Yunnan: la frontiera cinese sospesa tra tradizione e avanguardia

Viaggio in una terra in cui si alternano post-modernità e stili di vita fuori dal tempo, utilizzando mezzi di trasporto locali e alloggiando in ostelli e pensioni
Scritto da: mnz86
yunnan: la frontiera cinese sospesa tra tradizione e avanguardia
Partenza il: 08/08/2015
Ritorno il: 23/08/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
Un viaggio in una terra di frontiera in cui si alternano post-modernità e stili di vita fuori dal tempo, consumismo e analfabetismo, globalizzazione e minoranze etniche in costume. Uno spazio di contaminazioni e contraddizioni che abbiamo provato a esplorare e a decodificare nel corso di un viaggio di due settimane svolto in coppia, in completa autonomia, utilizzando mezzi di trasporto locali e alloggiando in ostelli e pensioni

Lo Yunnan è una regione montuosa sospesa tra Himalaya e Sud Est Asiatico, che si trova all’estrema periferia sud-occidentale della Cina al confine con Birmania, Vietnam, India e Tibet.

Laterale ma non troppo rispetto alla Cina delle megalopoli e dei record economici, lo Yunnan è una terra di frontiera in cui si alternano post-modernità e stili di vita fuori dal tempo, consumismo e semplicità, trionfi e inadeguatezze, internazionalizzazione e analfabetismo, globalizzazione e minoranze etniche in costume. Uno spazio di contaminazioni e contraddizioni, che abbiamo provato a esplorare e a decodificare nel corso di un viaggio di due settimane (prima esperienza in Asia, seconda in Asia dopo India e Nepal) svolto in coppia, in completa autonomia, utilizzando mezzi di trasporto locali e alloggiando in ostelli e pensioni.

Una premessa: abbiamo scelto di dedicare due intere settimane a questa regione, piuttosto che alle più popolari Pechino e Shangai, sia per motivi climatici (l’estate torrida sulla costa, il gran numero di turisti cinesi che affollano le località turistiche ad agosto) sia perché ci incuriosiva la possibilità di visitare con discreta profondità una zona un po’ più di retrovia, un po’ meno travolta dall’iper-modernità delle metropoli e forse un po’ meno sradicata. Una zona meno mainstream, in cui fosse possibile intravedere ancora anche qualcosa della Cina senza tempo delle minoranze etniche, dei villaggi, delle antiche città. Sicuramente abbiamo perso molto (d’altra parte la Cina è un continente, e come tale richiederebbe molto più tempo), ma crediamo che la scelta abbia pagato anche perché lo Yunnan, nonostante i “soli” 50 milioni di abitanti, è una regione di grandi diversità in cui ogni luogo offre stili, stimoli e sapori nuovi e sempre diversi.

Quello che segue è un piccolo reportage ragionato dall’esperienza in cui abbiamo provato a condensare informazioni pratiche e note di costume. A chi fosse interessato a comprendere più in profondità la realtà storica e sociale cinese, consiglio poi due straordinari libri: “The Corpse Walker. Real-life stories, Chine from the bottom up”, di Liao Yiwu, una rassegna di interviste a persone comuni (e in particolare a umili e decaduti) che raccontano le loro vicende che attraversano la seconda metà del ventesimo secolo, e “Age of Ambition. Chasing Fortune, Truth and Faith in the new China” di Evan Osnos, che racconta la prospettiva di chi oggi in Cina sta provando a fare la storia.

KUNMING – GRAPPOLI DI PALAZZI E GRAPPOLI DI PULCINI FLUO

Kunming, metropoli medio-piccola per gli standard cinesi (“solo” 4 milioni di abitanti nell’area urbana, più o meno come Los Angeles; circa 7 milioni contando l’intera area metropolitana), è la capitale e la porta di accesso allo Yunnan. L’aeroporto internazionale è il quarto della Cina per volumi di traffico e si trova a circa un’ora di bus (Airport Express 1) dal centro di Kunming.

Arrivati al termine di un lungo viaggio di oltre 20 ore (con scali a Parigi e Guanzhou), preleviamo contante all’ATM dell’aeroporto e saliamo sul bus. Poco dopo la partenza, una sorta di giovane hostess fa un lungo discorso in cinese e poi passa tra i passeggeri chiedendo, probabilmente, la destinazione. Non parla una parola di inglese: giusto il nostro turno costatiamo l’incomunicabilità (cominciamo bene), e con un sorriso la congediamo.

Lungo la strada che dall’aeroporto porta alla città, la prima cosa che si nota sono i grattacieli residenziali in buona parte in costruzione. Alti mediamente una trentina di piani, l’uno identico all’altro (se non per piccoli elementi modificati per dare l’illusione del movimento: un paio di piani in più o in meno, la distribuzione dei colori leggermente diversa), sorgono in file ordinate a grappoli di 10, 20 o anche 50. Come se, per un numero inferiore, da queste parti non valesse nemmeno la pena di fare un progetto e di aprire un cantiere.

