Amudat, uganda

LUNEDI 31 GENNAIO 2000: CLUB MED UMANITARIO E ARRIVO A AMUDAT Eccomi qua, a Amudat, in Uganda, a nord del Monte Elgon, vicino alla frontiera con il Kenya. Arrivato a Nairobi la sera dell?otto gennaio, sono stato accolto all?aeroporto da un autista con una vecchia auto scassa e portato alla ?guest-house? di MSF-Switzerland. E cosi mi sono...
Scritto da: Roberto De la tour
amudat, uganda
Partenza il: 08/01/2000
Ritorno il: 18/04/2000
LUNEDI 31 GENNAIO 2000: CLUB MED UMANITARIO E ARRIVO A AMUDAT Eccomi qua, a Amudat, in Uganda, a nord del Monte Elgon, vicino alla frontiera con il Kenya. Arrivato a Nairobi la sera dell?otto gennaio, sono stato accolto all?aeroporto da un autista con una vecchia auto scassa e portato alla ?guest-house? di MSF-Switzerland. E cosi mi sono installato in una simpatica casetta di due piani con un frigo pieno di pane in cassetta, uova e maionese. Indovinate cosa ho mangiato, visto che ero lì da solo, lontano dal centro, e che mi era stato consigliato di non uscire per ragioni di sicurezza? Lunedì mattina lo stesso autista è venuto a prendermi, e mi ha portato a un piccolo aeroporto, dove ho fatto il check-in in un capannone e poi sono salito su un aereo con sedici posti, diretto a nord-est. Il paesaggio sotto di me si fa sempre più brullo, la regione sembra disabitata, si vede una strada in terra e qualche villaggio. Atterriamo su una pista dove ci sono vari aerei ormeggiati, inclusi alcuni quadrimotori C-130 col simbolo delle Nazioni Unite, ma praticamente nessun edificio aeroportuale.

E così inizia la mia settimana a Lokichoggo, al confine con il Sudan. In una regione quasi disabitata, si è stabilito il centro organizzativo del PLS, Project Lifeline Sudan, dove le Nazioni Unite, l?Alto Commissariato per i Rifugiati, la Croce Rossa, Medici Senza Frontiere, e chi più ne ha più ne metta, si sono messe insieme per organizzare degli aiuti al Sud-Sudan, disastrato da guerra civile e carestia, senza passare per il governo centrale di Karthoum. In una regione arida di savana arbustiva, spazzata da un vento caldo e secco che solleva all?infinito una polvere rossastra, c?è quindi un grande ?campo? con case, uffici, tende, bar, ristoranti, una piscina, camion e jeep che vanno e vengono. Il tutto è circondato da filo spinato, e dei guardiani pretendono di vedere una tessera prima di lasciarti passare. La maggioranza delle costruzioni sono coperte da un tetto conico in paglia, credendo forse di integrarsi alla cultura locale, ma il tutto fa un po? pensare, soprattutto dalla parte dei ?club?, cioè dei bar-ristoranti, a un Club Méditerranée vecchia maniera. I numerosi piloti si notano per il loro atteggiamento un po? macho, e sono i più animati al bar. Intorno al campo si è creata una vera e propria cittadina, o piuttosto una baraccopoli, con numerosi Turkana, l?etnia della zona, che, vestiti e ingioiellati alla maniera tradizionale, sperano di raccattare qualche briciola di questo sforzo umanitario internazionale. Ho passato una settimana a imparare in un piccolo laboratorio polveroso come diagnosticare la Leishmaniosi, e ho avuto la mia dose di emozioni e delusioni. L?emozione l?ho subita quando, tornando dal ristorante al campo di MSF dove alloggiavo, ho visto in lontananza quello che dapprima credevo essere il fumo di un fuoco, poi della sabbia sollevata dal vento, e infine ho visto quello che era veramente: una piccola tromba d?aria, che si avvicinava velocemente. Che fare? Scappare? Si, ma dove? Restare fermo immobile? E quella, imperterrita che mi si avvicinava sempre più velocemente! Stavo per buttarmi a terra, quando lei arriva sul tetto del magazzino di MSF e quello, vum! Niente più tetto. Il tutto a venti metri da me. Sul che si è esaurita. Il tetto era di plastica e paglia, quindi forse il pericolo non era poi tanto grande, ma mi sono preso un bello spavento lo stesso. La delusione, invece, è stata quando un funzionario del WFP (World Food Programme) mi suggerisce di andare a fare un giro sugli Hercules che paracadutano cibo sul Sudan, pare che basti chiederlo il giorno prima. Eccitatissimo all?idea, quasi non ho dormito, e ecco che per motivi non chiari non si è potuto fare. Peccato.

