In Yemen per caso

Da 25 anni la neve non bloccava l’intera Toscana. Da agosto avevo prenotato per trascorrere una decina di giorni a Socotra, miraggio invernale da tempo rincorso. E quando l’aeroporto di Pisa viene chiuso e la compagnia di bandiera nostrana non ci consente – per inefficienze e disservizi vari – di raggiungere Roma, il sogno è...
Scritto da: angeb612
in yemen per caso
Da 25 anni la neve non bloccava l’intera Toscana. Da agosto avevo prenotato per trascorrere una decina di giorni a Socotra, miraggio invernale da tempo rincorso. E quando l’aeroporto di Pisa viene chiuso e la compagnia di bandiera nostrana non ci consente – per inefficienze e disservizi vari – di raggiungere Roma, il sogno è irrimediabilmente infranto. Infatti perdiamo il volo per Sana’a e il conseguente collegamento per Hadibu. A posteriori, posso tranquillamente affermare che la mia incavolatura (eufemismo!) è stata ampiamente ripagata, ma in quei frangenti era meglio girarmi alla larga.

Fortunatamente l’operatore torinese cui ci siamo rivolti, e che ha sede anche a Sana’a, ci rimedia su due piedi un giro dello Yemen, dalla capitale fino alla costa sud. Accettiamo. Per forza.

Ecco che ci ritroviamo in Yemen, per caso.

31.12 La Yemeniya airlines è il vettore aereo di un paese sulla via dello sviluppo, quindi pare adeguarsi. Il servizio è approssimativo, la cortesia del personale di bordo, anche. Comunque le ore di volo sono soltanto cinque. Inoltre partire con zero gradi (sì, perché anche la mattina del 31 nevica…) ed arrivare con 16, peraltro ad altezza 2400, è piuttosto piacevole.

Sbarchiamo dall’aeromobile nella fresca sera invernale e percorriamo a piedi i pochi metri che ci separano dalla sala del controllo. Occorre innanzitutto compilare la carta azzurra che viene consegnata all’ingresso; il visto può farsi immediatamente per 50 usd, basta cambiare al change che si trova subito sulla sinistra e poi ottenere il visto allo sportello adiacente. Occorre però ricordarsi che in periodo di ramadan le operazioni potrebbero non essere così celeri.

Di fronte a noi ci sono le postazioni arancio in cui l’addetto al controllo scruta i nostri passaporti. Tutto a posto. Passando tra una postazione e l’altra, attraverso un corridoietto, si raggiunge il ritiro bagagli che qualcuno, cortesemente, scarica per noi. Usciti nella sala arrivi, l’atmosfera cambia repentinamente. Sembra di aver fatto un salto all’indietro nel tempo o che, tra noi e la realtà yemenita, sia calato un velo trasparente che rende l’atmosfera rallentata. Predomina il non colore o, meglio, la monocromaticità: gli abiti, i visi, i capelli, tutto nel tono del marrone del grigio del nero, non ci sono colori vivaci, neanche nell’abbigliamento dei bambini che qualche padre si porta appresso. Quasi tutti vestono in maniera tradizionale: una giacca, la futa attorno alla vita, trattenuta dalla cintura più o meno riccamente decorata e nella quale è infilata la jambiya, il pugnale; intorno al capo, la kefiah. Non è quella in bianco e rosso vivo degli arabi sauditi, qui ha i colori stinti, smorti, scoloriti del tempo passato che non è ancora trascorso.

Siamo pronti per incontrare la nostra guida. Che non c’è. I vari gruppetti di europei se ne vanno alla spicciolata, recuperati da coloro che li attendono. Noi no. Già stiamo organizzandoci per cercare un taxi quando eccolo comparire all’orizzonte: è Omar, claudicante e affannato, che si profonde in scuse più o meno fasulle cui noi, per adesso ancora in buona fede, crediamo. L’effetto-rallentato di cui sopra la cancella il frastuono onnipresente del traffico di Sana’a. Sembra che il suo milione e mezzo di abitanti stia all’unisono suonando il clacson! Le frecce sono un optional per non parlare dei semafori: ne vedo due in un settimana. Alle dieci di sera è il rumore che ci avvolge: l’indomani ci renderemo conto di come le strade siano letti di fiumi e auto, le moto, le biciclette, i pedoni, foglie portate dalla corrente, senza sosta, senza regole. E’ quindi assolutamente sconsigliato guidare, se non altro per non creare un intasamento inestricabile.

