Myanmar, il paese del sorriso 3

Siamo partiti, io e mia moglie Elisabetta, zaino in spalla, dentro il quale avevamo messo una Lonely Planet che abbiamo scoperto assolutamente inattendibile (almeno per le informazioni pratiche) appena messo piede a Rangoon. Il paese stava cambiando rapidamente e nessuna delle informazioni contenute nella guida era più valida. Insomma non...
Scritto da: Maurizio Virgili
myanmar, il paese del sorriso 3
Partenza il: 06/01/1995
Ritorno il: 04/02/1995
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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Siamo partiti, io e mia moglie Elisabetta, zaino in spalla, dentro il quale avevamo messo una Lonely Planet che abbiamo scoperto assolutamente inattendibile (almeno per le informazioni pratiche) appena messo piede a Rangoon. Il paese stava cambiando rapidamente e nessuna delle informazioni contenute nella guida era più valida. Insomma non sapevamo praticamente nulla del paese se non la sua geografia che avevamo studiato attentamente su una mappa della Nelles per la verità non aggiornatissima. Ma nessun viaggio prima di quello, né dopo, è stato più accattivante e affascinante. Abbiamo girato per la zona aperta agli stranieri (il paese si stava allora aprendo al turismo) viaggiando con i birmani sui loro autobus, che erano furgoni scoperti dove si viaggiava rannicchiati in terra o aggrappati all’esterno o sul tetto, chiedendo passaggi ai pochi possessori di automobili, su carri trainati da buoi, e anche a piedi dove non era possibile altrimenti. Abbiamo mangiato ai banchetti per strada cibi saporitissimi bevendo tè verde, abbiamo vissuto seguendo gli orari dei birmani che si alzano la mattina prestissimo (alle cinque i villaggi sono già animati di persone) e non fanno vita notturna! Abbiamo terminato il viaggio fisicamente molto stanchi ma con il ricordo di un paese straordinario, E lo straordinario lo abbiamo trovato proprio nel sorriso delle persone, nella cordialità spontanea che hanno sempre dimostrato verso di noi sin dal primo momento, una cordialità che sicuramente fa parte della loro cultura che vive su una base di fervenza per il buddismo assolutamente straordinaria, ma che derivava anche un poco dal fatto che il regime non permetteva loro di ricevere alcuna informazione dall’esterno, e pertanto chiunque parlasse un poco di inglese, non vedeva l’ora di poter scambiare quattro chiacchiere con un europeo e sapere qualcosa di ciò che accadeva fuori dal paese. Però ci sono state tante persone che ci anno avvicinato anche solo per salutarci, chi per farsi fotografare con noi, chi per invitarci a casa sua a bere una tazza di tè e fare due chiacchiere, senza mai averci visto prima. Durante una camminata sui colli che circondano il lago Inle, nel nord-est, attraversando un villaggio di persone che vivono della poca agricoltura permessa dal terreno, siamo stati fermati, invitati a mangiare in una capanna, e invitati persino a trascorrervi la notte, tutto questo da persone che non parlavano inglese e che forse non avevano visto molti “bianchi” da quelle parti. Un’altra volta, camminando avevamo trovato un piccolo monastero che ci eravamo messi a guardare dal di fuori. Un monaco ci vide e ci fece segno da una finestra di entrare. Stava facendo lezione a giovanissimi studenti, e a gesti ci fece capire che potevamo visitare il monastero e rimanere ad assistere alle lezioni, offrendoci del tè e della frutta, e offrendoci anche un giaciglio per la notte. E di episodi come questi ne potrei citare a decine, finendo con quello del proprietario della piccola guest-house di Rangoon, una delle poche allora autorizzate ad accogliere gli stranieri, che il giorno della nostra partenza per l’Italia, volle a tutti i costi accompagnarci con la sua auto all’aeroporto, mentre la moglie ci faceva dono di un pacco di dolciumi per il viaggio.

Mi rendo conto di aver trascurato completamente la descrizione dell’itinerario, ma il ricordo delle esperienze personali fatte con le persone me lo porto ancora dietro. Per la cronaca: Rangoon, città interessante ma in rapido cambiamento, dispone della pagoda di Shwedagon che è da non perdere, anche perchè il modo di vivere la religione da parte dei birmani è profondamente diverso dal nostro. Per loro la religione è qualcosa che pervade costantemente e quotidianamente la vita comune, e si può dire che questo avvenga in maniera simmetrica: la gente va al tempio per pregare, sì, ma ci va con la famiglia, si ferma a chiacchierare, i bambini giocano, si mangia uno spuntino, la vita quotidiana continua nel tempio e la reigiosità continua fuori del tempio, un rapporto con la divinità che noi forse non abbiamo mai avuto, coi nostri luoghi di culto così austeri e talvolta opprimenti anche se artisticamente belli. Perciò, se volete vedere la vera Birmania, visitate le campagne e i templi, anche quelli che storicamente e artisticamente non paiono un granché. Ma non visitateli e basta: sedetevi, guardate la gente passare, parlateci, godetevi il sole, riflettete, e lasciate che la vita vi passi attraverso, e non che vi scivoli all’esterno come ci succede talvolta quando siamo a casa nostra.

