Uzbekistan e il fascino eterno di Samarcanda

Tour in pulmino attraverso le sue città principali: Khiva, Bukhara, Samarcanda e Tashkent
Scritto da: Ginger27
uzbekistan e il fascino eterno di samarcanda
Partenza il: 19/09/2015
Ritorno il: 26/09/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €

I preparativi

Il fascino eterno di Samarcanda ha indirizzato la mia scelta verso l’Uzbekistan. Due mesi prima della partenza compilo on line il modulo per la richiesta del visto, lo stampo, lo firmo e lo mando all’agenzia con 2 foto e il passaporto. Il tutto mi verrà restituito in aeroporto.

Sabato 19 settembre 2015: Milano/Urgench

Voliamo da Milano Malpensa con Uzbekistan Airways: l’aereo parte alle 23:10 e arriva alle 5 dopo 6 ore di volo e avere percorso 4853 km. In viaggio ci offrono arachidi e per cena si può scegliere tra pollo o pesce (scelgo il pollo) con verdure e riso.

Domenica 20 settembre 2015: Urgench / Khiva

Il volo è in orario e atterriamo a Urgench, capitale della regione Korasim alle 5 (le 8 locali). Le pratiche di immigrazione non sono bibliche e alle 9 saliamo sul pulmino: siamo solo in 7. La nostra guida ha il nome di un fiore (per preservare la sua identità la chiamerò F); dopo essersi presentata ci consegna 60000 Som per 20 euro. Lei ci racconta che Khiva (110.000 abitanti) è legata alla religione di Zoroastro. Arriviamo all’hotel Asia alle 9.15, dove ci viene assegnata la camera 123 (moquette in camera, letti singoli, un hotel con un bel parco, ma un po’ demodé). Dista qualche minuto a piedi dal centro storico. C’è tempo per la colazione, un po’ scarsa per la verità. Alle 11 comincia il tour. Prima di entrare alla Ichan Kala (fortezza interna, la cittadella), c’è un cartellone dove sono rappresentate le antiche vie carovaniere. Scopriamo che la via della seta univa la Cina all’Asia centrale, la via delle spezie e dell’avorio collegava l’Asia centrale ad Agra, la via dei lapislazzuli conduceva a Damasco, la via della carta di seta aveva come meta Roma.

Nella piazza antistante Ichan Kala c’è la statua di Alkorazmiy, fondatore dell’algebra; dal suo nome deriva algoritmo. Alle spalle della statua corre il profilo talvolta merlato delle mura della fortezza interna, i cui mattoni sono rivestiti di argilla e paglia, che servono da isolante. Le mura e le porte di Ichan Kala mi ricordano la cittadella di Aleppo (anche se quella non è in pianura) mentre il colore delle mura, l’atmosfera e le facciate delle madrase rimandano a Yazd in Iran, con cui Khiva condivide la religione zoroastriana. Entriamo dalla Ota Darvoza, la porta del padre. Xoja (la x si pronuncia come una h inspirata) è l’uomo che è stato alla mecca. Molti dei simboli rappresentati dalle maioliche sono zaorastriani: il melograno (simbolo di ricchezza), l’albero della vita (rappresentato con un cerchio con sotto l’inferno e sopra il paradiso, più riempiamo il tondo centrale più tendiamo al paradiso), una sorta di farfalla che rappresenta l’infinito. Visitiamo la madrasa di Muhammad Aminxon del XIX sec. con accanto il minareto Kalta Minor del 1855, alto 25 m. La madrasa è diventata un hotel dove soggiornare che richiede una prenotazione molto anticipata. Giuseppe prova il ciuciurma, un cappello di pelo di pecora o montone che isola dalla temperatura esterna (sembra un cantante degli anni ’60).

Visitiamo la moschea Juma o del venerdì con 218 colonne lignee (6 o 7 sono originarie del X secolo, le altre sono del XVIII secolo). La guida ci spiega che la colonna nella sua lunghezza rappresenta la vita di un figlio: fino a 6 anni è il re della famiglia, fino a 12 un allievo, fino a 19 uno schiavo e poi diventa un amico; la parte più in alto della colonna è priva di decori perché raggiungere il paradiso dipende solo da noi stessi. Si prosegue con il palazzo Tash Khauli (casa di pietra); si tratta di un sontuoso palazzo voluto da Allakuli Khan, committente talmente impaziente che fece assassinare il primo architetto per non avere ultimato i lavori in due anni. Qui la guida ci racconta che poiché Tamerlano era turco – mongolo e non interamente mongolo non poteva aspirare al titolo massimo di khan, ma solo di emiro. Si prosegue con l’harem a cui si accedeva originariamente da un corridoio da un bel soffitto di legno dipinto. Ci sediamo nel settore dove ci sono le discendenti della cantante concubina, unica donna che aveva diritto di andare al mercato; al suo ritorno cantava alle altre cosa avesse visto attraverso metafore o con particolari gesti del corpo, per non essere capita dal khan che proibiva i pettegolezzi.

Il ristorante all’interno dell’Ichan Khala si chiama Yusuf Yasaulbosmi Madrasa; il pranzo prevede antipasti di verdure (cavolo rosso, cavolfiore, zucchine, melenzane, pomodori, arachidi e arachidi caramellate), una minestra chiamata mampar e un secondo che è una crepe con dentro un kebab chiamata crimazarafcian. Si termina con il tè verde, immancabile fine pasto uzbeco. La guida ci spiega la dimestichezza che hanno i loro bambini a imparare lingue nuove, essendo addestrati a parlare uzbeco (di origine turca), russo (lingua slava) e tagico (di origine persiana).

Si prosegue visitando il museo dell’antico Khorezn, poi l’antica fortezza Kunya Ark (edificata nel XII e poi nel XVII secolo, ha al suo interno l’harem, la zecca che espone anche banconote stampate su seta, le scuderie, l’arsenale, le caserme, la moschea estiva del XIX secolo con belle piastrelle bianche e blu e la prigione – zindon). Saliamo sulla torre di guardia di Kunya Ark per vedere Khiva nella sua interezza e i profili delle mura in argilla e paglia. Nel cortile della madrassa di Rakhim Khan si assiste allo spettacolo di una famiglia di acrobati, equilibristi e funamboli: 2 fratelli molto bravi a cui si aggiunge poi una bambina che viene portata sulle spalle dal fratello posto più in alto.

