Zanzibar magica, sapore d’Africa fra spiagge da sogno

Una settimana di caldo inverno per assaporare i piaceri dell’isola tanzaniana. Tra spiagge di un bianco accecante e acque turchesi, tra profumi inebrianti di spezie e paesini imbastiti di paglia e fango, alla scoperta dell’amicizia pura di cui i Masai e gli zanzibarini sanno fare dono prezioso
Scritto da: Francesca Vinai
zanzibar magica, sapore d’africa fra spiagge da sogno
Partenza il: 08/07/2014
Ritorno il: 16/07/2014
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
1. Hakuna matata, l’isola che non conosce stress

2. Il villaggio di pescatori di Nungwi

3. A spasso nella piantagione di spezie

4. Stone Town… un’esperienza tutta africana

5. Aragoste sulla lingua di sabbia nell’oceano

6. Prison Island, isola delle tartarughe

7. Souvenirs di amicizia vera

1. “HAKUNA MATATA”, L’ISOLA CHE NON CONOSCE STRESS

Dopo un viaggio iniziato a Milano e durato più a lungo del previsto, per via di un ritardo inatteso durante lo scalo romano, atterriamo in una mattinata di luglio a Stone Town, capoluogo di Zanzibar.

Arcipelago composto da due isole maggiori, Unguja e Pemba, e da un gran numero di isolotti che affiorano dalle limpide acque dell’Oceano Indiano, Zanzibar emerge al largo delle coste tanzaniane.

Come poggiamo piede sull’isola di Unguja, facciamo esperienza del caldo inverno africano, fatto di sole fortissimo, mitigato da una piacevole brezza, e di polvere rossa.

Code all’aeroporto di Stone Town per il visto d’ingresso e subito ci impattiamo con la grande ospitalità e simpatia degli zanzibarini, oltre che con la logica della “mancia facile”, alla quale peraltro eravamo preparati.

Il jambo! con cui siamo accolti ci entra subito in testa, diventando in breve la parola jolly del nostro soggiorno, semplice e spassosa, da esclamare con il sorriso negli occhi a chiunque si incontri.

L’ora di viaggio su un piccolo pulmino da Stone Town a Nungwi – paesino sulla punta settentrionale dell’isola, vicino a cui sorge il resort in cui soggiorneremo – ci permette di addentrarci nel cuore vero dell’isola, tra paesini imbastiti di paglia e fango, piccoli e chiassosi mercati, visini sorridenti di teneri bimbi, lunghi abiti colorati e veli sul capo delle donne, a ricordarci l’animo musulmano di Zanzibar.

Tra le casette appollaiate sulle strade polverose il rosso è il colore dominante. Non solo quello della terra o degli abiti, ma anche quello della Coca-Cola, il cui marchio troneggia in ogni dove – muri, cartelloni e manifesti. Invasione americana in terra africana, simbolo della galoppante globalizzazione? Non solo questo. La riverenza con cui gli zanzibarini ne parlano ci fa capire quanto sia forte il mito dei simboli occidentali qui, inneggiati a status symbol di una modernità tanto ricercata quanto stridente con la quotidianità isolana.

Una quotidianità fatta di pause, chiacchiere e sorrisi – quelli che cogliamo tra gli uomini al lavoro durante il nostro viaggio in pulmino e nei giorni a seguire – che accompagnano l’allungarsi delle ombre. Un tempo lungo, da non misurare mai per non spezzare l’incanto. Nessuna fretta, nessun problema. Insomma, hakuna matata.

Ben presto facciamo nostro questo stile di vita. Ci abbandoniamo ai ritmi lenti dell’isola, alle maree che ritirano e innalzano ciclicamente il mare, al sole che percorre il cielo australe da oriente a occidente passando a nord, anziché a sud.

Ci facciamo cullare dalla brezza di quest’inverno tanto accogliente e trascorriamo la prima giornata zanzibarina in tutta tranquillità, fra sedute di sole, passeggiate in spiaggia e bagni in uno specchio d’acqua cristallino, incorniciato da sabbia bianchissima e ombrelloni di paglia.

