrei affrontare l’Upper East Side e risalire quasi fin verso Harlem ma so che l’NBA Store sta per aprire e visto che, come minimo, un paio di ore là dentro sono come il tiro di tabella di Duncan, sicurissimo, prendo la quinta. Una decina in più di persone e i marciapiedi dovrebbero avere il loro codice del marciapiede. Incredibile la quantità di persone che in questo sabato mattina si è riversata in strada. È la fame che mi porta a varcare, direzione exit, le porte dello store. Le quasi due ore passate dentro non sono bastate però per farmi decidere cosa acquistare, vuoi perché alcuni articoli sono inavvicinabili. Che dire delle canotte originali a 120 dollari? Oppure delle vecchie maglie omaggio di Michtell & Ness, il negozio di Philadelphia specializzato in “vintage memorabilia”. Per un James Worthy originale o un Doc si arriva anche ai 300 dollari la canotta. Hanno anche quella di Frazier e non capisco bene perché costi meno di quelle altre. Un ulteriore segno della decadenza dei Knicks?. Penso ai Knicks e mi ricordo che devo andare al box office del Garden per cercare di trovare un biglietto per la partita del giorno dopo. I Lakers infatti arrivano in città e molto probabilmente ci sarà uno dei pochi veri esauriti della stagione. Entrare al Garden di questi tempi non è cosa proprio semplice: due soli ingressi piantonati da quattro guardie che ti controllano ogni cm di pelle prima di farti entrare nell’atrio che conduce ai botteghini. Mi accodo e, al mio turno, con una faccia che più candida non si può, chiedo se sono rimasti biglietti. Per conto mio avrebbe potuto anche essere muto tanto la risposta era chiara: SOLD OUT. Provo allora a chiedere se magari c’è un biglietto un po’ più caro( siamo sull’ordine dei 200 bucks) ma anche in questo caso la risposta è negativa. Mi congeda con un “ torna domani alle 10.30 per fare la fila delle cancellazioni”. Con la convinzione che anche questa volta non riuscirò a vedere una partita nba scendo gli scalini dell’ingresso, il sole stampato sui miei Oakley da 5 dollari e una fame sempre più crescente. I soliti bagarini sono già al lavoro, uno di essi mi colpisce perché indossa un giubbotto dell’All-Star Game di quest’anno così faccio per avvicinarmi. Ma non ce ne è bisogno: mi trova lui. “ Need tickets?” mi apostrofa, se non mi svuoti il portafoglio forse posso anche darti retta è il mio primo pensiero. Alla fine della conversazione ci diamo appuntamento per il giorno dopo all’angolo di Penn Plaza all’altezza della cabina telefonica. Lui avrà lo stesso racket, io sempre la stessa faccia. Un hot-dog al volo prima di prendere la metropolitana per downtown. Scendo alla fermata di West 4th Street e sento già i bounce-bounce-bounce ma decido di fare un salto prima a Washington Square, una della più belle piazze di tutta Manhattan dove c’è sempre un sacco di gente. Che non necessariamente ha qualcosa da fare. In un angolo della piazza si trova la sezione “partite di scacchi e giochi di carte varie”, in un altro un sax manda note nell’aria, al centro un via vai di persone. Proprio davanti al monumento che domina sulla piazza si apre una fontana a vasca( trasportata dalla Fifth Av. E 59esima intorno al 1870) che in questo periodo dell’anno è chiusa. Come me sono sedute altre persone all’interno della vasca, sui gradini interni, che si godono la giornata primaverile e la rappresentazione, alquanto comica, di un attore disoccupato. Questo è, forse, il punto dove si respira maggiormente il sapore di New York. Siamo in pieno Greenwich Villane, qui 205 anni fa ci lavoravano le ceramiche oppure lo usavano come luogo di sepoltura. Finalmente nel 1827 divenne parco pubblico, poco più tardi divenne teatro della prima dimostrazione pubblica del telegrafo di Morse, il professore di quella New York University attaccata al parco. Dal momento della fondazione del Dipartimento dei Parchi Pubblici nel 1870 questa piazza è stata una di quelle che ha visto più cambiamenti ed erezioni di monumenti. Pensate che ci sono ben quattro statue al suo interno, la fontana e l’inconfondibile arco di Washington, le cui strutture di legno furono sostituite da quelle in pietra e le cui forme mutuate