Yemen del sud

YEMEN DEL SUD: Oltre il quartiere vuoto *prima tappa: Punto di partenza: Sanaa - Punto di arrivo: Marib. - 260 km di strada asfaltata in ottimo stato. Escursione a Barrakish e visita delle rovine di Marib. Sanaa vale da sola il viaggio nello Yemen e almeno tre giorni a spasso nell’atmosfera da mille e una notte di minareti, suk, muezzin e...
yemen del sud
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
YEMEN DEL SUD: Oltre il quartiere vuoto *prima tappa: Punto di partenza: Sanaa – Punto di arrivo: Marib. – 260 km di strada asfaltata in ottimo stato. Escursione a Barrakish e visita delle rovine di Marib.

Sanaa vale da sola il viaggio nello Yemen e almeno tre giorni a spasso nell’atmosfera da mille e una notte di minareti, suk, muezzin e case a torre. Al mattino il bazar e’ un tappeto brulicante steso sopra le piazze; la jeep avanza lenta tra carretti, biciclette, cani e bambini, fino alla porta principale della citta’, la Bab el-Yemen. Fuori dalle mura si puo’ visitare il museo nazionale, il mercato del qat, il ristorante Shazarwan sulla strada dello Sheba Palace e la Tea House 26 September, usuale ritrovo di intellettuali ben mimetizzati tra giornalai e mendicanti. L’autista, Gadhri, appende alla portiera la borsa gonfia di qat prima di rimettersi al volante; piu’ tardi comincera’ a masticare le foglioline, a schiacciarle con la lingua contro la guancia e formare una poltiglia verdastra che raggiungera’ dopo qualche ora le dimensioni di una palla da tennis. L’antica via dell’incenso, oggi moderna strada d’asfalto, attraversa il regno di Saba e il deserto, il “quartiere vuoto”, abisso naturale tra lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud, unificati solo sulla carta e sulle tavole rotonde e imbandite dei politici. Il primo controllo di polizia e’ a Rawdah: una serie di bidoni arrugginiti e due militari semi addormentati sotto una tettoia di latta. La zona e’ a rischio: gli sceicchi della regione tengono saldamente il controllo del territorio e delle attivita’ rivitalizzate dai vicini pozzi petroliferi al confine tra Yemen e Arabia Saudita. Il risultato e’ un numero insopportabile di controlli tra Sanaa e Marib; un’altro risultato e’ il divieto di visitare i villaggi dei dintorni, alcuni dei quali potrebbero essere interessanti; l’ultimo risultato e’ il rapimento di turisti da usare come merce di scambio col governo centrale. Il territorio e’ brullo e desertico nonostante i due passi, il Naqil Bin Ghaylan dodici chilometri dal bivio per la vecchia pista di Sirwah e 35 da Sanaa e il Naqil al-Fardah dopo altri 35 chilometri, entrambi oltre i 2000 metri. Dieci chilometri di discesa ed ecco un posto di blocco piu’ grande e movimentato dei precedenti, una sbarra bianca e rossa blocca tutti prima del bivio polveroso per Barrakesh. Un militare ha l’obbligo di accompagnare i turisti alle rovine, tra la foschia giallastra che sfuma l’orizzonte lontano e rende incolori i 32 chilometri fino alla vecchia citta’ fortificata. I profili del forte galleggiano tremolanti come un miraggio e poi prendono sostanza, neri e imponenti, coi tozzi torrioni di avvistamento alternati alle mura piu’ basse. Da fuori l’aspetto e’ suggestivo ma l’interno e’ un cimitero di rovine rase al suolo, tanto da risultare impossibile trovare un angolo d’ombra per ripararsi dal sole implacabile. Gli abitanti del vicino villaggio si alternano come accompagnatori, permettendo ai turisti di oltrepassare il recinto di filo spinato in cambio di una tariffa che varia in base a numerosi parametri: il numero delle persone, la temperatura, la stagione, il numero di jeep parcheggiate, il tempo impiegato per la visita, il numero di fotografie scattate, il numero medio di turisti passati nell’ultima settimana, il numero di concubine dello sceicco… Questa volta bastano 50 ryal e mezzo pacchetto di sigarette. Non e’ permesso proseguire oltre Barrakesh, per cui si torna al bivio e alla strada verso il deserto. Dopo un paio d’ore e 78 chilometri la terra prende le forme squadrate di Marib e quelle diroccate delle piu’ famose rovine dello Yemen: i templi di Bilqis e i resti della leggendaria diga Maryab, piu’ volte distrutta e una in meno ricostruita per fermare le acque del wadi Adhana e rendere la valle cosi’ rigogliosa da spingere i Romani a chiamarla Arabia Felix. La ricchezza veniva dal passaggio delle carovane di incenso, spezie e altri materiali preziosi, dirette ad Occidente ed obbligate a pagare fior di pedaggi. Dello sbarramento rimangono due monconi che rendono comunque l’idea delle dimensioni ciclopiche e della precisione con cui sono stati tagliati gli enormi pietroni dagli spigoli perfettamente coincidenti. Molte pietre, con scritte e fregi sabei, sono state utilizzate per edificare le case del villaggio vecchio di Marib, oggi abbandonato ma ricco di fascino e di atmosfera. Una breve sosta alla diga nuova, prezioso omaggio di un emiro petroliere, prima di arrivare, possibilmente al tramonto, ai templi dedicati a Bilqis. Entrambi sono ridotti a una serie di pilastri, la maggiore e’ quella del Sun Temple: sette pilastri in un anfiteatro ovale per tre quarti coperto dalla sabbia inarrestabile. Qualche bambino si guadagna le mance dei fotografi arrampicandosi in cima alle colonne, saltando dall’una all’altra e scendendo in perfetto stile “uomo ragno”. Sui cinque pilastri e mezzo del Tempio della Luna nessuno puo’ arrampicare da quando il sito e’ delimitato da una rete metallica. I pilastri simboleggiano le regole fondamentali dell’Islam: la Professione di fede, l’elemosina, il digiuno del Ramadam, il pellegrinaggio alla Mecca e la preghiera cinque volte al giorno, come dimenticarsela con i muezzin che lo gridano a squarciagola dai minareti! Qualcuno identifica il pilastro spezzato con un sesto, discusso, comandamento: la guerra santa, o Jhidad. Personalmente identifico la piscina dell’hotel “Due Paradisi” come il maggior centro divertimenti per le zanzare della regione, meglio infilarsi a letto in vista della calvalcata desertica di domani.