Avvicinandosi alla città lungo l’autostrada, compaiono poi i primi vecchi palazzi popolari in calcestruzzo a vista forse costruiti dagli anni ’60-‘70. Hanno 4 o 5 piani, e i balconi presenti nel progetto originario sono stati interamente murati o verandati. Spesso, all’esterno della veranda, è stato aggiunto un secondo ordine di davanzali o bovindi raccolti all’interno di fitte inferriate che, più che per proteggere dall’esterno, sembrano fatte per contenere la gran massa di oggetti e forse di persone che devono essere accatastati all’interno di quegli spazi inadatti a ospitare tutte le suppellettili della modernità di una popolazione urbana in incredibile espansione.

Il traffico è fitto e lento, ma tutto sommato ordinato nonostante la tendenza di tutti a stare sulla più aspirazionale corsia di sorpasso che costringe a frequenti sorpassi a destra e genera un costante rumore di sottofondo di clacson. Le corsie sono però ben delimitate, e i grandi viali sono affiancati da alberi e da ampie piste laterali su cui circola un flusso costante di scooter elettrici silenziosi su cui viaggiano due o tre persone senza casco. Le automobili, che procedono a passo d’uomo di semaforo in semaforo, sono in media di grandi dimensioni (SUV cinesi ma anche molti Nissan, Toyota, VW, BMW): l’utilitaria non sembra al momento essere contemplata. Idem dicasi per le biciclette, quasi del tutto assenti, se non per qualche giovane hip che prova a destreggiarsi tra gli scooter.

Le strade sono affiancate da due ali di negozi spesso minuscoli e del tutto aperti sulla strada. Partendo dalla periferia, si susseguono senza soste tavole calde (i locali appaiono sempre intenti a masticare qualcosa, e mangiare fuori casa è la norma), negozietti di abbigliamento, drogherie, ricambisti, ferramenta, parafarmacie (dove integratori e pillole sono affiancati da vasi pieni di funghi e radici) e negozi di cellulari (vera e propria ossessione nazionale, con l’immaginario dominato da Apple e i volumi sostenuti da un gran numero di produttori cinesi). Le insegne al neon e la musica dance a tutto volume solo la norma, così come gli “strilloni” che muniti di microfono declamano le ultime offerte invitando la gente ad entrare.

Avvicinandosi al cuore della città, compaiono poi anche i primi negozi “moderni” (con vere vetrine e manichini) ed i centri commerciali, i fast food internazionali (soprattutto KFC) e qualche Ipermercato (anche un WalMart). Gli angoli tra le strade sono invece affollati di venditrici di frutta e di street food (pannocchie lessate, patate abbrustolite, wurstel speziati, spiedini di polpo), un apparente retaggio del passato in una città dove lo showroom Rolex si trova a poche decine di metri dai venditori ambulanti di frutta, e dove gli attuali miliardari sono cresciuti spesso senza l’acqua corrente in casa.

Giunti al terminal dell’Airport Express (presso il parcheggio dell’hotel West Inn, in centro) recuperiamo gli zaini e cerchiamo un mezzo per raggiungere l’ostello. Prima si offrono di accompagnarci due scooteristi-tassisti abusivi, poi raggiunta la strada fermiamo un taxi.

I taxi, almeno in questa parte della Cina, sono una manna. Costano pochissimo (un paio di euro per un quarto d’ora di tragitto urbano), usano il tassametro (almeno a Kunming) e portano esattamente al punto desiderato risparmiando le difficoltà di orientamento dovute al fatto che spesso i nomi delle strade non sono indicati (sia sulle strade, ma anche sulle mappe digitali in alfabeto latino che si trovano in giro). E’ però fondamentale avere con sé un foglio in cui siano scritte (in alfabeto cinese) quante più informazioni utili per raggiungere la destinazione, oltre al numero di telefono del luogo da raggiungere (non di rado il tassista chiamerà personalmente per farsi dare indicazioni dallo staff). L’inglese dei tassisti è infatti pari a zero, così come la propensione a interpretare i suoni che gli stranieri provano ad emettere (basta sbagliare un tono e già non ci si capisce). L’impressione è anche che molti siano quasi analfabeti. In alternativa, un’applicazione di mappe utile che funziona offline (localizzazione con GPS compresa) si chiama Ulmon CityMapsToGo.

Raggiungiamo l’ostello, “The Hump” (camera doppia con bagno a circa 25 euro a notte, in linea con la media degli altri ostelli frequentati nel corso del viaggio), citato sulla Lonely Planet e molto gettonato sui siti di booking dai turisti stranieri anche perché la maggioranza dello staff parla inglese. Nonostante la vocazione internazionale dell’ostello, la grande maggioranza degli ospiti è tuttavia composta da giovani cinesi: prima manifestazione plastica di un concetto che sperimenteremo per tutto il viaggio, e che cioè da queste parti, gli “occidentali” costituiscono oggi solo una piccolissima parte (per i più trascurabile) dei viaggiatori che visitano lo Yunnan dove l’industria è nettamente più votata, ormai, al turismo interno che non ai pochi temerari zainisti che arrivano da fuori. L’ostello è comunque più che consigliato, si trova in posizione centrale e vanta un roof garden con vista sulla piazza sottostante e sulla skyline di Kunming (notevole, con i bei grattacieli del centro illuminati da neon e schermi a led). In generale, nello Yunnan gli ostelli internazionali sono presenti quasi ovunque e sono di gran lunga preferibili alle altre possibili sistemazioni: lo staff parla inglese e capisce al volo le necessità dei backpackers, e spesso sono disponibili ristoranti interni, lavatrici, pc, e c’è la possibilità di condividere i costi di eventuali escursioni con altri viaggiatori.

