La bandiera del vecchio regime

Felicissimi anacronismi d’Ungheria
Scritto da: Kingsize
la bandiera del vecchio regime
Partenza il: 31/05/2015
Ritorno il: 21/06/2015
Viaggiatori: 3
Spesa: 2000 €
Non è vero che la storia sia scritta dai vincitori. La storia viene scritta dalle pietre, dall’acqua che passa e va, dalle foglie che trasalgono alla carezza del vento ma, sospirando, lo assecondano. Le foglie dei quattro tigli che indicano al turista la salita da Ferencesek utcája a Szent István tér sanno tutto della Cella Septichora, la cappella tombale paleocristiana di Pécs: ne hanno visto la scoperta nel 1939 e, nel 2007, il favoloso allestimento patrocinato dall’Unesco. Quando, all’inizio del II secolo, Traiano ingaggiò guerra contro Decebalo per la conquista della Dacia, l’attuale Romania, il Transdanubio era già colonia romana col nome di Pannonia. Sorprendentemente, le vestigia di quell’occupazione sono arrivate a noi, pur dopo un millennio e più di razzie e di distruzioni. Al lato della cappella, dalla peculiare pianta multilobata – una vera curiosità per quel tempo – e poi ancora sotto la cattedrale e i palazzi barocchi che la corteggiano da presso, si estende una necropoli punteggiata dai rilievi delle tombe plebee, da alcuni sarcofagi marmorei e da minuscoli locali decorati: negli affreschi riconosciamo Adamo ed Eva, Daniele coi leoni, Paolo e Pietro e una brocca da vino con tralci e foglie di vite, coltivazione importata dai romani e ripresa alla fine del XVIII secolo dopo la travagliatissima cacciata dei turchi. Sublimando i secoli fino a portarli nel presente, questi rari reperti danno un volto e una fisicità quasi tangibile alla storia. Grazie alla loro essenzialità, le pietre di Sopianae, come i romani la chiamavano, creano un irresistibile punto di studio, un polo di cultura che contagia la peculiare euforia di far parte di un glorioso continuum: vi si tengono conferenze, convegni e manifestazioni. Il genius loci non si smentisce nemmeno in superficie, al di sopra della copertura a vetri a livello stradale: in questi giorni di primavera inoltrata, quando il sole sembra non voler mai smettere di accarezzare le gambe delle ragazze e di far felici i gelatai, ogni sera è l’occasione per un concerto all’aperto per la gioventù del loco. Birra e pizza sul selciato colla città che gira intorno, mentre più in là, in un teatrino di strada, le marionette sono sulle dita, sì, ma si rappresenta Shakespeare con accompagnamento di cembalo e violoncello: siamo in Ungheria, l’impero non è sparito, e la bandiera del vecchio regime virtualmente sventola nell’aria profumata, fa sfoggio di sé nella gentilezza consapevole dei camerieri, rivive nell’eloquenza degli edifici. Si ha l’impressione che qualcosa di straordinario ci attenda dietro ogni angolo. Senza contare, per l’appunto, i tesori sotterrati che attendono di rivedere la luce. A Vác, durante i lavori di riassetto della piazza principale, sono state trovate tombe del ’700 miracolosamente preservate dalle singolari caratteristiche delle cripte, offrendoci un’affascinante prospettiva sugli usi di trecento anni fa.