*Seconda tappa: Punto di partenza: Marib Punto di arrivo: Sayun. 435 km di strada e pista in parte sabbiosa e difficile.

Escursione a Tarim e Shibam.

La guida beduina, obbligatoria per attraversare il deserto, è un pò cara, costa 150 dollari, ma in compenso arriva all’hotel subito dopo il muezzin delle quattro e mezza. Caricate le Tojota con le provviste di acqua e cibo lasciamo il “Due Paradisi” in direzione Nord. La cupola arancione del sole cancella le ultime stelle e sfuma il cielo con delicati colori caldi. Nel chiarore dell’alba, le torri nere coi pennacchi di fuoco ricamano l’orizzonte come un trine scintillante per i sessanta chilometri che portano a Safir e la cittadina scivola via semideserta e silenziosa. L’asfalto affonda sotto lingue di sabbia sempre piu’ grandi poi scompare e la strada diventa prima una pista ben battuta poi una labile traccia di pneumatici tra le dune. Il paesaggio e’ tipicamente sahariano e il beduino si diverte a correre sbandando sulla sabbia fino a quando una gomma afflosciata consente di apprezzare il silenzio e la vastita’ del panorama senza sbattere la testa contro il finestrino. Per un paio d’ore “navighiamo” poi le onde si appiattiscono in vista dei resti di Shabwa sparpagliati sopra una collinetta ai cui piedi, con un po’ di fantasia, si riconoscono le strutture diroccate di un grande palazzo. Il soffitto e’ il cielo, la colonna sonora e’ il vento, il gabinetto e’ dietro un mucchio di pietre, il ristorante e’ una tendona nera circondata da un gregge di caprette, qualche gallina e una scuola materna super affollata. Dopo pranzo il panorama diventa una distesa piatta tendente al sonno. Gadhri elenca le localita’ attraversate, tutte difficili da individuare anche da svegli e soprattutto da distinguere una dall’altra. Le piu’ importanti sono Bir Asakir e Haswah, leggere increspature di una pista percorribile senza grandi difficolta’. Le gomme riabbrancano l’asfalto a Hawrah dove due sbilenchi cartelli segnalano a destra la discesa verso Mukalla e l’Oceano Indiano, a sinistra i villaggi di Al Qatn, Shibam, Sayun, Tarim e gli estremi confini orientali con l’Oman. L’ottima strada attraversa minuscole oasi incastrate ai piedi di una falesia, macchie di verde tra le spaccature della roccia. Superiamo un carretto trainato da muli e guidato da una coppia di camini gialli sopra due cappe nere, sono donne avvolte in un grembiulone, gli occhi appena visibili tra i veli e sulla testa un cappello di paglia alto mezzo metro, lo stesso delle donne piegate a lavorare nei campi circostanti. Non c’e’ tempo per foto e saluti perche’ le contadine reagiscono tirando manciate di terra e sassi, dimostrando una mira eccellente. Partiti da Al-Qatn, dopo trenta chilometri di palme e di frutteti, di pareti di roccia e case di fango tra le quali risaltano le macchie bianche delle moschee, arriviamo in vista di Shibam (del Sud). La citta’ emerge da una vasta pianura increspata da gruppi isolati di rocce. La strada segue il corso del fiume sul cui letto secco il via vai continuo della gente, che passa dalla citta’ vecchia a quella nuova, solleva nuvolette di polvere e dove un gruppo di ragazzi si da battaglia sul campetto di calcio con visibilita’ nulla. Sayun e’ a venti chilometri da Shibam; il Tower Trade Hotel, un chilometro oltre l’abitato, accoglie le stanche ossa maltrattate da 12 ore di jeep: tra la piscina e il letto ha la meglio il secondo.

