Burma days
Questa è la relazione moooooolto più dettagliata del viaggio che abbiamo fatto oramai nell’agosto 1999, e che aveva già scritto in 20 righe in questo stesso sito.
Volo malaysian airlines malpensa-kuala lumpur – yangoon (Rangoon se preferite).
Arriviamo all’aereoporto. L’unico internzionale della birmania. È un buco, sporco, poca gente, un solo salone, un bar, un ristorante minuscolo, niente negozi.
Ci perquisiscono i bagagli, arriviamo al punto fatale. Cercare di non cambiare i f.E.C. In birmania ci sono tre valute correnti. Il khiat la vera valuta, il f.E.C. Per i turisti (banconote tipo monopoli con cambio assassino) e i bhat tailandesi. In più si può pagare ovunque in dollari. Un bel casino.
Cerchiamo di sgaiattolare fuori dal’aeroporto senza cambiare i 200 u.S.$ obbligatori in f.E.C.
Un poliziotto ci ferma. Cambiamo! Usciamo finalmente dall’aeroporto. Prendiamo un taxi e lonely placet in mano cerchiamo un albergo. Al terzo tentativo va bene. È un grosso cubo bianco gestito da cinesi. La camera è sporchino, puzza tremendamente di muffa, ma almeno l’aria condizionata funziona.
Scendiamo nella hall per comprare una cartina della città nel negozietto interno. Troviamo una coppia di brianzoli, parliamo del più e del meno, ci “annusiamo” a vicenda. Arriva in albergo un’altra coppia di italiani, anche loro di milano. Finirà che abbiano girato per 3 settimane tutti e 6 insieme.
Il primo giro di Yangoon ci sorprende. La città è enorme, con immensi parchi di giungla fittissima in mezzo alla città. Visitiamo un tempio indù, ci togliamo le scarpe, entriamo vediamo 2 pantegane da 12 chili, ci rimettiamo le scarpe ed usciamo. Gironzoliamo nel bellissimo quartiere coloniale vicino allo strand hotel. Le case di pietra a 3 piani sono coloratissime, mezze diroccate ma splendide.
Tutt’intorno girano migliaia di mendicanti, di bambini seminudi. Il caldo è infernale.
Per fortuna le auto sono rarissime. Come anche i turisti. Ogni 2 metri veniamo fermati da birmani che ci offrono oggettini in vendita, dagli apribottiglie artigianali (ne avremo comprati 15 almeno in 3 settimane, a lattine, a libri…) entriamo allo strand hotel, è stato costruito nell’800 dagli stess 3 fratelli armeni che costruirono il peninsula di hong kong e il raffles di Singapore. Il contrasto è pazzesco. Fuori la povertà, dentro un atrio enorme, marmi, tek ovunque, un piano a coda suonato delicatamente, fiori ovunque….E devo ammetterlo i più bei bagni della birmani.
La sera ceniamo in un ristorantino vicino al centro, mangiando abbastanza male.
Il giorno dopo visita alla shwedagon paya.
Eravamo già stati in thailandia, in malesia, a Singapore, in Vietnam…insomma di templi pensavo di averne visti abbastanza.
E invece….
A bocca aperta. Si resta così di fronte a questo enorme complesso di pagode, di decine di templi e di questo gigantesco stupa ricoperto di oro alto più di 100 m. E con un enorme diamante sulla cima, che si trova nel mezzo. Il tutto è in cima ad una enorme collina artificiale nel mezzo di un grandissimo parco con laghi e stagni ricoperti di ninfee.
Siamo rimasti, credo almeno 5/6 ore dentro il recinto della pagoda.
Ad un certo punto ha iniziato a diluviare, in modo come solo ai tropici riesce.
Ci rifugiamo, noi unici 6 turisti, insieme alle centinaia di birmani, sotto dei tempietti.
Diluvia.
Ma alcuni birmani sono totalmente indifferenti a ciò.
Restano imperterriti d’innanzi ad uno dei mille buddha a pregare per loro o per un loro caro.
Fradici, inzuppati, sembrano dei molluschi. Ma pregano.
Noi rimaniamo affascinati da una dimostrazione così elementare della loro fede. Noi 6 tutti atei.
La sera, scottati dalla pessima cena del giorno prima, andiamo a mangiare nel miglior ristorante tailandese di Rangoon. Mangiamo da dio. Anche troppo. Come delle fogne. Infatti la sera in albergo iniziamo uno spaccio di alkaseltzer e citrosodina.
Il 3° giorno è dedicato a cercare una agenzia che ci porti in giro con un pulmino per la birmani.
La troviamo. È gestita da una ragazza bresciana. E uno dei dipendenti birmani parla bene l’italiano.
Veniamo affidati a lui. Nel 99 molte aree della birmania erano chiuse ai turisti specie per la guerriglia che le tribù del nord oppongono al violento regime militare di Rangoon. L’agenzia ci propone diversi itinerari, e le possibilità sono comunque poche. Considerando che pagan, mandalay e qualche altro posto sono ovvie tappe fisse, per il resto c’è poca scelta.
Ci accordiamo, contrattiamo e paghiamo: 200 dollari a testa per un pulmino da 8 posti con guidatore tutto il tempo. Partenza per il giorno successivo all’alba.
Finiamo la giornata cercando la casa dove è agli arresti domiciliari auung san suu chy. Non la troviamo. Nessuno ci sa dire, o vuole dire dove si trova.
Grazie a dio non ci sono centri commerciali in birmania, e così lo shopping si fa nei bellissimi mercati locali. Tra polli sgozzati, frutta, songet… Mi sono dimenticato di annotare una cosa. In birmania gli abiti occidentali non esistono. Una legge dello stato proibisce l’uso dei pantaloni agli uomini 8ne sono esentati i poliziotti e chi fa lavori specifici). Tutti, uomini e donne indossano l’abito tradizionale: il songet, un pareo a quadretti e una camicia alla cinese. Alba. Partiamo. Ci fermiamo al primo incrocio. Scende l’autista, fa salire un losco figuro. Iniziamo a temere il peggio. Invece no, è solo un borsista. Scambia i f.E.C. E i dollari al mercato nero. Facciamo “il pieno” di khiat.