Pécs, seconda solo a Budapest nelle priorità del turista e capitale europea della cultura nel 2010, sconfessa i pregiudizi culturali, politici e religiosi con la pluralità degli stili architettonici e delle espressioni artistiche, con la vivace vita universitaria e la sua prossimità all’area balcanica, con le sue nove minoranze etniche e con la stratificazione degli insediamenti umani: celti, illiri, romani, cristiani, ávari, slavi e islamici. Basta una giornata per innamorarsi della stimolante eccentricità che vi si respira: la piazza centrale è dominata da una moschea che ospita, sotto le muqarnas, le statue dei santi e le acquasantiere e, nonostante l’origine della cattedrale risalga all’impero romano, sono moderni i compassati affreschi che, compiacendo il tradizionale horror vacui, tappezzano completamente l’ampio interno. Sotto le mura castellane un passeggio costeggia un rosario di aiole fiorite, e su una strada acciottolata, rinfrescata dall’ombra di alberi solitari, s’affacciano esimi musei: la collezione delle intriganti sperimentazioni ottiche tra l’artistico e il trigonometrico di Victor Vasarely sta dirimpetto alla raccolta di ceramiche di Zsolnay. La storica fabbrica è ancora attiva in uno degli edifici del Quartiere culturale Zsolnay, area di mostre, ristoranti ed eventi: il desiderio di creare oggetti sempre più belli è di famiglia, e i risultati, sia artistici che tecnici, risvegliano nel visitatore l’intimo esteta che credeva annientato dalla produzione di massa: la bellezza si rivela nei vividi, indimenticabili colori, nelle metallizzazioni, nelle forme eleganti, nelle iridescenze. Meno sperimentale ma più godibile l’altra fabbrica di ceramiche, la Herend, poco fuori Veszprém. Dopo un video di presentazione a 3D che merita l’Oscar per la fotografia, il processo di creazione di queste preziosità senza tempo viene dettagliato passaggio per passaggio nel corso di una puntuale visita guidata in italiano. E se gli oggetti in vetrina nel piccolo museo e quelli in vendita nel ricchissimo negozio annesso non son bastati per indurre all’acquisto, ci riprova uno stand all’aeroporto: impossibile immaginare un souvenir più caratteristico.

L’alternativa ad un oggetto modellato da chi continua a ricevere commissioni dai regnanti è una bottiglia dell’altrettanto regale Tokaj: “vino dei re, re dei vini”, come si espressero Luigi XIV e Luigi XV. Mio padre, mezzadro nella campagna veneta, coltivava una vigna piantata a Tocaj. Adesso la denominazione, definita nel 1500 e circoscritta nel 1700, è riservata alla produzione di una specifica zona che dall’Ungheria nord-orientale sconfina appena nella Slovacchia – gli altri vini, Tokaj di nomea ma non d’origine, hanno dovuto essere ribattezzati: il francese si chiama ora Pinot Gris, l’italiano Friulano, lo sloveno Sauvignonasse e l’australiano Topaque. Sotto i villaggi della regione si estendono gallerie sotterranee perfette, per temperatura e umidità, per la fermentazione e l’invecchiamento. La recente abolizione del monopolio ha permesso che alle grandi si affiancassero imprese familiari come la Hímesudvar: fratello e sorella hanno ampliato una cantina del ’600 per le 10.000 bottiglie che ottengono dai loro tre ettari. Hárslevelű, Sárga Muskotály, Zéta, Kövérszõlõ e il gentile, slanciato Furmint si centellinano sotto le generose fronde del cortile o nella sala di quello che fu un casino di caccia. Tutta la cittadina è compresa nel suo nobile destino di tramutare l’acqua in vino e lo spirito che aleggia invita al silenzio, alla concentrazione, all’attesa. Non c’è molto altro da fare: un’escursione in battello sul modesto Tisza o, meglio, una passeggiata lungo le sponde erbose a sorprendere una candida egretta, a rubare le ciliegie ormai mature, a invitare l’imbrunire con discorsi spirituali o spiritosi sui massimi sistemi e sui minima moralia. Il culto condiviso dell’immaginario fiume inebriante che indora ogni convivio, l’esaudimento d’un desiderio raffinato, la celebrazione di un miracolo fanno di Tokaj la meta d’un pellegrinaggio raccolto, quasi compunto. Piantona in composto silenzio la Grande Sinagoga, ora centro culturale, un po’ vergognosa della sua stazza tra le casette che sfilano lungo la strada, al di là del latrato di cani lontani.