Il frastuono perdura per tutta la notte: da noi sarebbe giustificabile essendo il 31 dicembre, ma qui non fa testo: ci si sposta e basta.

Cinque di noi sono diretti all’hotel Mercuri, internazionale 5 stelle (ci dicono molto bello), mentre noi scendiamo al Sam City: situato lungo Al Qiyadiah, grande arteria cittadina (leggi: molto rumore fino all’una di notte), ha camere decorose con piccoli letti separati, molto comodi e caldi, non c’è riscaldamento né aria condizionata e la doppia finestra si apre sulla strada. Da evitare in estate.

Si tratta di un funduq (che poi in arabo significa albergo) frequentato da chiunque, stranieri come yemeniti, offre una cucina non variegata ma al mio palato gustosa e, soprattutto, vanta una piantagione di qat sul tetto! Me ne accorgo il giorno seguente quando, dopo svariati minuti in attesa dell’ascensore, questo si apre riversando nella hall due lenzuola ricolme di rami e foglioline verdi! 1.01 Il richiamo del muezzin, verso le 5 e 20, per me dolce e misterioso, è una delle poche cose al mondo che mi possa svegliare a quell’ora senza farmi proferire verba.

Attendiamo Omar e gli altri, abbondantemente in ritardo, e ci dirigiamo fuori città, verso il villaggetto di BAYT BOWS (casa di Bows), abitato da non più di una ventina di persone, arroccato in alto, costruito in fango su rocce la cui composizione ben presto si rivela sotto la luce del sole mattutino: risplende infatti il verdastro colore del rame contenuto nel terreno. Uno splendido esemplare di sicomoro ci saluta prima dell’abitato: alcuni bambini e un vecchio che insistono per guidarci all’interno delle case malandate.

Torniamo in città per addentrarci nella parte vecchia da Bab al Yemen, porta di ingresso che si apre sulla piazza da cui origine il suq al milh, il mercato del sale. Proseguendo dritti si trovano banchi del cambio nei quali l’addetto sembra appollaiato su montagne di banconote, i ryal, che ci vengono consegnati, tenuti insieme da un elastico, in mucchi enormi. Ce li rigiriamo tra le mani soddisfatti…

Banchetti coloratissimi e luccicanti vendono datteri zuccherini, caramelle, spezie, stoffe, abiti, arnesi per la cucina, argento. Il caravanserraglio più conosciuto, il samsarah al Mansurah, è stato ristrutturato ed ospita mostre di pittura: si può salire fin sulla terrazza per godere della vista dei palazzi di Sana’a. Rimandano invece indietro con la memoria gli altri caravanserragli che si incontrano proseguendo il giro nel mercato, nei quali permane il vecchio patio centrale adesso occupato dai sacchi colmi di spezie di ogni genere, di uvetta, di cereali, di legumi, di noccioline e anacardi semplici o tostati sul momento. È un viaggio nel tempo che prosegue nella zona dei vicoli minuscoli nei quali occorre camminare in fila indiana, dei pertugi dove molti – parecchi i bambini – lavorano e molti altri masticano qat. È la zona dedicata alla produzione delle jambiya, i pugnali simbolo della virilità degli adulti e che i ragazzini attendono con ansia infilando nella cintura il fodero vuoto. Nel comparto dei fabbri si batte il ferro rovente per la lama, in quello dei falegnami si intaglia il legno dell’elsa, i tessitori si occupano della cintura. Altrettanto suggestivo è il suq del pane, quello arabo o quello di sorgo, riempito con patate lessate poco più avanti e condite con spezie. Ce ne offrono, lo accettiamo. Compro cardamomo e chiodi di garofano da un bimbo per 100 ryal e una caramella. Mi pare soddisfatto. Il giro ci riporta a Bab al Yemen: saliamo sulle mura per osservare le luci del mercato che cominciano ad accendersi e si mischiano con quella rosata del tramonto.

Credo che questo sia uno dei suq più autentici, dove si vende la merce e non la si propone al turista, dove i commercianti ti trattano da possibile acquirente come uno yemenita qualsiasi. Ed è proprio questo che mi ha colpito, insieme al brulicare incessante, al formicaio di gambe e mani, carriole, grida, luci, odori, che si accentua (è possibile?) ancora di più il venerdì.