Tarim si raggiunge con 35 chilometri di buona strada e di paesaggio affascinante; qualcuno gia’ lavora nei campi, altri sonnecchiano sotto gli alberi fuori dai villaggi. Tarim e’ bianca e deserta, piu’ bianca che deserta, il mercatino e’ privo della solita confusione, la gente passeggia serena tra una bancarella e l’altra, tra un negozio e un carretto. Le vie sono troppo strette per le auto, le moto invece scorrazzano scoppiettando e alzando grandi nuvole di polvere per i molti che arrancano in bicicletta. I bambini dalle finestre lanciano saluti, sorrisi e qualche what your name. Questa cittadina e’ famosa per le moschee, dovrebbero essere una per ogni giorno dell’anno islamico ma io non riesco a contarne piu’ di una ventina. La piu’ bella ha un minareto a forma di tronco di piramide, con terrazzini, fregi e greche fin su’ in alto dove altoparlanti e colonnine formano una elegante decorazione. Tarim era sede di una corrente sunnita, lo shafiismo, il cui fondatore ha la tomba fuori Sayun. Pochi chilometri ancora e si raggiunge il villaggio di Qabr Hud la cui moschea e’ meta di pellegrinaggi in quanto al suo interno e’ visibile una crepa nella roccia dove, secondo la leggenda, il profeta Huth riusci’ a salvare la pellaccia da un tentativo di linciaggio da parte delle tribu’ locali contrarie ai suoi insegnamenti. Nella moschea c’e’ anche la tomba e questo lascia perplessi sul finale della storia. Piu’ avanti, pochi e microscopici villaggi movimentano la strada verso l’Oman. Sosta indispensabile in hotel, piscina, doccia e via… Sulla strada per Shibam senza trascurare la vicina Sayun e l’imponente palazzo che la domina. Shibam e’ antichissima, fondata, si dice, da un discendente diretto di Noe’, non fu mai capitale dell’Hadramaut, ma segno’ a lungo il confine tra i sultanati di Al Qatn e di Sayun che se ne diputarono il controllo fino all’arrivo degli inglesi. I costruttori di Shibam sono i precursori dell’architettura a torre divenuta poi caratteristica di tutto il paese, fuori citta’ si possono visitare le fabbriche dei mattoni di fango e paglia utilizzati ancora oggi. Nonostante la protezione dell’UNESCO Shibam e’ in grave pericolo, le case si deteriorano rapidamente, a causa del materiale utilizzato di una falda d’acqua che ne mina le fondamenta; per i proprietari e’ piu’ conveniente costruirsi una nuova abitazione sull’altra sponda del wadi, sotto la montagna, dove un ragazzino mi indica il sentiero per salire. Ben presto sono sulla collina dominante i tetti delle case “nuove” e le torri vecchie. Impronte di scarponcini, carte, bottigliette, involucri di pellicole e lattine sono i resti caratteristici delle romantiche attese del tramonto. Il sentiero prosegue mantenendosi in quota per un centinaio di metri, gira attorno alla montagna, scende leggermente e si perde in un canalone di pietroni e cespugli. Con le scarpe da tennis la salita e’ agevole, e dura pochi minuti poi occorre fare attenzione perche’ la debole traccia tra i sassi rossicci si biforca in due rami; il ramo giusto e’ quello di sinistra. Dopo cinque minuti si scavalca una gigantesca crepa nella montagna e si arriva sopra un terrazzo naturale; alcune rocce larghe e piatte consentono di sedersi comodamente con le gambe penzoloni nel vuoto e godersi il panorama della “Manatthan di fango”.