Si parte. Gli autisti sono in realtà 2. Il pulmino è un toyota semidistrutto che non riesce a superare i 60 km/h.
All’inizio c’è una quasi autostrada, tranne che per le vacche che pascolano esattamente nel centro della strada, ma dopo circa 50 km, diventa un stradina ad una corsia e mezza per entrambi i sensi di marcia. I buchi sono simili a crateri, talvolta a trincee. Foriamo 2 volte. Ci dobbiamo fermare perché il radiatore fuma. Finiamo la benzina.
Iniziamo male.
Dopo circa 7 ore arriviamo a pagu/pegu. Visitiamo un antico tempio con una enorme statua del buddha su 4 lati, giriamo il paesino, e andiamo a dormire con la schiena devastata dagli ammortizzatori del toyota.
Ripartiamo per una sorta di tappone dolomitico. Ci aspettano quasi 12 ore per arrivare a kalaw. Una tappa che abbiamo deciso di aggiungere noi tutti per andare a visitare la missione italiana del posto.
Da risaie monotone e piatte iniziamo a salire sulle colline, attraversiamo paesini minuscoli, posti di blocco, caselli (caselli autostradali per un sentiero!!!) .
Ad un certo punto il nostro pulmino si ferma sotto un albero ai margini della strada.
Gli autisti ci dicono di attendere. Attendiamo.
Dopo 2 ore di lamentele arriva un furgone uguale al nostro dall’altro senso di marcia.
Si ferma e capiamo che dobbiamo fare lo scambio con dei turisti che hanno terminato il loro giro birmano.
Scendono, sono 4 spagnoli. Scappano, tirano giù gli zaini dal loro furgono di corsa, li buttano dentro il nostro. Non salutano nemmeno l’autista e anzi uno gli urla jico de puta. E se ne vanno.
Il nostro nuovo autista si presenta. Ha la faccia da zanza, ma simpatico. Si chiama 99, nain-nain, e ridendo ci mostra una bocca totalmente rossa dal betel, la droga locale. Partiamo. Inizia a guidare a più di 100 all’ora sul sentiero. Iniziamo ad essere terrorizzati. Lui parla, in un inglese orribile, e ci offre in continuazione del betel.
Alla fine in 3 lo assaggiamo. Sputato fuori dal finestrino.
Lui ci spiega che gli autisti fanno uso smodato di betel, perché li tiene svegli. In più chi mangia tanto betel è benestante, perché costa caro.
Alla fine arriviamo alle 6 di pomeriggio a kalaw. Il viaggio è stato meraviglioso, tra montagne, valli verdissime….Una favola. Abbia o incontrato solo 2 macchine ed una autobotte (quasi la centravamo) in tutte quelle ore, dato che kalaw è fuori dalle rotte sia turistiche che del traffico locale.
È già buio. Non si vede nulla. Troviamo una guesthouse. Dalla guida leggiamo che a kalw si trova un ristorante famoso in tutta la birmania. È sito dentro una antica villa coloniale inglese, molto ben ristrutturata, tutta in tek antico. Mangiamo anche bene. Siamo gli unici 6 avventori, con almeno 2 camerieri a testa! L’autista, 99, l’avevamo congedato appena arrivati alla guesthouse. Ci aveva infatti detto che non dormiva da due giorni. Così andammo al ristorante a piedi, nonostante si trovi circa 3 km fuori dal paese, nel mezzo della giungla. Al buoi più assoluto tornammo alla pensione. Il giorno successivo lo dedicammo alla visita di kalaw.
Scoprimmo così che il paesino è quasi tutto ancora edificat in legno, con splendide case antiche, pagode…kalaw è conosciuta nel mondo asiatico per essere uno dei posti dove i gurka, i soldati nepalesi che combattono agli ordini dell’inghilterra, vanno a trascorrere la pensione. In giro infatti si vedono questi vecchietti, tozzi ma muscolosi, con colli taurini, di etnia differente, vestiti senza songet e con il loro celebre pugnale in vita.
Arrivammo infine alla missione.
È su una collina che domina il villaggio. Ci accompagnarono due bambini.
C’è una chiesa in petra, una scuola prefabbricata, un minuscolo ospedale e una bassa palazzina.
Ci accolse un missionario birmano. Padre paul.
Gli chiedemmo di incontrare padre angelo, un mito per chi viaggia in birmania. Padre angelo, nato a roma, cresciuto a milano, divenne giovanissimo prete missionario e venne spedito in birmania, a kalaw a fine anni ’20. Era tornato solo 2 volte in italia. Aveva nel 1999 più di novanta anni.
Lo incontrammo. Era a letto per una frattura del femore, nella sua stanza. Un loculo di 3 metri per 3, spoglio con un paio di armadietti.
Il caldo era soffocante, la finestra chiusa. Ma padre angelo era seppellito sotto più coperte di lana, vestito, e con una papalina di lanetta in testa.
Magrissimo, con la barba non fatta, un po’ sordo, ma con una luce negli occhi vispissima.
Ci accolse sorridendo, felicissimo di vedere degli italiani, ci fece mille domande sull’italia, poi ci raccontò un po’ della sua vita. Nato povero, entro forzatamente in seminario, e pur di non restare a dover dire messa in qualche minuscolo paesino italiano, si fece missionario. In settant’anni ne ha viste di ogni, ha costruito con le sue mani la chiesa, un ospedale e un convitto per gli orfani, entrambi gli sono stati sequestrati dai miltari che li hanno trasformati in caserme. Lui ha ricostruito a fianco. Ci raccontò poi di come il vaticano avesse tentato di pensionarlo circa 10 anni fa. Anche i missionari hanno una età massima! Lo obbligarono a tornare in italia, lo portarono al pensionato per missionari, che ci disse essere sul lago di lecco. Dopo una settimana se ne tornò in birmania alla sua missione. Ci disse: “e che diavolo….Sono 70 anni che vivo qua. Cosa ci faccio io in italia. Io sono birmano ormai”.