Consumiamo la cena in un ristorante la cui sala deserta ci rattrista: anche la tavola coperta da tovaglia di plastichina trasparente, i piatti sempre in plastica e le posate da campeggio non sono da meno…Ma il cibo è gustoso: viene offerto un brodetto, tipo consommé, di caprettino da alleggerire con del lime. Dicono che è buono. Poi un enorme pane arabo appena sfornato, caldo caldo e croccantissimo, coperto di semi di papavero. Ottimo con le salsine di ceci e pomodoro e con una purea di fagioli che ancora bollono nel recipiente di pietra in cui sono stati cucinati. Il piatto forte è un pescione dall’aspetto poco invitante ma, pare, delizioso.

Le nostre orecchie si stanno abituando al rincorrersi dei clacson nella sera, quindi prendiamo sonno più velocemente. Domani ci aspetta il trasferimento in convoglio.

02.01 Alle 9 si riunisce, in una piazza a nord della città, il convoglio in partenza per Marib. Situata 250 km ad est, può essere raggiunta tranquillamente ma con scorta armata. In considerazione del rapimento del giorno precedente, questa mattina la scorta non è simbolica come di solito, ma particolarmente sostenuta e molti sono i posti di blocco presso i quali ci dobbiamo fermare ed esibire fogli su fogli che puntualmente vengono ritirati, né scampiamo alla curiosità dei militari che si affacciano dentro l’auto e ci fotografano col cellulare. Fuori da Sana’a c’è la campagna brulla e secca dell’inverno, moltissimi i vigneti e le piantagioni di qat.

Ci è concessa un’unica sosta per la toilette e ne approfittiamo: i servizi, cioè la buca, sono unici e la fila infinita. Un ragazzo chiede 100 ryal ogni tre persone. Ultima sosta per acquistare il qat: masticare qat all’inizio mi incuriosiva (ho anche assaggiato delle foglioline ma in breve ho dovuto deglutirle: sono molto amare e nient’altro), poi, col trascorrere dei giorni, questa loro abitudine esclusivamente pomeridiana mi ha quasi sconcertato fino al punto di provar fastidio nel vedere tante guance rigonfie. E infatti tutti gli oggetti che ho acquistato li ho presi da chi aveva la bocca libera per potermi parlare! Si scende dai 2400 ai 1500 metri attraversando gole erose da milioni di anni di piogge e vento. La strada che collega Sana’a a Marib è ben asfaltata, è la vena della mano del governo yementita che porta alla capitale il petrolio estratto ad est. Pian piano le montagne si appiattiscono lasciando il posto alla sabbia. Spettacolare il contrasto di colori : le rocce vulcaniche (si tratta di una catena sotterranea che unisce Africa ed Asia),scurissime e lisce, vengono lambite dalla sabbia gialla. Sulla destra incontriamo un curioso monte a forma – dice Omar – del copricapo di Napoleone ma a me pare la sagoma dell’elefante del piccolo principe, quello nascosto sotto il cappello.

Tre ore più tardi siamo a Marib: povera Marib che ha tanta ricchezza archeologica ma può offrirla ai visitatori solo sotto la protezione di fucili e kalashnikov.

Per necessità, tutti i gruppi scendono al medesimo albergo, il Bilqis, che pare bello ma poi si rivela piuttosto fatiscente. Le camere si aprono attorno alla piscina centrale, e ce ne sono altre in una sorta di dependance, decentrata appunto, con in mezzo un praticello incolto, alcuni tavoli e sedie in plastica e una fontana sempre in funzione.

È il più importante sito archeologico dello Yemen ma va visitato velocemente, con la scorta: il tempio del sole e quello della luna, palazzo della regina di Saba: qui compro delle arance – che buone – da ragazzini scalzi e impolverati capitanati da un bimbetto piccino (avrà 5 anni) ma autoritario. Presso la vecchia diga una società tedesca sta facendo rilevazioni e perciò non ci permette di curiosare; la nuova diga è invece un’ imponente costruzione che cela un mare d’acqua limpida. Splendida è Marib vecchia, sulla sommità di una collina, illuminata dal sole del tramonto: rovinata e cadente, è fiabesca con le torri diroccate di fango e paglia. Saliamo le scale, solidissime, fin sulla sommità dell’unica casa torre ancora abitata e ammiriamo la campagna circostante, coltivata e ben irrigata a contrasto con la terra brulla e desertica.

Si rientra in albergo per la cena che offre ottima verdura e una buona scelta di dolci. L’albergo ospita un negozio di oggettistica e qualche pubblicazione (nessuna cartina): ha piccole scatole in argento e pietre dure piuttosto carine e a buon prezzo (3-5euro).