dall’Arc de Triomphe di Parigi. Il livello del gioco certamente non corrisponde alla fama che “The Cage” si è creata negli anni. In questo assolato pomeriggio un cinque contro cinque raccoglie le attenzioni dei passanti e i miei occhi scrutano al di là della rete metallica alla ricerca di qualche segno di grandezza. Ma l’unica cosa degna di nota è un ragazzino bianco che continua a metterla nonostante il suo tiro assuma un parabola più simile ad un proiettile che ad un arco. L’idea di andare a prendere le Shox e i pantaloncini oversize color oro che ho comprato( la marca? Ma THE GOAT GEAR, ovviamente) mi solletica non poco. L’unico problema è che il mio albergo è qualcosa come una quarantina di strade a nord. Scaccio l’idea dalla mia mente come si potrebbe scacciare una zanzara d’estate e continuo a guardare la partitella: ehi sono almeno dieci minuti che sono qua e il punteggio è sempre 4 a 3. L’altra cosa che colpisce me e un altro ragazzo con cui scambio due chiacchere è la sfrontatezza di un componente la squadra che attacca verso destra. Lontano da avere una qualche minima parvenza di giocatore di pallacanestro( nonostante il polsino ad altezza “biceps”, i pantaloncini molti lunghi e la maglietta senza maniche, nonché una fascetta rossa intorno alla testa) questo continua incessantemente a voler portar palla. Mentre nel frattempo il risultato si spostava sul 10 a 4 per l’altra squadra, il nostro continuava a voler chiamare qualsiasi tipo di gioco in attacco e a sbagliare lay-up su lay-up( last time i checked eravamo a 7 di fila). Compagni infuriati e fine della partita nonché della mia sosta al campetto. Un ultimo sguardo a Washington Square ed è ora di tornare in albergo: la metro numero 2 fa al caso mio, estraggo la Metro Card per andare ai binari e aspetto. Dall’ultima volta che sono stato a New York( marzo 2000) mi sembra che il servizio sia notevolmente migliorato. Vagoni più puliti, più informazioni ad ogni fermata, anche più controlli da parte del personale. Scendo a Union Square, rimango qualche minuto a guardarmi uno dei palazzi più strani di tutta Manhattan e poi risalgo attraverso la Broadway fino a Times Square. Ehi un momento( l’influenza di Jamaal Tinsley si fa sempre più sentire vero Gianluca?)…Ma non davano in tv Dallas-Sacramento nel tardo pomeriggio? Convinto di aver già perso troppo tempo corro fino all’angolo con la quarantacinquesima, svolto a destra e percorro i 100 metri fino all’albergo manco fossi Maurice Green e, tessera magnetica in mano, mi mangio la rampa di scale fino al primo piano. Con molta celerità e cortesia quelli della direzione avevano provveduto ad aggiustare quella scatoletta che si chiama televisione( la sera prima infatti non si vedeva una mazza) così posso godermi la partita. Il cronometro segna 9 minuti alla fine del secondo quarto, Webber ha steso già la sua ragnatela e i Kings sono in “charge”. Ma più guardo i Mavs più realizzo che c’è qualcosa che non va: il mancino pelato e il 7 piedi che tira da tre vestono verde e argento. Mente che viaggia verso il Colorado e riflette sulle parole di Don Nelson pronunciate appena una settimana prima: “ …Non abbiamo bisogno di nessuno e non vedo nessun scambio all’orizzonte. Ci piace la squadra che abbiamo qui a Dallas”. Entra anche Abdul-Wahad e, per convincermi che tutto ciò sia reale, mi prendo lo scontrino del Niketown: i 500 dollari di spesa sono sempre lì in bella vista. Fatta di necessità virtù cerco di capire chi possa essere andato a Denver in cambio dei tre sopraccitati( lo so, lo so non dimenticare Avery Jonhson!!) e la mente va subito a Finley ma, quando anche Michael entra in campo, capisco che il tacchino è orami bruciato. Howard-Hardaway-Harvey? Ma se di tre H se ne fa a malapena una!!! Comunque Dallas, sospinta da Bundesbank ( il mio nuovo soprannome per Nowitzki), infila un bel parziale e ricorda ai Kings che per puntare all’anello bisogna andare a vincere a casa del diavolo. Finisce la partita e sarebbe meglio fare una doccia. Quarto d’ora accademico e sono di nuovo pronto( anche perché fatela voi in un buchetto di 2 metri e poi ditemi che riuscite a starci dentro più di 5 minuti): dove diavolo mangio