A Venezia in kayak!

Visitare la città da una prospettiva... diversa! Navigando nel canale...
Turisti Per Caso.it, 04 Mar 2011
a venezia in kayak!
Patrizio: Emilio Rigatti è il professore-ciclista che ha girato il mondo sulle due ruote, quello che ha scritto “Se la scuola avesse le ruote”, e poi “Italia fuorirotta”, “Minima pedalia” e “La strada per Istambul” ecc ecc. L’ultima volta ci siamo visti al Festivaletteratura di Mantova, in cui presentava un suo libro dedicato “Alla mia prima bicicletta”, fatto – tra gli altri – con Margherita Hack. Ma non va solo in bicicletta: da un anno e mezzo a questa parte si diverte e viaggiare in kayak. E ultimamente ha realizzato quello che, per me, è da sempre un sogno: andare a Venezia in barca! Noi, anni fa, con Adriatica ci siamo andati, a vedere la festa del Redentore. E’ stato meraviglioso, ma non è la stessa cosa: con un kayak ci si può perdere lungo i canali, si può esplorare la città. E allora, dietro mia pressante richiesta, Emilio ci ha scritto, espessamente per Turistipercaso, questo “diario di viaggio”, da non perdere!

A Venezia in kayak

Se si trattasse di un sogno o di un’idea non riuscivo a capirlo neppure io, che l’avevo avuta e sognata. Non lo so neppure adesso, ma confesso che, dopo ore passate su Google Earth per individuare il miglior posto per imbarcarmi su Starbuck, il mio kayak, in direzione di una Venezia carnevalesca, i due cigni che mi hanno preceduto per buoni cinque minuti mi hanno convinto che stavo per entrare nel mondo obliquo dei sogni iperrealisti. Pietre e tuffi al cuore si sono fusi in un’emulsione che proverò a descrivere in un futuro libro sui miei viaggi acquatici, magari dal titolo “Minima Pagaia”.

I cigni, dunque. Li ho trovati appena fuori del porto di Campalto, dove avevo parcheggiato la macchina e dove sono riuscito ad imbarcarmi solo grazie a due ragazzi che passavano di lì correndo. Bassa marea “de cagarse”, come dicono a Trieste e io, se sono un capitano coraggioso e un po’ – ma solo un po’ – incosciente, sarei riuscito solo a scorticarmi sui plotoni di cozze che stavano in apnea, dal loro punto di vista, aspettando che l’acqua tornasse a salire. Una volta in barca ho chiuso il paraspruzzi, ho sistemato il termos col tè e i panini sulle retine di prua e di poppa, il cellulare e la macchina fotografica nelle rispettive buste stagne, la cartina nella tasca del salvagente. Acqua calma, sole freddo e sostanzioso, dispensatore di buona luce invernale, e lo skyline che amo di più: appeso tra il Ponte della Libertà e l’Isola di San Michele, fitta di cipressi. La linea irregolare di tetti e campanili si è ingrandita fino a diventare un sipario di mattoni rossi in prossimità di Cannaregio. Mann dice che entrare a Venezia dal Lido è farlo dall’ingresso principale. Qui, invece, si entra dalle cucine, dal cortile dietro casa: poche gondole, e una serie ininterrotta di gran pavese svolazzanti alla brezza: di camicie, mutande, reggipetti, canottiere, mutandoni del nonno, slip fucsia di una teenager, i jeans lacerati di un gianburrasca con i dread. Insomma, famiglie intere di vestiti alla tramontana, dai poppanti ai vecchi. In kayak si è dentro a Venezia come non lo era neppure Casanova, perché le chiappe sono sotto il livello dell’acqua e la città ti si chiude sopra coi battenti delle file continue di case e palazzi. Insomma, si è “sotto” in modo unico, inedito. Tutto svetta, tutto è più alto, le mura sono vicine, si toccano. Soprattutto si è sull’acqua e nell’acqua, si galleggia nel labirinto di mattoni e pietra d’Istria. E infine si è liberi: dalle rotte obbligatorie dei vaporetti e da quelle codificate – e carissime – delle gondole. Liberi di dire: di qua, no di là, no, non so, resto qui cinque minuti e poi decido, o mi sdraio sulla poppa e guardo i due palazzi che partono verso l’azzurro, o che si riflettono come narcisi architettonici nelle acque, che quando la brezza cala diventano come specchi antichi un po’ ondulati. Le avevo viste già riflesse nei canali, le case di Venezia. Ma così, in kayak, la differenza è quella che c’è tra il guardarsi allo specchio e camminarci sopra. Perdersi: ecco la “mission” di questa due giorni, sfiorando i muri rossi e la pietra bianca, vedendo per la prima volta infilate di cinque ponti uno dietro l’altro. L’altro lato del ponte: quello dell’eco e dei riflessi che striano mattoni e pietre di brividi luminosi. Bisogna provare a fare “oh”, sentire il riverbero sonoro dell’acqua mossa dal remo che torna all’orecchio, come incurvata dalla forma dell’arco. Non so dove sono andato, né perché a volte sbucavo in Canal Grande e altre nel Canale della Giudecca, un Capo Horn dei pivelli (vado in k. Da meno di un anno), sempre agitato e con onde che arrivano da tutte le parti. E’ stata la rivincita dei canali minori e delle Corti Sconte sulla meraviglia assoluta di Piazza San Marco. Da questa si è fuori, si è spettatori esterni. Nel dedalo imprevedibile di svolte e scorci, invece, investiti dalle onde dei “mototopi” – ti arriva quella diretta dalla barca e contemporaneamente quella di ritorno dai muri, creando un “effetto lavatrice” destabilizzante – si è in un mondo geometrico imprevedibile, in un teatro dove è la pagaia il regista che decide i cambi di scenario.