L’agglomerato e’ leggermente rialzato rispetto alla strada, i grattacieli stretti nell’abbraccio delle mura sono di altezze diverse ma nessuno molto piu’ alto o molto piu’ basso, le torri una per una appaiono oblique e sghembe ma nell’insieme danno l’impressione di poter resistere a lungo, cosi’ appoggiate l’una all’altra. Il sole illumina i piani alti dai pallidi toni pastello, spicca il verde intenso del minareto vicino all’unica porta d’accesso; a sinistra un ciuffo di palme nasconde una piccola moschea e separa le mura dalla strada asfaltata. Dietro la citta’ una pianura striata dal verde delle scarse coltivazioni, e’ interrotta da una falesia piatta e ineguale, come una diga naturale a protezione della valle. Lascio che il paesaggio sfumi nella foschia polverosa del tramonto poi, come per un tacito accordo, sia io che il sole scendiamo dietro le montagne. *Terza tappa.Punto di partenza: Sayun Punto di arrivo: Al-Huraybah (Wadi Doan).

212 km di strada solo in parte asfaltata.

Attraversamento su pista accidentata, in parte sabbiosa e difficile.

Shibam anche al mattino continua a stupire, nel cielo terso le sue torri sono un gigantesco puzzle tridimensionale incorniciato dal lunotto della jeep. Da Al Qatn la strada verso Sud e’ asfaltata fino ad Hawra poi comincia la pista, e se l’Hadramaut era uno sperduto e isolato angolo del mondo, in confronto al Wadi Doan la valle di Shibam diventa una moderna e affollata metropoli. I paesaggi si susseguono sempre diversi, inattesi e affascinanti. La pista e’ una striscia chiara tra le onde e le isole sono villaggi finti e case di cartone sotto un cielo polarizzato. Spesso tra il fango e le pietre risalta una parete bianca e luminosa, con le finestre, le porte e i tetti incorniciati da disegni geometrici, greche e decorazioni multicolori. Ciuffi di palme affiorano sopra e sotto le case; le rocce sono elementi strutturali e il loro profilo frastagliato movimenta le linee dritte degli edifici. Piccole, candide moschee emergono tra le case e punteggiano le oasi come diademi fosforescenti. Tra un isolotto di pietra e l’altro lunghi tratti di deserto rendono eccitante l’apparire di un nuovo insediamento. Si prosegue lentamente sia per il fondo dissestato che per il paesaggio incantevole: tra Sayun e Al-Huraybah ci sono 250 chilometri e un giorno intero a disposizione. Sostiamo sopra la spaccatura scavata dal wadi Doan: il serpente verde delle palme s’insinua tra le pareti scoscese del canyon, ne vedo la coda, la testa si perde dietro l’ultima ansa del letto arido del fiume. La discesa e’ lenta e difficoltosa, per l’alternarsi insidioso di pietre e sabbia poi, una volta giu’, si viaggia tra le palme e la parete della montagna. E’ assolutamente indispensabile una 4×4; di automezzi se ne incrociano pochissimi e, quando succede, gli autisti sono costretti a lunghe manovre col rischio di finire in un orto o dentro una casa. Pranzo a Siff, tra i poster di Bali e di Giava, assurdi souvenir dei numerosi emigrati in Indonesia alla disperata ricerca di lavoro. Il ristorante, arredato con massicci tavoloni azzurri, offre un piatto tipico della zona, il “Full”, accompagnato da riso bollito e pane nero. Il full e’ un sugo di fave e pomodori, molto speziato e arricchito da pezzi di carne stufata; il pane e’ fatto con farina di lenticchie, Gadhri lo chiama “Luku”: e’ il suo preferito. L’insieme e’ gradevole, nonostante le spezie gonfino la lingua e le labbra, per fortuna al bar abbondano le bibite fresche. Il prodotto principale della valle sono i datteri, ma non e’ stagione per cui devo accontentarmi di guardare le palme e goderne l’ombra. Nei successivi cinquanta chilometri la jeep arranca con difficolta’, zigzagando sotto le palme, tra i piccoli appezzamenti delimitati da muretti di pietra e il groviglio di abitazioni abbrancate alla montagna. Al bordo della pista donne e bambine avvolte dalla testa ai piedi nel vaporoso grembiule nero, sembrano fantasmi a lutto, non si vedono neppure gli occhi. Secondo Gadhri le donne qui sono molto belle e lui ne riconosce l’eta’ e l’avvenenza dall’andatura! – Vedo anch’io se e’ una bambina o una vecchia paralitica, ma come fai a dire che e’ bella? – – Madonna mia, quella e’ molto bella! – insiste Gadhri indicando la sinuosa figura nera al centro del gruppo.

