Cinque mesi nel Caucaso

ESTATE 1999: TBILISI, GEORGIA Lunedì, 10 maggio 1999: finalmente racconto Eccomi finalmente. Lo so, lo so, quando a dicembre ero arrivato in Armenia, avevo subito scritto, e dopo tre settimane avevo inviato una seconda, lunga e-mail, mentre da quando sono in Georgia non ho mandato che qualche breve, sporadico messaggio. Il fatto è che laggiù...
Scritto da: Roberto De la tour
Partenza il: 18/04/1999
Ritorno il: 25/09/1999
Viaggiatori: in gruppo
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ESTATE 1999: TBILISI, GEORGIA Lunedì, 10 maggio 1999: finalmente racconto Eccomi finalmente. Lo so, lo so, quando a dicembre ero arrivato in Armenia, avevo subito scritto, e dopo tre settimane avevo inviato una seconda, lunga e-mail, mentre da quando sono in Georgia non ho mandato che qualche breve, sporadico messaggio. Il fatto è che laggiù ero piombato in pieno inverno in un mondo che per me era veramente esotico. Giumry soprattutto, buia, fredda, semidistrutta, mi aveva fatto una fortissima impressione. Inoltre la vita in comune con due simpatici sconosciuti, in quella casa piuttosto strampalata aveva colpito la mia immaginazione e mi aveva dato voglia di far partecipare a famiglia e amici le mie impressioni. Ora invece sono di base a Tbilisi, capitale della Georgia, città di più di un milione di abitanti. E molto bella, più di Giumry (non ci vuole tanto), e anche decisamente più di Yerevan anche se di dimensione simile a quest’ultima. Trovandomi perciò in un posto che all’inizio mi ha dato l’impressione di una certa normalità, non sapevo molto cosa raccontare. Adesso però cercherò di darvi un’idea della mia vita nel paese di Stalin e Shevarnadze.