stasera? Di spendere molto non ne ho proprio voglia, da McDonald’s non vado neanche in Italia figuriamoci qui, cosi mi ricordo che sulla settima c’è una pizzeria con una varietà incredibile di pizza. Il nome è invitante ( sempre che sia rimasto lo stesso a distanza di due anni): Ray’s Pizza. Entro e l’atmosfera è sempre la stessa: odore di pomodoro e mozzarella in ogni angolo. Di nuovo ci saranno almeno una decina di pizze dai nomi più svariati e dalle combinazioni ancora più impossibili. Vado sul sicuro e prendo due pezzi di margherita ( che qui chiamano cheese), ordino alla commessa asiatica una bottiglietta d’acqua naturale e aspetto che mi riscaldino le due fette. Dopo cinque minuti, nei quali in pratica i due ragazzi al banco avranno servito qualcosa come 15 persone, arriva la mia pizza e vassoio in mano mi siedo ad uno dei tavoli liberi. In pratica uno qualsiasi. Che fine hanno fatto tutte quelle persone? Dio benedica il take-away. Devo dire che a dispetto dell’apparenza la pizza è veramente ottima e, al contrario di quelle che mangio di solito dalle parti di casa mia, questa ha uno spessore notevole. Altro che l’ostia che fanno da Gennaro!! Fine della cena, svuoto il mio vassoio e riscendo verso quel luccichio ormai immortalato infinite volte su cartoline e posters. Passo le successive due ore fra i negozietti di Times Square alla ricerca dell’affare della vita ma un senso di tristezza fa capolino sulla mia faccia. Domani pomeriggio partirò.
08:00 24 febbraio 2002 ora di New York Il fuso è già assorbito: lo testimonia l’orario in cui mi sveglio. Sono le otto e la fame ancora non ha bussato alla porta. Capisco subito che non sarà un giorno come gli altri: fuori è nuvoloso. O almeno credo poiché a New York ogni mattina, quando ti svegli, non sai mai come sarà il tempo. Pensi che sia nuvoloso e invece sono solo i grattacieli che non fanno filtrare i raggi del sole. Che infatti appena scendo in strada mi accolgono come in uno stretto abbraccio. Quasi a volermi dire: non andare via, rimani. Pluffy’s è sempre alla stessa altezza, la confidenza con i ragazzi che lavorano qui anche e mi gusto una delle mie migliori colazioni a queste latitudini. Una sveglia sullo schermo del mio telefonino mi ricorda che alle 10.30 dovrò essere al Garden per la partita. C’è tempo. Prendo la metro e arrivo fino a Ground Zero. Con la luce della mattina lo scenario che si presenta davanti ai miei occhi è ancora più sconvolgente. Già dalla fermata della metro capisco che passerà del tempo prima che tutto torni alla normalità. Un gruppetto di turisti viaggia in direzione ingresso del cantiere e io dietro di loro, con un crescente senso di sfinimento. La scena che mi si presenta davanti agli occhi non mi andrà via per molto tempo: dove una volta c’erano le Twins Towers c’è un completo deserto. No deserto non è la parola giusta: esso implica una completa assenza di cose, oggetti. Qui invece di cose ce ne sono ancora un sacco e l’unica cosa che le accomuna al deserto è l’assenza di vita. Dietro a dove si erigevano le due torri un edificio si regge ancora in piedi: per metà della sua altezza le finestre sono devastate, la metà invece più alta è coperta da un’enorme bandiera americana. Ma il senso di tragedia si respira benissimo. Tutto intorno si danno da fare, anche in questa domenica, le ruspe e i camion. Una volante della polizia è parcheggiata di fianco all’ingresso del cantiere per assicurare che nessuno entri. Mentre il limite dello stesso è adornato di fotografie, di ricordi, di cimeli, c’è anche una banconota da un dollaro appesa. Ne ho abbastanza, con gli occhi lucidi mi trascino via da questo inferno. Voglio andare via. Cerco di scacciare via i miei pensieri, cerco di non pensare che è stata approntata una piattaforma per i turisti che sono “troppo” curiosi e hanno sete di vedere “dove” la tragedia si è consumata. Come se ci fosse qualcosa che valga la pena di essere vista in una tragedia. Ground Zero è proprio vicino a City Hall: il municipio è sempre un incantevole edificio, i prati intorno ad esso sempre ben curati, le macchine sembrano essere parcheggiate da una vita là dentro tanta è la polvere che ricopre i