Kunming vanta, all’interno della città, alcuni luoghi di interesse turistico: un tempio buddista affascinante e tranquillo (Yuantong Temple), un grande parco cittadino costruito all’interno di un lago ricoperto di ninfee (Green Lake Park) in cui i cinesi si ritrovano per passeggiare, per fare Tai Chi oppure per ballare in gruppo e due belle pagode. Pare che Kunming, città a misura di abitante e non certo di turista, sia spesso trascurata dai viaggiatori: in realtà, per quanto ci riguarda, è stata una delle tappe più gradite e più stimolanti proprio perché più aderente a quello che è il modo di vivere locale. Tutte le attrazioni più prettamente turistiche sono visitabili in una giornata; con un paio di giornate è invece possibile anche di visitare il centro non turistico, che merita altrettanta attenzione.

Il pomeriggio percorriamo la principale via pedonale moderna, affiancata da palazzi e grandi centri commerciali in cui si alternano pochi marchi di super lusso europei e una miriade di brand di abbigliamento locali (sia alta moda che catene apparentemente più popolari, ma con prezzi sempre in linea o superiori a quelli dei negozi italiani). Guardando al vecchio continente, da queste parti si fanno rispettare produttori di orologi di lusso, di cosmetici e di SUV, molto meno le catene di abbigliamento – a parte Zara – e quasi per nulla la ristorazione e l’agro-alimentare (dal punto di vista alimentare – e non solo – il cinese “medio” pare essere parecchio patriottico). Sono presenti anche alcune catene giapponesi e coreane di articoli vari a poco prezzo (stile market Ikea), qualche KFC o McDonald’s, qualche boulangerie cinese (dove si fa una gran fatica a indovinare dall’apparenza il gusto, e dove normalmente la stessa “pasta” contiene sia elementi dolci che elementi salati: ananas e formaggio, wurstel e pane al latte) e le immancabili parafarmacie che vendono tuberi e pastiglie. All’esterno di una di esse, una ventina di non vedenti in camice bianco è a disposizione per massaggiare collo e schiena dei passanti: una professione a quanto pare comune tra i non vedenti cinesi. Visitiamo anche un Carrefour (enorme e perfettamente mimetizzato nel panorama cinese, con un reparto gastronomia e frutta e verdura pieno di prodotti incomprensibili) e un McCafé con un McDonald’s annesso che ha un menù quasi interamente locale (si riconoscono solo un paio di panini della “tradizione occidentale”) scritto soltanto a caratteri cinesi.

A poche decine di metri dalla Shopping Street (saranno 400 metri dallo showroom Rolex), in una via laterale, è presente anche il cosiddetto Fruits and Vegetables market. Frutti e verdure sono in realtà in secondo piano, ma merita una visita uno dei luoghi più stranianti e lontani dalla quotidianità incontrati lungo l’intero viaggio e cioè la sezione dedicata alle bancarelle di animali domestici in cui, stipati in gabbiette cesti e vasche, si susseguono a breve distanza mucchi (letteralmente: spesso l’intera superficie del contenitore è occupata e gli animali si arrampicano gli uni sugli altri) di topolini, criceti, cuccioli di cane e gatto, conigli, scoiattoli, scarabei, pesci, piccioni, piccoli serpenti, tartarughe d’acqua e – apice del kitsch – pulcini colorati con colori fluo.

L’atteggiamento dei locali nei confronti degli “occidentali”, che pure anche in una metropoli come Kunming raramente vengono incontrati dai più di persona, è di apparente indifferenza. Pesa, da un lato, la timidezza e la scarsa familiarità con l’inglese parlato: giovani e adulti ambiziosi studiano e conoscono nei fondamentali e sulla carta probabilmente anche meglio di noi (si stima che circa 300 milioni di cinesi studino l’inglese), ma pochi hanno familiarità con la lingua parlata e/o il coraggio di sbilanciarsi e rischiare la figuraccia. D’altro canto, però, anche se non accade come in altri posti che le persone si mettano a fissare con evidente curiosità gli stranieri, è successo diverse volte che alcuni temerari, soprattutto giovani provenienti probabilmente da zone più remote, ci chiedessero di poter fare una fotografia con loro.

JIANSHUI – IL SANTUARIO DELLA BUROCRAZIA

Dopo un giorno e mezzo di assestamento a Kunming, cominciamo il viaggio in direzione sud verso la regione di YuangYang, famosa per le risaie terrazzate. Facciamo però una tappa a metà strada a Jianshui, città poco battuta che vanta un centro storico relativamente poco turistico, un grande tempo confuciano, la sala in cui si sono svolte per secoli le selezioni regionali per accedere al concorso imperiale per funzionari governativi, un vicino tempio taoista e una residenza nobiliare.

