Assaggi d’Umbria

Mangiando s’impara: tutto il buono di olio, vino e insaccati nel cuore verde d’Italia
Patrizio Roversi, 30 Giu 2016
assaggi d’umbria
Il cibo ultimamente è diventato molto di moda: i giornali hanno invariabilmente un inserto dedicato all’enogastronomia, le fiere dedicate ai prodotti tipici non si contano e le televisioni traboccano di padelle e pignatte. Alla fine non si può dire che per questo la qualità dei ristoranti italiani sia eccelsa. Eppure, nonostante tutto questo spignattare un po’ esagerato, nonostante qualche chef che se la tira un po’ troppo (ma ce ne sono anche molti geniali), il fenomeno del cibo merita tutto il nostro rispetto (nostro nel senso di noi turisti). Innanzitutto va chiarito che il cibo è l’ultimo anello di una catena produttiva, di una storia che inizia in campagna, sulla terra. Il cibo non è altro che la cerniera fra agricoltura e turismo, tra produzione e consumo. E il nesso fra turismo e agricoltura, questa “alleanza” in nome del territorio, mette in fila contadini, ambientalisti, ristoratori, albergatori, organizzatori di eventi e turisti, e rappresenta forse la nostra ultima risorsa economico-produttiva positiva. E alla fine si può dire che il turismo enogastronomico sia un’ottima idea e rappresenta davvero un’occasione per conoscere un luogo: ultimamente noi turisti-per-cibo o golosi-per-caso siamo sempre più numerosi.

Il territorio

La ragione è semplice. A un turista interessa conoscere un territorio e un prodotto tipico, per sua natura, è legato a un territorio. Non a caso si parla di DOC e IGP, cioè prodotti a denominazione di origine controllata e identificazione geografica protetta. La prima regola dei disciplinari secondo cui sono preparati i vari prodotti d’eccellenza è sempre quella di chiarire a quale territorio sono strettamente legati. E il legame non è soltanto puramente geografico (legato cioè all’aria che stagiona un prosciutto o al foraggio che nutre un animale) ma deve essere anche storico, legato a una sapienza locale, a una tradizione. Quindi il cibo è storia e geografia. Ma non basta: lo abbiamo ripetuto più volte, sono gli agricoltori i primi responsabili (nel bene e nel male) del paesaggio. Quindi il cibo diventa automaticamente anche ambiente, racconta stili di vita. Dopodiché è chiaro che non ci si mette in viaggio solo per mangiare: se si visita un luogo si può approfittare anche dei suoi musei, delle gallerie d’arte o dell’artigia nato. In provincia di Modena – solo per fare un esempio – accanto ai luoghi sacri all’aceto balsamico tradizionale o al cotechino e al lambrusco, c’è anche la tomba di Pavarotti, c’è un Museo etnografico dedicato alle Terremare o il Museo Ferrari. In questo senso il prodotto tipico diventa un filo conduttore per visitare un luogo. Quindi il cibo è comunicazione, è immagine, è il legame fra passato e presente. E accontenta la nostra voglia di esperienza.

I SALUMI DI NORCIA

Come esempio di itinerario eno-gastronomico potrei citarvi un viaggio che ho fatto recentemente in Umbria, sulle tracce dei suoi prodotti d’eccellenza. Io sono stato nella zona di Norcia, e la prima cosa che balza all’occhio appena si varca una delle porte di questo borgo (che è tra i più belli d’Italia e quindi del mondo) è la quantità esagerata di salumerie, che vendono salame norcino, salsiccia di prosciutto, corallina (un salame pasquale), coglioni di mulo e palle del nonno (cioè salumi a forma sferica), salame al tartufo, lonzino e coppiette (cioè sfilacci di carne suina salata). E soprattutto si vende il famoso prosciutto di Norcia IGP, che è molto buono: leggermente più secco e meno umido di un Parma e anche più sapido. Ecco, partiamo dal prosciutto e chiediamoci se c’è un nesso non solo linguistico fra la parola norcino e Norcia. Il nesso c’è, eccome. Trasformare la carne di maiale con grande perizia è una abilità specifica dei nursini, cioè degli abitanti di Norcia, e non è affatto un caso. Lo dice la storia. Qui vicino infatti, a Preci, già nel 1200 c’era una scuola per chirurghi. E poco lontano, nell’Abbazia di Sant’Eutizio, i frati insegnavano l’arte medica. Morale: non tutti imparavano e diventavano dottori o cerusici, ma quelli meno bravi erano comunque ottimi macellai…