Abbiamo visitato anche Mandalay, che offre alcuni spunti interessanti, anche se era una città maledettamente polverosa. Più stimolanti sono i dintorni e la zona più a nord: Mingun, Ava, Amarapura (dove un vecchietto ci ha guidato per il villaggio dove era in preparazione una festa alla quale siamo stati prontamente invitati) e più a nord Maymyo e Lashio, che era una zona off limit per gli stranieri, dove siamo giunti su una macchina di un indiano, che sorpassava senza concezione di prudenza camion che ci spiegò essere di contrabbandieri (la strada, in pessime condizioni, dopo Lashio prosegue per il confine cinese), e dove nessuno dei militari incontrati ha neppure per un momento pensato a bloccarci.

Naturalmento abbiamo dedicato alcuni giorni alla visita di Bagan; i suoi templi offrono, soprattutto all’alba e al tramonto, uno spettacolo di una suggestione incredibile. Il panorama che si gode all’alba dall’alto di uno dei suoi templi, è uno spettacolo che infonde serenità, pace, e ci si dispiace che il sole non si possa fermare, come qualcuno di biblica memoria fece, per far durare più a lungo questa sensazione.

Siamo andati poi verso est, facendo tappa a Kalaw, un delizioso villaggio dove c’è anche una missione cattolica retta da un anziano Padre italiano, passando per Pindaya, con un piccolo lago sopra il quale si possono vedere le grotte dei mille budda, e arrivando al lago Inle, pittoresco lago chiuso tra i monti, dove vivono i pescatori Intha, che vivono pescando nel lago in modo molto singolare, basti pensare che remano stando in piedi e spingendo il remo con un piede. Come già accennato, suo monti intorno al lago è possibile fare delle camminate seguendo sentieri abbastanza frequentati dai locali.

Ritornando a sud, siamo riusciti a spingerci fino a Kyaiktyo, dove c’è una famosa Roccia d’Oro in bilico su un dirupo. La credenza vuole che la roccia sia tenuta in bilico da un capello del Budda collocato in un punto strategico. Il luogo è molto interessante, ci si arriva (o almeno ci si arrivava) solo a piedi, ma purtroppo per accogliere i fedeli avevano appena costruito una sorta di terrazza coi lampioncini che lo faceva assomigliare ad una gelateria del Lido. Questo in un primo momento ci aveva deluso un poco, ma lo spettacolo che ci offrì l’alba del giorno dopo, con la vista sulle montagne, era meraviglioso. A proposito: per arrivare a Kyaiktyo, avevamo dovuto attraversare zone proibite agli stranieri, siamo stati fermati tre o quattro volte dai militari, ai quali abbiamo spiegato con pazienza che volevamo solo andare alla Roccia, abbiamo dovuto allungare qualche pacchetto di sigarette inglesi agli ufficiali dei blocchi (noi non fumiamo, ma ci eravamo portati appositamente due stecche di Dunhill da distribuire come piccoli presenti di ringraziamento e cortesia), ma alla fine siamo arrivati. Durante il viaggio avevamo notato molti convogli militari che andavano verso sud o ne tornavano. Al ritorno a Rangoon abbiamo saputo che nelle zone Karen, a sud di Kyaiktyo, c’era stata una battaglia dell’esercito con i guerriglieri separatisti.

Ometto qualunque notizia di carattere pratico, perchè ho saputo che in questi ultimi anni il paese è cambiato parecchio, ed il turismo è diventato qualcosa che si può fare anche “all’occidentale”, volendo. Non voglio entrare nel merito di una difficile discussione sulla opportunità o meno di visitare il paese o seguire il consiglio di Aung San Su Kyi di non avallare l desiderio del regime di far diventare la Birmania una seconda Thailandia e fare così un bel po’ di danaro. Consiglio soltanto a chi volesse andare, di farlo viaggiando per conto proprio, perché così almeno eviterà in buona parte, di passare attraverso i servizi turistici istituzionali, distribuendo in questo modo i propri soldi direttamente a quella gente che rimane altrimenti fuori dal giro di danaro prodotto dal turismo. E perchè solo viaggiando come abbiamo fatto noi potrà scoprire quell’animo gentile che pervade la popolazione e tutto il paese, che lascia quelle indelebili cicatrici sul cuore che, se da un lato mi fanno desiderare di tornare in Birmania, dall’altro mi frenano per la paura di trovare un paese cambiato. E chissà perché, quando un paese cambia a causa del turismo, cambia sempre in peggio!



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