A Kunming esistono quattro stazioni degli autobus, una per ciascun punto cardinale. Per andare a Jianshui è necessario partire dalla stazione sud, raggiungibile con la metropolitana (con biglietterie automatiche anche in inglese) o in taxi (l’ostello The Hump mette a disposizione dei biglietti pre-stampati da mostrare ai tassisti e su un mazzo di questi è scritto, a caratteri cinesi, “South coach station”). La stazione è facile da navigare: c’è una grande biglietteria (per sicurezza mostro all’addetta un post-it su cui avevo scritto i due caratteri che compongono la parola Jianshui), e i biglietti stampati sono scritti in cinese ma riportano data, orario, e numero del posto in cifre (quindi pienamente intellegibili). Si accede quindi alla sala di aspetto, con porte di accesso agli autobus presidiate da personale: è sufficiente mostrargli il biglietto, e questi indicheranno su quale autobus salire.

Il viaggio verso Jianshui dura oltre 4 ore ed è relativamente confortevole, come gli altri, nonostante i dislivelli (in due settimane siamo passati dai 200 metri sul livello del mare di Nansha ai 3.200 di Shangri-La). L’autobus è di quelli “Gran Turismo”, e c’è anche un televisore su cui vengono proiettati vecchi film di scazzottate prodotti a Hong Kong che sembrano interessare abbastanza i passeggeri, ad esclusione di noi tutti cinesi. Nel secondo film visto, il cattivo è un occidentale biondo e palestrato esperto in arti marziali che, presumo – ma il bus arriva a destinazione appena prima della scena finale – viene sconfitto dal tonico eroe asiatico di turno.

L’autobus arriva nella città nuova, a pochi minuti d’auto dalla città vecchia. Tutte le città visitate sono in realtà organizzate in questo modo: l’ampia città moderna e la città vecchia sono sempre ben distinte e separate le une dalle altre anche di alcuni chilometri (la città nuova non cresce intorno al centro storico, ma – per comodità – qualche chilometro più in là). Saliamo quindi su un rickshaw a motore (una sorta di ApeCar con un sedile per tre passeggeri al posto del vano di carico) guidato da una signora che indossa un impeccabile completo rosso, che ci porta alla città vecchia nei pressi dell’ostello (Typha). Aperto da poco, questo ostello internazionale è comparso sui siti di booking poco prima del viaggio ed è la prima e unica struttura ricettiva della città a comparire sui circuiti Booking e Hostelbookers.

Pur essendo una città poco battuta dai turisti, cinesi compresi, Jianshui è una cittadina parecchio animata. Al piano terra delle abitazioni d’epoca (con tetti spioventi, intarsi in legno, etc.) sono infatti ospitati negozi di abbigliamento con musica altissima e luci al neon. Questo contrasto tra architetture tradizionali e uso massiccio di neon e musica dance sarà una costante di quasi tutti i luoghi visitati compresi i più turistici, come se le due cose (edifici ed architetture storiche e negozi chiassosi di chincaglierie) fossero del tutto naturalmente compatibili e come se non fosse necessario proteggere più di tanto il patrimonio storico dal kitsch. E se da un lato questo stride un po’ con la sensibilità europea in tema tutela dei beni paesaggistici e storici, che privilegia la conservazione e la staticità (come turisti ambiamo in fondo tutti a vivere un “viaggio nel tempo” in luoghi gloriosi e incontaminati, piuttosto che ad accettare i nuovi modi di re-interpretare il patrimonio storico facendolo dialogare con la modernità che ci sembra comune e quindi mediocre), dall’altro questo approccio cinese più laico rende i luoghi in un certo senso più vivi, spontanei e quindi paradossalmente meno artefatti.

Una volta fatto il check-in usciamo in perlustrazione, con l’obiettivo di pranzare prima di cominciare la visita dei siti. Il compito si rivela però arduo: tra le tavole calde visibili lungo la strada principali, nessuna ha un menù almeno parzialmente tradotto inglese (ma solo tabelloni fitti con un elenco di pietanze privo di immagini) e nemmeno la Lonely Planet segnala alcun posto specifico in cui mangiare. Prendiamo quindi la via traversa alla principale e dopo un po’, quando ormai disperavamo, troviamo una sorta di “trattoria” fuori dalla quale sono apposti un paio di cartelli in inglese. Entriamo speranzosi nel locale, tra l’altro splendido (ricostruito come un palazzo d’epoca, in linea con la vicina residenza signorile di fine ‘800), che è pieno di turisti cinesi. La cameriera, che non parla una parola di inglese, ci porge quindi un tablet su cui è caricato un menù parzialmente tradotto in inglese! Spenderemo circa 15 euro in 2 (il ristorante, essendo turistico, è un po’ più caro della media dello Yunnan), mangiando una gran varietà di cibi freschi conditi pesantemente ma sorprendentemente leggeri, come ovunque nel corso delle 2 settimane passate in Yunnan.

Visitiamo quindi il complesso di edifici in cui sorgeva una scuola e un tempio dedicati a Confucio, personaggio interessantissimo e controverso. Filosofo coevo di Socrate, maestro itinerante e “consulente governativo”, Confucio ha influito più di chiunque altro sull’evoluzione degli stati e del pensiero politico asiatico. Teorico del rispetto della gerarchia e dell’autorità, del senso civico (una sorta di “etica protestante” in salsa orientale), della burocrazia intesa come garanzia dell’oggettività e del merito sull’arbitrio e sull’abuso e di molte altre cose, Confucio è diventato nel corso della storia oggetto di una sorta di religione promossa nei secoli dallo stato stesso per legittimarsi.