Parito per Atene dove ho incontrato Paraskevi (Venerdì), giovane dottoressa greca che avrebbe dovuto accompagnarmi in Georgia, sono andato con lei al consolato per ottenere il visto. Ci chiedono di consegnare il passaporto, due foto e un formulario riempito. Dopo un’ora di attesa, viene fuori il console che mi chiede come mai ho indicato sesso femminile e ho scritto nazionalità greca quando il mio passaporto è italiano e sono uomo. Risulta che la segretaria si è sbagliata, e il console l’ha coperta di insolenze. Infine usciamo coi nostri visti, solo all’aeroporto di Tbilisi mi accorgerò che il mio scadeva nel ’97. La sera vado a vedere Depardieu e Benigni in francese in “Asterix e Obelix”, grande delusione, anche se Benigni è bravo. Il mattino dopo, appuntamento all’aeroporto per la grande partenza, con Venerdì e Theodora, responsabile del personale per MSF-Grecia. Facciamo un giro piuttosto lungo, viaggiando con Austrian Airlines via Vienna, e arriviamo a Tbilissi in fin di pomeriggio. Dopo alcune difficoltà all’aeroporto dove ho dovuto spiegare che il mio visto non poteva essere più vecchio del mio passaporto, e che si sono sbagliati al consolato, riusciamo a emergere e troviamo Florian, il capomissione, che ci è venuti a prendere con sua moglie Eka, amministratrice Georgiana della missione. Ci porta in albergo, perchè pare che la casa sarà pronta solo il primo maggio. Siamo i primi clienti, l’albergo, una sorta di piccola pensione famigliare con tre camere di fianco al teatro dell’opera, ha aperto quel giorno. Molto piacevole, carino, con dei giovani che si occupavano di noi, dovevamo però sempre sapere in anticipo l’orario dei nosri pasti. Sembra quasi che ci apettassero, nascosti dietro una porta, per saltarci addosso con la fatidica domanda: “what time breakfast?” o “what time dinner?”. Chissà poi perchè ci tenessero tanto a saperlo per la prima colazione, visto che il tavolo era coperto di salumi, uova di salmone e altre cose fredde, e per ottenere acqua calda per il Nescafé o il thé era una battaglia ogni mattina. Arrivati di venerdì sera, abbiamo iniziato la nostra vita qui un week-end. Giro in ufficio di sabato, birra in un bar il pomeriggio con i miei futuri colleghi, poi lasciati tranquilli per il resto del fine settimana, e Theodora ha trovato che siamo stati vergognosamente abbandonati a noi stessi. Domenica passeggiata nel centro storico, giro al mercato delle pulci in riva al fiume, e ottima colazione in un ristorante all’aperto. La sera, mentre Venerdì se ne stava per i fatti suoi, ho iniziato Theodora alle gioie di “Titanic”, uno stupendo gioco per computer. Male che ho fatto, perchè ne è diventata totalmente dipendente. Lunedì, prima giornata di lavoro, con presentazione dei colleghi locali, “briefing” sulla Georgia, visita del Centro MSF, posto di cui riparlerò, eccetera. La sera, in albergo, primo guaio: Theodora, preoccupatissima, mi dice che Venerdì non è convinta, non ha cominciato subito a visitare malati, che so, e forse vuole andarsene. Detto, fatto: il giorno dopo non viene in ufficio, e il pomeriggio ha già ripreso l’aereo! Bum! Che roba! Risultato, la squadra MSF, che doveva essere composta da una psicologa, un’infermiera (sono tutte e due già qui da due mesi), un biologo (io) E UN MEDICO, si ritrova senza il medico, forse la figura più importante. Theodora era nera. Per consolarla, la sera l’ho trascinata nei corridoi del Titanic in cerca di collane scomparse, non prima di essere usciti a mangiare e bere insieme a dei colleghi di MSF-Francia. Nonostante questo grosso guaio iniziale, la vita qui si è organizzata tranquillamente. MSF-grecia è installata in due luoghi. Innanzi tutto l’ufficio, dove stanno Florian, Eka, Marianne, infermiera danese, Nana e Nia, dottoresse Georgiane che fanno parte del personale locale, e io. Poi c’è il Centro MSF, a pochi isolati di distanza, dove viene fatto counselling su problemi di contraccezione e malattie sessualmente tramissibli, dove lavorano Sylvia, psicologa messicana, oltre a Nino, Nato e Georgi, che rispondono anonimamente per telefono o di persona a chiunque chiami o venga con domande o problemi in questo campo. Apro una breve parentesi sui nomi locali: Nino, Nato, Nana, Manana, sono tutti nomi femminili tipicamente Georgiani; non sono nomignoli ne soprannomi. Solo Eka è un diminutivo di Ekaterina, mentre Nia è un nomignolo di… Nino. L’ufficio è spazioso, luminoso, con una bella vista; c’è anche una cucina. Ho cominciato ad andare in giro; quando vado negli “STD (Sexually Transmitted diseases) dispensaries”, all’STD Institute, o all’AIDS center sono accompagnato da Nana, ma se vado a visitare un WC (Women Consultation), allora vado con Marianne e Nia. E molto appropriato chiamarli WC, perchè sono veri e propri cessi, almeno i due che ho visitato. Il primo, ci sono andato due giorni dopo essere arrivato, il giorno della partenza di Venerdì. Abbiamo visitato tra l’altro la sala delle ecografie, dove in un bugigattolo di si e nò tre metri quadrati, ci siamo stipati il medico, il direttore del centro, Marianne, Nia, io; ovviamente la donna incinta, che si denudava la pancia imbarazzata dalla nostra presenza, e naturalmente la mamma della paziente. A catena, queste poverette entravano, noi ci schiacciavamo contro il muro per farle entrare, e il direttore insisteva che noi restassimo e guardassimo tutto. Il medico usava un vecchio strumento scasso, ci mostrava delle ombre (secondo me non si vedeva niente), e pontificava sulla posizione del feto. Secondo Marianne, che ha esperienza, non si vedeva proprio niente. Il direttore ci ha poi fatti sedere nel suo ufficio dove siamo stati obbligati ad accettare, in fin di mattinata, grossi dolci pesanti, caffè e vodka. Nei giorni seguenti ho visitato con Nana alcuni STD dispensaries, sorta di ambulatori per malattie dermatologiche e veneree, l’STD Institute, che li coordina e ha personale più competente, l’AIDS center, nell’ospedale delle malattie infettive, e lo Zhordanian Institute, ospedale specializzato in salute riproduttiva. Questi ultimi tre sono un po’ meglio attrezzati, anche se le cose non sono affatto rosee. Per esempio, l’AIDS center, che pur dispone di un laboratorio abbastanza sofisticato, da una settimana non è più in grado di fare alcun test dell’AIDS, per mancanza di kits e di fondi per acquistarli, e nessun posto in tutto il paese è in grado di fare i test, nemmeno per le trasfusioni. Gli STD dispensaries, poi, sono specie di antri oscuri dove mi domando se sono in grado di diagnosticare efficacemente una Gonorrea. Una settimana dopo essere arrivato, ho voluto andare a Gyumri, a trovare amici e colleghi del mio soggiorno Armeno. L’autista di qui mi ha portato venerdì sera fino alla frontiera, dove mi aspettava l’autista del progetto di Gyumri. La strada è molto bella, soprattutto dal lato Georgiano, ma è in uno stato pietoso; siamo ai limiti dello sterrato. Si traversano cittadine e paesi, con molto poco traffico, tranne pullmann scassi e puzzolenti. Si vedono famiglie intere spostarsi su carretti trainati da cavalli, ma le ruote sono ricuperate da vecchie auto. Ben presto siamo in montagna, con gole, torrenti e foreste. Molti animali pascolano in libertà, ma non si tratta ne di vacche, ne di pecore, ma bensì di maiali. Spesso si vedono gruppi di bellissimi maialini rosa che seguono una grossa scrofa dalle mammelle gonfie di latte. Vorrei un giorno mangiare carne di maiale da quelle parti; deve essere molto migliore di quella proveniente da animali allevati industrialmente. Arriviamo alla frontiera, dove David, l’altro autista, non c’era ancora. Faceva un freddo becco, probabilmente eravamo a duemila metri. In mezzo alla nebbia, i soldati di guardia coperti da uno strano impermeabile con impalcatura davano un’impressione fantomatica come delle campane su gambe. Finalmente David arriva, mi controllano e timbrano il passaporto in quattro posti diversi, e eccomi in Armenia. Il paesaggio è subito più brullo, desolato, ma bello anche lì. Arrivato finalmente a Gyumri, scopro che tutti, ma proprio tutti, erano a casa ad aspermi e avevano preparato un fenomenale horovatz per festeggiarmi. Peccato domenica sera dover ritornare a Tbilisi. Dopo una seconda settimana di vita in albergo con costanti agguati “a che ora vuol mangiare?” e prime colazioni con il Nescafé ma senza l’acqua calda, finalmente arriva il momento di entrare nei nostri nuovi alloggi. Si tratta di una casa composta da due appartamenti sovrapposti; Marianne, Sylvia e suo figlio Daniel, che già abitavano insieme si sono installate al pian di sopra, e io, da solo vista la scomparsa di Venerdì, al pian di sotto. Loro, sopra, hanno camere mansardate, un grande salotto, un terrazzino con una vista su tutta la città, un arredamento decente, uno sputo di cucinino di due metri quadrati e un bagno non granché. Io invece ho poca vista e luce, un arredamento a credenze e vetrinette da far venire i brividi, una vera cucina abbastanza grande e ben equipaggiata ma con ahimè un frigo che fa le bizze, un bagno come si deve e un gabinetto separato fortunatamente dotato di lavandino e con il trono in cima a una scala. Ho un salotto/sala da pranzo, un’immensa camera da letto, e c’è una seconda camera con due letti che spero veniate ad occupare prima che trovino un sostituto a Venerdì. Quello stesso week-end, Ioanna è venuta a trovarmi, e insieme siamo andati in giro per Tbilisi. La città è costruita tutta in lunghezza lungo il fiume, in mezzo alle colline, dominata da una cittadella fortificata. C’è un centro storico abbastanza carino con case dotate di balconi coperti lavorati, e vasti quartieri fine ottocento con viali alberati. In un punto abbastanza centrale il fiume passa dentro una gola rocciosa, e sull’orlo del faraglione si affacciano alcune di quelle vecchie case. La sera abbiamo mangiato in un ristorante su uno zatterone, anche se faceva freschetto abbiamo chiesto di farci mettere un tavolo fuori. Si vedeva la fortezza illuminata, la luna si rifletteva sull’acqua, e all’interno un’orchestra Zingara intratteneva i clienti con canti e balli. Il week-end seguente, cioè ieri, sono andato alla scoperta del grande mercato, della stazione ferroviaria e della metropolitana. Ioanna tornava a trovarmi, io purtroppo ho un visto a ingresso unico (non lo sapevo, e ho rischiato di rimanere bloccato in Armenia quando sono andato a Gyumri) e sono in attesa di quello multiplo. Ho deciso di andare a prenderla usando la metropolitana, imparando così ad utilizzarla. Si prende una scala mobile che scende profondissima, mai visto una cosa simile, mi aspettavo da un momento all’altro di incontrare Belzebù, e mi ritrovo in una stazione abbastanza bella, pulita, con tutto scritto solo in Georgiano, cioè ghirigori. Tra la mappa che avevo, qualcuno che qualche parola di inglese la parlava, sono riuscito ad arrivare lì dove si cambia linea, così almeno credevo, mi fanno riprendere la stessa linea, finalmente arrivo alla grande stazione dei pullmann. Chiasso, confusione, bus in partenza per mosca, un grande mercato di cose più o meno varie, pozzanghere e fango dappertutto visto che aveva appena smesso di piovere, e infine mi rendo conto che i pullmann dall’Armenia arrivano in un’altra stazione, dall’altra parte della città. Stupendo. Magnifico. E mo’ che faccio? Voglio prendere un taxi, ma una signora molto gentile che parla un po’ d’inglese s’intromette, e con gran rabbia del tassista mi dice che faccio molto più in fretta in metrò. Dalla mappa attaccata al muro in ogni carrozza, risulta che la stazione giusta è all’altra estremità della stessa linea. Ormai avevo imparato a riconoscere i nomi di alcune stazioni annunciati dagli altoparlanti, e quale non è stata la mia sorpresa di ritrovarmi vicino a casa, su quella che dovrebbe essere l’altra linea! Troppo tardi per andare a prendere Ioanna, esco di corsa dalla metropolitana in modo che il cellulare che mi hanno appena rifilato prenda e ben che ho fatto, perchè in strada verso casa sento che squilla “sono Ioanna, sono in centro a Tbilisi…” Il grande mercato, vicino alla stazione ferroviaria, è pazzesco. Nelle strade vicine, un sacco di gente che vende, vendicchia, venducchia, spesso senza bancarella, peperoncini, cavoli, formaggi, sacchetti di plastica. File di botteguccie che cambiano dollari, vendono CD piratati o concentrato di pomodoro, poi si arriva ai mercati coperti: quello dell’abbigliamento, ci si perde in gallerie di giacche di velluto viola, mutande turche, collant italiani, scarpe belle e brutte; quello della frutta e verdura, vasto; e poi il più impressionante dei tre, quello di carne, pesce, formaggio, farina e miele. Immenso, con le voci che rimbombano, si vendono montoni macellati interi, maialini da latte già farciti, sono esposte montagne di farine di ogni genere, i venditori di miele, ma anche quelli di olio, te li fanno assaggiare ungendoti le dita con punte di coltello, mentre ragazzini ti sbattono sotto il naso mazzi di dragoncello. I polli sono a mucchi ben ordinati, mentre i cuori di bue sono esposti nel tentativo di far venire l’acquolina in bocca al cliente potenziale. Ci sono mendicanti, ma non di più che in città; dove sono particolarmente numerosi è nel metrò. Le scale d’accesso alla fermata della stazione dei pullmann dove sono andato per errore offrono una scena da corte dei miracoli. Quel che colpisce soprattutto è il numero di vecchi mendicanti, gente molto anziana, curva, tremante, che chiede l’elemosina per la strada. Molto comune è anche la presenza agli angoli delle strade di vecchiette che vendono semi di girasole. Per finire, vi racconterò ciò che è capitato martedì scorso, anche se credo di averne già parlato in inglese. Avto, l’autista, viene a prenderci come ogni mattina. Ci porta in ufficio, Silvia prende le chiavi, apre, e… Caccia un urlo: siamo accolti da una nuvola di fumo nero acre, soffocante, dal terribile odore di gomma bruciata. Ci accertiamo che non c’è fuoco, tratteniamo il fiato, ci precipitiamo dentro e spalanchiamo tutto. Dopo un po’ l’aria si fa di nuovo respirabile, e ci accorgiamo che tutto, ma proprio tutto, pavimenti, pareti, soffitto, tavoli, computer, telefoni, fax, fotocopiatrice, caffettiera, tazze, bicchieri, matite, carte, libri, fogli, quaderni, sono coperti da fuliggine nera. Cos’era successo? Aveva preso fuoco lo stabilizzatore a batterie, l’apparecchio che serve a mantenere l’alimentazione elettrica quando salta la luce. Per tre giorni ci siamo stabiliti all’MSF center, che non è poi così male perchè Nino e Nato sono molto carine. Martedì, 1 giugno 1999: Toréador prends garde L?arrivo del caldo è meno stimolante alla scrittura dei geli invernali Armeni. Cercherò comunque di raccontarvi alcuni momenti delle mie ultime settimane. Due settimane fa siamo andati all?opera, davano la Carmen. Alcuni giorni prima, di ritorno da uno di quei posti dove in principio si curano sifilidi e gonorree, in auto con Nana e Avto noto passando davanti al teatro un grande striscione coperto di ghirigori dall?apparenza invitante. Chiedo a Nana se è prevista qualche manifestazione interessante, e lei mi dice ?certo, c?è la Carmen di Bizet, col miglior direttore d?orchestra di tutta la Georgia?. Le domando se le piacerebbe andarci, e mi dice eccome, magari anche con altri colleghi. Di ritorno in ufficio, chiediamo in giro, vogliono tutti venire, e così organizziamo per mercoledì. Temo, l?altro autista, va a comperare i biglietti, sono 10 Lari (5 dollari) a testa e siamo sistemati in due palchi. Lo spettacolo inizia alle sei, usciamo prima dall?ufficio, Nana è elegantissima, Avto tutto in tiro, Nia particolarmente chic, avevamo tutti fatto uno sforzo (il codice vestimentario di MSF è scaciati). All?ingresso del teatro che da fuori sembra una moschea, una gran calca. Pigiatissimi, siamo fatti passare uno per uno da un?intendente che ci scruta sospettosa e controlla attentamente i nostri biglietti. All?interno, troviamo facilmente i nostri palchi e ci sistemiamo abbastanza comodamente. La sala è piena, e la maggioranza del pubblico è piuttosto elegante. Il teatro è stato costruito nel 1875, è classico di forma e dimensioni con quattro file di palchi, ma con dei motivi persianeggianti, come la facciata. E pulito, in ordine, ben tenuto, purtroppo scade completamente al livello dei servizi igienici, peggio dei cessi della stazione di Guardaggiù. Lo spettacolo è stato bello, e persino io, che sono totalmente ignaro e indifferente alla musica, mi sono divertito. All?uscita, siamo assaliti dai mendicanti. Chissà se succedeva la stessa cosa nelle città europee dell?ottocento? Stendhal descrive i raccattatori di cacche, che all?uscita della Scala, a Milano, seguivano le carrozze per ricuperare gli escrementi dei cavalli. Qui la povera gente è più moderna, chiede soldi. Abbiamo finito la serata a casa, dove ho improvvisato una pastasciutta. Nana e Nia hanno voluto una lezione su come arrotolare gli spaghetti sulla forchetta.