AFFRESCHI & MAIALI

A questo punto non resta che osservare il territorio circostante: siamo tra l’Altopiano di Santa Scolastica e i Monti Sibillini, ancora coperti di macchia e di bosco, e in passato lo erano ancora di più. Questo contesto era (e in parte è ancora, o potrebbe tornare ad essere) favorevole all’allevamento di maiali che mangiavano ghiande e bacche, allo stato semi-brado. A questo proposito c’è un progetto per recuperare una razza autoctona quasi estinta di maiali. Tutto è cominciato da un professore (Luciano Giacché) che, osservando degli affreschi sparsi per le Chiese dell’Umbria e in particolare della Val Nerina, risalenti al 1400-1500, ha notato la presenza ricorrente di una certa specie di maialini: il suino nero cinghiato, detto cinturello, una sorta di parente della più famosa cinta senese. Ora si è avviato il progetto di recupero di questa razza, che pare abbia caratteristiche ottime dal punto di vista nutrizionale (la carne avrebbe meno acidi grassi saturi e più acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, cioè in pratica fa meno male). Ma torniamo al prosciutto IGP. Oggi se ne producono 400 mila, per un totale di 200 mila maiali, che naturalmente – progetti di recupero a parte – vengono da fuori e appartengono alle classiche razze naturalizzate italiane (Large White, Duroc, Landrace). Ma la tecnica di lavorazione è quella dei norcini locali (prevede doppia salatura) e soprattutto c’è l’aria secca dei Monti Sibillini a stagionare un prodotto che si può fare solo nei comuni di Norcia, Preci, Cascia, Monteleone e Poggiodomo. Ed ecco che allora gastronomia fa rima appunto con storia, arte e geografia.

L’OLIO FIGLIO DEL VENTO

L’olio DOP Umbria è l’unico che occupi il territorio di un’intera regione, salvo suddividersi in cinque sottozone, ognuna con sue sotto-caratteristiche speciali: Colli di Assisi e Spoleto, Colli Martani (cioè Todi e Montefalco), Colli Amerini (Terni), Colli del Trasimeno, Colli Orvietani. Ricorre il termine “colli”, e non è un caso: qui le olive si producono soprattutto a un’altezza media di 300-600 metri, su colline assolate, dal terreno aspro e “scheletrico” (cioè con sassi sparsi) ed esposte al vento, quindi senza l’umidità che potrebbe favorire i parassiti. Non a caso qui è più possibile produrre con metodi biologici, perché la mosca delle olive (che ha falcidiato i raccolti di mezza Italia l’anno passato) fa meno paura. Da una determinata varietà dominante di ulivi (il Moraiolo) viene fuori un olio piccante e vagamente amaro, pregiatissimo. All’estero si vende anche a più di 30 euro al litro. In Umbria si producono in media 8 milioni di litri di olio, che per il 60% va all’autoconsumo degli umbri stessi. E solo il 10% di tutto quest’olio è certificato Umbro IGP, cioè fatto per il 60% con olive Moraiolo, 30% Leccino o Frantoio e il restante 10% con olive diverse, varie ed eventuali. Il disciplinare della DOP è rigido: brucatura (cioè raccolta) a mano, olive lavorate subito dopo la raccolta. Tra le altre cose quest’olio pare abbia una grande concentrazione di polifenoli, che significa che fa bene (sono antiossidanti, contrastano l’invecchiamento) e dura anche di più. Ma la cosa più interessante è che gli umbri hanno trovato il modo di rendere il proprio olio una chiave di lettura dell’intera regione, un pretesto per assaggiare il territorio, per inserirsi nella comprensione della sua produzione e tradizione agricola. Hanno inventato le Vie dell’Olio e Frantoi aperti, una manifestazione che coinvolge appunto 23 aziende agricole, 24 frantoi, 27 strutture ricettive. In pratica a novembre i turisti possono andare a raccogliere le olive, possono assistere alla molitura delle olive e alla preparazione dell’olio, possono fare assaggi e acquisti. L’anno scorso sono arrivati 100.000 visitatori. Poi naturalmente uno, già che si trova in zona, visita i Borghi, fa passeggiate, conosce l’artigianato etc. Insomma, fa la famosa “esperienza”, che è l’esatto opposto della vacanza passiva e noiosa.