Dinanzi al mausoleo di Pakhlavan-Makhmud, poeta e lottatore, patrono di Khiva, la sua tomba risale al 1362, ci leviamo le scarpe per rispetto a quello che è considerato il protettore di khiva. L’interno molto buio non permette di godere appieno delle maioliche; a sinistra della prima camera c’è la tomba del poeta con le più belle piastrelle di Khiva. Uscendo dal mausoleo e andando a sinistra si incontra l’imponente minareto Islam Hodja, alto 52 m; risale al 1910, anno in cui fu costruita anche la madrasa; il minareto, decorato da piastrelle disposte a fasce turchesi e rosse, è il più alto dell’Uzbekistan; Islom Hoja era un visir vissuto all’inizio del XX secolo, dalle idee liberali, mal tollerato dal clero che lo fece assassinare.

L’acqua in hotel scarseggia e la mia doccia dura pochissimo.

Alle 18.30 (il sole tramonta verso le 19) usciamo per vedere Ichan – Kala al tramonto, quando l’argilla e la paglia assumono un colore più caldo. Nella cittadella sospesa nel tempo regna la quiete: con un po’ di fantasia possiamo essere trasportati al tempo delle carovane che qui si fermavano per trovare ristoro e ripartivano dopo una notte trascorsa al riparo delle mura.

Cena in hotel: l’unica cosa degna di nota è una crepe dalla forma intrecciata e ripiena di zucca.

Lunedì 21 settembre 2015: Khiva/Bukhara (480 km)

Sveglia allle 5 e prima colazione in hotel (per un attimo fa la sua apparizione il caffè liofilizzato per sparire subito dopo). Alle 6 partenza in pullman per Bukhara attraverso Urgench e campi di cotone, si attraversa il fiume che è il confine naturale tra Uzbekistan e Turkmenistan; poco prima di arrivare alla zona desertica di Kyzylkum (sabbia rossa), comincia la strada in cemento armato (un pochino meglio dell’asfalto grattugiato provato prima che ci fa assomigliare a un cocktail). Il progetto di rifare le strade è cominciato nel 2012 e deve terminare nel 2019 e vede la collaborazione di Cina, Corea del Sud e Germania; si è scelto il cemento armato perché l’asfalto degrada in fretta per gli sbalzi di temperatura tra inverno e estate. Il deserto è stepposo e non è poi cosi rosso a dispetto del nome. Adesso siamo fermi perché stiamo facendo rifornimento di benzina comprandola dai privati, perché il distributore ne era sprovvisto. Alle 10 mi sveglio e la doppia corsia non c’è più. Si comincia di nuovo a essere shakerati. F ci racconta che i ragazzi prima di iniziare l’università passano un mese a raccogliere il cotone: è un’occasione per vivere tutti insieme e nascono amicizie e amori. I campi vengono adibiti alla coltura del cotone per 3 anni, poi segue un anno di riposo e poi 2 di grano. Il cotone è una pianta che va raccolta a mano perchè i ciuffi maturano in tempi differenti e le macchine rovinerebbero la pianta. Nelle vicinanze della città di Bukhara ci sono alberi di gelso con cui nutrire i bachi da seta. Arriviamo a Buxoro o Bukhara (320.000 abitanti) alle 14, come previsto: 7 ore per percorrere meno di 500 km. All’arrivo a Bukhara ci viene assegnata la camera 35 dell’hotel Asia, in pieno centro e di fronte aĺla moschea Magoki-i Attari, la moschea degli erboristi, chiamata così perché attorno sorgeva il mercato delle spezie. Il pranzo è in hotel con minestra di verdura, contorni di verdure, tra cui melanzane, piccole pesche noci e tanti fichi neri; si finisce con il tè verde.

Bukhara è la città più sacra dell’Asia Centrale e visitandola si può avere un’idea di come fosse il Turkestan prima dell’impronta sovietica. E’ un’oasi nel deserto di Kyzylkum. Fiorì durante il regno samanide nel IX e X secolo. Rifiorì sotto gli uzbeki shaybanidi fondando il khanato di Bukhara. Il giro della città comincia alle 15.30 appena fuori città (a 4 km) per visitare la curiosa residenza dell’ultimo emiro di Bukhara, il Mokhi-Khosa Palace divertente esempio di stile kitsch, il palazzo di stelle e luna, in onore della moglie preferita Sitora (stella). L’ingresso è di piastrelle multicolore (il fatto che ci sia il rosso indica che non è un luogo di culto). Su un cortile si apre la residenza maschile, da una parte il portico coperto o aiwan, tipico dell’Asia Centrale, e dall’altra la veranda, tipica costruzione russa. All’ingresso c’è la camera degli ospiti con begli stucchi dipinti, la sala del trono con stucchi bianchi e specchi; proseguendo si trovano la stanza tedesca e quella delle 4 stagioni, chiamata così perché cambiavano i vetri veneziani a seconda delle stagioni. Passeggiando nel giardino si trovano i pavoni, i miniaturisti che disegnano su carta, chi lavora l’ottone. Un po’ più distante si trova l’harem, dove c’è una vasca piena d’acqua dove si riflette quello che è rimasto degli appartamenti di mogli e concubine. L’emiro si affacciava dal balcone e sceglieva la donna per la notte lanciandole una mela rossa. La donna veniva preparata per l’incontro facendo il bagno nel latte d’asina e ricevendo ogni cura per apparire bella e desiderabile. La cerimonia dell’amore, che poteva durare anche molte ore, essendo ricca di preliminari, si svolgeva in un edificio separato, dove adesso sono esposti vestiti tessuti in oro appartenuti all’ultimo emiro. In pulmino torniamo verso il centro città per la visita di Chor Minor (sembra più in stile indiano che in quello di Bukhara), la curiosa madrasa dai 4 minareti (in realtà è il corpo di guardia di una madrasa costruita nel 1807 e ormai scomparsa) venne fatta costruire da un ricco mercante Turkmeno, che di ritorno da un lungo viaggio scopre che tutte le sue figlie sono morte a causa di una malattia infettiva. In loro memoria fa costruire la struttura con i 4 minareti, uno per ogni figlia.