Il week-end seguente, decido di andare a Yerevan a trovare amici e colleghi del mio soggiorno armeno. Voglio provare ad andarci di notte in treno, 350 km in 14 ore. Venerdì pomeriggio, mentre con Nana sto discutendo condizioni con un distributore di materiale per fare il test dell?HIV, Temo va alla stazione ad acquistarmi il biglietto. Mi dice che sono ventidue Lari, ma che ne ha pagati venticinque in modo da farmi avere uno scompartimento tutto per me. La stazione è moderna, brutta, sporca e scura. Ci sono vari venditori di cibo e bevande, e non mi è difficile acquistare una forma di pane, un salame e una bottiglia d?acqua per il viaggio. Trovo il treno, ci sono delle tendine alle finestre con scritto ?Armenia?, il mio vagone è il più bello, con un corridoio col tappeto e scompartimenti con quattro grandi cuccette. Su quelle di sopra, ci sono veri e propri materassi arrotolati e cuscini. Pago due Lari al controllore, e quello mi porta una coperta, e lenzuola pulite chiuse dentro del cellophane. Puntualissimo, alle sei, il treno parte. E lento, ma così lento, che vien quasi voglia di andare a piedi. Si ferma cinquanta volte per pochi minuti, fino ad arrivare all?ultima stazione prima della frontiera. Lì resta immobile per ben due ore, non capisco cosa succeda, intanto un controllore ridendo mi chiede di alzare un sedile, e mi mostra scatoloni di banane. Dalla sua mimica capisco che le sta portando di contrabbando a Yerevan. Poi arrivano due soldati, mi chiedono di dargli il passaporto, e spariscono. Finalmente tornano, e mi fanno segno di seguirli. Io sono molto preoccupato, ma quelli mi dicono ?problema ara ri? (nessun problema ? chissà perché ?no problem? è un idioma universale?), usciamo dalla stazione, traversiamo una strada, e entriamo in una caserma. Andiamo dall?ufficiale di turno, quello sfoglia il mio passaporto, apre un?enorme cassaforte, e ne tira fuori un timbro. Poi prende un foglio di carta, e fa delle prove di funzionamento del timbro stesso. Il risultato non è mai quello voluto, nonostante ci alitasse sopra con energia. Alla fine, stufo o soddisfatto, non so, si decide a timbrarmi il passaporto. Riparto col soldato verso il treno, e quello pretende che gli dia cinque dollari. Allora rispondo d?accordo, ma li do all?ufficiale, sul che lui desiste e mi rende, con mio sollievo, il passaporto senza fare altre storie. Finalmente il treno riparte, ormai fa buio, avevo fatto il letto di sotto, ma per leggere devo andare in alto: lì c?è l?unica luce che funziona dello scompartimento. Stavo per andare a dormire, quando facciamo nuovamente una sosta interminabile; questa volta siamo in Armenia. Sono già seminudo sotto le lenzuola quando vengo tirato giù dal letto dalla polizia di frontiera Armena; fortunatamente si accontentano di un occhiata al passaporto. Finalmente si dorme, penso io; ma non ho fatto i conti col personale del treno che ha deciso di organizzare un grande happening proprio davanti alla mia porta con risate, schiamazzi e grida. Devo aprire lo porta e cacciare un urlaccio affinché si decidano a fare un po? di silenzio. Poi dormo bene sul serio, e vengo svegliato brutalmente dal controllore alle nove agitatissimo perché stiamo per arrivare. Esagera, si arriva solo alle dieci, ma mi fa una tale fretta che per errore metto la federa nella mia sacca; quello torna arrabbiato dopo dieci minuti e mi accusa di averla rubata. Difficile difendere la propria innocenza quando non si parla la stessa lingua! La fine del viaggio è stata passata contemplando il paesaggio armeno verde di primavera, cosa nuova per me, e osservando divertito l?altro controllore tirar fuori banane da varie botole sotto il tappeto del corridoio. Infine arriviamo alla stazione di Yerevan, Art Déco, grandiosa ma deserta, con Ioanna, convinta che il treno arrivasse alle otto, che mi aspettava da due ore.