LA VIGNA DELLE MONACHE

Ma in Umbria non si mangia solo bruschetta con l’olio, naturalmente c’è anche il vino. Di strade del vino in Umbria, come in altre regioni, ce n’è parecchie. Ma quella che funziona di più è quella del Sagrantino, e forse non è un caso. Il Sagrantino unisce appunto un prodotto ottimo e assolutamente unico a una storia e soprattutto a un meraviglioso paesaggio (geografico e artistico). La mia personale “strada del Sagrantino” è cominciata dentro all’orto del Monastero Agostiniano di Santa Chiara, nel centro storico di Montefalco. Qui è conservata una vigna di Sagrantino vecchia di almeno 160 anni. Chi se ne intende almeno un pochino di viti e di vini, sa che alla fine dell’800 in Europa è arrivata la fillossera, una malattia che ha raso al suolo tutti i vigneti. La nostra tradizione vitivinicola è ripartita grazie a vitigni americani, sul quale innestare i nostri. Quindi la vite del Convento è un raro caso di sopravvivenza di vitigno “a piede franco”, cioè non innestato: evidentemente, isolata com’era, non si è ammalata, e la coltivazione del Sagrantino è ripartita da lì, cioè dalle marze che sono state riprodotte e poi ripiantate nella zona. Già che ci siete potete anche chiedere di vistare l’interno del Monastero, dove c’è un dipinto che pare sia di Giotto. E poi non perdete, a Montefalco, i dipinti di Benozzo Gozzoli, un pittore nato dalle parti di Firenze nel 1420: nella Pieve di San Fortunato o nel Complesso Museale di San Francesco ci sono alcuni suoi dipinti, commissionati da Fra Jacopo da Montefalco, che documentano e raffigurano il paesaggio agricolo dell’epoca e autorizzano a pensare che le vigne di Sagrantino fossero coltivate qui fin da quei tempi.

IL VINO… RELIGIOSO?

Qualcuno dice che questo vitigno è autoctono, cioè nato e selezionato qui. Altri credono alla storia (leggendaria o forse no) che siano stati alcuni frati francescani a importarlo dal Medioriente, per farne un vino dedicato ai riti religiosi (da cui il nome). Fatto sta che il vino Sagrantino (in purezza) si produce soltanto in una zona identitaria di circa 700 ettari tra Montefalco, Bevagna, Gualdo, Giano e Castel Ritaldi, dove il terreno è argilloso (vedi anche le ceramiche di Deruta, che non a caso si producono in zona) e soprattutto c’è vento (che asciuga la vite e le impedisce di ammalarsi) e dove il clima è piuttosto mite, visto che c’è il riparo dei monti circostanti. E questo è importante perché l’uva del Sagrantino è tardiva, cioè matura a novembre inoltrato, e se venissero delle gelate addio vendemmia. Negli anni 60 il Sagrantino sembrava quasi scomparso, perché è un vino difficile, ruvido, che quando è giovane ha un gusto un po’ selvaggio. Questo perché l’uva ha una buccia molto spessa, ricchissima di tannino, e quindi di antociani e di polifenoli (tutta roba che fa benissimo, sono anche loro antiossidanti che conservano il vino e anche chi lo beve, però è roba tosta). Poi gli enologi hanno trovato il modo di ammansirlo, soprattutto invecchiandolo nelle botti per almeno quattro o cinque anni e il Sagrantino è esploso: nel 1979 ha conquistato la DOC e 1992 addirittura la DOCG (denominazione di origine controllata e garantita). è diventato di moda e quindi si esporta benissimo. Gli esperti dicono che, bevendo il Sagrantino, si sente aroma di spezie, pepe nero, lavanda e fiori secchi. Io posso dirvi che è profumatissimo, ha un colore rosso strepitoso e dopo mezzo bicchiere vi stronca, perché è molto alcolico.