cofani. Mi faccio una foto alla cancellata e riparto in direzione Midtown. L’appuntamento con lo scalper… come chi è diavolo è lo scalper. Non vi ricordate già del tipo con la giacca dell’All-Star Game?. Prima di incontrarmi con lui però ci sono ancora due cose che devono essere fatte. E per fortuna che i luoghi sono uno di fronte all’altro. Passo le due porte a vetri che mi separano dall’interno di questa caffetteria e una simpatica ragazza mi chiede dove voglio sedermi. “Prendo il tavolo appoggiato al muro” le rispondo e mentre mi avvicino prendo al volo una copia di USA Today. Dopo aver appreso che Bloomberg, il nuovo sindaco di NYC, vorrebbe ridare vita alla zona delle torri con la costruzione di una scuola e altre attività per bambini corro alla pagina sportiva per riuscire a capire se Camby sarà della partita. Stranamente è sempre infortunato e capisco che la partita, molto probabilmente, non avrà storia. Anche il tipo seduto al tavolo accanto al mio concorda sulla sconfitta e, tra un pancakes e l’altro( è questo il reale motivo per cui mi trovo qui questa mattina), la discussione si allarga per imboccare un discorso su quando Camby ami la città e quanto, invece, la città non lo ami affatto. Sono le dieci e il negozio di fronte sta aprendo. Da Atrium ci lavora un mio amico, i prezzi sono decisamente alti ma, a volte, si può trovare qualcosa di Donna Karan o Hugo Boss a prezzi veramente stracciati. Inoltre le commesse da sole valgono la mezzora che si perde entrando. Che puntualmente perdo cercando il mio amico, “oggi non lavora” mi fa sapere una mora che dire bella è dire poco. Io ancora rincretinito e con la faccia più a pesce lesso che potessi fare ringrazio e, dopo un pressing asfissioso ad una camicia di DKNY che non si traduce in un possesso di palla…Ehm scusate di camicia, esco da Atrium. Sono sulla Broadway ed è relativamente facile risalire fino all’1 di Penn Plaza, sede dei Knicks. Ovviamente sono in ritardo mostruoso, il bagarino è sempre lì ma decido di rimandare l’acquisto per strada e vado verso l’entrata del Garden. Ora capisco perché l’omino del botteghino mi aveva detto di venire alle dieci e mezzo: ci saranno almeno 40 persone davanti a me. Ovviamente sono le undici e venticinque. Il tip-off è fissato per mezzogiorno, il palazzetto si sta iniziando a riempire e inizio a preoccuparmi. Fino a che la partita è iniziata non c’è verso di sapere quanti biglietti saranno disponibili grazie alle cancellazioni. Ma a quell’ora il primo quarto se ne sarà probabilmente andato; d’altronde noto che a diverse persone viene negato l’accesso e ritirato il biglietto. Lo avevano comprato dai bagarini per la strada. L’amico con il bel giubbotto penso che aspetterà ancora a lungo. Durante l’attesa un tipo assai bizzarro mi avvicina e mi chiede se ho bisogno di biglietti. Beh intelligentone se sono nella fila delle cancellazioni un motivo ci sarà no? Pensi che stia aspettando per una coca cola? Comunque questo ha due biglietti da 265 dollari( nodo in gola) ma, stranamente, può allungarmene uno per soli 80. Chiedo dov’è il posto, dietro il canestro è la risposta che mi dà. Ma la mia mente sta già lavorando: butto lì un “ ma scusa perché se hai questi biglietti non ti vai a vedere la partita? ( ometto il deficiente) “. Biascica qualcosa che non riesco a capire e si allontana. La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo così l’ultimo biglietto singolo( in totale ne erano disponibile 5) se lo cucca un giapponese che, molto probabilmente, non sa neanche che Shaq non è un lottatore di sumo. Scontento mi dirigo verso la mia stanza per vedermi sulla NBC la diretta. Partita noiosa della quale decreto la fine ben prima di quanto lo faccia uno di referees e successivo quarto d’ora dedicato alla preparazione della valigia. Miracolosamente riesco a far entrare tutto ed è ora di buttare giù qualcosa. Sbarro non è lontano, un’ultima fetta di cheesecake, un piatto di insalata e il mio pranzo è servito. Il mio volo di ritorno per Roma parte alle 19 dal Kennedy, le convenzioni prevedono che si arrivi con almeno due ore di anticipo, il che vuol dire le 17. Con conseguente partenza da Manhattan alle quattro. Son