Week-end tranquillo a Yerevan, e domenica mattina vado all?autostazione a prendere il pulmino per Tbilisi. Sono riconosciuto e calorosamente salutato dall?autista di un altro pulmino, che alcune settimane fa aveva trasportato Ioanna da Tbilisi a Yerevan. Pare che a causa dei saluti che ci eravamo scambiati al momento dell?addio, per tutto il viaggio autista e passeggeri avessero scherzato ed ero stato soprannominato ?bye-bye-jan?. Intanto l?autista del pulmino giusto aspetta che questo si riempi, fortunatamente per me e gli altri passeggeri non si riempie del tutto, e si parte. Facciamo una strada che non conoscevo, lungo la ferrovia, cosa che mi permette di godere dei paesaggi che mi ero perso viaggiando di notte. Passiamo in una specie di gola in mezzo a montagne coperte da foreste, e ci fermiamo a mangiare in un posto bellissimo: facciamo infatti una lunga sosta in una specie di trattoria, con dei tavoli in un prato all?ombra di alberi in fiore. Si sente il rumore di un torrente, uccelli che cinguettano, le montagne svettano intorno a noi, e la carne sfrigola sul fuoco. Se quella locanda fosse anche un albergo, la consiglierei a qualunque coppietta cercasse un luogo particolarmente romantico. Ripartiamo, usciamo dalle montagne, e arriviamo alla frontiera. Lì, toh guarda caso che sorpresa, grana: la polizia armena vede il mio timbro di uscita del quattro marzo, non ce ne sono altri di ingresso, e mi chiede se sono entrato di frodo. Io avevo benedetto quelli che di notte nel treno non mi avevano disturbato più di tanto, ma il timbro è necessario! Per fortuna gli mostro il timbro di uscita Georgiano e quelli si accontentano. La strada dal lato georgiano, benché in pianura, è in uno stato pietoso, mentre in Armenia era buona, e il viaggio diventa lento e faticoso. Comunque, dopo aver fatto salire un tipo grasso con tendenza ad addormentarsi e accasciarsi su di me, arriviamo a Tbilisi, e posso tornare a casa stanco ma contento.

Mercoledì qui era vacanza, era la festa dell?indipendenza. Alcuni giorni prima Nana mi aveva mostrato di sfuggita l?ippodromo, dicendomi che si possono affittare cavalli. Così decido di andare a vedere insieme alla mia collega Sylvia, che si porta dietro suo figlio di un anno Daniel. Si tratta di uno spazio verde molto grande, dove c?è un immenso prato mal tenuto con una tribuna, un boschetto, due maneggi all?aperto, e una specie di gran giardino pubblico. Ci sono varie scuderie, una della ?scuola?, le altre private. Appena arrivati, andiamo verso il maneggio più grande, dove ci sono varie persone a cavallo, ognuno per i fatti suoi. Chiediamo in giro se qualcuno parla inglese, arriva un ragazzino, gli chiediamo se è possibile montare, a chi rivolgerci, eccetera; quello smonta da cavallo, mi mette le redini in mano e mi dice: ?Ecco. Sono cinque Lari l?ora?. Ah, be?, d?accordo; monto, mentre Sylvia, a causa di Daniel, non vuole un cavallo. Il mio è vecchio e stanco, e non c?è verso di farlo andare avanti; ma sono stato notato da una stupenda ragazza Georgiana che, dal bordo del maneggio, mi ha fatto un sacco di domande su da dove venivo e quanto tempo sarei rimasto a Tbilisi. E stata anche bene attenta a farmi sapere che il bambino con lei era suo fratellino, che lei non era sposata. Di ritorno dall?ippodromo, decido di andare al mercato; ma avviandomi verso la stazione del metrò noto l?insegna di un barbiere. Avendone assolutamente bisogno, entro. Sotto il portone di una vecchia casa, si salgono alcuni gradini, e si entra in una botteguccia con una sola poltrona. Riesco a spiegare più o meno a gesti, e con dei ?da?, ?niet?, ?dirh? (si), ?ara? (no), eccetera, come voglio il taglio, e comincia la seduta. Quello mi chiede ?american?? Ara, rispondo, Italiano. Allora lui mi dice: Italia Verdi, Puccini, Pavarotti! Fa piacere per una volta non sentirmi dire Italia Juventus. Quando gli ho fatto capire che mi era piaciuta la Carmen, ha approvato vigorosamente. Alla fine sono stato soddisfatto del taglio, e il costo di due Lari e mezzo non mi ha tolto il pane di bocca.

Giovedì sera sono arrivati dall?Armenia per venirmi a trovare i miei vecchi colleghi Ioanna, Spiros e Kathleen. Da loro la festa dell?indipendenza era venerdì, e non mercoledì, e così hanno fatto un week-end lungo. Venerdì, mi aspettava una brutta sorpresa: quelle brutte bestie avevano comperato anche per me dei biglietti per l?opera, ma quella sera non c?era una vera Opera, ma bensì Elena Obrazova, una vecchia gloria del Bolshoi, che cantava arie tratte da varie opere. Non era brava, il tutto era noioso, ma per fortuna è durato solo due ore. Il giorno dopo siamo andati a Mtskheta (provate a pronunciare?), l?antica capitale. Sulla riva del fiume, circondata da muri merlati, c?è una grande basilica molto bella. La guida, che si era imposta a noi appena arrivati, ci spiega sussurrando (c?era una messa in corso) che le colonne sono di due epoche diverse, ma di colonne non ce ne sono. Siamo poi andati a passeggiare lungo il fiume, in mezzo a maiali pascolanti. Tornati in città, abbiamo fatto la spesa perché la sera avevo invitato un po? di gente. Ho preparato il mio sugo Georgiano, sarebbe a dire pomodoro fresco, storione affumicato, aglio, prezzemolo e olio extravergine di girasole (cioè un olio venduto sfuso al mercato, che sa veramente di girasole). Come secondo, due grossi polli arrosto con patate novelle, carote e cipolle. Marianne e Sylvia avevano preparato grandi insalate. Ho cucinato di sotto, ma abbiamo ricevuto gli ospiti di sopra, dove c?è più spazio e c?è un terrazzino. Tra i colleghi, il personale locale, gente di MSF-Francia e di altre ONG, eravamo 23. E stato un successone, mi hanno fatto tanti complimenti, poi abbiamo ballato Salsa e Merengue. Domenica mattina ho portato Ioanna e Kathleen all?Ippodromo, e abbiamo affittato tre cavalli. Dopo varie suppliche, ci hanno portati sul grande prato centrale, dove era in corso una gara di salto. L?unico modo di fare correre un po? il mio cavallo era di avvicinarmi alla competizione, che lo innervosiva. A un certo punto mi sono preso uno spavento quando è partito al galoppo col chiaro intento di andare a litigare coi cavalli in gara, e sono quasi caduto. Comunque è tutto andato bene, e abbiamo concluso il week-end con una gran mangiata in un ristorante all?aperto a base di specialità e birra locali.

Venerdì, 2 luglio 1999 :banane e preservativi E passato un mese dalla mia ultima missiva e, benché non ci sia poi molto da raccontare, cercherò di darvi un quadro abbastanza completo di ciò che ho potuto osservare in questo paese. Il nostro è un progetto di salute riproduttiva, e perciò ci occupiamo da un lato di malattie sessualmente trasmissibili, e dall?altro di gravidanza e contraccezione. Il problema, apparentemente comune a tutte le ex-repubbliche sovietiche, è che l?aborto è un vero e proprio metodo di controllo delle nascite. Il basso livello di vita, settant?anni di negazione dei dogmi religiosi, cattivi ricordi di pillole e spirali in epoca comunista che avevano come principale qualità quella di far star male la donna che li usava, il radicamento di antiche tradizioni e mentalità, l?alto livello di alfabetizzazione, e il fatto che i medici delle strutture pubbliche trovano negli aborti una delle poche facili fonti di reddito, sono il micidiale cocktail che porta ad un alto numero di gravidanze ma un basso livello di natalità in questo paese.