Ma Tokaj non è l’unica terra promessa. Rincorro una degustazione tra le cantine di Villany, paesotto pasciuto e agghindato distante dalla Croazia solo una decina di chilometri, ma né la Halasi né la Gere la offrono, e la Bock è al momento chiusa. Certo, in questo periodo dell’anno il lavoro lo stanno facendo la terra e il sole. Perfino il museo del vino è in ristrutturazione, così risalgo la lieve, uniforme pendenza delle colline della Baranya, pettinate a filari verdissimi, fino al sancta sanctorum della considerevole azienda Vylyan. L’inglese non viene facile al nostro anfitrione, ma il luogo, l’accoglienza e i vini sono principeschi. Anche i principi della Chiesa non disdegnavano: nel museo della millenaria abbazia di Pannonhalma una porta conduce ai freddi corridoi sotterranei dove nulla del vino viene taciuto e se ne vedono tutti gli arnesi associati, dai ferri del bottaio alle zucche dal lungo collo usate per saggiare la maturazione. Era una soddisfazione brindare coi confratelli in occasione di un déjeuner sur l’herbe col vino del convento. Oppure, come fa un pretino in un’altra foto d’epoca, elegante in abito talare e pince-nez, condividere con amici intenditori una bottiglia e un sigaro: piaceri innocenti che non comportavano tardive quanto assurde scuse pubbliche. Pannonhalma è una roccaforte di religione, di ricchezza, di raziocinio, di rustiche realtà che neanche il risentimento di Stalin verso il clero riuscì a chiudere, e domina scenograficamente dalla cima d’un collinotto la sue vigne e gli ampi appezzamenti nei quali alle colture tradizionali si affiancano quelle sperimentali ed organiche. Dopo tutto, sullo stemma figura, oltre ad un grappolo, un libro: missione di questi monaci è l’insegnamento e in aggiunta al seminario, al ginnasio e al rinomato liceo, le antiche mura ospitano un convitto con un’ampia varietà di attività extracurricolari. Furono benedettini da Venezia e da Praga, invitati dal principe Géza, a fondare nel 996 quello che è diventato il più grande monastero del mondo dopo Montecassino, e proprio con l’aiuto dei benedettini il figlio di Géza, Stefano, convertì al cristianesimo le tribù magiare che da poco avevano lasciato gli Urali per stabilirsi nel bacino dei Carpazi. Per questo Pannonhalma e i territori vicini sono radice della nazione e dell’identità razziale e religiosa dell’Ungheria, che nel 2000 ha celebrato il suo primo millennio. Stefano, capostipite intraprendente, incomparabile e inevitabile, ricorre in ogni luogo storico: incoronato “re cristiano” nel Natale dell’anno 1000, fondò, tra gli altri, il vescovado di Esztergom, per gli italiani Strigonio, ora al confine con la Slovacchia. La basilica, sede del primate d’Ungheria, è la più grande chiesa della nazione e la pala d’altare il più vasto dipinto al mondo eseguito su una singola tela: di Dio, più che la casa, potrebbe essere questo il laboratorio per creare mondi. Agli ungheresi piace ostentare e nulla li trattiene dall’esibire potere, magnificenza e grandezza anche a costo della finezza – questa chiesa è solo la prima di una lista di iperboli sparse per tutto il paese. Questa “Caput, Mater et Magistra Ecclesiarium Hungariae”, come recita l’iscrizione sul fronte, è un po’ San Pietro per il vasto accesso, un po’ Pantheon per la facciata neoclassica, e un po’ tempio egizio per le colonne assiepate della cripta dove, dopo tanti tormenti, al cardinal Mindszenty vengono tributati il rispetto e l’affetto dovuti all’uomo che avversò il fascismo, il comunismo e lo stesso papato per la sua collusione coi regimi.

Silenzio! Ecco, il maestro cerimoniere entra brandendo una mazza con nastri colorati, le note imperiose dell’organo sgombrano la navata dai turisti e la madre accompagna lo sposo in gilè e foulard di seta color ciano giù in fondo, fino alla grande abside sopraelevata, dove tutti gli invitati trovano posto. Mezz’ora e quattrocento gradini dopo, dalla cupola, oltre al Danubio, alla sponda slovacca e alle colline verdi della Transdanubia centrale, vediamo la sposa, in abito bianco e spalle nude, dirigersi cogli amici verso il patio del ristorante. Sarà perché le pietre definiscono lo spazio, sarà perché questo fiume solca l’anima di così tanti popoli, sarà per l’aria già calda da annunciare l’estate e tuttavia ancora brusca come l’inverno passato, ma sembra di vivere una pagina di storia, di quella che si legge nei libri, con noi figuranti, bamboline e soldatini presenti oggi in questo grande plastico per puro caso. Quasi dispiace di non esser chiamati a gesta adeguate all’importanza del contesto, considerata anche la visita appena fatta a Visegrád, dove castello, torre e palazzo reale riportano ad un medioevo, a un’età favoleggiata di dame, paggi e tresche d’amore, di spade, alabarde, scudi ed elmi indossati da irriducibili cavalieri. Ma nel 1241 son passati i mongoli seminando macerie, nel 1544 gli ottomani inflissero ulteriore devastazione e nel 1702 gli Asburgo completarono la distruzione: la cittadella offre lo stesso bellissimo panorama dell’ansa del Danubio ma le pietre a mala pena balbettano della grandezza di cui sono state testimoni. Davanti ai resti della stupenda fontana dei leoni, quella che ingentiliva il giardino del palazzo, si avverte l’accanimento della storia contro le cose preziose, implacabile e cieco come quello del tempo contro la bellezza. Nonostante solo una dozzina di ambienti, degli originari 350, siano stati ricostruiti, la corte d’onore con la Fontana di Ercole è così intima, la stanza da letto così fredda e umida e la cucina, con pane, paioli e spiedi a dimensione di cinghiale, così rustica che l’edificio, più che in rovina, sembra in costruzione.