– Mi prendi in giro! – – Madonna santa, e’ bellissima! – – Non hanno disturbi alla vista cosi’ coperte? – – Loro vedono bene, la stoffa e’ leggera. Tu non vedi, loro vedono te. – – Si pero’ e’ un rompimento! Ho visto anche bambine piccole… – – Fino alle mestruazioni non si coprono, poi non sono piu’ bambine, sono donne e si possono sposare. Allora devono coprirsi, come dice il Libro. – Le donne sfilano ancheggiando a fianco della jeep, alte, snelle, se portano qualcosa sulla testa, un secchio o una brocca, sembrano modelle in passerella. Tiriamo avanti un’altra ora tra villaggi cosi’ simili da sembrare uno solo, allineato lungo il letto del fiume con i rioni intervallati dalle palme e dagli speroni di roccia. Sotto uno di questi sono incastrate le case di Al-Huraybah dove passeremo la notte, anche perche’ non sono segnalati altri hotel dentro il Doan. In realta’ neppure qui ci sono ma in mezzo all’ammasso di pietre spicca la scritta colorata “HOTEL” in verticale sullo spigolo di una casa, in orizzontale non ci starebbe. Ci fermiamo occupando l’intera sede … Stradale davanti all’ingresso del ristorante-bar-spaccio-pub distribuito su tre piani, compresa la terrazza; scelgo quest’ultima per la notte, le camere sono forni crematori, senza contare le macchioline di sangue sui muri ricamate da cimici e zanzare spiacciccate. Alle macchie piu’ grandi meglio non pensare, qui girano tutti armati … Sulla terrazza sono ammucchiati pezzi di gommapiuma da utilizzare come materassi mentre tra un piano e l’altro due bagni inguardabili, modello cabina telefonica, si intuiscono a naso. In terrazza si sta bene e lo spettacolo e’ imperdibile; in basso sulla sinistra c’e’ il cimitero: cupole di pietra, piccoli cumuli di sassi in uno spiazzo delimitato da un muro. Il soffitto é uno sperone di roccia contornato da guglie appuntite che incoronano l’intero villaggio; il pavimento é il cuscino impolverato delle palme, le case e le stradine, tutto dello stesso uniforme giallo-ocra; le uniche pennellate di colore sono le decorazioni orientali sopra la maggior parte delle finestre.

Il sole da dietro la montagna, trasforma le pietre in brace ardente e l’ombra vien su’ dal fondo della valle, oscura il palmeto, il piccolo cimitero, mezzo minareto e arriva sul terrazzo; la parte alta del paese resiste un po’ prima di lasciarsi inghiottire dalla sera e dal freddo. Cena in …Veranda, con il tavolino all’interno e la sedia all’aperto. Oltre alla solita zuppa c’e’ un gustoso pollo cotto nel forno del pane e una torta al sapore di dattero e cipolla. Durante il the’ scoppia una sparatoria poco lontano, balzo in piedi ma mi fermano le risate dei ragazzi del bar. Raffiche e spari rimbombano nell’oasi, moltiplicati dall’eco, non mi azzardo a verificare se si tratti davvero di un matrimonio, come dice Gadhri; preferisco salire sul terrazzo e guardare dall’alto. Nel buio continuano ad intermittenza i colpi di Kalashnikov, non vedo lampi di spari ne’ altre luci al di fuori dei quattro lampioni scassati che illuminano a malapena la parete su cui sono fissati. Dal terrazzo l’immancabile ricerca di costellazioni si conclude senza risultati, sia perche’ la ricerca si limita sempre alla Cintura di Orione, sia perche’ la porzione di cielo lasciata libera dalle montagne e’ cosi’ piccola da non lasciare posto neppure per la luna.