Cercherò di spiegarmi meglio: il fatto che l?insieme della popolazione goda di un minimo di istruzione, e che certi divieti della chiesa non influenzino più di tanto le decisioni famigliari, portano a non desiderare famiglie particolarmente numerose quando è difficile tirare a campare. In compenso sembra proprio che la pillola disponibile in epoca sovietica fosse così carica di estrogeni che provocava irsutismo, cioè la poveraccia che la prendeva diventava pelosissima, oltre a rischiare problemi cardiaci. Inoltre, e qui arriviamo a un problema legato alla mentalità ?macho? dell?uomo caucasico, il preservativo proprio non piace. Astinenza? Be?, provate ad andare a propagandarla voi, magari con l?esempio? Insomma che cosa resta? L?aborto, perfettamente legale, a un costo relativamente abbordabile, però sufficientemente alto da far campare una quantità di medici, infermiere, levatrici. Ciò che viene soprattutto praticato è il ?mini-aborto?, cioè un aborto molto precoce. In pratica, molte donne, dopo pochi giorni di ritardo fanno un esame di gravidanza confermato dall?ecografia, e via per un?aspirazione. Abbiamo avuto il caso di una ragazza di ventitrè anni che aveva già subito ventitrè aborti (ma non uno all?anno da quando è nata!).

In un simile contesto MSF ha organizzato un seminario per ginecologi qui a Tbilisi. Il seminario è stato dato da Sam Hutt, medico inglese, invitato qui a Tbilisi per la circostanza e che ha abitato in casa con me per una settimana. E un tipo incredibile; lavora due giorni alla settimana in un ambulatorio di Londra a somministrare anticoncezionali; il resto del tempo fa il cantante di musica country con il nome di Hank Wangford, scrive articoli per il ?Guardian?, o libri sui cowboys dell?America Latina. La sua foto è apparsa sulla copertina della sezione viaggi del Guardian del 9 maggio: completamente nudo, con scarponi e zaino, sulla cima di una montagna dei Carpazi. Oltre a tutte le sue attività, è pure presidente della ?Nude Mountaineering Association?. Ci ha spiegato che in Inghilterra, se una donna vuole prendere la pillola e fumare spinelli al tempo stesso, lui le proibisce di mescolare Hashish al tabacco, a causa del rischio di trombosi, e le spiega che è meno pericoloso fumare Marijuana, al limite rinforzandola con un po? di Hashish. Il seminario è andato molto bene, Sam è molto carismatico e il modo in cui spiegava ai medici locali come impostare un dialogo con una donna che desidera la contraccezione, o un intervento di emergenza in caso di rapporti non protetti, era brillante. Ha organizzato esercizi nei quali presentava ?casi?: una donna vi dice che ha dimenticato di prendere la pillola un giorno? Voi cosa fate? Oppure: una ragazza di quindici anni vi telefona da una cabina in lacrime dicendo che ha avuto un rapporto: come rispondete? In questo caso preciso abbiamo slittato sui problemi sociali. Sam ha insistito che vengano chieste informazioni sul partner, inclusa la sua età e la relazione famigliare con la ragazza. Infatti qui ci si scontra facilmente con idee preconcette: primo le ragazze arrivano vergini al matrimonio, poi se non succede comunque hanno rapporti solo col fidanzatino, e ovviamente, il cinquantenne che ne abusa per non parlare di incesto, be?, queste cose in Georgia proprio non esistono, figurarsi! Finiti i ?casi?, completato il corso su pillola bi-ormonale, pillola mono-ormonale, iniezioni, impianti sottocutanei, spirale, pillola del giorno dopo, spirale del giorno dopo, preservativo femminile (che strano oggetto!), poco popolare perché rumoroso, spermicidi e diaframma, si arriva al preservativo maschile. I ginecologi presenti erano tutte donne, ma Sam ha insistito che siccome c?è difficoltà a persuadere molti uomini ad usare tale metodo, che almeno le donne sapessero perfettamente come va usato in caso riescano a convincere il marito. Quindi i primi a conoscerne l?uso devono essere i ginecologi! Siamo perciò passati all?esercizio delle banane. Sam ha distribuito a ognuna una banana e dei preservativi, e hanno tutte dovuto infilare il preservativo su tale frutto. Il mio si è subito rotto, non userò mai quella marca (anche se forse la forma e la consistenza di un uccello è diversa da quella di una banana con tanto di buccia). Alcune hanno fatto le cose correttamente, ma altre non anno pizzicato la punta per togliere l?aria. Sam le ha redarguite, e alla fine della lezione tutte le dottoresse erano perfettamente in grado di infilare un preservativo su una banana.

Con tutto ciò, ho anche una vita sociale; sono tornato in Armenia di week-end. Il fine settimana scorso l?ho passato a Gyumri insieme a Ioanna e due ragazze di MSF Belgio: Hilde, infermiera psichiatrica norvegese, e Cinthia, levatrice belga. Inoltre eravamo con Anahit, la stupenda interprete che avevo quest?inverno, e Anoush, tanto amata da mia nipote Carlotta. Sabato pomeriggio siamo andati alla roccia del rito del sedere. Si tratta di un pietrone con un buco in mezzo, e bisogna passarci attraverso tre volte se si vuole che un proprio desiderio venga esaudito. Alcune donne si bloccano al livello del sedere, tutti dietro a spingere, e vista da davanti la roccia liscia con una ragazza tagliata a metà che sembra inchiodata lì come un trofeo di caccia fa uno strano effetto.

A Tbilisi, la sera andiamo spesso in dei ristorantini locali. La cucina georgiana è ricca, varia, e decisamente buona. Tra le specialità da annotare, il cachapuri, focaccina farcita di formaggio, e che si trova ovunque; è il classico snack locale. Stupendo il pollo al forno in brodo coperto d?aglio, ottime le melanzane con salsa di noci, e che dire dello spezzatino con verdure miste o del coccio al forno di pezzetti di fegato e cuore con cipolle all?aceto? La birra alla spina locale, la Kazbegi, è una poesia, e i vini sono notevoli (anche se loro hanno una strana preferenza per quelli rossi dolci). I Georgiani hanno però una strana mania quando ci si siede a tavola con del vino o alcolici più forti: è assolutamente indispensabile fare brindisi interminabili, anche se si è solo tre amici o si è in famiglia. A turni, ognuno deve alzare il bicchiere e fare uno sproloquio all?amicizia, alla patria, alle donne, alla famiglia, che so? Quando ho detto che da noi i brindisi sono rarissimi, solo a Natale o in occasione di un matrimonio, e normalmente non si fa niente o al limite si dice ?cin-cin?, si stupiscono, e mi dicono: ?ma come, in un paese di vino come l?Italia non brindate??. Morale: se uscite con dei Georgiani, a meno che la cosa vi diverta, bevete solo birra, come ho già detto ottima, che qui con la birra non si brinda, proprio non si fa, ?è il brindisi al nemico?. Venerdì, 30 luglio 1999: in montagna L?estate, quella vera, calda, soffocante, è arrivata anche qui, e diminuisce la voglia di scrivere e di lavorare, mentre aumenta quella di bere birra, soprattutto che quella alla spina è molto buona. Comunque il lavoro procede tranquillamente, così come la vita sociale.

Tre settimane fa sono stato invitato a passare il weekend a Idjevan, in Armenia, da Cynthia, levatrice belga del programma di salute riproduttiva. Saremmo stati una bella combriccola e mi rallegravo all?idea di andarci. Temo, l?altro autista, ha offerto di accompagnarmi fino alla frontiera, in questo caso abbastanza vicino a Tbilisi. Laggiù ho trovato ad aspettarmi Cynthia col suo autista, e mi ha portato fino a casa sua, in un paese di mezza montagna immerso nel verde. Lì c?era già Hilde, infermiera psichiatrica norvegese che aveva fatto provvista di birra, e poco dopo sono arrivati prima Ioanna, mia collega dell?inverno scorso, poi Ion, funzionario norvegese dell?HCR, e Armel, suo collega armeno. Abbiamo passato un magnifico weekend a base di mangiate, bevute, splendide passeggiate nei boschi, e sabato sera abbiamo coronato il tutto con una succulenta Moussaka preparata da Ioanna con le magnifiche melanzane locali, che abbiamo degustato sul terrazzo al chiarore della luna. Dopodiché su proposta di Ion, ci siamo lanciati in dei ?drinking games?, cioè nella nostra buona, vecchia indianata. E così a notte inoltrata su questa veranda che domina il paese, un gruppo di seri professionisti della salute e della cooperazione allo sviluppo, ultratrentenni, gridavano come ossessi, ubriachi, ?fuck?, ?blow-job?, eccetera, con l?eco che restituiva queste simpatiche parole.