Ma anche lunghe chiacchierate con i Masai, i guerrieri posti a guardia del resort. Pelle color ebano, eleganza innata, vesti rosse, armi in legno alla vita, non di rado accompagnate da un cellulare.

I Masai – ci raccontano loro stessi – provengono dalla Tanzania continentale, abitano le terre fresche degli altipiani vicini al Kilimangiaro, nella zona di Arusha, dove vivono di allevamento in piccoli villaggi, difendendo le proprie mucche dagli attacchi dei grandi predatori, leoni in primis.

Sono cristiani, orgogliosi delle proprie tradizioni e della propria terra – di cui decantano le virtù non senza una nota di nostalgia – ma anche con tanta voglia di conoscerci e confrontarsi con noi.

Affamati di aneddoti, restiamo incantati dai loro racconti entusiastici di vissuto quotidiano. Il tutto sul promontorio roccioso che domina la baia bianca di Nungwi, con il sole che a poco a poco si spegne nell’oceano per l’ultimo spettacolo della giornata.

Alla sera ci aspetta una deliziosa cena tipica in spiaggia. Piedi sulla sabbia, venticello frizzante, mare più ritirato di quanto l’avevamo lasciato al tramonto, musica zanzibarina dal vivo e in tavola piatti a base di verdura, frutta e pesce dai sapori molto speziati, di cui i nostri palati imparano in fretta ad apprezzare l’inebriante pienezza.

2. IL VILLAGGIO DI PESCATORI DI NUNGWI

Il mattino seguente, sveglia presto. Appuntamento alle 8 con i nostri due amici Masai, che si fanno chiamare Fabio e Pedro, che ci condurranno – nella loro giornata di riposo – al piccolo villaggio di pescatori di Nungwi.

Gambe e braccia coperte per rispetto della popolazione musulmana locale e zaini in spalla (colmi di quaderni, biro e pennarelli per i bimbi locali), scendiamo in spiaggia e ci dirigiamo a nord, seguendo la linea morbida della costa.

Complice la bassa marea, camminiamo poco più di mezz’ora lungo riva su una vasta distesa di soffice e fredda sabbia bianca, che divide le basse acque dell’oceano dalle palafitte degli ultimi hotel, prima di intrufolarci verso l’interno ed entrare sul palcoscenico polveroso di Nungwi.

Sono tanti qui i particolari che richiamano quella continuità fra “dentro casa” e “fuori casa” che è l’essenza vera della quotidianità africana, fatta di comunione e condivisione – sfrontata, oserei dire – con natura e mondo animale. Le casupole senza vetri alle finestre, i piedini scalzi dei bimbi che giocano accucciati fra rottami, il rosso della terra che si riflette in quello delle lamiere arrugginite usate come tetti, gli animali che vivono con e fra gli uomini.

E poi gli odori forti, uno sporco mal tollerabile da noi occidentali, i mestieri di una volta praticati pole pole, ossia senza alcuna fretta, gli abiti dai mille colori, i passatempi inventati con poco e i tanti sorrisi che ci accendono il cuore.

Tutto questo si fonde nei vicoli di Nungwi, accompagnandoci in questo piccolo mondo… fuori dal (nostro) mondo. Un contrasto spropositato con il lusso che vive al di fuori di questi confini, o forse – dal loro punto di vista – che vegeta imprigionato tra i falsi confini difesi dai Masai.

Di fronte a Nungwi assistiamo allo spettacolare fenomeno della bassa marea, che ha ritirato il mare per centinaia di metri, consentendo ai pescatori di lavorare senza barche fra le sacche di acqua.

Sabbia bianca a perdita d’occhio, decine di imbarcazioni tipiche – dhow – arenate, distese di alghe verdi che a mucchi sporcano la riva e, stagliate contro il sole, mucche magre e gibbose in spiaggia. Uno spettacolo tutto africano.

Il momento più emozionante della gita a Nungwi? Vedere i bambini del villaggio accorrere, riunirsi attorno a noi, lottare per conquistare anche solo un pennarello e scorgerne i visi illuminati di gioia.