03.01 Sveglia è alle tre: ci aspetta il beduino per condurci al di là del deserto. Per raggiungere Seyun, infatti, si può scegliere di seguire la strada asfaltata o contattare un beduino per attraversare il RAMLAT AS-SAB’ATAYN. Vale la pena affrontare il freddo rannicchiati nelle auto: l’alba nel deserto è spettacolare, così come le dune sotto il sole del primo mattino, la sabbia fredda liscissima e compatta, sotto i piedi e nelle scarpe, o così morbida da sprofondarci ma sempre dorata dalla luce del sole di tralice. La prima parte del tragitto è fatta di dune, dune alte sulle quali il beduino vola col suo Toyota pick up 4×4. A noi invece spetta l’autista meno esperto, che stenta a scavalcarle, sovente rallenta, si ferma, incerto sulla marcia da inserire o la velocità da tenere. E il beduino prima lo aspetta, poi ci viene a cercare, intuiamo che gli dà consigli, lo sgrida, poi addirittura si sostituisce a lui per toglierci dagli impicci. Che tenero il nostro autista, leggero masticatore di qat, taciturno e sorridente: ci sta proprio simpatico! Già alla prima sosta scatta la foto-mania e, come formiche in fuga dal formicaio,il gruppo in dieci secondi si sparpaglia nella quattro direzioni. Una gobba qua, una gobba là, l’ombra di un dromedario contro l’orizzonte.

E duna dopo duna il paesaggio varia pian piano, appiattendosi a tratti e punteggiandosi di sassi lisci e neri. Verso le 10 entriamo nel wadi ARMA, letto secco del fiume presso cui sorgeva l’antica SHABWA. Capitale del regno di Hadramawt si presenta ovviamente in rovina ma assolutamente suggestiva: colpisce il contrasto fra il cielo azzurro e il colore del fango e della paglia secchissimi, quasi bianchi. Si può ben notare la presenza dl cimitero, dalla tipica costruzione conica che denota la presenza di tomba di persone importanti, qualcuno calpesta involontariamente altre tombe, e infatti viene cacciato a male parole. Un altro edificio dovrebbe essere il palazzo reale, mentre il tempio è circondato da una recinzione e non è visitabile. Più in là le mura di cinta.

Lasciata Shabwa il paesaggio si appiattisce definitivamente ed è il nulla a 360 gradi: una distesa di giallo intenso e la luce del mezzogiorno che illumina miraggi di laghi all’orizzonte. Incontriamo un paio di dromedari, qualche ciuffetto d’erba rinsecchita. Niente altro. Sostiamo per alcuni minuti sulle dune, il caldo secco e ventilato è piacevolissimo.

Poco più avanti, alla nostra destra e sinistra, cominciano ad apparire le pareti di quello che è il wadi Hadramawt, enorme tavolato alto più di 120 metri. Accompagnerà il Ramlat fino alla strada asfaltata che incontriamo dopo oltre otto ore di pista. La imbocchiamo e ci fermiamo a mangiare presso AL QATN, all’incrocio con la strada che porta a Seyun. Pranzo a base di dromedario, riso e verdure, e un buon tè bollente con gli avventori del locale sottostante.

Si prosegue per Seyun passando per Shibam, conosciuta come Manhattan del deserto, ma che visiteremo l’indomani.

Scendiamo all’hotel Plaza, modecisamente arabo:piastrelle dappertutto, lavandino nel corridoio della camera, letto in plastica, in sonorizzazione inesistente. Ma è nuovo e molto pulito. Con un taxi improvvisato – sicuramente il cugino del portiere – che ci spilla 1000 ryal, raggiungiamo il centro dove le luci si stanno accendendo. Il suq vecchio consta di una dozzina di banchi di spezie, negozi che vendono argento vecchio e polveroso, venditori di miele, accessori per la casa. Il suq nuovo, invece, al pomeriggio è chiuso.

La cena è alquanto misera ma ci ricompensa la bella vista che si gode salendo all’ultimo piano dell’hotel, sulla terrazza, dove c’è la lavanderia: piccole luci nell’immenso buio del wadi. Al negozio dell’albergo si può acquistare una mappa dell’intero Yemen, non aggiornatissima ma, pare, la migliore esistente (l’unica, direi).

04.01 Da Seyun, verso ovest, si raggiunge Tarim, altra importante antica città nota per le influenze indonesiane che si possono riconoscere non solo nelle decorazioni e nell’architettura dei palazzi e delle case, ma anche dai tratti somatici di alcuni bimbetti che ci attorniano.