Il giorno seguente, dopo una tarda, pigra e abbondante colazione sul terrazzo, è giunto il momento degli addii. Io sono stato accompagnato alla frontiera dall?autista di Cynthia, e mollato lì da solo perché nessuno da Tbilisi poteva venirmi a prendere. Passo la dogana armena, i soldati mi lasciano transitare, attraverso il ponte con la mia sacca a rotelle al traino, mi sembra di essere al ?check-point Charlie? tra Berlino est e ovest, arrivo la posto di frontiera Georgiano dove ho molta difficoltà a spiegare che cosa faccio lì da solo senza auto, finalmente mi lasciano passare, m?incammino sotto un sole cocente, sono osservato con parecchio stupore dagli autisti di un convoglio militare russo in cammino nella direzione opposta, percorro tre chilometri in quelle condizioni, arrivo al primo paese e mi accascio all?ombra di un albero. Siamo a Sadakhlo, abitato principalmente da azeri, e mentre le donne trasportano bidoni di rame da venti litri pieni d?acqua sulle spalle, gruppi d?uomini accovacciati sotto gli alberi giocano a domino. Alzo il pollice, si ferma un?automobile vecchia e scassa, e un poliziotto mi da un passaggio. Mentre lui mi mostra la strada in uno stato pietoso e mi fa capire ?Vedi? Ecco cosa ha ottenuto Gorbatchev con la sua Perestroika! Prima, questa strada era perfetta!?, io lentamente mi sciolgo, perché nonostante la temperatura esterna sia tropicale, il riscaldamento della macchina è bloccato su ?massimo?. Finalmente arriviamo alla cittadina di Marneuli, dove trovo facilmente un pulmino che mi riporta a Tbilisi dove il mio nuovo collega, Nicolai, mi aspetta con un pranzo pronto.

Infatti dai primi di luglio è arrivato un dottore bulgaro a dividere la nostra casa e le nostre attività. Ama molto fare da mangiare, almeno quanto me, ma ha alcune strane concezioni culinarie, soprattutto per quanto riguarda l?aglio. Praticamente tutto quello che lui prepara, tranne forse il caffè, lo seppellisce sotto una montagna d?aglio. In Bulgaria, come in Grecia e in altri paesi orientali, va di moda lo yogurt salato, con erbe, cetrioli, o altro. Idea che può apparire strana a noi, abituati a consumarlo puro oppure dolce, ma in fondo perché no? Però una testa intera d?aglio, ho detto una testa e non uno spicchio, e non sto esagerando, per mezzo litro di yogurt mi sembra veramente tanto! Le nostre Bagne Caöde, anche le più fetenti, sono ormai bazzecole per me; semplici mentine. Se prestate attenzione, quando tira il vento dall?est, sentirete forse profumo d?aglio; sono io che respiro.

La settimana scorsa mi sono preso finalmente qualche giorno di vacanza, e sono andato a passare una settimana in montagna al fresco con Ioanna. Siamo andati a Kazbegi, un paesone a 1700 metri a nord di Tbilisi, vicino alla frontiera con la Russia. Andiamo con uno dei nostri autisti, Avto, la mia collega messicana Silvia, suo marito norvegese Gaute (quella gente ha proprio degli strani nomi: come si fa a chiamarsi ?vai fuori dalle balle??) e loro figlio Daniel. Ci fermiamo lungo un torrente a mangiare degli stupendi spiedi di carne di maiale alla brace, e nel pomeriggio arriviamo a destinazione. Cerchiamo un albergo, ci indicano quello che una volta era dell?Intourist, l?agenzia turistica sovietica, ed entriamo in una fiera e monumentale costruzione completamente allo sfascio dove una vecchietta ci dice che per due dollari e mezzo a notte possiamo avere una camera con luce ma senza acqua, e una con acqua (un tubo che esce dal muro, solo fredda) ma senza luce. Cerchiamo allora la Guest-House del WWF che nessuno conosce; dei poliziotti finalmente ci accompagnano, la troviamo, è chiusa, svegliamo il guardiano e lo convinciamo ad offrirci ospitalità. La casa è carina, in mezzo al verde; le camere sono accoglienti, pulite, con acqua calda e fredda. Sono trentacinque dollari a notte a testa con tre pasti, ma ne vale la pena. Due simpatiche adolescenti ci preparano i letti, e ci annunciano che siccome non ci aspettavano, quella sera c?è ?solo caffè?, e così noi partiamo alla disperata ricerca di un ristorante aperto. Una passante cui ci rivolgiamo affamati ci dice di seguirla, e fa aprire per noi un ristorante chiuso. Mangiamo focaccine riscaldate, insalata di pomodori e beviamo birra. Torniamo in albergo, e ci rendiamo conto che la frase ?solo caffè? era da interpretare alla Georgiana: infatti ci stavano tutti aspettando con pane, salame, formaggio, biscotti, vodka e? caffè. Mangiamo quindi una seconda volta; non possiamo offenderli.

Kazbegi è una grossa borgata in fondovalle, con le case sparpagliate. Non c?è un centro come da noi intorno alla chiesa; quest?ultima è in disparte, come quasi sempre in Georgia; anzi spesso sono in cima a colline. Per le strade, girano completamente libere mucche e maiali; la sera se ne tornano in stalla per conto loro. E molto curioso vedere al tramonto gruppi di maiali che guaiscono di fronte a cancelli chiusi per farsi aprire. Le mucche, poi, sono le dirette responsabili della produzione del miglior yogurt che mi sia mai capitato di mangiare.