Di castelli è cosparsa l’Ungheria, residenze in rapporto simbiotico col loro territorio, dal quale dipendevano e le sorti del quale dipendevano dai signori, ma Visegrád – lo si intuisce dalla pianta – doveva essere la Versailles del tardo medioevo, tanto che il legato papale la descrisse come un paradiso terrestre. Un medioevo che ci mostra la sua fisicità, i suoi timori e le sue ambizioni nella Torre di Salomone, un tempo parte della reggia: mura spesse fino a otto metri con due bifore per piano, e all’interno un’elegante fontana gotica. Per suggerire le antiche atmosfere ogni espediente è lecito: nella cittadella, oltre ad una copia di corona, scettro e sfera regali, figure di cera inscenano uno storico incontro tra i politici del tempo davanti ad un banchetto luculliano, mentre nel piccolo castello di Níyrbator, recentemente restaurato, è stata ricreata la ricezione d’un diplomatico in occasione d’un patto segreto là stipulato nel 1549 e, in un’altra sala, il bagno che Elisabetta Báthori faceva nel sangue di ragazze vergini per ringiovanire. Elisabetta aveva ereditato castello e ricchezze dal bisnonno István, compagno d’armi e nefandezze di Vlad l’Impalatore, noto anche come Dracula. Forse le accuse che la portarono al carcere a vita furono solo un espediente per espropriarla dei suoi beni, ma forse no: la leggenda resta. Il maniero più fotogenico, e visibile da tutta la piana di Hernád, si trova a Boldogkováralja e, come tanti altri, fu costruito nel XIII secolo ed ampliato successivamente per poi cadere in rovina nel XVII secolo. Dal corpo principale un camminamento segue uno sperone di basalto che sembra fatto di proposito fino alla torre di guardia, con una vista a 360°. Gli sconnessi cortili interni ben restituiscono la situazione d’un polo di potere periferico la cui funzione era essenzialmente difensiva e d’avvistamento. Rincarano la dose, sotto le capriate del tetto, appassionate ricostruzioni in piccola scala, coi castelli di compensato dipinto, alberi di spugna e soldatini di plastica, delle battaglie decisive per la nazione. Nel forte di Sümeg, invece, seduto su una collina di basalto che sembra stata fatta emergere apposta dalla pianura, s’è inteso coinvolgere in prima persona i visitatori, specialmente i più giovani, con attività nella vasta corte erbosa completa di capretta, cavallo, officina del fabbro e collezione di armi. Sotto la lunga passeggiata del muro di cinta, catapulte, arieti lignei e tende da crociato completano l’ambientazione, e dalla quantità di visitatori è chiaro che il restauro degli anni ’60, dopo 250 anni di abbandono, è stato un’idea felice. E questo pomeriggio alle 6 è in programma un torneo! Ma, vivaci e vissute che siano, in dinamico equilibrio tra storia e attualità, le pietre antiche della fortezza non sono l’imprescindibile di Sümeg: quell’onore spetta alla chiesa dell’Assunzione, la Cappella Sistina del rococò. Se gli affreschi della cattedrale di Pécs sono uno sfoggio sfacciatamente borghese, la mitologia romanzata che s’affaccia dalle cappelle di Sümeg appartiene a gentiluomini e nobildonne aspiranti o già abitanti in un mondo a colori pastello. Maulbertsch, che ci lavorò dal 1757 al 1758, è elegante senza cedere alla leziosità e anzi ricco di approcci originali a soggetti risaputi, delizioso per la scioltezza della resa coloristica, per la sicurezza sopraffina del disegno e per la solida naturalezza delle composizioni. Evidentemente, togliersi dagli occhi le noie quotidiane ed entrare nelle scene d’un altro mondo dove regnano