A pochi metri dal tempio e dalla scuola, una delle più importanti della regione che ha sfornato nei secoli i quadri dirigenti della Cina Imperiale, sorge la “sala dei Concorsi”, luogo mitico in cui si sono tenute per secoli le selezioni per accedere alle “selezioni” organizzate dall’Imperatore attraverso i quali veniva scelta su criteri formalmente meritocratici la classe dirigente del paese. Vi fanno frequentemente tappa, come in un vero e proprio pellegrinaggio (in cui ad essere venerata è non una divinità trascendente ma l’esistenza di una complessa macchina di selezione meritocratica delle classi dirigenti grazie alla quale i degni, siano essi figli delle più umili famiglie, possono teoricamente arrivare a sedere a fianco dell’imperatore), pullman di studenti e nonni con i nipoti.

YUANGYANG – IL PROGRESSO E LA BELLEZZA

L’obiettivo principale di questa deviazione a sud è la contea di YuangYang, un insieme di ripide valli punteggiate da villaggi rurali in cui vivono i membri di alcune minoranze etniche cinesi (Hani, Yi, Miao) che ancora conservano uno stile di vita legato ai cicli ed ai rituali di una tra le agricolture più povere e dure che ci siano: quella del riso coltivato a mani nude su ripidi terrazzamenti artificiali.

Per raggiungere questa località sono necessarie 7-8 ore di pullman da Kunming, oppure circa 5-6 ore da Jianshui. Il percorso da Jianshui prevede un primo bus per Nansha (città nuova costruita a valle), un secondo bus per Xinjie (principale centro dell’area ad alto interesse paesaggistico, in cima ad una collina a un’ora da Nansha) e poi un minibus che viaggia lungo la strada circolare che collega i villaggi.

La zona delle risaie è un sito Unesco, e la vista delle valli che si aprono a vista d’occhio è impressionante e magica. Ad agosto, il riso ha quasi raggiunto la maturazione e quindi la vallata è divisa in piccoli spicchi di terra caratterizzati da diverse tonalità di verde e giallo (diversi stadi di maturazione) che variano continuamente a seconda dell’intensità della luce, del movimento delle nuvole e del soffio del vento che “pettina” le spighe.

A monte dei terrazzamenti sorgono numerosi villaggi rurali abitati dalle minoranze etniche. Le famiglie del villaggio condividono semi ed acqua, mentre ciascun terrazzamento è di proprietà di una famiglia diversa. L’intera coltivazione e mietitura dei campi (che si trovano anche a due ore a piedi dal villaggio), così come la manutenzione dei terrazzamenti di fango, viene svolta a mano e strumenti e raccolti vengono trasportati sulla schiena, in apposite gerle, dalle contadine e dai contadini vestiti in abiti tradizionali. Per questo motivo, le terrazze di YuangYang sembrano avere i giorni contati. Da un lato, mentre i vecchi diventano sempre più vecchi, i giovani tendono ad allontanarsi da questo stile di vita duro e poco remunerativo attratti come sono dalle opportunità e dallo stile di vita moderno offerto dalle città. Dall’altro lato, la crescita dei volumi turistici (benché, per gli standard cinesi, quasi trascurabili) sta spingendo sempre più persone a provare a provare a dedicarsi alle attività ricettive piuttosto che a questo genere di agricoltura.

L’intera zona, in effetti, sembra essere un grande cantiere tanto che la stessa vista delle risaie è impedita in alcune zone per centinaia di metri ed il governo ha costruito nei punti panoramici più facilmente accessibili delle piattaforme di legno accessibili solo previo pagamento di un biglietto di ingresso. Percorrendo la strada asfaltata che collega i villaggi, si nota un susseguirsi di costruzioni: abitanti del villaggio che aggiungono un piano alla loro abitazione, nuovi edifici che vengono costruiti sempre più a ridosso delle risaie, pensioni e ristoranti più o meno improvvisati che sorgono lungo la strada principale, ristrutturazioni di vecchi edifici con materiali di maggior pregio da parte di coloro che hanno “fatto i soldi” in città e che investono nel villaggio per accrescere il loro status.

Non che il lavoro nell’edilizia risulti meno duro del lavoro nei campi: i materiali da costruzione possono essere scaricati soltanto ai bordi della strada principale, e da lì devono essere portati a spalle fino ai cantieri lontani anche qualche chilometro dalla strada. Sono le donne “indigene”, ultime nella gerarchia sociale, ad occuparsi dei lavori più duri: scaricano dai camion sacchi di sabbia da 25 chili, trasportano pile di mattoni a valle, sminuzzano pietre, setacciano ghiaia. Gli uomini per lo più sovraintendono ai lavori fumando, caricano i materiali sulle spalle delle portatrici, muovono i camion e si occupano delle opere in muratura: posizionano mattoni, sistemano tetti.è

Tuttavia, l’intero sistema economico si regge sui terrazzamenti, che devono la loro straordinarietà e la loro stessa esistenza propri a quel duro lavoro contadino che le luci del turismo e in generale del progresso stanno rendendo sempre meno praticabile. Che ne sarà delle risaie e dell’ecosistema di YuangYang (delle pensioni, delle guide turistiche…), quando gli ultimi vecchi contadini moriranno, e nessuno prenderà il loro posto?

Abbiamo alloggiato presso l’ostello Timeless Hostel YuangYang nel villaggio di Pugao Laozhai (circa 40 minuti da Xinjie), un villaggio rurale in cui il governo ha portato acqua ed elettricità a circa 5 minuti dalla strada, in cui i galli scandiscono ancora il passare delle ore, i bufali sono gli esseri più rispettati e gli abitanti parlano un dialetto locale tutto loro e sono (dai trentenni in su) analfabeti. Pugao Laozhai, che tra l’altro è uno dei punti panoramici più apprezzati, ospita un buon numero di ostelli e pensioni più o meno ben mimetizzati tra le case dei locali ma il Timeless Hostel si è affermato negli ultimi mesi grazie al proprietario, un ragazzo cinese di nome Richard, che è un vero e propri fiume in piena. L’ostello vanta un piccolo ristorante (l’unico punto di ristoro del villaggio, escluse due donne del villaggio che preparano salsicce lungo il sentiero principale del villaggio), e Richard dedica tempo e passione a illustrare i diversi itinerari a ciascun nuovo arrivato o a dare una mano per biglietti e necessità varie ed eventuali. Si organizzano anche escursioni per piccoli gruppi (così da ammortizzare le spese) in minivan e a piedi tra i diversi punti panoramici della provincia, che sono fondamentali perché i luoghi non sono raggiungibili in autonomia e che sono aperte anche a chi non alloggia presso il Timeless.

DALI – UNA FRETTOLOSA RESTAURAZIONE CULTURALE

Dopo due notti a YuangYang, abbiamo dedicato un’intera giornata al viaggio di ritorno a Kunming (prima in minibus da Pugao Laozhai a Xinjie, poi con il pullman diretto delle 9.05 da Xinjie a Kunming Sud, infine con metro e taxi abusivo – che ci ha fregato – per raggiungere un ostello assegnatoci da Booking.com visto che la guesthouse prenotata aveva fatto overbooking). La mattina successiva, di buon’ora, siamo ripartiti questa volta in direzione nord ovest con obiettivo Dali.

Il pullman, che parte dalla stazione Ovest di Kunming, impiega per raggungere Dali nuova 5-6 ore; da lì sono necessari circa 20 minuti in taxi per raggiungere la città vecchia.

Dali è (insieme a Lijiang) la città dello Yunnan più visitata dai turisti. Un tempo – pare – apprezzata dai viaggiatori occidentali per il mood rilassato, è oggi meta di un flusso intenso di pullman di turisti cinesi che ne hanno modificato l’atmosfera con derive comunque affascinanti. Conserva inoltre uno stile architettonico e decorativo particolare (essendo la capitale di un’altra etnia, quella Naxi) ed il più bello e colorato mercato locale di verdura fresca e carne visto in Yunnan.

L’attrazione principale di Dali è costituita dal complesso delle Tre Pagode e dal monastero Chong Shen, a circa un chilometro a nord della città vecchia di Dali. Il complesso si compone di tre pagode poste a triangolo, la principale alta quasi 70 metri, costruite tra l’800 e il 1000, e di un complesso di templi e porte monumentali che sale lungo la collina seguendo un asse lungo 4 chilometri fino al tempio di Chong Shen. Ricostruito nel 2006 sul sito in cui in antichità era presente un tempio (distrutto oltre un secolo fa e da allora mai ricostruito), questo complesso di templi e porte è un luogo enigmatico, estremamente scenografico ma che lascia molto amaro in bocca. Le strutture, imponenti e colorate nello stile dei templi buddisti cinesi (con un profluvio di colori brillanti, dal giallo al rosso al verde), sembrano perfetti set per fotografie ma a uno sguardo più attento si rivelano spoglie, prive delle decorazioni e della ricchezza di statue viste altrove. Stupisce come diverse strutture laterali siano completamente vuote o siano utilizzate come magazzini, come all’interno di alcuni templi secondari siano ospitati negozi di souvenir, e come tra i templi serpeggino i veicoli elettrici messi a disposizione dei turisti per ascendere da un livello del complesso all’altro senza doversi affaticare. Le colonne, le decorazioni, i dettagli e le stesse statue, sembrano poi essere state fatte frettolosamente con la volontà di chiudere i lavori nei tempi e di battere qualche record dimensionale (il tamburo più grande, l’asse più lungo) piuttosto che con l’impegno e la dedizione di generazioni di monaci, fedeli ed artisti convinti di svolgere un esercizio sacro. Chongshen è insomma una lussuosa quinta teatrale che i nuovi turisti cinesi usano come sfondo per le foto di famiglia, e per mostrare ai concittadini e a loro stessi il loro nuovo status (magari facendosi fare un video, apice della post-modernità, mentre ridacchiando girano una ruota di preghiera). E, probabilmente, anche un luogo usato dalle élite per soddisfare l’orgoglio regionale o nazionale, fatto di record da battere e di un passato grandioso da estetizzare (cioè da svuotare e da riempire di nuovi contenuti funzionali alla crescita economica e all’autogratificazione collettiva).

Il secondo giorno a Dali lo dedichiamo alla visita alla città vecchia. Anche qui, il flusso costante dei turisti cinesi si fa sentire anche se, soprattutto nei vicoli laterali, la città conserva un discreto fascino. La struttura stessa della città raccolta molto di ciò che è ora Dali. Lungo la direttrice Ovest-Est si sviluppa Foreigner Street, la strada degli stranieri, un susseguirsi di caffè, ristoranti e boutique di vestiti etno-chic (lunghe tuniche monocolore pastello o con i colori della terra, oppure pantaloni con taglio all’orientale) che paiono avere come target un pubblico occidentale oppure i giovani cinesi con un gusto più internazionale. Non per nulla, gli ostelli più popolari che si rivolgono a un pubblico straniero (tra cui l’ottimo Five Elements Hostel, presso cui abbiamo alloggiato) si trovano appena fuori dalla porta Ovest. All’opposto, l’asse Sud-Nord è frequentata soprattutto dai gruppi di turisti cinesi che vengono scaricati alla porta Sud dai pullman provenienti dalla città nuova dove si trovano i grandi hotel moderni. Su quest’asse, si susseguono chioschi di street food, negozi di abbigliamento di gusto cinese (colori brillanti, scritte e stampe riportanti frasi in inglese o nomi di grandi marchi sovente storpiati), stand di souvenir esotici e cianfrusaglie (braccialetti, maschere africane, pettini, pelouche, pupazzetti, bongos) e perfino un venditore di spiedini di cavallette. Significativamente, nel punto in cui le due strade si incrociano sorge un McDonald’s.

LIJIANG, BAISHA, SHUHE – L’ANTICA CINA A MISURA DI TURISTA

Proseguendo in direzione Nord Ovest, a circa 4 ore di pullman da Dali si incontra la città di Lijiang, altro borgo storico patrimonio Unesco e importante città commerciale lungo la via del Tè che, passando per il Tibet, proseguiva in antichità fino a giungere in occidente. Da Lijiang, utilizzando l’autobus urbano 6, è poi possibile raggiungere i villaggi di Baisha e Shuhé, decisamente più tranquilli e meritevoli di una visita, che si trovano pochi chilometri a nord.

Lijiang è famosa per il reticolo di canali (larghi da poche decina di centimetri a 3-4 metri) e vicoli che caratterizzano la città vecchia e che, uniti agli edifici storici ben conservati/ristrutturati, la rendono oggettivamente il luogo da cartolina per eccellenza dello Yunnan. Si può tranquillamente passare una giornata perdendosi tra i vicoli, il che è quasi inevitabile se ci si lascia trasportare dall’entusiasmo fuori dai binari principali, e visitando il palazzo di Mu (un ampio complesso di strutture, una relativa oasi di pace visto che è poco frequentato) o il locale mercato (che non abbiamo avuto tempo di visitare). Anche a Lijiang come a Dali, la maggioranza dei turisti si concentra lungo le arterie principali e si accumula tristemente nella vecchia piazza del mercato, intasandola: è però sufficiente spostarsi sui vicoli secondari o approfittare di un momento di pioggia per riscoprire l’atmosfera magica che la “turistificazione” del luogo (la calca che affolla la piazza centrale, il costante susseguirsi di negozi di souvenir e guesthouse) effettivamente un po’ compromette.

Il secondo giorno lo dedichiamo a visitare i vicini villaggi di Baisha e Shuhe, raggiungibile con l’autobus 6 che ferma a due passi dalla città vecchia. Baisha, che si raggiunge dopo circa 25 minuti di autobus (conviene chiedere all’autista, ma comunque l’autobus ferma di fronte a un grande parcheggio facilmente riconoscibile) è un villaggio poco battuto, che vanta un sito storico in cui sono conservate delle antiche e importanti pitture murali di matrice buddista: una delle cose più belle e raffinate dell’intero Yunnan, pur nella loro modestia. Una volta usciti dal tempio, è possibile passeggiare tranquillamente tra le vie del villaggio di Baisha, quasi per nulla toccato dal turismo (se non nelle vie centrali, dove sono in vendita souvenir classificabili come “per occidentali”). Abbiamo pranzato in mezzo ai locali in un’osteria familiare affacciata sulla piazzetta del mercato, con i tavolacci e il soffitto di legno anneriti dal fumo e il solito grande frigorifero con i prodotti freschi del giorno in bella vista, ed una intraprendente cameriera di forse 13 anni (la figlia dei proprietari) in grado di comunicare in inglese.

Successivamente abbiamo preso l’autobus nella direzione opposta, e siamo arrivati a Shuhé. Shuhé è una sorta di versione in piccolo di Lijiang, al momento relativamente più calma (anche se in fase di espansione), caratterizzata dal suo piccolo reticolo di canali, dalle case tradizionali e da negozi e caffè per turisti. Immagino che Lijiang dovesse essere così 5 o 10 anni fa, prima di essere invasa dai turisti: Shuhé merita quindi una tappa, perché è un buon modo per uscire dalla calca ed assaporare un po’ di “Cina tradizionale” in maniera più serena.