Il giorno seguente facciamo la nostra prima gita: raggiungiamo una chiesa medioevale che domina dall?alto il paese; lì Gaute e Silvia si fermano a causa del bambino, e noi proseguiamo con l?intento di vedere uno dei grandi ghiacciai che scendono dal monte Kazbegi, 5033 m, lo Gveleti Glacier. Privi d?allenamento come siamo, è una gran faticata, ma abbiamo la soddisfazione di raggiungere non solo la nostra meta, ma anche di vedere gruppi di cavalli apparentemente selvatici, accompagnati da puledri, che scorazzano nella più totale libertà. I giorni seguenti sono stati tutti occupati da magnifiche gite, delle quali restano memorabili quella alla Trusso Gorge e la salita al ghiacciaio Devoraki. La Trusso Gorge è una valle percorsa da un torrente tumultuoso. Temo, il guardiano dell?albergo, ci accompagna in macchina alla partenza della gita, e ci da appuntamento per le sette e mezza. Traversiamo un vecchio paese di poche case pieno di magnifici maialini rosa, e seguiamo una strada di terra a picco sul torrente. Ad un certo punto traversiamo un ponte, cambiamo lato, la valle si allarga, beviamo acqua fresca di sorgente, e ammiriamo lo spettacolo di formazioni di calcare bianco con salatiti e stalagmiti. La valle diventa dolce, larga, luminosa, e in lontananza si intravedono rovine. Notiamo dall?altra parte del torrente un laghetto dall?acqua stranamente turchese, e ci rendiamo conto che deve trattarsi del famoso lago di acqua minerale di cui ci hanno parlato. Continuiamo a camminare, raggiungiamo un paese con tre case abitate, le altre in rovina, maiali che scorazzano, e i resti di un?antica fortezza che lo sovrastano. C?è un ponte, lo attraversiamo, continuiamo verso il fondovalle, e ci fermiamo sotto un altro castello diroccato. Il paesaggio è bellissimo, spettacolare ma dolce al tempo stesso, e oltre ad alcuni contadini e pastori ci siamo solo noi. Torniamo indietro, e non attraversiamo il ponte in modo da andare a vedere il famoso laghetto. Ben presto ci troviamo a camminare su un terreno che sembra uscito da un altro pianeta: ci sono come delle pozzanghere acquitrinose ma limpidissime, dalle quali escono bolle. Dopo una faticosa camminata tra sassi, erbe e chiazze d?acqua, raggiungiamo il lago. L?acqua è limpida, violentemente azzurra, e il bordo è arancione vivo con una linea nera. In mezzo c?è un forte ribollire, come in un Jacuzzi; purtroppo l?acqua è freddissima. Ho provato ad assaggiarla, e quale non è stata la mia sorpresa a scoprire che è frizzante! L?odore di uova marce invece è meno invitante; indica la presenza di zolfo, responsabile tra l?altro dei depositi arancioni sui bordi. Cominciava ad farsi tardi; e dovevamo avviarci per arrivare in tempo all?appuntamento col nostro autista. L?idea di tornare indietro su quel terreno impervio fino al ponte non ci garbava, e allora decidiamo di proseguire su questa sponda del torrente fino al ponte più a valle. Ci inerpichiamo su e giù per ripidi pendii, sprofondiamo nella melma, scivoliamo sui sassi, finalmente arriviamo in vista dell?ambito ponte? e ci accorgiamo che è assolutamente impossibile passare, c?è una parete rocciosa liscia e totalmente a picco sulle acque vorticose. Ci rimaniamo veramente di merda, e devo utilizzare tesori di persuasione per impedire a Ioanna di tentare di guadare il torrente. Torniamo indietro, cammina, cammina, cammina, prima di arrivare al ponte più lontano vediamo una Lada Niva dall?altra parte, le facciamo grandi gesta con grida ma quelli nisba. Giungiamo infine al paese, vediamo un camion e un pulmino apparentemente in stato di marcia, chiediamo in giro, ma come risposta otteniamo solo ?benzin: niet? e un offerta di fermarci a dormire. Manca un quarto d?ora all?appuntamento e abbiamo dieci chilometri da fare. Ci mettiamo in marcia incoraggiandoci a vicenda con stupide battute; quando abbiamo compiuto più di metà strada ci imbattiamo in un gruppo di individui completamente ubriachi con dei cavalli. Quelli ci indicano i cavalli, noi ci domandiamo se chissà, forse sono pronti a prestarceli ma no, quelli vogliono brindare con noi e nutrirci. Abbrancano me per un braccio, Ioanna per la manica del golf, e mentre uno tira fuori la vodka l?altro prepara un panino al formaggio, subito adocchiato da un cavallo affamato che rischia di farci cadere tutti quanti in acqua nel tentativo di azzannarlo. Abbiamo l?impressione di trovarci in un guaio serio: quelli non mollano, vogliono a tutti i costi che noi mangiamo e beviamo con loro, noi abbiamo un bel mostrargli l?orologio, cerchiamo di fargli capire che se tardiamo ancora il tipo dell?albergo rischia di chiamare i soccorsi, ma alla fine solo una fuga precipitosa con bicchiere di vodka in mano ci permette di arrivare all?appuntamento con un?ora e mezza di ritardo; miracolosamente l?autista era ancora lì che ci aspettava.

Sabato, accompagnati da Kathleen, una collega belga venuta su per due giorni, abbiamo voluto raggiungere il ghiacciaio Devoraki. La cartina turistica che ci hanno dato all?albergo parlava di ?magnifica salita in foresta con spettacolare vista panoramica su stupendo ghiacciaio, non prima di aver ammirato la vegetazione unica di erbe primigenie alte anche due metri?. L?autista ci molla alla partenza della gita, camminiamo per un?ora su un sentiero in mezzo ai pascoli, per poi inerpicarci in salita in una foresta di betulle. E ovvio che dopo averlo tracciato, più nessuno ha curato quel sentiero, tanto era invaso dalla vegetazione. Usciamo dalla foresta e ci imbattiamo nelle ?erbe primigenie?. Be?, si tratta di una specie di groviglio vegetale densissimo che arriva all?altezza del petto, non c?è più sentiero, per cinque minuti è divertente, poi diventa un incubo, siamo in shorts, passiamo il tempo a grattarci, non vediamo dove mettiamo i piedi: sassi, ruscelli? insomma una gran goduria. Il ghiacciaio è davanti a noi, è bello sul serio, non riusciamo a raggiungerlo perché ovunque sia il sentiero non si passa, a causa di un burrone che sbarra il passaggio. Cerchiamo un posto per fare il pic-nic, vediamo una casa in rovina con un laghetto, che bello che bello, ma anche lì è tutto solo piante alte un metro. Finalmente ci accovacciamo in tre sopra un roccione, mangiamo pane, salame, formaggio e pomodori, poi ripartiamo. Kathleen ci chiede di andare avanti per necessità di bisognino, noi scendiamo camminando su sassi invisibili tirando improperi, poi ci fermiamo ad aspettarla. Aspetta tu che aspetto anch?io, grida, chiama, niente. Kathleen sembra scomparsa. Preoccupati, torniamo a cercarla. Ioanna risale fino al roccione, mentre io, in caso lei sia scesa dall?altra parte, passo lungo il laghetto. Non l?avessi mai fatto: la vegetazione è densissima, spine e ortiche mi martoriano, insetti mi pungono, lunghe erbe mi si avvinghiano intorno alle caviglie, scivolo su sassi e sprofondo in acqua. Comincio seriamente a domandarmi cosa sto facendo lì, potrei essere tranquillamente ad Alassio o perlomeno, essendo in Georgia, su una piacevole spiaggia del mar Nero. Finalmente ritrovo Ioanna, di cui emerge solo la testa, e notiamo quello che sembra la traccia di qualcuno che è passato di lì, con piante calpestate. Vi andiamo dietro con difficoltà, sempre col dubbio che non stiamo affatto seguendo Kathleen ma bensì una mucca o forse un orso affamato. Finalmente rientriamo nel bosco, ritroviamo il sentiero e anche quella bestia di Kathleen che era ovviamente convinta che eravamo noi ad esserci persi. Torniamo a valle e troviamo Temo, questa volta puntualissimi.

Domenica siamo tornati a Tbilisi, fermandoci a fare il bagno in un grande lago artificiale e visitando un?antica chiesa fortificata sulle sue sponde. Lunedì tranquillo in ufficio, e martedì di nuovo in viaggio, questa volta per lavoro, con la mia collega Nana e l?autista Avto. Siamo andati a Kutaisi, nell?ovest del paese, a 230 Km da Tbilisi. E la più antica città della Georgia, e dopo la visita all?istituto delle malattie veneree e al centro trasfusionale abbiamo anche fatto un po? di turismo. Abbiamo dormito in una carinissima pensione famigliare in una casa a balaustre, e abbiamo mangiato (male) in riva al fiume. Avto ha ordinato due bottiglie di spumante e sono stato obbligato a sorbirmi tutta la sfilza dei brindisi (ai bambini, alle donne, a me, alla famiglia, eccetera). Il giorno dopo abbiamo visitato una chiesa diroccata, un?altra bellissima interamente affrescata, una caverna con stalatiti e stalagmiti e abbiamo pure visto le orme di un dinosauro. In quella città ha sempre tirato un forte vento molto caldo al punto che sembrava di essere sotto il casco di un parrucchiere. Al ritorno ci siamo fermati a mangiare (bene) in un meraviglioso ristorante in riva al torrente, e abbiamo pure fatto il bagno. Arrivato a casa alle nove, stanco e accaldato ma fornito di miele acquistato presso gli alveari che ci sono lungo la strada, ho trovato Nicolai ad aspettarmi con un?insalata di aglio, aglio, aglio, formaggio e pomodori.