Il mattino seguente, quegli stessi bambini verranno soli a piedi da Nungwi alla spiaggia del nostro resort per dirci asante sana (grazie mille) e giocare a calcio con il pallone che abbiamo regalato loro nel villaggio.

3. A SPASSO NELLA PIANTAGIONE DI SPEZIE

La nostra prima escursione al di fuori dei confini di Nungwi profuma di spezie, vere regine dell’isola.

Guidati da un ragazzo del posto, uno dei “famelici” beach boys, ci dirigiamo assieme ad un gruppetto di altri italiani del resort verso una piantagione privata nel centro dell’isola, a poca distanza da Stone Town, che visiteremo poco dopo (50 € a coppia per l’intera escursione piantagione di spezie + Stone Town).

Dopo un’oretta circa di viaggio in pulmino, ci addentriamo in una fitta vegetazione di alberi da frutto e di spezie e tra la flora lussureggiante vediamo spuntare un paio di casupole in fango, panni stesi, focolari e qualche timido faccino.

Iniziamo il nostro tour spostandoci di pianta in pianta, per conoscerne da vicino i frutti e perderci nei loro profumi pungenti. Dalla noce moscata allo zenzero, dai chiodi di garofano alla cannella, dal pepe alla curcuma, dal peperoncino al cardamomo, dalla vaniglia alla citronella al caffè. Al termine della visita guidata, ci vengono donati degli originalissimi accessori in foglie di palma – cravatte, cappelli, borsette e collanine. Così agghindati, gustiamo ananas, banana, cocco, frutto della passione, carambola e altri frutti mai visti prima, tagliati e servitici al momento. Un’estasi per il palato!

Dopo una seduta di shopping al piccolo negozio di spezie della piantagione, torniamo sul pulmino e ci dirigiamo verso la vicina Stone Town, capitale di Zanzibar.

4. STONE TOWN… UN’ESPERIENZA TUTTA AFRICANA

Traffico di persone, marea di mezzi che sfrecciano senza paura nell’orda umana. Il nostro pulmino accosta vicino ad una calca di persone. Ci copriamo le spalle con un velo, scendiamo dal pulmino e ci troviamo d’improvviso catapultati in uno strepitare di voci e colori, così lontano dalla quiete della piantagione.

Siamo nel mercato giornaliero di Stone Town, confuso, urlante, gremito di donne e uomini di ogni età, tanto esuberante per noi quanto ordinario per loro.

Frutta, verdura e spezie esposte su teli a terra, su carri di legno, tra mani, piedi e occhi che ci cercano. E poi il mercato coperto della carne e del pesce. Uno spettacolo che il nostro sguardo stronca subito come squallido. Un odore fortissimo, mal sopportabile. Eppure così forte e affascinante quella normalità, le contrattazioni, gli sguardi sornioni, il sangue, le mosche.

Senza accorgercene siamo fuori dal mercato. Dobbiamo tenerci vicini per non rischiare di perderci nella frenesia di volti e voci.

Ci addentriamo nel centro storico, guidati dalla nostra guida zanzibarina. Ragnatela di viuzze, carugi liguri malandati, così stretti da risultare percorribili soltanto a piedi.

Edifici ottocenteschi in pietra, dall’intonaco bianco scrostato. Una città molto giovane, nata nella prima metà dell’Ottocento, “una neonata rispetto alla vostra Roma”, ci ricorda la nostra guida zanzibarina. Eppure così vissuta, forse per via dell’intreccio di influenze architettoniche arabe, indiane e coloniali, per l’aspetto decadente delle costruzioni, che ne fanno una città dall’animo antico e sapiente.

Panchine in pietra decorate a mosaico, a ridosso dei muri – parte, esse stesse, degli edifici. Balconi in legno scuro a veranda, portoni massicci, intagliati e finemente decorati. Bazar che si inseguono, uno dopo l’altro, con tessuti di ogni tinta appesi, oltre che indosso e in capo alle donne.