nobiltà, generosità e robuste tradizioni era un piacere qualche secolo fa ancora possibile. Per noi, cinici, è stato un privilegio visitare in perfetta solitudine questo capolavoro démodé. Altri splendori, stavolta di ebanisteria, si trovano nella chiesa di Tihany, piccola da essere la parrocchiale d’un paesino ma in realtà uno scrigno scolpito e dipinto da mani squisite. Dalla sponda del lago Balaton, nel quale la penisola di Tihany si sporge quasi a voler raggiungere la costa meridionale, distante giusto un chilometro, la strada serpeggia su per la collina fino al paese e all’abbazia. Entrati, l’arte ci fa sentire di tre metri più vicini al cielo. Oltre il verde fitto del boschetto che sale dalla sponda, dal belvedere dietro la chiesa il cielo sfuma nell’incanto d’una sera serena sull’acqua immobile. Dietro, il paese pare invece impaziente di stappare un’altra bottiglia per celebrare l’arrivo della bella stagione. Per consolarci di non aver trovato a Balatonfüred la crociera sul lago – peraltro presente dall’altro ieri nel programma della compagnia di navigazione – ci confondiamo tra le famiglie e i vitelloni a bagno lungo una spiaggia libera: la temperatura del mare degli ungheresi è ormai quasi giusta per i lunghi giorni dell’ozio e dello svago estivo.

E se il tratto da Budapest alle foreste che invitano alle camminate e alle vigne che invitano alle bevute è troppo lungo per una gita fuori porta, ad appena un’ora dalla capitale Szentendre, una deliziosa comunità di artisti e artigiani, offre ai forzati dell’asfalto e del cemento il sollievo di stradine acciottolate, di minuscole curiosità storiche e di intriganti collezioni religiose lungo la sponda del Danubio. Il vicino museo etnografico all’aperto, con fattorie, chiese, botteghe e mulini, celebra l’Ungheria del lavoro dei campi, delle case dai tetti di paglia, delle mandrie e delle greggi, delle stoffe tessute dalle donne ai telai casalinghi e ricamate a gai colori. Altrettanto affascinante è il museo Páloc di Balassagyarmat, civitas fortissima: Balassagyarmat la coraggiosa, non solo per aver difeso strenuamente il confine durante un’invasione slovacca, ma anche per la bella di bronzo nella piazza centrale che trafigge il drago con tal veemenza da spaccare in due il piedistallo su cui poggia la statua. Che sorpresa trovare, in un paesotto di campagna, una tale dedizione alle radici: i pannelli, i costumi e gli oggetti danno contezza delle celebrazioni che marcano i momenti salienti “Dalla culla alla tomba”, come recita il titolo dell’esposizione permanente. La visita è guidata e la passione del personale veleggia là dove una conoscenza solo abbozzata dell’inglese annaspa. Ma per vederli indossati, quei costumi, e per partecipare alla festa di primavera, occorrerebbe trovarsi a Hollókő in aprile. In quel paesino di 400 anni e di 400 abitanti, si allineano lungo due strade le case imbiancate a calce, il bar, una stamperia e il museo delle bambole coi costumi di tutto il mondo, tutto sotto la collina su cui le rovine del castello dominano un bel circondario di colture e di foreste. Al bivio, la chiesetta ispira tale semplicità e innocenza da far sembrare indegne attività prosaiche come lavorare e mangiare. Meno forbita e più autentica la dimensione campagnola di Décs, famosa per i tessuti tradizionali, nella Sárköz, altra regione a vocazione agricola dove la fortuna è arrivata con la costruzione degli argini del Danubio e la conseguente fine delle inondazioni. Nel cortile della Casa Artigiana e Regionale il rosso delle