Dopo circa 1 ora arrivarono due missionari italiani, venuti a trovarlo. Di uno non mi ricordo il nome, anche perché era silenzioso e riservato. L’altro non lo dimenticherò mai. Si chiama padre Mosè. Alto, grosso, con una barba bianca di 40 cm., ci abbracciò e quando seppe che eravamo milanesi, iniziò a parlare in dialetto. Era nato 75 anni fa a Cusano Milanino, nell’interland, ci chiese dell’inter, di ronaldo, di come era cambiata milano, l’italia: un fiume in piena. Poco prima di congedarci padre angelo ci diede due lettere da portare con noi in italia, per dei suoi parenti; ci spiegò che i militari birmani censuravano qualsiasi lettera de e per la missione.
Poco dopo li lasciammo soli tra loro a prlare dei loro interessi. E ci congedammo con vera ammirazione, per degli uomini con una forza di volontà e di una statura morale e fisica totalmente fuori dal normale. La giornata si concluse presto, tornammo alla pensione senza avere più visto il nostro autista da diverse ore. Comunque avevamo l’appuntamento per il mattino dopo per le 7.00.
Alle 7 siamo tutti e 6 davanti al pulmino.
Alle 7.30 siamo ancora in 6 davanti al pulmino. 99, l’autista non c’è.
Alla fine parlando con i cinesi proprietari della guesthouse scopriamo che 99 sta ancora dormendo in una cameretta nel seminterrato della pensione. Vado giù a chiamarlo. Busso, zero, entro. Sta russando. Lo chiamo, zero. Urlo, zero.
Lo scuoto, zero.
Alla fine apre un occhio. È ubriaco marcio. Puzza come una carogna di alcool.
Mi dice che in 10 minuti sarà pronto.
Torno fuori al pulmino.
Ore 8 siamo in 6 davanti al pulmino Ore 8.30 arriva 99. Barcolla. Beve un the.
Apre il furgone sotto I nostri sguardi di disapprovazione. Anche un po’ divertiti.
La già scarsa comicità della situazione sparisce di colpo.
Il toyota ha tre file di sedili.
Quella più in fondo è ribaltata. C’è un preservativo, ancora sigillato, sul sedile è una splendida vomitata sul finestrino. Dalla parte interna del finestrino! Le 3 donne si ribellano, imprecano; ci ordinano di ordinare a 99 di pulire.
Lui fa fatica a stare in piedi, figurati a pulire.
Tira su il sedile, si mette in tasca il preservativo, facendo finta di nulla, e quando gli chiediamo di pulire ci dice che alla prossima tappa farà lavare il furgone! L’ha vinta lui. Ci facciamo 8 ore con una puzzolente vomitata dentro il furgone. Indimenticabile! Prima di partire parlando con il cinese della pensione uno degli italiani con noi è riuscito a scoprire le ultime 48 ore di 99. Passa quasi 24 ore in una fumeria di oppio, ne esce stravolto, beve in un bar, scatena una rissa perché è ubriaco, lo buttano fuori, carica una signorina di facile virtù, ribalta i sedili, cerca di approcciarla, sta male, vomita dentro il furgone, la signorina se ne va, e lo lascia dentro il furgone, i cinesi della pensione lo trovano nel parcheggio e a braccia lo portano in una cameretta. Tutto questo con i soldi che l’agenzia gli ha dato per fare benzina, per pagare le forature dei pneumatici (circa 1 ogni 2 giorni), i caselli…ecc. Inutile dire che nessuno gli rivolge la parola per le numerose ore prima di arrivare a mandalay. Ancora ubriaco guida come una bestia, passa i caselli senza fermarsi, quasi investe una intera scolaresca ai margini della strada e per finire fora 2 volta la stessa ruota sulla stessa buca! Lungo la strada ci capita uno dei momenti indimenticabili di una vacanza.
Siamo in una strettissima valle, con sul fondo un fragoroso torrente. Da decine di km. Non incontriamo nessuno. Solo giungla. Ad un certo punto troviamo un villaggio di 30 capanne. Sembra disabitato. Ci fermiamo a 50 metri per sgranchirci le gambe. Io mi allontano per fare un bisognino. Torno indietro lungo la strada.
Quando torno alla macchina…non c’è nessuno. Abbandonata. Aperta, con lì bagagli, marsupi e zaini! Anche 99 è sparito. Resto lì. Ad un certo punto sento della musica. Mi avvicino al villaggio. Non c’è nessuno, salgo lungo un declivio, arrivo alla capanna più grossa, da dove proviene il suono. Entro sono tutti li.
Insieme all’intero villaggio; mi fanno entrare, mi accolgono con grossi sorrisi. C’è una festa.
Nel buio si vede una donna vecchissima, e visibilmente alterata che salta e balla scompostamente al ritmo di alcuni tamburi e strumenti a corda. Ha una lunga tunica azzurra, banconote infilate tra i capelli e beve whiskey di riso in continuazione. Urla, si agita, fuma, impreca, balla, salta…sembra posseduta dal demonio! Mi guardo intorno. Tranne noi 6 + 99, tutti gli altri sono seminudi. Le donne hanno abiti kmon, gli uomini hanno solo in songet in vita, ed i bambini sono nudi. Non c’è energia elettrica. Rimaniamo lì quasi 1 ora. Ci offrono da mangiare e da bere.
Nemmeno 99 riesce a comunicare con loro. Ci dice che sono kmon, una tribù che parla una lingua simile al cinese, che lui non capisce.
La festa finisce, capiremo poi che era un rito propiziatorio compiuto dalla stregona, per portare fortuna e felicità al villaggio.
Usciamo dalla longhouse.