Di nuovo in pulmino arriviamo al centro della città vecchia con il complesso di Lyab-i Khauz (si tratta di una piazza costruita intorno a una vasca dove un tempo si riunivano gli uzbeki per sorseggiare il tè e spettegolare; attorno al lyab-i Khauz sorge la città vecchia o shahristan) e delle sue madrase del XVI-XVII sec.: madrasa Nodir-Divan-Beghi (costruita come caravanserraglio, venne trasformata in madrasa nel 1622 per volere del khan) con il vicino khanaqa Nodir-Divan-Beghi che ospitava i pellegrini (è dello stesso periodo della madrasa; Nodir era il ministro del tesoro del khan Abdul Aziz che finanziò i lavori nel XVII secolo). La madrasa ha dei decori con i pavoni e il sole; viene anche chiamata madrasa degli orecchini d’oro perché il ministro regalò alla moglie degli orecchini, di ritorno da un lungo viaggio; lei non li apprezzo’, lui li vendette e con il ricavato fece costruire il caravanserraglio dove stasera vedremo uno spettacolo. Accanto c’e la statua di Hoja Nasruddin, il folle saggio rappresentato come l’uomo sull’asino che ha popolato tutte le storie sufi. La visita prosegue a piedi con la visita di una fabbrica di marionette che sorge nel quartiere ebraico. Il proprietario ci racconta che le marionette prima venivano fatte di pelle, poi di terracotta, mentre adesso sono di cartapesta. Un tempo lo spettacolo necessitava di tre artisti: il cantante, il musicista e chi animava la marionetta. Passeggiando raggiungiamo il bazar voluto dall’Unesco per sostenere l’artigianato uzbeco: troviamo i tessitori di tappeti, le donne che ricamano, i miniaturisti, chi costruisce strumenti musicali, chi lavora la cartapesta. Il bazar Tok-i Sarrafon (il luogo dove si cambiava il danaro) vende ormai souvenir per turisti. Il giro si conclude con la moschea Magoki-i Attari (pozzo degli erboristi, la più antica moschea dell’Asia Centrale sorge tra 2 bazar), unica per i suoi ornamenti che riprendono concetti zoroastriani e buddisti (gli archeologi hanno trovato un frammento di un tempo zoroastriano del V secolo e un tempio buddista ancora più antico; venne usata anche come sinagoga dagli ebrei di Bukhara nel XVI secolo). Avendo avuto nel corso dei secoli sempre funzioni religiose, si pensa che sia un luogo che emana una grande energia positiva. Si rientra in hotel alle 19.

Cena con spettacolo (di danze e sfilata di moda di un’artista locale che vende direttamente in loco) nella suggestiva cornice della madrasa Nodir Divan Beghi. La cena non si ricorda per la sua bontà, ma lo spettacolo è davvero interessante, soprattutto quello di moda. L’antipasto è a base di verdure cotte e crude, come melanzane e zucca, segue la minestra e poi, come secondo, arrivano le tagliatelle con il ragù. Le assaggio ma poi ci rinuncio perché non possono competere con i piatti italiani. Il dolce a più strati sembra un tiramisù con lo zucchero di canna. Si chiude con il tè verde, rinunciando alla vodka. Facciamo un giro per i negozi della madrasa che sono veramente interessanti, soprattutto quello delle ceramiche.

Martedì 22 settembre 2015: Bukhara

Sveglia alle 8. Le visite cominciano alle 9 e ci rechiamo nel parco Samani dove c’è il mausoleo dei Samanidi, in particolare di Ismail Samani, capostipite della dinastia samanide pre-islamica; si tratta di una struttura in mattoni il cui aspetto cambia a seconda dell’ora del giorno in cui la si osserva, capolavoro dell’architettura del X sec. resistito all’incuria del tempo senza restauri tranne che nella cupola; mettendo i mattoni in posizioni differenti sono stati creati decori particolari. Sopra il portale d’ingresso ci sono simboli zoroastriani. Si tratta del primo mausoleo in mattoni cotti, con la cupola e di forma quadrata, a riprodurre la Kaba della Mecca. Venne coperto di terra per evitare che venisse distrutto da Gengis Khan. All’interno c’e un solo sarcofago dove riposa il nipote del fondatore e una tranquilla micetta rossa e bianca che dorme indisturbata. Si racconta che 3 giri antiorari attorno al mausoleo esaudiscano un desiderio e noi ci tentiamo. A piedi passiamo vicino al mausoleo di Chashma Ayub, la sorgente di Giobbe, perché qui con un bastone Giobbe fece scaturire l’acqua. Una struttura ha la cupola conica, tipica del Turkmenistan, invece che sferica, come tutte quelle dell’Uzbekistan. Successivamente visitiamo la moschea del venerdì del XVI-XVII sec. dalle colonne lignee. Accanto sorge il minareto (il nome è improprio: essendo più basso della moschea si chiama mezzi kana, la casa del muezzin; è stato costruito più basso per evitare che da lì si potesse guardare dentro le case che un tempo circondavano la moschea).