rose spicca contro il bianco del porticato colonnato, e quegli stessi colori si ritrovano nei ricami delle fasce e dei corredi, dei materassi e delle tende, nei pannelli del mobilio e nelle ceramiche della cucina. Nulla di quel che vediamo è più nostro, il tempo ci ha tolto tutto e il cuore resta a bocca aperta davanti alle storie che quegli oggetti hanno l’ardire, colle loro voci grezze, di raccontare a noi ormai quasi androidi, a noi che, vittime della straordinaria accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, non riusciamo a salvare il nostro presente dalle fauci del futuro e idealizziamo il passato, adesso che l’entusiasmo del consumo, del nuovo, s’è offuscato. Ci diverte, a Bugac, il finto pastore che intrattiene spiegando in ungherese le tecniche, gli animali, la musica e i rituali dei pecorai della puszta, nascondendo la dentatura malandata dietro un paio di baffoni. Lo scacciapensieri? La cornamusa? Il mantello e il cappello di feltro bianco e nero, l’orgoglio d’una vita incarnata fino alla consistenza della pietra, fino alla sconfinatezza della prateria? Anche nelle nostre regioni c’è chi ne sa qualcosa. Tipiche sono invece le acrobazie dei mandriani magiari che si bilanciano sulla groppa degli ultimi due di cinque cavalli lanciati al galoppo. Era una fantasia in un vecchio film, ripresa fino a diventare una specialità locale. A Hortobágy lo spettacolo è simile, ma succede nel mezzo del nulla. Nella puszta non ci sono luoghi da visitare perché la storia la scrive il cielo sconfinato, l’erba quando cresce fino a nascondere i briganti in fuga, e i segnali dati a distanza con la posizione delle lunghe braccia dei pozzi che pescano un’acqua fossile. Sono divertiti e anche un po’ lusingati i bovari dall’attenzione e dalla curiosità della donna del gruppo, che vuole toccare e sapere perché quei pantaloni siano così larghi da parere gonne. Questione di aerazione, pare. Quando qui fa caldo, non c’è riparo. Deserto, steppa, distese desolate: il mare è lontano.

Lontana dal mare, ma non dall’acqua: vista dagli abitanti della Terra Cava, l’Ungheria è un colabrodo, e intorno a ogni bocca di vapori bollenti è stato costruito uno stabilimento termale, frequentato con gusto dal circondario. Hajdúszoboszló, una ventina di chilometri a sud-ovest di Debrecen, pare una succursale di Rimini: nel più esteso parco acquatico del paese, vacanzieri in slip e due pezzi si abbronzano, nuotano e mangiano, dimentichi del mondo e, talvolta, anche dei bambini, lasciati a spruzzarsi nelle vasche basse. E se il tempo cambia – una probabilità più che una possibilità – mollano i pedalò al molo per festeggiare l’unione di yin e yang – pioggia gelata sul muso, coda a mollo nell’acqua bollente. C’è da perdersi tra le tante piscine, ciascuna a temperatura e profondità diversa, ma è più divertente perdersi a Miskolctapolca, nei meandri d’un’incredibile sorgente termale letteralmente scavata nella roccia: un incontro di elementi primigenii – acqua, terra e fuoco – da mettere in serio imbarazzo il più navigato degli esperti di Feng Shui. Per noi profani, un’occasione singolare per un’incursione nelle spire d’un serpentone d’acqua che si divincola nelle viscere della terra, illuminato da luci psichedeliche – la miglior trovata che Disney non ha mai fatto. Hévíz, poco lontano da Keszthely e dal Balaton, è forse la più naturale delle spa: la sorgente sotterranea ha formato un lago, buono per le ninfee che lo decorano e per la cura dei fanghi. Giocare a imbrattarsi non è mai stato così salutare.