Veniamo circondati da decine di bambini. Una giovanissima mamma porta il suo bimbo di 2 anni a vederci. Questo ci scruta e scoppia a piangere. Siamo dei diavoli dagli occi tondi. Ridiamo tutti. Nessuno ci chiede niente. Cerchiamo di comunicare, ma è impossibile. Una di noi torna al furgone, prende la videocamera digitale. Torna lì. È il finimondo! Gli anziani scappano, non vogliono essere ripresi. I più giovani si mettono in posa, i bambini impazziscono, tutti vogliono vedere dentro la telecamera. Tutti vogliono rivedersi nello schermo.
Chiedono alla ragazza di barattare la videocamera! Offrono tessuti e altre cose. 99 riesce a fargli capire che senza eletrricità non funziona.
Alla fine siamo dovuti ripartire. 99 ci dice che non sa nemmeno il nome di quel villaggio, e infatti su nessuna delle nostre cartine è riportato. Non esiste! Aggiungo che nessun bambino era denutrito, nessuno aveva gli occhi ingialliti dalla malaria, nessuno era sporco o storpio, gli adulti erano eleganti nella loro quasi nudità. Le donne belle, e gli anziani ernao parecchi. E nessuno di loro sembrava stordito dall’oppio.
Sembrava realmente una oasi di felicità.
Arrviamo a mandalay a pomeriggio inoltrato, un po’ meno furenti con 99.
Troviamo un buon albergo a basso costo gestito da….Cinesi! Mandalay è la perla della birmania, ma la zona centrale, dove siamo noi fa schifo. Prendiamo tre risciò a motore e andiamo su alla montagna che si erge isolata nel pezzo dell’altpiano di mandalay. In cima c’è un palazzo reale, le cui pareti sono rivestite di mosaici di vetri colorati. Da la in cima si vede l’intera valle di mandalay. Si vede l’irrawaddy, il grande fiume birmano, tutta mandalay e soprattutto le 3 città gemelle. Gli antichi birmani avevano la tradizione di costruire una nuova capitale ogni volta che moriva un re. Mandalay è così circondata da più cittadine reali. Una più bella dell’altra. Il tramonto fu spettacolare e il palazzo diventa una costruzione di luce, grazie ai milioni di vetri che riflettono gli ultimi raggi del sole.
Cena. Ora di cena. Sino ad allora non avevamo mangiato mai molto bene. E soprattutto durante le soste lungo i trasferimenti avevamo mangiato veramente male. Sulla lonely viene però indicato un ristorante gestito da una famiglia di cingalesi, credo il mama sinh, ci andiamo.
È in una vietta fangosa. Casetta di legno con il portico con una decina di tavolini. La cucina è dall’altra parte del viottolo. Ci accoglie la famiglia intera. Gli uomini sono tutti enormi e grassi. Ma con dei sorrisi incredibili. Parlano tutti l’inglese perfettamente. Il capofamiglia che sembra più un maori che un cingalese ci dice orgogliosamente che il suo è l’unico ristorante birmano dove possiamo mangiare l’isalate e le verdure crude, perché le lavano accuratamente con acqua bollita.
Ci abboffiamo di insalate e piatti indiani. Pure molto buoni.
Morale: per 3 sere di fila siamo andati da loro. L’ultima sera facciamole foto di rito, andiamo nel negozio del fratello, li accanto che vende artigianato tribale, compriamo una marea di cose, e barattiamo delgi orologi di poco valore e dei coltellini svizzeri con stupendi arazzi.
Una sera gli abbiamo anche fatto fare gli spaghetti (di riso) con aglio olio e peperoncino. Uno schifo. Sempre l’ultima sera parliamo con loro della situazione birmana, ci dicono che è tremenda, che sono stremati, che sono isolati dal mondo, non c’è internet, non ci sono televisioni straniere per aver notizie, c’è la guerra nel nord, i miltari precettano decine di migliaia di persone per fare i lavori pubblici senza pagarle, fame e miseria.
Il capofamiglia ci dice che lui era un insegnante universitario di fisica, am che dopo la rivolta democratica di auung san suu chy, tutte le scuole e le università sonochiuse, da ormai 4 anni! L’ignoranza, ci dice, è la più grande alleata delle dittature.
Ha tristemente ragione. Ci da anche lui delle cartoline da spedire una volta usciti dalla birmania a dei parenti rimasti in sry lanka.
Intanto durante i nostri 3 giorni a mandalay abbiamo visitato Le varie città.
Subito siamo andati a mingun. Si deve attraversar il fiume con delle barchette. L’irrawaddy è enorme, quasi 2 km di larghezza a mandalay. Approdiamo fradici a mingun. È una delle città reali. Decine di splendidi palazzi antichi, una strada reale lastricata che porta verso il vero cuore della città. Di colpo ci si trova di fronte a qualcosa di immenso. Dalla collina la sera prima l’avevamo visto, ma la distanza falsa le dimensioni reali. Un parallelepipedo di mattoni con lati di circa 100 metri e alto quasi 60 metri. Con una porta di marmo bianca che conduce al suo interno. Saliamo in cima a questa enorme tomba rossa. Sopra ci sono dei tempietti piccolissimi,e si gode di una vista stupefacente. Restiamo parecchio lì intorno, poi andiamo a visitare un’altra attrattiva del posto: una enorme campana, quasi 4 metri di diametro. I bambini la suonano e fa un rumore incredibile. Avevo letto che dentro ci sono le firme incise di vari viaggiatori del secolo passato, tra cui quella di joseph conrad. La campana è a non più di 50 cm da terra. Mi abbasso e ci entro con un accendino inizia leggere, ci sono date che partono dal 1850 in poi, nomi di tutto il mondo….Poi….Quasi svengo. Un bambino con una enorme mazza ha colpito la campana. Sono rimasto quasi stordito.
Esco traballando e vedo tutti i bambini che ridono. Deve essere il loro gioco preferito. Attendere il turista gonzo che va sotto la campana…eccomi! Nei giorni successivi abbiamo visitato sagain, la città monastero, un enorme complesso di vari km di monasteri, solo maschili, sparsi su una seri di colline. Ci facciamo portare in cima alla collina da 99 (che finalmente ha lavato il furgone!) e gli diamo appuntamento alla fine della strada. Ce ne è una sola. Giriamo, ci perdiamo, ritroviamo la strada, veniamo accolti in malo modo in un monastero, ci riperdiamo ed alla fine arriviamo al punto di incontro. 99 ovviamente non c’è.
Il problema è che con lui c’è la ragazza di uno dei nostri amici. Da sola con lui, perché non si sentiva bene. Rimaniamo tutti e 5 fiduciosi lì ad aspettare. Dopo 1 ora partiamo bestemmiando in 3 direzioni diverse per cercare 99. Ci perdiamo tutti e 5. Io resto con la mia ragazza. Non sappiamo più dove siamo noi, dove sono gli altri, dove è quel demonio di 99.
Al tramonto incontriamo l’altra coppia. Lui è ammaccato, si è fatto dare un passaggio da una ragazza in motorino per andare a cercare 99, questa è caduta in una scarpata con il motorino! Ritroviamo anche il 5° pezzo del gruppo, ma non 99 e la ragazza.
Giriamo, giriamo, giriamo…ritorniamo al punto di incontro …e c’è 99.
Lo aggrediamo tutti. Lui è mortificato.
La ragazza rimasta con lui ci dice che non vedendoci arrivare lei gli aveva chiesto di ritornare in come alla città. Subito dopo noi eravamo arrivati al punto di incontro. Ci siamo rincorsi per ore!!! È andata meglio a un monastero di amarapura, un’altra città. Quel monastero, enorme e bellissimo è molto pittoresco. Ci sono decine di palazzine squadrate verniciate di azzurro, verde, giallo, tutti ciolri vivacissimi e in ogni dove sono stesi su fili centinaia di tonache dei monaci , con i loro colori porpora e arancione. Bellissimo. Assistiamo al pranzo dei monaci. La vera ciotola di riso a test. Nulla di più. Poi assistiamo a una cosa tremenda.
Appena i monaci finiscono il pranzo, tutto il riso avanzato viene messo dentro un enorme bidone di legno. E dal nulla copioni decine di mendicanti, storpi, lebbrosi, ciechi….Che si lanciano ordinatamente sul bidone di riso. Ognuno piglia una ciotola di riso e se ne va come era arrivato. Noi, lì con le nostre nikon, i nostri sandali di pelle, le nostre camice di cotone…ci facciamo piccoli piccoli e ce ne andiamo lasciando una lauta offerta al monastero…per pulirci un po’ la coscienza.
Visitiamo anche il più importante tempio della birmania per numero di fedeli; è considerato il più sacro tempio. È piccolo,e dentro c’è una statua di buddha che ogni fedele ricopre con delle sottilissime lamine di oro che vendono dentro il tempio. Così da secoli, ed oggi il buddha è una massa informe di oro alto circa 6 metri e largo altrettanto! Solo noi uomini ci possiamo avvicinare a toccarlo, a guardarlo, alle donne è proibito di avvicinarsi.
Giriamo per tre giorni e troviamo in continuazione templi meravigliosi, edifici incredibili, pagode, monasteri, il palazzo reale con un fossato di 1 km per lato……fantastica mandalay. Una sera chiediamo a 99 di portarci a mangiare dai cingalesi e gli diamo appuntamento per le 7 all’albergo.
Stessa scena…7.30…8.00…non arriva, andiamo in risciò.
Il mattino dopo dobbiamo partire da mandalay per il lago inle. 99 è visibilmente ancora ubriaco. Guida come un animale. Prima di arrivare al lago inle dobbiamo fermarci alle grotte dei mille buddha. Per arrivarci c’è una strada sterrata simile ad una mulattiera alpina, ma conciata peggio. 99 ci guida sopra allegramente a 80 km/h. Dosso – salto con tutte e quattro le ruote sollevate da terra.
Atterraggio – coppa dell’olio e marmitta per terra.
3 ore fermi.
Ripartiamo. Lungo la strada su una collina incontriamo un centinaio di karhen neri che si spostano da un villaggio all’altro. Ci fermiamo. Sembra di essere tornati indietro nel tempo.
Camminano in fila indiana, tutti con gli abiti tradizionali, con i copricapo abbelliti da monete d’argento. Nessuno di loro ha nulla che ricordi la civiltà occidentale. Niente orologi, scarpe, occhiali…nulla.Facciamo delle foto, ma smettiamo subito dopo, ci sentiamo in colpa. Sembra di fotografare animali rari ed esotici. Non ci sembra giusto.
Arriviamo alle grotte. Si parcheggia in uno spiazzo dove ci sono delle baracche camuffate da bar e negozietti. Compriamo delle patatine fritte fatte in casa e confezionate dentro sacchetti di carta. È l’unica cosa confezionata. Ne mangiamo almeno 2/3 pacchetti a testa.
Saliamo lungo l’interminabile scala che porta alle grotte che si trovano dentro una parte quasi verticale di roccia nuda alta quasi 500 metri.
Dentro ci sono più di 1000 statue del buddha. Di ogni dimensione…da pochi centimetri a diversi metri. Ovunque. Le grotte sono enormi, con stalattiti e stalagmiti gigantesche, ma tutto e soffocato da questo incredibile numero di statue. Siamo anche qui gli unici turisti, persi in mezzo a centinaia di birmani che accendono incensi , pregano e girano per la grotta.
Scendiamo al piazzale, compriamo ancora delle patatine.
Stavolta 99 c’è. Partiamo per il lago inle. Mancano circa 3 ore di macchina.
Dopo un’ora, una ragazza inizia ad avere la nausea. Ci fermiamo, vomito, poi diarre, poi vomito, la pressione scende a zero, sviene. Siamo in cima ad un apsso montuoso a quasi 1.500. Intorno non c’è niente. Ripartiamo. La mia ragazza inizia ad avere la nause. Io pure. Un altro anche.
Arriviamo al lago inle che sembriamo un camioncino di malati per Lourdes.