Durante il tragitto si possono osservare (e sarebbe meglio limitarsi a far questo perché la foto non è gradita) operai addetti alla fabbricazione di mattoni: utilizzano la terra e la paglia che prendono da enormi mucchi ammassati da un lato; impastano il tutto con l’acqua e depongono il composto a terra dando forma quadrata per mezzo di uno stampo in legno. Dopo 24 ore il colore dei mattoni cambia, poiché si sono essiccati; rimarranno un’altra giornata prima di poter essere accatastati in pile, pronti ad essere portati alle fornaci che si trovano poco più avanti.

Ci fermiamo prima alla tomba di Ahmad Ibn Isa, situata al termine di una zigzagante scalinata in calce. Poi ad AYNAT: bello il cimitero nel quale tuttavia non si può entrare ma solo affacciarsi dal cancello. La parte vecchia della città è molto sporca.

Di TARIM vediamo il palazzo e la moschea, entrambi dal di fuori, ma la nostra guida è, come al solito, avara di informazioni. Non c’è traffico in questi paesini, solo qualche motocicletta, guidata indifferentemente da ragazzi o ragazze velate, e carretti tirati da somari. Arroccati sui pendii, fangosi castelli turchi ci osservano dall’alto.

Rientrati a Seyun possiamo visitare (ingresso consentito fino alle 13) il palazzo del sultano, adesso adibito a museo, imponente struttura bianco panna (ricorda veramente una torta nuziale) il cui candore spicca nella luce forte del mezzogiorno. Purtroppo oggi non è possibile salire sulla terrazza più alta (stanno dipingendo), ma già da quella al secondo piano e dalle finestrelle che a decine lo contornano, si può avere un’idea della cittadina, a quest’ora caotica e intasata dal traffico di auto e moto di ogni genere e foggia.

Nel pomeriggio invece ci attende Shibam: sono più di 500 grattacieli in fango e paglia, alcuni intonacati parzialmente, circondati da mura che, confrontate con l’imponenza dei palazzi, paiono minute. Un’unica porta consente l’entrata: pecore e capre popolano le viuzze assieme a bimbetti scalzi e polverosi. Alzando lo sguardo se ne vedono altri sbirciare dalle finestre che mi viene voglia di fotografare: tende viola, giallo ocra, rosse, verso blu che svolazzano fuori dal legno intarsiato. Alcune case torri offrono la possibilità di salire, dietro compenso, e ne vale la pena se non altro per rendersi conto dell’architettura interna e della straordinaria intuizione di svilupparsi verso l’alto. Ogni casa torre appartiene da sempre alla medesima famiglia.

Di fronte a Shibam c’è una collina: al tramonto frotte di turisti si inerpicano per il pendio pronti a scattar foto, aiutati da ragazzi scaltri e scalzi che zampettano come capretti su e giù e non si rassegnano ai no, a volte anche scortesi, dei loro possibili clienti. Alla fine della giornata raggranellano un cospicuo bottino tra caramelle, penne e mance. Meglio le prime due.

05.01 Lasciamo Seyun per inoltrarci nello spettacolare wadi HADRAMAWT, letto immenso del fiume adesso secco ma che, durante le piogge, in parte riacquista la sua presenza. Si tratta di un lungo tratto di strada, spesso fuoristrada, tra pareti di rocce alte più di 100 metri, che si restringono e si allargano lasciando spazio a campi coltivati, verdissimi, nei quali si stagliando fiabesche figure nere coi cappelli di paglia cuneiformi: sono le contadine dell’Hadramawt, neri fantasmi immersi in una cornice così verde da farci restare sempre più spesso a bocca aperta. Mi è rimasta impressa (nella mente per fortuna, purtroppo non sulla pellicola fotografica…) l’immagine di una congrega di contadine sedute in cerchio sopra un telo azzurro attorno ad un cumulo di pomodori rossi. Un colpo di colore eccezionale! Come eccezionale è l’Hadramawt tutto e il wadi Dohan: i castelli turchi sugli speroni rocciosi, le cittadine di fango e paglia, i palmeti tra le pareti di roccia. È tanto il fascino che promana da questi luoghi che non faccio neanche caso alla sporcizia che c’è in giro o all’odore delle capre e pecore degli ovili a cielo aperto. In alcuni paesini, tuttavia, l’ordine è più evidente, come ad AL HAJJARIN, plurale duale che significa “le due rocce”: si tratta infatti di due agglomerati costruiti sulle sponde opposte del wadi. Visitiamo quello di sinistra, popolato da ragazzine di nero vestite che escono da scuola alla spicciolata, sbucano da ogni angolo con le pagelle in mano, alcune ci salutano, altre passano avanti con occhi bassi evidentemente timorosi. Nessuna chiede sura, sura. A questo pensano i maschi, più scanzonati e avvezzi al comando: a volte pare infatti che la loro non si una richiesta ma quasi un imperativo: sura, qalam, caramela! La tappa seguente è obbligatoriamente SIF, poiché oltre non troveremo altra possibilità di mangiare. Si tratta di un villaggetto di fango le cui case hanno porte in lamiera dai colori sgargianti e finestre incorniciate da calce colorata. Da dietro spuntano visini di bimbi che presto si precipitano in strada per la cantilena quotidiana: sura sura, qalam qalam! Mangiamo all’hotel Ranboon un buon piatto di riso e verdure e del pollo arrosto. Ci sono toilette pulite salendo le scale appena fuori dal bar.