*Quarta tappa. Punto di partenza: Al-Huraybah Punto di arrivo: Mukalla – Sanaa… Km (5 h. Di pista poi asfaltofino a Mukalla).

Escursione a Bir Ali – Ritorno a Sanaa in aereo.

Al mattino siamo di nuovo sopra il Doan presso all’antenna che permette alla valle di comunicare con il resto del paese. Sono tre ore di pista dall’antenna all’asfalto e arriviamo al primo ristorantino verso l’una del pomeriggio, fa un caldo torrido e c’e’ profumo di mare, saranno i pesci fritti o le ancore o le reti appese al muro, ma a me piace pensare che sia qualcosa nell’aria a far sentire il sapore dell’oceano. Ancora 130 chilometri d’asfalto per arrivare a Mukalla.Una ventina di chilometri prima si costeggia l’aeroporto di Ryan; la vecchia fortezza di Husn al-Ghuwayzi domina la cima di una roccia come una copia ruspante del palazzo nel Wadi Dhar. Il Mukalla Hotel si affaccia sul lungomare pieno di vita, un viavai continuo di pescatori, per lo piu’ ragazzini armati di bastone e filo. Il muezzin annuncia l’ora della preghiera, la moschea e’ una cinta di archi e colonne dove i fedeli pregano inchinandosi a toccare il pavimento con la fronte. Le luci delle case risaltano sullo sfondo della montagna che, gia’ scura per la sua origine vulcanica, e’ ulteriormente annerita dalle ombre della sera.

I pescatori legano le barche al molo e i bambini vanno via col mazzetto di pesci luccicanti in mano; le onde s’infrangono spumeggianti lasciando sugli scogli gli ultimi bagliori del giorno e i primi della sera.

Il ristorante dell’hotel non ha l’aria accattivante e seguendo i consigli di Gadhri preferisco il ristorantino di fronte all’albergo. Il pesce esposto in vetrina e’ multicolore, spero sia l’effetto delle lampadine colorate che si accendono e si spengono sopra l’insegna. Un gigantesco ventilatore al centro del soffitto non scaccia l’afa ne’ le mosche; il menu’ comprende tutte le specialita’ locali: polpette di aragosta, tranci di tonno alla griglia, pesce sconosciuto stufato in brodo di spezie e pescecane affumicato. Pesa un po’ la mancanza di un bianco ghiacciato… Al mattino, dopo un’abbondante spalmata di “protezione totale” sono pronto per la balneazione. La spiaggia di Bir Ali e’ a 150 chilometri da Mukalla in direzione di Aden. La strada passa vicino ad un vulcano spento, dentro il cratere c’e’ un laghetto verde-azzurro, niente di particolare salvo il bel contrasto tra il mare, il cielo e la parete nera. Nei dintorni ci sono le rovine dell’antico porto di Qana, da cui partivano le carovane dirette a Shabwa e Sanaa. Sulla spiaggia non c’e’ nessun riparo tranne qualche baracca di pescatori pronti a scorrazzarvi in barca sulle acque limpide e calde. Non calde come la sabbia e il sole che messi insieme possono ridurre chiunque in una braciola, trasformando le creme solari in condimento. A parte gli scherzi occorre proteggersi bene la pelle, meglio tenere una maglietta, e la testa, non fidatevi dei vostri capelli, per folti che siano e’ piu’ utile un cappello. Al riparo della capanna, il pescatore prepara una grigliata di buon pesce fresco, ma ad essere sinceri, non vale la pena venire qui per andare al mare; quanta nostalgia della notte sulla terrazza nel wadi Doan! L’aereo per la capitale parte alle 18 e trenta; appena il tempo per una doccia e per riordinare i bagagli, poi via all’aeroporto di Ryan dove, tra le altre cose, finisce il noleggio della jeep con relativo autista. Dopo meno di un’ora siamo a Sanaa, l’ultima favola delle Mille e una Notte.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche