Marocco, racconto di un’emozione

Da un lato la neve imbianca la cima elevata di un monte, dall’altro lo sguardo spazia su un paesaggio che ricorda i grandi canyon dell’Arizona, mentre davanti a noi c’è un fitto bosco di larici. Stiamo salendo verso quota 2260 metri., fra pochi minuti saremo sul passo di Tin-n-Tichka. Il pullman sbuffa e fa fatica ad arrampicarsi sui...
Scritto da: A. B.
Partenza il: 08/04/2001
Ritorno il: 15/04/2001
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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Da un lato la neve imbianca la cima elevata di un monte, dall’altro lo sguardo spazia su un paesaggio che ricorda i grandi canyon dell’Arizona, mentre davanti a noi c’è un fitto bosco di larici. Stiamo salendo verso quota 2260 metri., fra pochi minuti saremo sul passo di Tin-n-Tichka. Il pullman sbuffa e fa fatica ad arrampicarsi sui tornanti stretti e insidiosi dell’ Alto Atlante, ma Abdullah, il nostro abile chauffeur, non si scompone ed anzi traspare in lui una serenità assolutamente disarmante. Ce la faremo? “Inshallah”, ci risponde, “se Allah lo vorrà”. Già. “Inshallah”, ci dovremo abituare a questa affermazione, che da queste parti corrisponde a un atto di fede più che a una rassegnazione. Ed è un po’ la filosofia di vita di un Paese, il Marocco, sempre in bilico fra due mondi, l’Occidente ricco e industrializzato a cui anela far parte e un’anima berbera e nomade, irriducibile e pervasa dall’orgoglio della propria identità e delle proprie tradizioni.

Dopo aver scollinato sull’Atlante, si apre un paesaggio a dir poco affascinante: è qui che comincia il Marocco più vero e caratteristico. Ed ecco che d’improvviso ai lati della strada scorrono come in un film le prime kasbah, vecchi ma sempre splendidi palazzi fortificati che, costruiti con un impasto di argilla, fango e paglia, si confondono e ben si mimetizzano col rosso circostante delle rocce sulle quali si abbarbicano, dominando la valle, al riparo una volta dagli attacchi dei predoni del deserto. E Ait Benhaddou né è splendido esempio, una kasbah dove si riesce ancora a respirare quell’atmosfera così ben descritta nel “Tè nel deserto”, girato proprio qui fra gli stretti vicoli che s’incrociano l’un l’altro inseguendo l’ombra. “E l’ombra qui costa”, come ci dice Mohammed, la nostra guida berbera. Un bene prezioso, dunque, come del resto l’acqua, elemento fondamentale e indispensabile per la vita di questi luoghi. Sì, l’acqua. Ovunque vi sia la possibilità di sfruttarne le falde acquifere del sottosuolo, lì sorge un’oasi, una grande macchia verde brillante che d’improvviso appare ai nostri occhi entusiasti e che contrasta con la terra rossa del deserto. E a Tinehir è un vero sollievo passeggiare per un paio d’ore all’interno della sua grandissima oasi, tra la campagna coltivata e curatissima, dove le donne si affannano nei campi di orzo, cerali ed henné o sono intente a lavare i loro coloratissimi vestiti nel vicino ouad, il fiume. I campi di menta emanano un odore fortissimo che entra nel il naso per darci una sensazione immediata freschezza. Un profumo che sulla strada si confonde con quello delicato delle rose, incredibilmente belle e rosa, che in questa valle alimentano un florido commercio.

E come non restare incantati di fronte alle Gole del Todra, un’impressionante voragine tra due pareti altissime di granito fra le quali scorre un fiume fresco e rigenerante nel quale le donne berbere s’immergono per scongiurare il pericolo della sterilità, vera disgrazia in una società nella quale “i figli sono la pensione dei genitori”. Ed ecco che il nostro pullman improvvisamente si ferma: dobbiamo lasciare il passo a una variopinta tribù nomade in trasferimento, uno spettacolo nello spettacolo con la loro mandria di cammelli e asini sui quali c’è proprio tutto quello che serve alla loro sussistenza. Lo sguardo è rapito dai colori che si stagliando lungo la cosiddetta “strada delle mille kasbah”, che una dietro l’altra sfilano davanti ai nostri avidi obiettivi. Il sole calante colora di un rosso argilloso il tramonto davanti a un pozzo di un piccolo villaggio berbero, mentre il pensiero è già rivolto a domani, quando proveremo veramente cosa significhi l’emozione di quella parola che incute timore e fascino nello stesso tempo: il deserto del Sahara.

E’ ancora buio e un po’ freddino quando i fuoristrada con i loro fari illuminano la pista che da Erfoud ci porta a Merzouga, alle porte del grande Erg. L’emozione prende il sopravvento sul sonno rubato di primo mattino, mentre da lontano s’intravedono le dune di sabbia. Tra le dune altissime dal colore ambrato, il silenzio del deserto ci avvolge completamente, nonostante il vociare confuso di frotte di escursionisti mattinieri alla ricerca di un’emozione. Siamo circondati da dune sinuose e altissime, ondulate come onde di un mare d’oro rosso o arancio a seconda della luce di un sole che poco a poco comincia a fare capolino dall’orizzonte. La prima cosa che viene in mente di fare è quella di togliersi le scarpe e sprofondare nella sabbia sottile fino alle caviglie, poi rotolarsi per provare una sensazione solo immaginata sui prati erbosi di quando si era bambini. E la fatica di salire su una duna altissima è compensata dallo spettacolo sbalorditivo che si presenta dalla cima, da dove lo sguardo è finalmente libero di spaziare verso l’infinito delle dune del deserto. Non resta che guardare incantato e sognare, mentre un leggero soffio di vento ci accarezza il viso… E’ questo il Sahara, è questa la sua magia! Torniamo in pullman per puntare verso Rissani, villaggio berbero culla della dinastia regnante degli Alaouiti, famoso anche per un importante fiera dei datteri. E mentre osserviamo gruppi di uomini avvolti nei loro jallaba accalcarsi al souk, le donne si nascondono dietro ai loro abiti neri attraverso i quali s’intravede un solo un occhio scrutarci da lontano, timorose che l nostri obiettivi possano rubar loro l’anima. Una visita a una piccola fabbrica di lavorazione del marmo con i suoi fossili marini ci ricorda come migliaia di anni da anche qui, pare incredibile, ci fosse il mare.

Il nastro d’asfalto sempre più dritto taglia un piatto terreno sassoso delimitato da rocce rosse sulle quali il vento ha depositato la sabbia del Sahara. Ecco una serie di splendidi villaggi fortificati (ksar), un insieme di case costruite con un impasto di argilla e paglia che, però, si sgretolano durante gli acquazzoni che trasformano gli oued da asciutte pietraie in fiumi impetuosi. E la mancanza di manutenzione assieme al richiamo delle città e all’emigrazione verso l’Occidente ha portato inevitabilmente all’abbandono della maggior parte di questi villaggi, nei quali, comunque, la presenza sui tetti di paglia di antenne paraboliche stride con la semplicità del paesaggio, ma ci ricorda come la globalizzazione è arrivata anche qui. Piena atmosfera berbera a Zagora, il cui lussureggiante palmeto si estende a perdita d’occhio costeggiando le sponde del Draa, il “Nilo del Marocco”, fiume vitale per tutta la serie di villaggi che si distendono lungo il suo corso, formando quasi un’oasi interrotta fino a Ouarzazate, dove una diga racchiude le sue preziose acque. Lasciamo gradatamente il fascino dei paesaggi del Sud e del deserto per risalire la valle del Draa, prima di tornare sull’Atlante e ridiscendere verso Marrakesh .

A Marrakesh , la “perla del sud” per via del colore delle sue case, l’atmosfera è quella delle grandi città: un viavai caotico di persone al quale, sinceramente, dopo una settimana al sud, non eravamo più abituati. Grandi vie, alberghi e palazzi che architettonicamente in sintonia con le tendenze occidentali, ma che poco hanno a che vedere con la tradizione, costellano la parte più nuova della città, quella fuori dalle vecchie mura, che racchiudono appunto la parte più antica, la vera anima popolare e caratteristica di Marrakesh. E’ la Medina, un continuo intricarsi di persone, viuzzee, moscheee e piazzette. Ma ciò che impressiona è la quantità di gente che giornalmente affolla il cuore della Medina e il simbolo della stessa città, piazza Djemma-el-Fna o “piazza degli impiccati”, a ricordo delle esecuzioni capitali di epoca imperiale. Una vera corte dei miracoli, un teatro a cielo aperto, ritrovo di incantatori di serpenti, cantastorie, venditori di arance, bancarelle di kebab, cavadenti e altro ancora, che si alternano ad ogni ora del giorno. E qualche passo più in là, da una stretta via laterale, si entra nel souk, il misterioso, colorato e incredibile mercato degli artigiani e dei commercianti, un dedalo di spazi aperti e chiusi nei quali si alternano gli odori ora pungenti ora delicati delle innumerevoli spezie.

E poi il minareto della Koutubia, gioiello architettonico che ha la sua copia a Siviglia, uno sguardo al palazzo Bahia e agli splendidi giardini acquatici della Manara. Tutt’attorno sui tetti della Medina campeggiano le antenne satellitari, nuovi fiori tecnologici che contendono lo spazio vitale ai nidi delle cicogne, e che rappresentano, forse, il vero pericolo per un’identità che, prima o poi, sotto i colpi della civiltà del consumismo, rischia di annacquarsi e perdere le proprie caratteristiche peculiari.

Antonello



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