Proseguendo entriamo in un imponente palmeto e ci delizia il colpo d’occhio di BIDA, addossata alla parete del wadi.

Ci dirigiamo in salita, verso l’altopiano, passando oltre mirabili paesini di terra ove l’architettura mostra evidenti influenze orientali e i colori spiccano sulla calce bianca.

Il fuoristrada si inerpica per i tornanti che ci portano ben presto a individuare, abbarbicato sulla roccia, il paese di origine della famiglia Laden: non può non notarsi il palazzo, enorme e colorato, con decine e decine finestre.

Adesso l’ ambiente è completamente differente, desertico e roccioso, lunare, si intravedono voragini aperte milioni di anni fa dalla forza delle acque di cui la regione era ricca. La strada prosegue attorno a queste montagne e poi si svolge con grandi pendenze fino a scendere al livello del mare. Un albero di incenso ci saluta, triste e spoglio, contro il cielo plumbeo che promette pioggia.

Il sereno lo ritroveremo sulla costa, ad AL MUKALLA.

Si tratta di uno dei porti più importanti del Paese, luogo di villeggiatura, caratterizzata dalla cosiddetta corniche, lungomare kitch adorno di palmette in plastica e finte fontane che spruzzano lucine multicolore. Pare che l’albergo più frequentato dagli yemeniti sia l’Hadramawt – e infatti abbiamo prenotato lì – ma un disguido ci porta all’Holiday Inn, direttamente sul mare, con una piccola spiaggia recintata da muro e filo spinato. Varia e gustosa la cucina, ottimi falafel (involtino di foglia di vite ripieni di riso e spezie) e i dolci.

La temperatura è decisamente piacevole, la brezza marina tiepida.

06.01 Già all’alba, verso le 6, il calore del sole si fa sentire. Il tempo a disposizione è veramente poco per cui il giro della città sarà rapidissimo. Anche qui le influenze indonesiane emergono nelle architetture dei palazzi in rovina, solo quello del sultano è in via di ristrutturazione. Per il resto la città vecchia, che si apre sul porto dei pescatori, punteggiato di barche di legno, sta cedendo il passo agli edifici moderni.

Nel piccolo aeroporto la confusione è all’ordine del giorno ed aumenta quando appare chiaro che la guida non ci ha confermati sul volo di rientro a Sana’a. E’ solo grazie alla solerzia e competenza dell’addetto alle prenotazioni che riusciamo ad imbarcarci. Lasciando però a terra il nostro caro somaro.

In un’ora siamo a Sana’a. Possiamo di nuovo godere delle meraviglie della città vecchia: da Bab al Yemen stavolta ci dirigiamo a sinistra, lasciando il suq a destra. Si apre ai nostri occhi la Sana’a che ci aspettavamo, la città di trina, di merletto, di marzapane, di mattoni e gesso, delle lunette multicolore e d’alabastro che si illuminano alla luce del primo pomeriggio. È venerdì e le stradine brulicano di bimbetti intenti a giocare con fascioni di biciclette, legnetti, col pallone. Alcuni distolgono l’attenzione dai compagni e si precipitano verso di noi per salutare, non chiedono qalam, bakhshish, ma semplicemente gradiscono essere fotografati in cambio di un sorriso.

L’immagine che voglio portare a casa dello Yemen è quella di un bimbetto di non più di 4 anni, pantaloni e giacchettina verde stinto, che col sorriso aperto mi viene incontro tendendo la sua manina per poter stringere la mia. Sulla porta di casa il padre, yemenita con tanto di pugnale nel fodero, lo guarda con affetto, sorridendo anche lui.



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