Nel Registan (si pronuncia reghistan) sorge l’Ark dove risiedeva l’emiro di Bukhara. La prima edificazione risale al V sec. a.C. e poi se ne sono succedute diverse sempre nello stesso sito. Una salita, a cui lati ci sono delle celle che ospitavano le prigioni degli ultimi 15 giorni, porta alla moschea del quartiere (nei casi di assedio era usata come moschea del venerdì), dove ci sono vecchi manoscritti, e alla sala del trono. Si prosegue con la visita della casa/museo Fayzulla Khodjaev (Fayzulla Khojaev) della fine del 1800, appartenuta ad un ricco mercante. Fayzulla complottò con i sovietici contro il Khan Alim; in cambio della collaborazione ottenne nomine politiche, ma venne deportato in Siberia da Stalin. La casa venne costruita dal padre di Fayzulla nel 1891 e Fayzulla vi abitò fino al 1925, quando i sovietici la trasformarono in una scuola. Della casa (che ricorda da vicino la casa di un ricco mercante che abbiamo visto a Isfahan) visitiamo la camera degli sposi novelli (qui c’è una tenda chiamata eimodat dietro la quale le coppie appena sposate passano i primi 40 giorni), la camera degli ospiti dove indossiamo vestiti uzbechi (tra cui il pesante e soffocante burka e F ci illustra la cerimonia del tè: dalla teiera si versa nella tazza un po’ di bevanda, si rimette nella teiera e si ripete l’operazione altre 2 volte; poi si versa nelle tazze il tè, la prima tazza è per chi serve, di solito la donna, le altre vanno riempite a metà per indicare che non si vuole mandare subito via l’ospite; si porge la tazza con la mano destra sul cuore), la sala dei bambini. Nella stanza museo dove sono state riprodotte le condizioni in cui è avvenuta la deportazione, F ci racconta che la sua bisnonna russa era stata deportata a Samarcanda dove aveva sposato il figlio dei padroni presso i quali faceva la cameriera; quindi lei è mezza russa e mezza uzbeka, anche se nei suoi tratti somatici non c’è traccia della parte russa.

Il pranzo è al ristorante Bella Italia, anche se di italiano non ha proprio niente. L’antipasto è a base di bruschette, il primo è una zuppa con carne, il secondo è uno spezzatino vestito da gulash con patate fritte fredde, il dolce è un pasticcino al cocco. Si prosegue con il complesso di Poy-i Kalyan con i suoi mirabili monumenti che datano dal XII al XVI sec.: la madrassa Mir-i Arab del XVI sec. (madrasa, tuttora attiva, bella al tramonto; i turisti non dovrebbero accedere, ma si può chiedere il permesso di sbirciare il cortile dove, si dice, che i ragazzi giochino a ping-pong: noi abbiamo sbirciato dalla grata, ma non abbiamo visto nessuno), il minareto di Kalyan (nella guida Kalon del XII sec.) intatto da 880 anni quando con i suoi 47 metri era il più alto di tutta l’Asia Centrale (Gengis Khan rimase impressionato dalla sua bellezza che lo risparmiò); le sue 14 fasce tutte diverse tra loro sono la prima testimonianza dell’uso di piastrelle decorative che poi si diffusero durante l’epoca di Tamerlano; si narra che il minareto sia stato costruito sulla testa di un imam ucciso da un khan. Con alle spalle il minareto, alla sinistra sorge la moschea del venerdì del XV sec. (periodo timuride o di Tamerlano). La moschea preesistente venne bruciata con dentro le donne e i bambini da Gengis Khan: adesso nel suo cortile c’è un mausoleo a memoria dell’eccidio. Entrare in questa moschea è un’esperienza che merita il viaggio, come ammirare le due cupole che fiancheggiano la madrasa di fronte. F ci aiuta a individuare i tre tipi di scrittura ornamentale che decorano la porta del minrab: sul fascione in alto c’è il suls (ricamo) e sopra la nusca, nei medaglioni laterali si individua la scrittura kufi (si riconosce una A e una U: si tratta del metodo timuride per esaltare Allah). Passeggiando si arriva ad altre due moschee che si fronteggiano: Ulugbek e quella di Abdul Azizxov, ormai adibita a bazar: qui dentro Giuseppe compra una maglietta e una casacca. Il giro si conclude con la visita degli altri due bazar coperti: il Tok-i Tilpak Furushon (Taki-Telpak Furushon, dei cappellai) e poi tok-i-Zargaron (Taki Zargaron, dei gioiellieri). A cena ci riservano la saletta solo per noi.

Mercoledì 23 settembre 2015: Bukhara/Shakhrisabz/Samarcanda

Si parte alle 7.30 e ci aspettano poco meno di 500 km su una strada pessima (non c’è neanche il tentativo in questo caso di costruire una strada a doppia corsia, come nel tratto Urgench – Bukhara). Lasciando Bukhara si vedono campi di cotone e un territorio abbastanza piatto. Sosta con il te’ e si riparte con destinazione Shakhrisabz (in tagico significa città verde: è il nome che le venne dato da Tamerlano), una città con oltre duemila anni di storia che fu la città natale di Tamerlano (nacque lì vicino il 9 aprile 1336) e che non ha subito le influenze sovietiche. L’ingresso in città ci viene annunciato da tanti alberi, piantati per volontà di Tamerlano. Arriviamo alle 12.30 e notiamo che la città è in fermento (ho avuto l’impressione che vogliano votarsi al turismo e quindi ci sono molti lavori). Si comincia con la visita del complesso Dorus Saodat, seggio del potere e della forza, destinato alla sepoltura delle famiglie regnanti (qui sono sepolti il figlio maggiore di Tamerlano, Jehangir, morto a 22 anni, e un altro figlio; Tamerlano e gli altri figli sono sepolti a Samarcanda). Ci fermiamo all’ombra di un platano del 1370 fatto piantare da Tamerlano. F ci spiega che i platani in Uzbekistan sono considerati simbolo di lunga vita: poiché tagliarne uno porta sfortuna, anche le nuove strade girano attorno a questi alberi che arrivano a vivere persino a 1000 anni, trascorsi i quali il tronco si spacca. Di fronte al mausoleo di Jehangir compriamo due borse ricamate su stoffa (una delle due diventerà compagna inseparabile di Giuseppe). A piedi raggiungiamo la moschea di Kok Gumbaz (moschea del venerdì ultimata nel 1437 da Ulughbek in onore di suo padre Rukh Shah, uno dei figli di Tamerlano; il suo nome significa “cupola azzurra”). Al suo interno originariamente c’era carta da parati dipinta, adesso ci sono splendidi dipinti murali. Di fronte c’è Gambasi Seyidan, il mausoleo che Ulughbek voleva per i suoi discendenti; edificio più piccolo della moschea, ha una bella cupola e 4 sarcofagi che ospitano “said” (con il termine si indicano le persone che arrivano dall’Arabia).

In autobus andiamo a vedere le grandiose rovine del palazzo di Tamerlano (Ak- Saray o palazzo bianco venne costruito come palazzo d’estate da Tamerlano in 24 anni dal 1380 al 1405). Tamerlano o Timurlend, cioè Timur lo zoppo, a causa di una ferita che lo rese claudicante, Amir Timur è il grande protagonista di questa città e soprattutto di Samarcanda; nato a Shakhrisabz nel 1336, morì a Samarcanda nel 1405. La sua residenza estiva era un palazzo di dimensioni impressionanti, 600m per 550m: peccato che non sia arrivato integro fino a noi (venne distrutto dalla dinastia che succedette ai timuridi nel XVI sec.). Dalla maestosità del portone d’ingresso (originale e ricoperto da mosaici simili a filigrana) si può intuire quanto potesse essere smisurato; una testimonianza dell’epoca (l’ambasciatore spagnolo Ruy Gonzalez de Clavijo si era recato in Uzbekistan per ringraziare Tamerlano per il suo supporto alla Spagna contro i Turchi) lo descrive in un suo libro come qualcosa di stupefacente: l’apertura del portone produceva un suono meraviglioso, l’harem posto all’ultimo piano aveva il soffitto in vetro e la rifrazione della luce solare creava giochi di luce e l’arcobaleno. In centro all’ipotetico palazzo c’è una statua di Tamerlano di età recente che rende l’idea delle dimensioni. L’architetto sbagliò il progetto e la scritta “il sultano è l’ombra di Allah sulla terra” è riportata solo su una delle due torri, mentre sull’altra è troncata (il sultano è l’ombra di Allah).

Il pranzo in un ristorante all’aperto non è degno di nota: antipasti vegetali come rapa rossa, minestra con spaghettini, patate fritte e involtini di carne troppo dura per i miei denti, bignè ripieno da noci, uva passa e crema (lo eleggo peggior pasto del viaggio sia per location che per piatti). Alle 14.30 si riparte; si attraversa una zona collinare brulla e punteggiata da casupole in mattoni crudi e qualche animale da fattoria. Durante il tragitto F ci racconta come si combinano i matrimoni; chi tesse la tela è la zia del ragazzo o della ragazza; bussa alla porta del prescelto e, a seconda di come viene accolta, riferisce ai propri parenti l’impressione ricevuta. I ragazzi in tempi moderni hanno facoltà di esprimere il proprio parere sul futuro compagno e se la scintilla non è scoccata, la trattativa non va avanti. Quando alla zia viene offerto il plov, l’accordo è stato raggiunto. La ricerca del compagno e la cerimonia di nozze (gli sposi che guardano entrambi nello specchio, a simboleggiare che devono guardare nella stessa direzione) sono ripresi nello spettacolo teatrale a cui assistiamo la sera. Arriviamo a Samarcanda (più di 500.000 abitanti) alle 17: ricca di verde e ampi viali sembra la vera capitale del paese; noto che F è fiera della sua città natale. Pernottiamo all’Hotel Registan Plaza – costruito nel 2003, stanza 519; l’hotel mi ricorda quello di Damasco, con tutte le camere affacciate su corridoi che guardano la hall e l’ascensore panoramico. Alle 18.30 usciamo per vedere qualche monumento all’imbrunire e il più vicino è il Mausoleo di Tamerlano, dove arriviamo quando non è ancora buio, ma si accendono già le luci serali. L’incanto dura poco perché un ragazzo ci chiede il biglietto; noi non l’abbiamo perché lo visiteremo il giorno dopo e quindi dobbiamo andare via. La cena è un po’ ripetitiva e io, che non ho molto appetito, mangio solo minestra con riso, spezzatino con patate, pesche e mele. Lo spettacolo teatrale al teatro El Merosi, l’eredità dei popoli è un fuori programma a cui aderiamo con piacere; racconta l’Uzbekistan tramite la danza e dei magnifici costumi. A sorpresa andiamo a vedere piazza Registan illuminata: quanta bellezza tutta insieme!

Giovedì 24 settembre 2015: Samarcanda

La giornata è dedicata alla favolosa città, crocevia sulla Via della Seta tra Cina, Persia e India. I suoi abitanti (come quelli di Bukhara) parlano tagiko con qualche elemento di uzbeco (farsi). Quando Stalin procedette alla suddivisione dei territori, gran parte della popolazione di Samarcanda avrebbe voluto appartenere al Tagikistan.

L’antica Marakanda venne spazzata via da Gengis Khan nel 1220, ma Tamerlano decise nel 1370 di farne la sua capitale e la fece edificare per 35 anni. Il nipote Ulughbek aggiunse alla città ancora più splendore. Il declino arrivò nel XVI quando la capitale venne spostata a Bukhara. Diversi terremoti la resero disabitata, poi i russi la collegarono al loro impero con la ferrovia transcapiana. Quando nel 1924 nacque la nuova repubblica dell’Uzbekistan, Samarcanda fu la sua capitale per 6 anni, poi lo scettro passò a Tashkent.

La planimetria della città riflette l’assetto dei suoi dominatori: a est il groviglio della città vecchia, sul lato opposto lunghi viali, voluti dai russi si irradiano dalla piazza Mustaqillik.

Oggi è festa a Samarcanda: nel mondo islamico sono trascorsi 70 giorni dalla fine del Ramadan, si uccide il montone, si vanno a trovare i parenti anziani, si preparano dolci particolari e si indossa il vestito più bello (ne vedremo tanti ai mausolei).

La sveglia è alle 8. Si parte alle 9 con prima destinazione l’osservatorio astronomico di Ulugbek che conserva una parte dell’astrolabio del XV sec. (più famoso come astronomo che come sovrano, Ulughbek fece costruire dal 1420 al 1430 un osservatorio di 3 piani, distrutto dalla dinastia successiva; l’unica cosa che rimane è la parte ricurva (il sestante), rinvenuta nel 1908 e preservata dalla razzia perché coperta di terra). Il suo museo ospita dei pannelli che illustrano la discendenza di Tamerlano (scopro che i moghul indiani da Bobur in poi, 1483-1530, discendono da Tamerlano) e l’ampiezza del suo regno. Qui è ospitato il libro scritto da Ruy Gonzalez de Clavijo, ambasciatore spagnolo che è stato alla corte di Tamerlano e ha descritto il palazzo d’estate di Tamerlano. C’è inoltre il libro delle stelle che riporta gli studi astronomici condotti da Ulugbek: la lunghezza dell’anno e la durata della rotazione dei pianeti si discosta pochissimo dagli attuali calcoli. Si prosegue con la visita alla magnifica necropoli Shakh-i Zinda che è considerata il luogo più suggestivo di Samarcanda ed è una sfilata di mausolei con le piastrelle smaltate più belle del mondo musulmano; il nome significa Tomba del re vivente e si riferisce alla tomba più antica dove riposa Qusam ibn-Abbas, cugino di Maometto. Affiancate ai mausolei antichi ci sono le lapidi delle sepolture contemporanee: essendo festa (70 giorni dopo la fine del Ramadan) il luogo è molto frequentato dai locali; le lapidi hanno le serigrafie con la foto del defunto, una particolarità per il mondo musulmano che gli uzbechi hanno ereditato dai russi, un esempio di come in Uzbekistan le usanze ereditate da varie dominazioni si fondono pacificamente. All’ingresso della struttura c’è un aiwan dal soffitto ligneo, poi partono gli scalini (se in salita e in discesa si conta lo stesso numero di scalini, allora si è liberi dai peccati, io ne ho contati 36 sia a salire che a scendere) che portano ai mausolei delle donne parenti di Tamerlano; il secondo a sinistra di Shodi Mulk Oko del 1372 ospita la nipote di Tamerlano, morta in giovanissima età e la mamma, sorella di Tamerlano. Il mausoleo è stato progettato da un architetto sunnita. Di fronte c’è la tomba di un’altra sorella di Tamerlano Shirin Beka: in questo caso l’architetto è sciita e le caratteristiche dei decori ricordano l’Iran. Al suo interno ci sono belle carte da parati dipinte. Proseguendo si arriva al luogo più sacro perché si tratta della tomba più antica dove riposa Qusam ibn-Abbas, costruita su un tempio zoroastriano. All’interno del mausoleo c’è il fiore zoroastriano che simboleggia il perpetuarsi della vita attraverso le generazioni. Entriamo nel mausoleo e subito si percepisce la sacralità del luogo. Ci sediamo nella sala antistante il sarcofago e ascoltiamo la nenia e il canto di un muezzin. Ripenso alle parole scritte sul portone di legno che conduce alla tomba: le porte del paradiso sono aperte per tutti i credenti non mi fa sentire fuori luogo. In pulmino raggiungiamo il museo Afrosixob Muzevi dove sono conservati i preziosi affreschi del VII sec. di Afrosiab, primo nucleo della futura Samarcanda. Gli affreschi rappresentano il re Varkhoumann (sovrano della dinastia turca) che riceve dignitari, in sella a elefanti, cavalli e cammelli. La scoperta è avvenuta nel 1965 su una collina, sono datati 630-640. All’interno del museo sono descritte le varie dinastie che si sono succedute in Uzbekistan e le vicende sono molto più intrecciate di quanto sembri: Rossana, per esempio, la moglie di Alessandro Magno, era di Samarcanda.

Il pranzo è in hotel con minestra con riso, pollo, spezzatino, patate e zucchini, pesche, dolce e tè.

Alle 14.45 si parte per la visita della moschea Bibi-Khanum, una delle più grandi del mondo islamico; si sgretolò nel corso dei secoli e il colpo di grazia fu dato dal terremoto del 1897; venne ricostruita negli anni ’70; nel cortile della moschea c’è il leggio enorme usato per reggere il Corano più antico del mondo che adesso è ospitato a Tashkent; Bibi-Khanym, moglie cinese di Tamerlano, ordina la costruzione della moschea nel XV sec. per fare una sorpresa al marito; l’architetto si innamora di lei e le chiede un bacio per ultimare la costruzione; dopo tante incertezze e la costruzione che langue, Bibi acconsente al bacio che lascia il segno sulla sua guancia; Tamerlano se ne accorge e fa giustiziare l’architetto, imponendo alle donne di indossare il velo per non indurre in tentazione gli altri uomini; nella variante raccontata da F l’architetto prende il volo da un minareto della moschea. A destra della moschea sorge l’animato mercato di Samarcanda, il Bazar Siob, un ottimo posto per fare le foto se non ci fosse stato il sole contro; bighelloniamo dalle 15.45 fino alle 16.30 in cerca di niente, curiosi solo di vedere la vita di tutti i giorni. Notiamo che è abbastanza ordinato e diviso in settori. Finiamo per comprare a un prezzo irrisorio le coppette con teiera dal disegno del fiore di cotone, assaggio i noccioli di albicocca tostati (gradevolmente salati senza essere amarognoli), compro le albicocche secche. Si prosegue per ammirare il gioiello di Samarcanda, la piazza Registan (in tagiko significa luogo sabbioso; il complesso è splendido al mattino presto), circondata dalle madrase di Ulughbek a sinistra (la più antica, fatta edificare nel 1420 dal nipote di Tamerlano; nella moschea ci sono negozi artistici e di souvenir; al tempo di Ulughbek al posto delle altre due madrase c’erano di fronte un caravanserraglio e a sinistra una moschea e un bagno turco; entriamo in un negozio all’interno della madrasa dove ci spiegano come si fa il mosaico; si parte dalle piastrelle di maiolica sulle quali si applica il disegno su carta di un pezzo del mosaico; con un martello si rompe la piastrella e il pezzo grezzo viene sgrossato con una pietra; i vari pezzi vengono attaccati sull’alabastro e poi incollati sulla parete da rivestire: un lavoro minuzioso e che impegna molto tempo), di fronte Sher Dor (significa decorata di leone e tigri; fu fatta edificare nel 1636 dall’emiro shaybanide Yalangtush; ha decorazioni che rappresentano felini, una stranezza visto che i canoni dell’arte islamica impediscono la rappresentazione di animali) e Tilla Kori (rivestita d’oro; il fiore all’occhiello è la moschea con il soffitto rivestito d’oro, la sua forma pur essendo piatta da l’impressione che abbia la forma a cupola).

Noi visitiamo nell’ordine Tilla Kori dove rimaniamo incantati dalla decorazione di oro e indaco del soffitto e poi la madrasa di Ulughbek. Alle 17.45 rientriamo in hotel: stasera ci aspetta il plov, il piatto nazionale uzbeco.

Cena in una casa uzbeca/iraniana dove assistiamo alla preparazione del plov, che solitamente si prepara proprio il giovedì; quando arriviamo nel pentolone sono già state stufate le carote con altre verdure e la carne di manzo; sopra viene posto un tessuto simile alla garza, per separare il riso dagli altri ingredienti; sulla tela viene versato il riso e poi l’acqua per farlo cuocere prima. Si copre il tutto e, quando cotto, viene servito capovolto. A Giuseppe è piaciuto molto. Prima del plov ci hanno servito degli antipasti: fagioli, frittelle di cavolfiore, melanzane gratinate, cetriolini (che io ho sbucciato), samsa (pasta sfoglia servita calda ripiena di carne). Per me il plov ha avuto il sapore di tutti gli altri piatti: cumino. Il dolce è a base di un formaggio che si avvicina alla ricotta.

Venerdì 25 settembre 2015: Samarcanda/Tashkent

Sveglia alle 8. Si iniziano le visite alle 9 con il mausoleo di Gur-Emir (la tomba dell’emiro), che ospita la tomba di Tamerlano, di 2 figli e di 2 nipoti; Tamerlano si era fatto costruire il mausoleo a Shakhrisabz, ma morì improvvisamente di polmonite nel 1405; la neve impediva di raggiungere Shakhrisabz e quindi venne sepolto a Samarcanda.

Il mausoleo Guy-e-Emir fu fatto costruire da Tamerlano stesso per il nipote prediletto Muhammad Sultan, morto in battaglia. Il tempo a disposizione per la costruzione non era molto e allora decise di modificare una struttura esistente, non distante dalla sua residenza, (la residenza invernale di Tamerlano non esiste più, in quanto i resti sono stati spazzati via nel periodo sovietico. Dove c’è adesso il mausoleo, prima sorgeva una moschea e un aiwan (portico)). L’ingresso al mausoleo al tempo di Tamerlano era direttamente nella sala dei sarcofagi. Alcuni anni più tardi, per evitare che si calpestasse la tomba del grande maestro maestro di Tamerlano (Seyid Sheikh Umar, discendente di Maometto), Ulugbek spostò l’accesso di lato sulla sinistra. La sala dove ci sono i sarcofagi ha la stessa lucentezza di Tolle Kori, con le pareti rivestite di cartapesta, ricoperta da fogli d’oro. La lastra di giada verde è la lapide di Tamerlano, la lastra dietro quella di Tamerlano è di Ulughbek, a sinistra ci sono quelle dei figli di Tamerlano, Shah Rukh (il padre di Ulughbek) e Miran Shah. Uscendo sul retro si nota la forma ottogonale del mausoleo, la cui struttura portante è un multiplo di 8 fino ad arrivare ai 64 spicchi della cupola, unico esempio nel mondo musulmano. Nel 1941 l’antropologo Gerasimov aprì le cripte e scoprì che Tamerlano era alto 1,70 m e menomato al braccio e alla gamba e che il nipote morì decapitato.

Un po’ fuori Samarcanda, visitiamo il centro “Meros” Koni Ghil dove si fabbrica artigianalmente la carta utilizzando la corteccia dell’albero di gelso che viene messa in acqua per separare la corteccia; questa viene sfilacciata con un coltello per isolare quella esterna (che verrà usata per la carta scura) dall’interna; questa messa in acqua viene ridotta in poltiglia, poi pestata da un mortaio azionato da una ruota mossa dall’acqua; immersa nell’acqua viene pressata in un telaio e poi asciugata; tramite un’agata vengono eliminate le impurità; nel negozio non troviamo niente di interessante, è tutto troppo grossolano. Proseguimento con la visita alla fabbrica di tappeti Khudjum dove vengono tessuti a mano pregevoli manufatti in seta e lana. Nonostante la varietà di disegni, non sono all’altezza di quelli iraniani e l’unico che mi piace costa 2600 euro (e non è neanche dei più grandi). Le sciarpe di seta che altrove costano 5 euro, qui costano il doppio, grazie a uno sconto del 50%. Capiamo che il negozio non fa per noi. Pranzo nel ristorante New Arbat a Samarcanda. È al di sopra della media: mangiamo frittelle con del formaggio sopra, verdure. La zuppa di zucca arriva con un disegno sopra; il secondo è una scaloppa di pollo con pancetta e contorno. Il dolce è una fetta di strudel con una pallina di gelato fiordilatte (lo eleggo miglior ristorante del viaggio).

Alle 14.30 si parte in pullman per Tashkent e di nuovo la strada, tranne un breve tratto a doppia corsia, è disastrata. Il cambio di gomma e la colonna (che non si può interrompere) dei pullman di studenti di ritorno dai campi di cotone ci fanno accumulare ritardo e arriviamo al Miran Hotel alle 20. La stanza 5127 è ampissima, ma nonostante le 5 stelle, le magagne ci sono. Ad esempio non c’è né una vasca né un piatto doccia. La cena servita in un contesto elegante con orchestrina che suona si rivela nella media: l’antipasto è un miscuglio di polpa di granchio, verdure e maionese che è meglio non mangiare tutta. Il passato di lenticchie è buono, il secondo è un mattone: cotoletta di pollo e formaggio con purè (solo il purè è mangiabile), il dolce è una torta al cioccolato buona. Si chiude con il tè. Le chiacchiere scambiate sono più divertenti dei piatti che assaggiamo.

Sabato 26 settembre 2015: Tashkent/Milano

Sveglia alle 8 con colazione finalmente ricca di scelta (ci sono anche dei dolci come una torta alle carote e un tortino ai frutti secchi. Ho trovato persino le mandorle sottili, allungate e saporite e le noci). Si parte alle 9 e percorriamo la città in autobus. Tashkent è un miscuglio di stili: da una parte i viali alberati alla russa, dall’altra le case di fango, in altre zone nugoli di persone si accalcano dinanzi ai pentoloni di plov. Leggendo la sua storia, essa sembra per tanti versi simile a quella di Samarcanda; di origine antichissima (il primo insediamento detto 1000 alberi di albicocche risale al I-II sec. a.C.), nel VII sec, era un importante crocevia e nel IX sec. venne chiamata Toshkent (città di pietra); distrutta da Gengis Khan, venne ricostruita da Tamerlano (anche se non in modo così splendido come per Samarcanda). Divenne capitale dell’Uzbekistan, succedendo a Samarcanda e, come questa, fu rasa al suolo dal terremoto del 25 aprile 1966. Prima del terremoto un canale divideva la parte antica della città (di stampo uzbeco il cui fulcro è nel bazar Chorsu) da quella moderna (di stampo sovietico il cui fulcro è la piazza Amir Timur Maydoni). La prima visita è al museo di arti applicate ospitato nell’elegante residenza del 1930 di un diplomatico del periodo zarista. Ha decori in stucco (ghanch) e in legno intagliato; all’interno ceramiche e tessuti descrivono i vari stili decorativi dell’Uzbekistan; c’è anche un costoso negozio di articoli da regalo. Il complesso di Khast Imam (il centro religioso è stato oggetto di un restauro radicale ed è stato ultimato nel 2010) con le madrasa di Barak Khan (del 1500; le stanze, un tempo dormitori, ospitano adesso negozi di souvenir) e il museo Moyie Mubarek in cui è conservato il Corano di Osama (Usman), del VII sec., considerato il più antico del mondo; il terzo califfo ha fatto scrivere a Baghdad 6 Corani, di cui 5 sono stati sparsi per il mondo. Questo fu portato a Samarcanda da Tamerlano, a Mosca dai Russi, a Tashkent da Lenin. Il Corano di dimensioni molto grandi si compone di 338 pagine scritte su pelle di cervo. Alcune di queste pagine sono andate perse.

Tramite un gettone di plastica comprato per noi da F, entriamo nella metropolitana di Tashkent che ha 4 linee e 36 fermate: noi saliamo a Bunyodkor e scendiamo a Amir Temur (Tamerlano). La metropolitana, che non si può fotografare perché considerata luogo strategico, è stata costruita nel 1947 e, come la sua sorella maggiore di Mosca, ha stazioni in marmo riccamente decorate e tutte diverse (da non perdere la stazione Kosmonavlar, dove ci sono le statue di Ulughbek e quella di Gagarin, un promemoria qualora dovessimo tornare a Tashkent). In autobus arriviamo alla piazza dell’indipendenza (Mustaqillik Maydoni) con lo scintillante palazzo bianco che ospita il senato; qui si svolgono le parate per festeggiare l’indipendenza; in mezzo ad un parco curatissimo c’è la statua della mamma piangente i propri figli morti durante la seconda guerra mondiale (due portici lignei ai lati della statua riportano su pagine metalliche i nomi dei morti: è un altro modo con cui questo popolo onora i propri morti). Passeggiando arriviamo alla piazza dell’indipendenza dove una mamma porta in braccio il proprio bambino e sopra c’è il mondo con la nazione uzbeca appena nata. Pranzo alle 12.45 al Sim Sim Cafè. L’antipasto è di verdure in umido, il primo è un samsa alla zucca (che sa troppo di cumino, qui ogni cosa sa solo di cumino), poi spiedini di carne mista e dolce dal cuore morbido di cioccolato, l’unica cosa buona è il dolce. Alle 14.30 trasferimento in aeroporto. Il nostro autista di cui non ricordo il nome e che ogni mattina ci accoglieva con buongiorno, ci saluta calorosamente stringendo le nostre mani e baciandoci (mi fa piacere pensare che fino a quando ci saranno persone come lui, questo mondo avrà ancora un senso). Ci occupiamo delle formalità di imbarco e partiamo con volo di linea Uzbekistan Airways per Milano; partenza ore 17:45; arrivo ore 21:40 (durata 6h:55; km 4798). Il volo arriva in orario, ma il controllo passaporti è infinito e arriviamo a prendere i bagagli quando sono stati ormai consegnati tutti.

L’Uzbekistan visto con i miei occhi

È un paese ancora sospeso tra l’eredità sovietica e il desiderio potente di recuperare la propria identità storica precedente; nel corso del nostro viaggio troveremo citata tante volte la parola meros che significa eredità: la incontreremo nel nome del teatro di Samarcanda dove abbiamo ripercorso la storia del paese e le sue usanze tramite la danza e i costumi ricostruiti con una maestria certosina, nel nome del museo di Afrosiab, nel nome della fabbrica di carta di seta. E’ bello pensare che un popolo guarda al proprio futuro non dimenticando il proprio passato, una saggezza orientale, che forse deriva dal credo zoroastriano, che noi occidentali dovremmo acquisire.

L’islam non è una religione che costringe le donne uzbeche a nascondersi dietro un velo e il giorno di festa non è il venerdì, ma la domenica.

E’ il primo paese dove ho visto i denti d’oro: l’oro fuso fa sì che risparmino il costo della ceramica quando si recano dal dentista; il ragionamento non fa una piega, ma io non li trovo per niente avvenenti, forse proverei con l’oro bianco… .

Le donne trovano un segno di bellezza avere le sopracciglia ravvicinate (che differenza con noi che cerchiamo di sfoltirle) e quelle non dotate per natura ricorrono alla matita scura per rendere le sopracciglia più evidenti e allungarle nella parte centrale sopra il naso.

Ricorderò come segno distintivo di questo paese i susani, i tessuti ricamati con cui le donne adornano vestiti e tovaglie, volutamente lasciati incompleti: il filo che pende è il ponte verso le generazioni successive a cui tocca completare l’opera cominciata dai propri predecessori.

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Khiva - Le mura di Ichan Kala



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