Una piazza piccola piccola, sui cui lati stanno seduti gruppetti di uomini a chiacchierare, e al centro una palma altissima con su appeso alla bell’e meglio un vecchio telefono giallastro. È il telefono pubblico!

Continuiamo ad attraversare il labirinto di stradine e poi alziamo gli occhi. In fondo al vicolo, vediamo stagliarsi sulla striscia di cielo pallido del tardo pomeriggio il campanile di una chiesa anglicana e il minareto di una moschea. Vicini e pacifici, nel pieno spirito tanzaniano.

Dalle prigioni per gli schiavi – triste zavorra del nostro passato – passiamo al forte arabo, fino a sbucare nei pressi dell’edificio anonimo in cui visse, bambino, Freddy Mercury. Ci guardiamo intorno con un po’ di emozione e poi dritti fino al vicino porto della città, su cui si affaccia la celebre Casa delle meraviglie – oggi museo – così chiamata per essere stato il primo edificio dell’Africa orientale ad essere dotato di ascensore e il primo di Zanzibar a disporre di corrente elettrica.

Nei giardini che costeggiano il porto, separando la Casa dal mare, siamo rapiti dal sole, che affonda veloce nel mare rossiccio, dietro ai dhow che riposano quieti in porto.

Calato il sole, ecco animarsi come d’incanto la banchina intorno ai giardini: il ramadan concede tregua ai palati affamati, che affollano velocemente le bancarelle improvvisate a cuocere pesce fresco alla griglia e offrire piatti zanzibarini (oltre che l’immancabile pizza). È tempo per noi di fare ritorno a Nungwi, nel buio che cresce rapido.

5. ARAGOSTE SULLA LINGUA DI SABBIA NELL’OCEANO

Altra bellissima escursione, che consiglio vivamente, è quella di Sand Bank, che organizziamo ancora una volta con i ragazzi locali, di cui ormai ci fidiamo ciecamente. Di nuovo, il prezzo concordato è ottimo: 105 € a coppia per l’intera giornata fra Sand bank e Prison Island, con grigliata di pesce, frutta e bibite incluse. Un vero affare!

Dopo l’ora di viaggio in pulmino che ci separa da Stone Town, ci imbarchiamo dal porto della capitale zanzibarina sulla piccola barca in legno “Fortuna” (e speriamo ci assista!), per raggiungere la lingua di sabbia bianca Sand Bank, lontana alcuni chilometri dalla costa.

Appena una mezz’oretta di navigazione e sbarchiamo in paradiso. Ad accoglierci è un piccolo lembo di sabbia incontaminato e selvaggio, di un candore accecante, che il movimento delle maree fa emergere soltanto per alcune ore della giornata dalle acque dell’oceano, tra fondali di sabbia e coralli.

È emozionante salpare su un isolotto su cui non vi è traccia di orme umane, probabilmente cancellate, dopo l’ultimo sbarco, dalla risalita del mare.

Tanta crema per proteggerci dal sole bruciante e bivacchiamo sulla piccola isola-spiaggia per qualche scatto da incorniciare. E poi eccoci con pinne e maschere, pronti a perlustrare i fondali vicini, popolati da moltissimi pesci pagliaccio, ricci dagli aculei lunghissimi e altri pesci che già conosciamo per averli incontrati nel Mar Rosso e nel Mare di Bali. Questi fondali ci appaiono comunque meno colorati e affollati degli altri due.

Un altro po’ di relax nella piscina naturale di Sand Bank e torniamo a riva per sole, chiacchiere e frutta esotica, offertaci dai nostri accompagnatori. Un’ottima entrée, anticipatrice di quello che si è rilevato il momento clou della gita, il pranzo a base di pesci e crostacei freschissimi. Gamberi, polpo, calamari, tonno, cicale di mare e aragoste, cucinate su una griglia condotta fin qui in barca. Scorpacciata epica, all’ombra di un gazebo improvvisato, costruito con quattro pali di legno e un telo di recupero.

Intanto il mare cristallino sale, placido e implacabile, e per noi giunge il momento di salutare Sand Bank, dopo averla ripulita dalla nostra presenza.

6. PRISON ISLAND, ISOLA DELLE TARTARUGHE

Risaliamo in barca alla volta dell’isola Changuu, più nota come Prison Island per aver ospitato una prigione, in realtà mai utilizzata, di cui oggi non resta che qualche finestra a grata sul mare turchese e un hotel di lusso all’ombra di un gigantesco tamarindo.

L’isola è anche riserva di tartarughe terrestri giganti. Sono le testuggini originarie delle Seychelles, pesanti, coriacee, grinzose e impacciate, alcune delle quali ben più che ultracentenarie.

All’ombra di una fitta vegetazione, tra laghetti e piccoli saliscendi del terreno, diamo loro spinaci da mangiare. Vinta così la diffidenza delle tartarughe, ne approfittiamo per immortalarle in qualche scatto a distanza ravvicinata. Vicino a loro ci appaiono così piccole le tartarughe zanzibarine, che possiamo persino tenere in braccio!

Come sempre accade nei dintorni dell’equatore, il tramonto si avvicina rapido. Lasciamo Prison Island, rientriamo al porto di Stone Town e da qui a Nungwi.

7. SOUVENIRS DI AMICIZIA VERA

Dedichiamo le ultime giornate zanzibarine a goderci le meraviglie di Nungwi e i piaceri dell’elegantissimo resort. Bagni in mare, giochi in spiaggia e lunghe passeggiate a pelo dell’acqua verso Kendwa, tramonti sul mare seduti su comodissimi divani di bambù con frappé di mango da sorseggiare.

Dopo l’ennesimo tramonto di fuoco, facciamo incetta di souvenirs ad un mercatino Masai di Nungwi, fatto di piccole bancarelle coperte da tendoni di un rosso sbiadito. In un attimo siamo assaliti dai venditori, che reclamano attenzione per i propri pezzi di artigianato tanzaniano, dai gioielli di perline, cuoio e conchiglie, all’oggettistica in legno, dai tessuti colorati alle tele dipinte a tempera ai quadretti in foglia di banana.

L’ultima sera, dopo una cena squisita a base di pesce, andiamo in spiaggia per salutare i nostri amici “guerrieri”. Qualche ultima foto ricordo e ci scambiamo il numero di telefono, con la promessa di mantenerci in contatto: “Facebook non lo conosco, ma uso Whatsapp!”, ci dice con orgoglio Fabio. Tecnologici questi Masai!

Pedro ci fa un’ultima bellissima sorpresa, regalandoci una collanina a testa, che sua mamma ha realizzato a mano ad Arusha, in Tanzania. Un piccolo gesto per dirci grazie e un abbraccio per sancire l’amicizia pura che ci ha uniti.

È ora di dirci addio. Abbracci e parole di sincero affetto, frutto di tante passeggiate insieme, di raccolta di aneddoti ed esperienze personali che ci hanno reciprocamente arricchito. Uno sguardo al limpido brillio della volta celeste e un ultimo, devoto saluto alla Croce del Sud.

Inizia all’alba la giornata che ci riporta a casa. L’aereo parte da Stone Town con un’ora di ritardo e, stanchi, ci prepariamo al lungo viaggio, che prevede ben due scali, a Mombasa e Roma. Prima di addormentarci in volo, riusciamo a goderci dall’alto la vista spettacolare prima di Nungwi e della “nostra” spiaggia, poi della lingua di sabbia di Sand Bank al largo di Stone Town, infine, quando ormai sorvoliamo il continente nero, del maestoso Kilimangiaro, gigante bruno spruzzato di neve che spunta dalla coltre di nubi che riveste Tanzania e Kenya, alle sue pendici.

La voglia di restare era tanta, quasi al pari della voglia di continuare a vivere hakuna matata. Se il ritmo frenetico della nostra quotidianità renderà quantomeno incerto il vivere senza troppi pensieri, è certo almeno che non dimenticheremo mai i sorrisi e il calore degli zanzibarini, né lo spirito di amicizia vero di cui Masai ci hanno fatto dono.

Nakupenda Zanzibar. Arrivederci Tanzania.



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