SHANGRI-LA – IL PARADISO SOTTO CHOC

Shangri-La è una cittadina che sorge su un altipiano a 3.200 metri di altitudine nell’area di cultura tibetana al confine nord ovest dello Yunnan. E’ raggiungibile in circa 4 ore di autobus da Lijiang, e vanta un magnifico monastero tibetano (Ganden Sumtsenling, chiamato anche “Little Potala Palace”) che, diversamente dal Potala Palace di Lhasa (però sicuramente più bello e imponente) e dal Tibet in generale, può essere visitato in autonomia e senza lunghe trafile burocratiche (e forse è anche relativamente meno modificato dal turismo).

Shangri-La non è ovviamente il nome storico della città, bensì un nome attribuito dal governo una decina di anni fa nel tentativo di accrescere ulteriormente la fama turistica di questo luogo (unico geniale caso di re-branding di un’intera città) utilizzando il nome dato da James Hilton al paradiso himalayano descritto nel romanzo Orizzonte Perduto.

Nel gennaio del 2014, gran parte del centro storico di Shangri-La è stato però distrutto da un incendio scatenato pare da una stufa che si è propagato facilmente di casa in casa visto che le antiche strutture erano interamente costruite in legno. L’incendio, che pure non ha intaccato i principali monumenti (ed in particolare il Ganden Sumtsenling Monastery), ha distrutto una gran parte delle strutture ricettive e dei negozi del centro allontanando la maggioranza dei turisti. A oltre un anno e mezzo dal disastro, Shangri-La appare una città in gran parte ancora da ricostruire, con molti edifici in costruzione e con un clima vagamente malinconico (negli sguardi delle persone, nel legno fresco dei nuovi edifici che stanno sostituendo i vecchi, nei black-out periodici che privano della corrente il centro storico per intere mezze giornaterivo). Per fortuna, le ceneri morali sono però illuminate dal magnifico Ganden Sumtsenling Monastery che contende con le terrazze di YuangYang la nostra personale palma di luogo più magico dell’intero Yunnan.

Ganden Sumtsenling è un monastero tibetano costruito nel tardo 1.600, in cui risiedono oggi alcune centinaia di monaci. E’ composto da circa una dozzina di templi monumentali in stile tibetano (con interni straordinariamente ricchi e decorati con l’immagine di centinaia di Buddha, demoni e personaggi mitologici, dipinti a colori sgargianti) e da parecchie decine di abitazioni destinate ai gruppi di monaci. Anche in questo caso, il monastero è in costante ristrutturazione: le pitture vengono rinfrescate, statue e decorazioni vengono ritoccate, ambienti e interi palazzi vengono aggiunti al complesso (avendo cura di riprodurre lo stile caratteristico del luogo). Anche qui, il monastero risulta essere un luogo vivo con buona pace del concetto occidentale di autenticità intesa come “conservazione anastatica”.

Ciò nonostante la vista del complesso è grandiosa, e i veri fedeli contendono ancora (almeno all’interno dei templi) lo spazio ai turisti. La visita del complesso può tranquillamente durare una mezza giornata, e merita il prolungamento dell’itinerario fino a Shangri-La. Anche i monaci, sembrano fare con discreto impegno i monaci (cosa non scontata in Cina, dove capita che i templi vuoti siano dati in concessione a società for profit che impiegano finti monaci per raccogliere le offerte) nonostante qualche occasionale bancarella di souvenir gestita da giovani togati.

L’ultima sera prima del ritorno a Kunming, veniamo attirati da una forte musica. La musica proviene dalla piazza principale della città vecchia sottostante la collina su cui sono poste la gigantesca ruota di preghiera dorata (ennesimo tributo al gigantismo cinese: si tratta della ruota di preghiera più grande del mondo, che richiede almeno 6 persone per essere fatta girare, completata nel 2014). Al centro della piazza, diverse decine di cinesi (locali e turisti, giovani e vecchi) ballano in cerchio all’unisono, con impegno e leggerezza, un motivo che suona come tradizionale cinese ma con forti inserti elettronici e dance. Tutti seguono i passi dettati da un “coreografo”, è stato incaricato di replicare questa sorta di rito laico collettivo ogni sera (come d’altra parte accade spesso, in maniera spontanea, nei parchi cinesi), volteggiando e celebrando un qualche senso di comunione come in una antica danza contadina perduta – o forse come in un Flash Mob?

Ce ne andiamo con questa immagine surreale ma potente da una regione ricca ed affascinante, impegnata a vivere in maniera originale il suo il suo personale conflitto tra tradizione e avanguardia. Questo conflitto tra abitudine e volontà di autodeterminazione ci riguarda tutti, ma che da queste parti sembra essere gestito con un’energia e con una leggerezza che sbalordiscono. Messi a confronto con questo dinamismo, ci si sente parte di un Vecchio Continente al cospetto di un grande Continente Adolescente. E quello che possiamo dire, dopo due settimane in questo continente travolgente, è che non è sufficiente ignorare o denigrare gli adolescenti perché solo rispettandoli e provando a comprenderli e a contaminarsi con essi è possibile sopravvivere, e magari addirittura rimanere sulla cresta dell’onda.



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