Dettaglio dopo dettaglio, si diventa consapevoli che sono state le invasioni, le liberazioni, le rioccupazioni, le devastazioni e le rinascite che si son succedute lungo duemila anni a produrre questa cultura unica, duemila anni testimoniati dai bronzetti votivi romani nel museo della contea intitolato a Mír Wosinszky a Szekszárd, la Alisca che i romani fondarono per profittare del buon grano e dell’ottimo vino rosso – il kadarka – di questo suolo generoso. Tra le giare di terracotta, i grandi mestoli di faggio e le ceramiche invetriate per le stufe, quegli dèi e quegli eroi sembrano incredibilmente esotici, altrettanto estranei a quella solida base contadina delle sciabole e delle pistole ottomane. Una cartina dell’Europa traccia le migrazioni dei Goti, degli Alani, dei Gepidi, degli Ávari, degli Unni, dei Longobardi, dei Vandali. Tra qualche anno, in qualche museo, un’altra cartina marcherà i percorsi dei Curdi, dei Tunisini, dei Cingalesi e dei Marocchini nel nostro continente – la storia si ripete, e stavolta sotto i nostri occhi. Certo, alcune cose ce le siamo perse strada facendo: il piccolo mammuth che occupa la corte del Museo dei Mátra a Gyöngyös, ad esempio, e le balestre, i fucili e i corni per cacciare gli orsi e i cinghiali di quei monti, ma ci restano tutti gli animali rappresentati nei diorami del Padiglione di Storia Naturale di quel pluripremiato museo, delizia per grandi e piccini. Anche Eger, solare e dotta, vuol stupire il visitatore e lo fa con la monumentale Basilica, progettata dallo stesso architetto della cattedrale di Esztergom, con il Castello, con la Chiesa dei Minoriti, capolavoro barocco, colle statue di Piazza Dobó, che commemorano la vittoria sui turchi del 1552, e col loro minareto, che resta ad indicare quanto a nord gli Ottomani si fossero spinti. Per non parlare del Liceo, una biblioteca con manoscritti e codici preziosi sotto uno sbalorditivo, divertentissimo soffitto affrescato a trompe-l’oeil dove, sotto i costoloni d’un gotico fiorito a metà tra Saenredam e Disney, porporati e notabili assistono – alcuni alquanto distratti, a dire il vero – ad un’arringa durante il Concilio di Trento – quello che inaugurò la Controriforma – mentre il fulmine divino colpisce i testi eretici di Calvino e di Zwingli. Al sesto piano c’è il Museo Astronomico, dove si assiste a curiosi esperimenti di statica e di elettricità, e in cima alla Torre Magica, grazie ad una camera oscura del 1776, si può spiare quel che succede nei paraggi. E nei paraggi gente del luogo e turisti circolano tra sontuosi palazzi barocchi in un’atmosfera positiva e rilassata, godendosi il sole, le strade pedonali, la pulizia e il nitore d’un luogo che, evidentemente, è amato da chi lo abita e ne restituisce l’amabilità. Piazze e strade si intersecano e si confondono qui, come a Kecskemét, come a Győr, veri e propri salotti cittadini che invitano, accolgono, seducono. Nessuna istanza è negata, nessun’arte trascurata: il Museo dell’artigianato di Kecskemét è una fioritura di grazia e di ingegno, e ancor più importante è che i manufatti in mostra siano recenti: l’ancestrale abilità sopravvive nelle sapienti mani di qualche bottega, una manualità che, al di là della valenza pratica, costituisce una resistenza politica all’eccesso di smaterializzazione imposto dall’avvento del digitale, permettendo di misurarsi col passato traendone vitalità, pensieri nuovi e nuove forme. Il Museo degli Artisti Naïf prova che tutti condividiamo una vena artistica più o meno sotterranea, quell’estro che salva dalla bovina conformità, rimedio contro la stupidità, la malattia, la follia, quello slancio che trasforma la materia portandola in alto, al livello dello spirito. Perfino i pendolini della puszta, a modo loro, partecipano, tessendo il loro ingegnoso nido a pera coi riccioli di lana strappati alle pecore dai rovi. E così, dall’umile base feudale, commemorata nelle scure statue delle solide, silenziose donne al pozzo a Hortobágy, icone d’un’Ungheria agreste, emergono città di marmo e pietra, nobili e distaccate, come Debrecen, la capitale dell’est, raccolta e ricca, che cerca di mitigare, senza peraltro riuscirci, lo storico conservativismo con i ghirigori di qualche portale déco e i neon colorati di qualche astruseria moderna nei bar. La Grande Chiesa protestante domina lo spazio della vasta piazza centrale, che si insinua curiosamente a imbuto nella città con un lungo viale alberato, definito da palazzi di teutonica serietà e di inflessioni medievali che non sarebbero fuori luogo a Praga, a Vienna o in Baviera. L’ampiezza della vicina sinagoga, affrescata a vivaci geometrie, rivela l’importanza della cospicua comunità ebrea, che ci si immagina raccolta ad occupare i banchi di noce scuro. I muri della sinagoga di Nyíregyháza, anch’essa vasta e piacevolmente dipinta a colori pastello, tacciono vicende avvincenti: saghe familiari di avventurose peregrinazioni accennate da una giovane giusto di ritorno dagli Stati Uniti. Le persone sono forse scomparse, ma le storie rimangono nella memoria, nei segni che hanno lasciato.