IL VITELLONE IGP

Ammetto che io ho un debole per… i bovini. Se passo vicino a una stalla, ne sono irrimediabilmente attratto. Ma qui in Umbria, ne ho ben donde! Qui è zona del Vitellone Bianco dell’Appenino Centrale IGP, mica bruscolini (infatti si tratta di grossi manzi, fra i 12 e i 24 mesi, rigorosamente di razza marchigiana, romagnola ma soprattutto chianina). È la classica carne da bistecca fiorentina. L’allevamento è regolato ancora una volta da un disciplinare ben preciso: svezzamento completo solo col latte materno, dopodiché alimentazione solo con essenze locali, prodotte dalle singole aziende. Per duemila anni la Chianina è stata allevata appunto in Val di Chiana e nella Valle del Tevere e ora invece si è adattata perfettamente anche ai territori di Arezzo, Siena, Pisa, Perugia, Rieti. In Umbria, in più, è stata lanciata un’allenza “di filiera” tra allevatori e ristoratori: il turista eno-gastronomo trova sulla porta di una serie di ristoranti il bollino che gli garantisce che la carne che viene servita è tracciata e selezionata: puro vitellone DOC, con 603 allevamenti collegati a 79 macellerie e a tutta una serie di ristoranti. In Umbria non ho trovato solo questi prodotti, gli esempi sono tanti. A parte i tartufi (sempre a Norcia), c’è l’esempio di Castelluccio, un luogo magico e unico, una piana che in primavera diventa di tutti i colori, d’estate sembra un deserto mongolo e d’inverno un ghiacciaio alpino, famosa per le sue lenticchie. E dopo la raccolta delle lenticchie la terra diventa collettiva e ci pascolano le greggi di pecore.

QUESTIONE DI EQUILIBRIO

Ma il fatto è che questa alleanza fra turismo e agricoltura, oltre che far bene al turismo e dare ossigeno all’agricoltura, ha in un certo senso modificato l’agricoltura stessa. In questo modo infatti le aziende agricole sono cambiate: hanno scoperto altre attività collaterali (tipo marmellate di uva di Sagrantino oppure cosmetici con l’olio d’oliva), hanno sviluppato l’accoglienza (agriturismi) e sono diventate aziende multifunzionali. Soprattutto i contadini hanno scoperto la comunicazione, hanno cominciato a “narrarsi”. Non a caso il PSR (piano di sviluppo rurale, con fondi europei e regionali) finanzia con contributi a fondo perduto, che arrivano anche al 40% della spesa, delle strutture tipo sale degustazione, sia in cantine che in frantoi. In questo modo l’agricoltura diventa protagonista, vengono recuperate zone marginali, cresce l’occupazione e aumenta la vivacità sociale di paesi che rischiavano l’abbandono. Non è un caso che tutto questo avvenga in Umbria. Già nel 1990 il New York Times segnalava Todi come la città più vivibile del mondo, secondo uno studio dell’Università del Kentuky. E la motivazione era proprio “per l’equilibrio tra agricoltura, arte, cultura, alimentazione”. Ed è questo ciò che ricerchiamo anche noi turisti. Ed è questo che emerge se il filo del nostro viaggio diventa il cibo, dalla terra alla tavola.