Troviamo una guesthouse. La prima degente sta meglio, beve the zuccherato e lentamente sta meglio. Tutti noi stiamo peggio. È gia buio, non riusciamo nemmeno a mangiare.
Montiamo la zanzariera e andiamo a letto. Abbiamo freddo. In realtà ci sono almeno 25/28°. Tremiamo. Vomitiamo entrambi, stiamo peggio. Rivomitiamo. Un inferno. Prendiamo la tachipirina. Abbiamo la febbre a 39 tutti e due. Vado a chiedere come stanno gli altri. Tutti male tranne uno. Tutti vomitano ed hanno diarrea a manetta. Più la febbre.
Malaria? Dengue emorragico? Colera? Tifo? Meningite? No! Patatine di merda! L’unico che non le ha mangiate è fresco come una rosa. È andato al ristorante si è rimpinzato come un bue, si è bevuto delle birre con dei turisti conosciuti in un bar… Passiamo una notte orrenda. Ogni 5 minuti andiamo al bagno. E non possiamo nemmeno prendere nulla che ci blocchi lo stomaco. Dobbiamo far uscire quel demonio che ci possiede e che si è camuffato da patatine! Il mattino dopo siamo 5 stracci ed una rosa.
Abbiamo solo un giorno al lago inle. Dobbiamo fare un giro in barca. Oggi o mai più.
Solo io e la mia ragazza decidiamo di andare sul lago, gli altri girano il paesino.
Abbiamo ancora un po’ di febbre e non mangiamo nulla (tranne le stramaledette patatine), da 48 ore. Siamo in mezzo al lago, che è molto grosso, stiamo andando a vedere il monastero a palafitta dove ci sono i gatti ammaestrati.
Ovviamente inizia piovere.
Siamo fradici.
Arriviamo al monastero, bello, i gatti, belli, i monaci belli, il paesaggio bello…ma stiamo così male che non vediamo l’ora di tornare indietro.
Arriviamo sulla costa, ci mancano 3 km per arrivare all’albergo, ho rischiato di svenire due volte. Erano solo le 11 del mattino. Siamo andati a letto. Ci siamo svegliati il mattino dopo alle 5.30.
Colazione pantagruelica e tutti in forma o quasi. Si riparte, si torna a mandalay per un giorno.
Altreo ore di macchina, 99 buca 2 volte. Ci perdiamo 1 volta. Arriviamo a metà pomeriggio. Come in una commedia di totò e peppino diamo appuntamento a 99 all’albergo alle 8 di sera per andare ancora una volta dai nostri amici cingalesi.
8.00 8.30 9.00 andiamo in taxi.
Dopocena granconsulto tra noi 6, ci diciamo che 99 è sempre ubriaco, sempre drogato, guida come un animale, e pericoloso e totalmente inaffidabile….Alla fine telefoniamo a yangoon alla agenzia. Chiediamo di cambiare autista. Ci chiedono perché. Ci chiedono se beve. Evidentemente è recidivo. Noi tergiversiamo, gli diciamo che non ci troviamo bene …che non parla l’inglese …e patamim e patapam…il mattino dopo c’è un nuovo autista.
Tanto zozzo e trasandato 99, quanto mingherlino, con gli occhialini, pulito, gentile e dall’inglese oxfordiano questo.
Si presenta. Parliamo con lui, è un ex-studente universitario di ingegneria.
Arriva 99. Ubriachissimo. Non capisce.
Capisce. Non gliene frega nulla. Anzi tira fuori una agendina chiedendoci di scrivere una fra setta a testa di ricordo, che lui poi farà vedere agli altri turisti come credenziali.
Me la porge. Leggo. Impallidisco. Mi vien da ridere.
Dentro ci sono le credenziali di 99.
Insulti in almeno 7 lingue, offese ai suoi parenti, alle sue lontane zie e ziette. È paragonato a metà dei rettili e insetti della terra. Vengono raccontate mille diverse piccole tragedie avvenute per merito suo.
Non scrivo nulla. E lo passo ad altri.
Addio 99.
Partiamo con il nuovo autista, non so come si chiama. Lo abbiano subiro battezzato prof.
Guida lentissimo, ci spiega in inglese ogni minima cosa degna di nota che incontriamo lungo la strada, anche quelle non degne.
Ci porta alla zona portuale di mandalay sull’irrawaddy.
Dobbiamo prendere il postale che in 14 ore ci porterà a pagan. Lui scenderà via terra con i nostri zaini. Ci diao appuntamento a pagan.
Facciamo scorta di acqua e cibo. Visto che sul postale vendono solo birra e il temibile whiskey di riso.
Il viaggio è stupendo. L’irrawaddy è una autostrada d’acqua.
Migliaia di barche solcano il fiume, tutte minuscole, e piano piano i paesi si diradano.
Il postale si ferma ogni circa 2 ore in posti sperduti, dove salgono e scndono centinaia di persone, con merci, animali…di tutto.
Vediamo addirittura salire un contadino con un altoparlante per stadi grossa almeno 2 metri! Il fiume si allarga sempre più. Chilometri da una parte all’altra.
La vita scorre lentissima. Si vedono i contadini arare i campi con in buoi, pescatori, un paese fermo a secoli addietro.
Al tramonto arriviamo a pagan.
Dal fiume non si vede nulla.
Le sponde sul alto sinistro del fiume si alzano sino ad una 50 di metri. Il sole si abbassa, giriamo in una grande ansa del fiume….E la vediamo.
È PAGAN. La mitica.
Templi. Ovunque, alti decine di metri, rivestiti di oro, dipinti, in nudi mattoni, diroccati, restaurati….
Pagan è una pianura desertica protetta dall’unesco come patrimonio dell’umanità.
Su una area di poche decine di km quadrati ci sono più di 3.000 templi, pagode e stupa.
Non c’è nessun villaggio, tranne uno minuscolo lungo il fiume.
Una sola strada asfaltata passa nel mezzo dell’area. Tutto il resto è terra rossa e sabbia. Niente vegetazione.
Al posto degli alberi ci sono le pagode. E che pagode. La bellezza sembra essere stato l’unico canone richiesto dai sovrani ai costruttori che gli eressero tutti quei templi.
Solo la bellezza.
È impossibile descrivere lo stupore che lascia in ogni essere umano il primo giro in mezzo ai templi di pagan. Avevo già visto angkor wat, le bellissime rovine di copan e di tikal, il palazzo reale di Bangkok. Tutti posti meravigliosi, ma nemmeno paragonabili a pagan.
Di sicuro la bellezza del sito è amplificata dalla totale assenza di automobili, dal numero scarsissimo di turisti, circa un centinaio sparsi su molti km quadrati.
Scegliemmo di dormire in uno splendido resort vicino al fiume, composto da una decina di bungalow a villetta con patio in uno splendido giardino (l’unico prato di pagan).
L’unica occasione per vedere altri turisti erano la cena in uno dei pochissimi ristorantini a cielo aperto sparsi per pagan e all’alba ed al tramonto quando tutti salivamo su la pagoda più alta per vedere il sole sorgere e tramontare. Affittammo delle pesantissime bici senza freni e girammo, perdendoci in continuazione per tutta l’area di pagan.
Alcune famiglie birmane avevano occupato delle piccole pagode e le avevano trasformate nelle loro abitazioni. Bambini birmani ci inseguivano per venderci bellissimi batik con su riprodotti scene dei testi sacri buddisti. In una delle nostre scorribande ciclistiche finimmo parecchi km fuori dall’area archeologica, e ci ritrovammo nel paese più vicino a pagan. Un gruppo di camionisti ci invitò a mangiare con loro in una baracchetta, una sorta di autogrill birmano. Parlammo a gesti e disegni per un paio di ore e nessuno di loro ci chiese nulla, ne soldi, ne di offrigli una birra…nulla, volevano solo fare conoscenza con degli stranieri. Gente umilissima, povera, ma con una dignità elevatissima. Restammo 4 giorni a pagan e pur girando per 12 ore al giorno vedemmo nemmeno un ventesimo di tutte le pagode! Conoscemmo anche 2 coppie di ragazzi di novara molto simpatici e una sera ci portarono a mangiare al loro ristorante preferito di pagan. Uguale a tutti gli altri: tre tavoli sotto le stelle e le sedie. Mangiammo effettivamente bene, curry di pollo, zuppa di uova centenarie, noodles fritti con verdure, gamberi di fiume….L’unico problema è che appena tutti i piatti arrivarono contemporaneamente in tavola, come si usa in asia, iniziò una sorta di invasione di locuste. Grosse cavallette volanti, uno sciame enorme che si tuffavano nelle nostre pietanze, ci entravano in bocca mentre parlavamo. L’ultimo giorno ritrovammo il nostro autista, il professorino.
Ci chiese se volevamo andare a vedere uno spettacolo di danza in un ristorante vicini a pagan.
Andammo. Era una trappola per turisti. Un bel prato, 4 tavoli, un palco, le danze reali birmane, la musica riadattata alle sonorità occidentali, un past decente, un conto salatissimo. Lo sapevamo; la cosa che più ci colpì quella sera, fu constatare come il professorino pur avendoci ammesso che amava la birra, non ne tocco nemmeno un goccio. Probabilmente su divieto della agenzia di noleggio furgoni. Dovemmo insistere parecchio per fargli bere qualche birra, poi si sciolse un po’ e passammo la notte a parlare della situazione politica birmana. Anche lui venne cacciato dall’università quando la giunta dello s.L.O.R.C. Chiuse tutti i centri di insegnamento. Ci disse a voce bassissima che aveva partecipato ad alcuni dei sit in promossi dalla lega democratica, e di essere dovuto restare nascosto per giorni per paura di venire arrestato, dopo il colpo di stato militare che avvenne all’indomani delle libere elezioni vinte dai democratici di auung san suu chy. Ultimo giorno a pagan, alcuni di noi decidono di andare a visitare il mount popa. Un famoso monastero posto in cima ad una montagna, a poche ore di macchina da pagan.
Come avevo detto, la piana dell’irrawaddy è enorme, semidesertica, allagata in alcuni punti. In mezzo c’è mount popa. Credo sia ciò che resta di un vulcano: è un enorme panettone, alto parecchie centinaia di metri, con pareti ripide, che sorge nel mezzo di una pianura di centinaia di chilometri quadrati.
Non ci ha fatto impazzire. Il posto in sé è molto suggestivo, ma più da lontano che da vicino.
È sporchissimo, sembra un immondezzaio, le scimmie onnipresenti ci assalirono per cercare cibo e più volte abbiamo rischiato di venire morsicati.
Ritornammo a pagan per recuperare i bagagli e la coppia che non era voluta, giustamente, a vedere il mount popa.
Il giorno dopo, via…si riparte. Ripercorriamo per buona parte la strada per il mount popa, ma con in più la sfiga appostata sul tetto del furgone. Forammo 2 volte in 500 metri. Sperduti nel nulla. Impiegammo quasi 4 ore a far riparare i pneumatici e ripartire. Ma ormai ci avevamo fatto il callo.
Doveva essere la 20° foratura! Il tragitto da pagan a yangoon è troppo lungo per farlo in un solo giorno. Ci fermiamo così a Pyay. Una anonima cittadina sull’irrawaddy.
È il giorno di festa, la sera giriamo per il mercato, tra migliaia di ragazzini vestiti a festa. Mangiamo nel ristorante dell’albergo, gestito da cinesi; il ristorante è in realtà un karaoke bar! Con luci soffuse e ricchi cinesi (cinesi veri) che sono lì per affari. Si comportano come tutti gli arricchiti del mondo. Orologi d’oro, anellazzi con smeraldi, abiti vistosi, gel a litri, mont blanc che esce dal taschino della camicia, champagne a tavola e prostitute con loro. Le mandano anche a cantare sul palchetto, e le ragazze se la cavano bene. Poi i cinesi sempre più ubriachi vanno a cantare, in inglese, dei strappalacrime americani di 20 anni fa. Stiamo male dal ridere, uno show grottesco: un cinese ricco e ubriaco che canta in un inglese alla totò in un postribolo in birmania! Almeno abbiamo mangiato bene.
Il giorno dopo arriviamo a yangoon. Ci restano solo due giorni a me ed alla mia ragazza. Noi infatti andremo per 10 giorni a Redang nel nordest della Malaysia. Gli altri invece proseguiranno per una settimana nel sud della birmania, poi una coppia andrà per 1 mese in Indonesia e l’altra coppia tornerà in italia.
Torniamo allo stesso albergo di yangoon, e le donne si scatenano nello shopping (!!!). I 2 giorni passano identici e torniamo anche a rivedere la shwedagon paya.
L’ultima sera, l’ultima cena tutti insieme.
Andiamo al mister guitar cafè. Una sorta di hard rock cafè di yangoon. Il proprietario è il più famoso cantante moderno birmano. Il locale è occidentale, stile saloon, con palco e 6 ragazzi e ragazze che suonanno, molto bene, pezzi dei creedance clearwater revival, di dylan, della band, di van morrison…. Ci arriva il menù. Un foglietto plastificato. 1 solo menù per 6, in birmano. Tutto pallini e segnetti. Impossibile da decifrare. Tutti ordinano i soliti noodles con verdura. Le cameriere riescono a capire. Io ordino a caso. Uno dei ragazzi si fida e mi chiedo cosa ho ordinato, io gli rispondo a caso: “curry di pollo”.
Ci arriva il piatto: una brodaglia scura con dentro della carne molto scura e fibrosa. L’altro mi guarda dubbioso. L’assaggiamo, è piccante, e la carne è buona.
Mangiamo.
Arriva la cameriera con i noodles per gli altri. Una ragazza gli chiede cosa è il nostro piatto.
La cameriera non capisce.
Arriva un’altra cameriera, che capisce un minimo di inglese.
Le chiediamo che carne è, quella fa: “wouff, wouff, wouff” e ride.
Ci prnde il menù, lo gira e dall’altro lato è tutto scritto in inglese! Il nostro piatto è un famoso curry di carne di cane delle tribù del nord! La vittima della mia scellerata ordinazione, sta male! Vomita sotto il tavolo. Casino generale! Ordiniamo un bel piatto di spiedini glassati di maiale. Molto meglio.
Usciamo dal ristorante quando ci buttano fuori, sono quasi le 12.30. Come dire l’alba in italia.
Non ci sono più taxi e il nostro albergo è almeno a 15 km di distanza.
Aspettiamo quasi 1 ora sotto la pioggia. Passa un taxi. Ma siamo in 6. Saltiamo tutti dentro, tre davanti, tre dietro ed uno nel bagagliaio.
Il mattino dopo io e la mia ragazza abbiamo l’aereo prestissimo. Ci salutiamo tutti. Baci e abbracci.
Soliti discorsi. Ci vediamo a milano.Ci sentiamo. Dammi il numero di telefono. Mi raccomando ricordatevi di noi… Mai più visti ne sentiti.
Aeroporto, controllo dei bagagli, regaliamo i pochi f.E.C. Avanzatici a dei bambini, perquisizione dei bagagli, aeroporto. Ore 8.00 del mattino. Nel fetido aeroporto di yangoon stiamo aspettando che l’aereo della malaysian airlines atterri da kuala lumpur, scarichi e ci ricarichi.
L’aereo arriva con 1 ora di ritardo. Scendono le persone. Vuotano l’aereo. E vediamo passare i nostri bagagli su un carretto. Il carretto viene abbandonato in mezzo alla pista.
Il tempo si annuvola. Temporale tropicale. I nostri bagagli sono sotto l’acqua. Per 2 ore restano lì. E a nessuno viene in mente di spostarli.
L’aereo si è rotto.
Manca il pezzo di ricambio. Dobbiamo aspettare che arrivi da kuala lumpur.
Aspettiamo 6 ore. Poi atterra un volo di silk air, la sussidiaria di Singapore airlines. L’aereo fa solo uno stop over. Ci sono solo 6 posti liberi. Noi siamo in più di 40.
Arrivano giusto 6 americani, tirano fuori il passaporto delle nazioni unite e si pigliano i 6 posti.
Eè rivolta. Tutti urliamo, ci incazziamo. Non serve, ovviamente a nulla.
Alle 10.00 di sera, dopo 15 ore nell’aereoporto ci portano nell’albergo lì vicino, a 100 metri, l’unico 5 stelle della birmania. L’aereo ripartirà alle 5.30 del mattino. Abbiamo quasi 6 ore di sonno.
Alla fine partiamo.
In ritardo di 3 ore, ma partiamo.
In fase di decollo passiamo sopra il delta dell’irrawaddy, una cosa stupenda, magnifica, come tutta la birmania. Un paese che una giunta militare opprime e violenta quotidianamente, ma di gente dignitosa, simpatica e buona. Molto diverso da qualsiasi altro paese dell’asia. La birmania è ancorata alle sue tradizioni, alle sue origini. Forse l’hanno volutamente fatta rimanere arretrata. Probabilmente i suoi abitanti vorrebbero anche loro internet, stallone e schwartzenegger, mc donanld’s e pizza hut….Sotto sotto nella sfortuna sono ancora liberi dal consumismo sfrenato occidentale. Ma non lo sanno.
Forse però dovrebbero avere l’opportunità di decidere.
Se restare birmani o diventare asiatici occidentalizzati tipo i tailandesi.
Ciao paolo-milano p.S.
il BURMA DAYS del titolo è un libro di george orwell sui suoi anni passati in birmania.
il libro è venduto fotocopiato dai bambini per le strade di yangoon, pagan e mandalay.
lo vendevano anche in italiano. in italia non è ristampato da almeno 20 anni, ed è introvabile. Bisogna per forza andare in birmania per comprarlo!