E senza distinzione di classe: anche i ricchi possono essere strumenti del bene e oggetto di devozione. All’estremità occidentale del Balaton, la famiglia Festetics ha lasciato a Keszthely, frizzante cittadina universitaria e piacevole destinazione estiva, una impeccabile reggia settecentesca con saloni dorati, una famosa biblioteca in quercia che ospita 100.000 volumi antichi e la prima Scuola d’Agronomia europea. Nobiltà di campagna, appassionata di cavalli e carrozze – un bel museo ne conserva di tutte le fogge – ma tutto sommato appagata dai velluti e dai cristalli. Non così Sissi, che occupò il palazzo reale di Gödöllő, anch’esso del ’700, restaurato con attenzione maniacale allo stato in cui si trovava ai tempi di Francesco Giuseppe. Certo per sfuggire alla vita di corte – che non faceva per lei, educata alla libertà –, per evitare la dispotica suocera (definita “l’unico uomo nel palazzo imperiale” in forza alle sue maniere autoritarie) che le aveva sottratto le figlie e, più tardi, per dimenticare la morte tragica del figlio, Sissi viaggiò molto, coltivando una passione per l’Ungheria, amore pienamente corrisposto: Gödöllő è un gioiello di cui lei è la perla che, dando lustro al paese, amplifica la portata del vecchio regime sul presente e aggiunge una nota romantica alla serissima galleria degli ungheresi famosi: Liszt (quello delle rapsodie), Moholy-Nagy (quello del Bauhaus), Bíró (quello della penna), Rubik (quello del cubo), ingentilendo la natura essenzialmente logica e scientifica del genio ungherese, che vanta il maggior numero di Premi Nobel per capite al mondo.

A Miskolc, a prendere con noi il trenino a scartamento ridotto che traversa la foresta di faggi di Bükk per arrivare alla stazione montana di Lillafüred, c’è una coppia di sposi, diretti al ricevimento nello storico albergo Palota, un castello neorinascimentale sulla sponda del Lago della Fonderia, un luogo magico con giardini pensili fioriti, una cascata e grotte naturali, immerso in un verde, ultraterreno silenzio. L’aria è pura, le pietre emanano un sentore di storia e di arte, di segreta sapienza, e la costruzione è enorme, all’antica ed elegante. Nel mezzo del nulla, ci si ritrova di nuovo faccia a faccia con l’impero. Quello romano prima, poi l’ottomano e infine quello austro-ungarico: si può togliere l’impero agli ungheresi, ma non gli ungheresi dall’impero. Ecco quindi lo scenario: nell’Europa centrale – non affannata in una corsa di inciampi e di incidenti come l’Europa occidentale, né accidiosa in torbide aspirazioni zariste come quella orientale – c’è un paese che, circondato da stranieri com’è – tutti i vicini: slovacchi, ucraini, rumeni, serbi, croati e sloveni sono slavi – lotta da mille anni con le unghie e con i denti per restare quel che è. Un paese che, ridotto ai minimi termini economicamente e militarmente dal Trattato di Trianon dopo la sconfitta della I Guerra Mondiale, avendo perduto il 75% del proprio territorio e il 33% della propria popolazione, difende come può la propria identità a costo di erigere mura per arginare le correnti della storia. Un paese che invita a scoprire in cosa credessero Garibaldi, Mazzini e gli altri padri della Patria, dove s’avverte l’orgoglio dell’integrità, virtù che abbiamo irrimediabilmente perduto, e dove ritrovare il valore dell’identità, che abbiamo svenduto tempo fa per un hamburger e una lattina di Coca Cola. “Il mondo è stato abbandonato nelle mani degli uomini”, scrisse Graham Greene. Basta andare in Ungheria per scoprire di quali miracoli son capaci gli uomini che amano il proprio paese.



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