Lunedì, 20 settembre 1999: incredibilmente rotondi Rotondi, molto rotondi, rotondissimi. Di una rotondità poco comune, sono i sederi delle ragazze Georgiane che ballavano alla mia festa di addio sabato sera. C?era Mzia, con il suoi pantaloni attillati, e poi Nato, la più carina di tutte, gote rosse denti bianchi voce roca, che muoveva quella parte del corpo come le fanciulle di zone più tropicali. Nino, elegante nel suo abito lungo di velluto azzurro, è l?aristocratica del gruppo; in città c?è ancora il palazzo della sua famiglia, trasformato in orridi appartamenti e uffici. Poi Nana, la mia collega, carina come sempre, in abito corto nero, non avrebbe stonato in un elegante salotto torinese. Kathuna, dolcissima, peccato non sia venuta con la sua chitarra. Purtroppo mancava Nia, bellissima, alta, sexy, occupa la scrivania vicino alla mia; spesso viene in ufficio con una camicia che le scopre l?ombelico.

Come avrete capito, ho dato una festa di addio che è stata un successo. Volevo farlo sabato prossimo, e partire per l?Armenia domenica per i miei ultimi giorni caucasici, ma siccome i miei due colleghi Nicolai e Anastasios (Tassos) vogliono approfittare del passaggio e venire a passare un weekend nell?Armenia che gli ho talmente decantato, la partenza è stata fissata a venerdì prossimo e la festa anticipata a questo sabato. Prevedendo una ventina di persone, sono andato insieme a Nicolai al grande mercato e ho comperato tre chili di funghi fenomenali: porcini e quelli che crescono attaccati agli alberi. Ho preso inoltre tre polli, e due chili di pesciolini in salamoia. Tornato a casa in un pulmino stipato con i miei sacchi di buone cose, ho cominciato a cucinare sfilettando i pesciolini, senza dimenticare di dare i più piccoli agli ?hooligans?, due simpatici anatroccoli che regolarmente vengono a farci visita entrando in casa senza scrupoli, purtroppo lasciando in giro varie testimonianze. I filetti sono stati messi a strati con fette di limone, anelli di cipolla e prezzemolo. Ho fatto il risotto con due chili di riso e tutti i funghi non marci, ho infornato i polli con patate e cipolle, e quando gli invitati sono arrivati ho fatto bella figura. La serata è stata un successo; si è mangiato e bevuto, poi ballato, e si è conclusa con una magnifica partita di ?indovina il titolo del film? con qualcuno che lo deve mimare. Nato è stata grandiosa quando le è toccato mimare ?Kamasutra?.

Il giorno dopo, cioè ieri, Nana, Tassos e io siamo andati a David Garedze, un posto che secondo tutti dovevo assolutamente vedere prima di partire. Abbiamo preso il pulmino per Rustavi, una città industriale a 30 Km da Tbilisi. E un posto orrendo, creato dal nulla nel 1949 per farne un importante centro industriale e ampliato fino alla Perestroika. Ci sono dei palazzoni di dieci piani laidi, squallidi, sporchi, fatiscenti, disposti a schiera e che circondano una vasta piazza quadrata. Per fortuna la parte più vecchia, anni cinquanta, è molto più, se non proprio carina, perlomeno a misura d?uomo, con viali alberati e condomini di tre piani con colonnine alle finestre, in uno stile che noi potremmo chiamare anni venti o forse inizio secolo. Arrivati lì, l?autista del pulmino ci propone di portarci lui a David Garedze. Negoziamo il prezzo, e via! Passiamo un panorama industriale tutto vecchie fabbriche degno di un film di Fritz Lang e ci addentriamo in un paesaggio brullo, desolato, inabitato, quasi desertico. La strada diventa uno sterrato pieno di bivi senza indicazione alcuna, e ci sbagliamo varie volte. Chiediamo la strada a dei pastori a cavallo che accompagnano importanti mandrie di mucche (ehi! In Georgia ci sono i cowboy!), e finalmente giungiamo a destinazione, in una valle con rocce a strati multicolori, esattamente come a Petra, in Giordania. Lì c?è un antichissimo monastero, tuttora in funzione. Una cappella e due torri sono in mattoni, le mura di cinta sono in pietra, ma tutto il resto, comprese le celle ancora oggi abitate dai monaci, è scavato nella roccia. E molto bello. Dopodiché ci siamo inerpicati fino in cima alla collina, e abbiamo goduto di una vista pazzesca dall?altro lato, sull?Azerbaïdjan, un vero deserto. Da quel lato ci sono numerose grotte, non è chiaro se sono naturali o scavate dall?uomo, in cui vivevano degli eremiti. Sono affrescate, pare un migliaio di anni fa, con immagini religiose, santi, eccetera. Proprio sulle immagini sono stati incisi, di recente, nomi e date. Immaginate decine di persone che incidono ?Paolo ama Maria? o ?Giuseppe è stato qui il 3 marzo 1988? sugli affreschi di Giotto a Padova? Nana dice che sono stati i soldati russi di stazza lì vicino fino alla fine dell?URSS; può darsi, la maggior parte dei Graffiti è in caratteri cirillici, ma qualcuno in georgiano l?ho visto, e Nana mi ha detto che erano nomi femminili. Comunque per vedere queste grotte si è dovuto camminare su un sentiero abbastanza scosceso, e è stato difficile per il povero Tassos, che soffre di vertigini, e che sobbalzava ogni volta che Nana, che ha la fobia dei serpenti, cacciava un urlo alla vista della minima innocente lucertola.

Il weekend precedente, invece, sono venuti a trovarmi gli amici dall?Armenia. Dovevano venire Spiros e Ioanna, i miei colleghi dell?inverno scorso, più Hilde, carina infermiera norvegese che lavora in un ospedale psichiatrico. Li aspettavo per le nove di venerdì sera, ma per la strada hanno investito una carretta, hanno dovuto accompagnare il povero vetturino all?ospedale (per fortuna, se l?è cavata con dei punti), e negoziare per ore con medici e polizia che venisse stilato un rapporto dal quale risultasse che la carretta l?incidente l?ha avuto per conto suo, in modo di non mandare l?autista sotto processo. Tra una cosa e l?altra, sono arrivati a casa alle due e mezza. E seguito un weekend pigrissimo e mangereccio, ma pure culturale. Infatti sabato sera siamo andati in un teatro che sembra un ?caveau? dell?avanguardia parigina più estrema, a vedere uno spettacolo di marionette molto famoso, ?La Battaglia di Stalingrado?, di Rezo Gabriadze. Tutto in russo, capivo poco, ma Eka, seduta vicino a me, traduceva. Una marionetta cavallo era innamorato di una marionetta cavalla, ma moriva a seguito delle sue ferite in guerra. Una marionetta formica piangeva la morte di suo figlio. Altre marionette, umane, vivevano storie di amore e morte durante la guerra. Molto bello, ma forse un po? troppo intellettuale per me. Dopo lo spettacolo abbiamo mangiato piatti tradizionali georgiani (cervella fritta, funghi in umido, maiale alla brace) in un ristorante attaccato al teatro, tutto in legno col soffitto basso e i poster degli spettacoli ai muri; se non fosse per ciò che abbiamo mangiato e il conto di cinque dollari a testa, avremmo potuto essere in un ?bistrot branché? in Francia o a Ginevra.

Non so cos?altro raccontare: dalla mia ultima logorroica missiva, sono tornato in Armenia due volte, e la prima ho fatto il bagno nel lago Sevan. Visto l?inverno scorso con l?acqua che cominciava a gelare, ci siamo goduti una spiaggia di sabbia bianca, un?acqua limpidissima e un sole micidiale (siamo a 1900 m). E proprio un bel posto, peccato che i gitanti domenicali armeni abbandonino sul posto i resti dei loro pic-nic. Parlando di armeni in spiaggia, è proprio curioso vedere le donne coprirsi come le donne Talebane per evitare a qualsiasi costo il rischio di abbronzare anche un pochino. Mamma mia, soprattutto non essere somigliante a una contadina! Se continuano così, finiranno per assomigliare alla moglie di Dracula, o a Biancaneve: capelli e occhi neri come china, e pelle bianca come la neve. Boh, dopotutto i gusti sono gusti.



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