Maschere dappertutto: è carnevale e oggi c’è il volo della Colombina da San Marco. La maschera è affascinante perché ti strappa alla tua identità anagrafica, sei un non-tu, puoi permetterti la follia, la rottura del quotidiano, lo sguardo malizioso, provocante, invitante. Porto a casa una collezione di sguardi, di risate, di battute al volo in napoletano, in inglese, in spagnolo. Quando una maschera, affacciata a un ponte, mi chiede quale sia il mio travestimento (ho un cappello da laureato di Harvard), sulle prime non so cosa dire. “Da canale con un kayak sopra” rispondo, e mi pare che sia proprio il navigare la mia maschera di oggi. I gondolieri, quando un ingorgo mi costringe a star fermo, mi insegnano il bon ton della navigazione: si grida “Ohe!” agli angoli, “stagando” se giri a destra, “premando” se giri a sinistra, “da longo” se vai dritto. Ah, se qualcuno volesse provare le delizie di questo giro (e anche qualche odore sgradevole), sappia che il remo può andare dove vuole, anche contromano. Ma ricordate di essere inglesi – tenete la sinistra! – e di imparare un paio di appoggi con la pagaia per evitare di conoscere di persona la flora battericovirale della città.

Domenica mattina, proprio mentre navigo di fianco alla chiesa della Salute, mi sento chiamare: Tatiana Cappucci e Mauro Ferro, i miei proffe di remo, stanno mangiando o meglio alimentandosi (maionese su della carta da musica portata dal terzo componente, Fabrizio, ovviamente sardo), accucciati a ridosso di un muro per ripararsi dal vento freddo. Sembrano proprio dei Simpson inuit, con le loro parrucche gialle. È con loro, conoscitori della città, che scopro angoli dove il mio vagabondare probabilmente non mi avrebbe portato, almeno questa volta. L’Arsenale, il Ghetto, ancora Cannaregio. Si fa sera, domani torno a scuola, sono sazio. Comincia a piovere. Faccio rotta verso Campalto, aiutato da Mauro che prima di salutarmi mi dà la rotta col GPS, che vedrò di tenere con la bussola. Un aereo si alza dal Marco Polo, qualche luce si accende sulla costa. A Campalto arrivo con la marea in crescita e sbarco facilmente. Venezia non si vede più, se la mangiano la sera e la pioggerellina. Ma io continuerò a vederla per due, tre giorni, spiegando in classe Guglielmo d’Orange o i verbi elettivi. O adesso, viaggiando di nuovo sulla tastiera del mac…

Le foto della due giorni a questo link



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