Dopo una settimana in quel bel posto, torno a Nairobi, e da lì parto per Kampala. Un autista mi viene a prendere a Entebbe, uscendo dall?aeroporto si vede la carcassa che arrugginisce del famoso Boeing della Air France dirottato, e dopo una quarantina di chilometri di strada lungo il lago Vittoria eccoci a Kampala, circondata da verdi colline. Alla Guest House di MSF sono stato accolto molto meglio che a Nairobi e portato a rifocillarmi in un ottimo ristorante etiope da Lisa, Svizzera, e Rudiger, tedesco, tutt?e due molto simpatici. Il giorno dopo non ho avuto un attimo di tregua: dopo due ore di briefing con Regina, la capomissione, ho scorrazzato tutta la città alla disperata ricerca di materiale da laboratorio mancante. La sera, invitati a pranzo da Regina, ho potuto assaggiare l?ottimo pesce del lago Vittoria. Il giorno seguente, un martedì, partenza per Amudat, la mia destinazione. L?autista mi accompagna di nuovo a Entebbe, dove non solo pesano il bagaglio, ma anche il sottoscritto, visto che devo volare con un aeroplanino della MAF, la Missionary Air Force. L?unico altro passeggero è un medico Italiano, che fa parte del viaggio con me. Finalmente ci accompagnano all?aereo, un minuscolo Cessna monomotore, dove il pilota ci accoglie, e mi fa sedere davanti, vicino a lui. Dopo alcune istruzioni sulla sicurezza, si mette a pregare. Poi si parte, e è molto interessante volare bassi, e poter seguire sulla carta tutto il percorso. Abbiamo attraversato un temporale, gli scrosci d?acqua si abbattevano sul parabrezza, e alla mia destra un fulmine ha saettato veloce verso terra. Traversiamo vaste paludi, poi il paesaggio si fa sempre più secco e ci apprestiamo ad atterrare a Matany, destinazione del mio compagno di viaggio, un ospedale missionario Italiano che avevo visitato nel ?98. Non c?è aeroporto, ma solo una ?airstrip?, cioè una pista in terra battuta. Il pilota fa un giro affinché i bambini sgomberino e per accertarsi che non ci siano vacche o capre, poi atterra, tra le acclamazioni di una folla urlane e ridente. Scendo a sgranchirmi le gambe, e vengo avvicinato da un ragazzino che parla inglese, accompagnato da un adulto che non lo parla, ma vestito in maniera tradizionale, e sembra voglia vendermi un uovo di struzzo. Io ovviamente accetto, già cerco di immaginare come cucinarlo, ma quello deve tornare al villaggio a prenderlo, e il pilota mi dice che non c?è tempo. Ripartiamo, ottengo il permesso di aprire il finestrino per fare delle foto (non è una buona idea) e arriviamo all?aeroporto di Amudat, cioè un?altra striscia di terra in mezzo alla sterpaglia, questa volta priva di bambini e di bestiame, ma con un a jeep di MSF ad aspettarmi.

A prendermi è venuta Muriel, dottoressa Ginevrina, e vengo accompagnato al ?compound?, cioè il luogo dove vivrò i prossimi tre mesi. Una grande spianata in terra con qualche fico d?india, circondata da cinque casette: una ha la cucina e il salotto-sala da pranzo, un?altra contiene i servizi igienici e la doccia, le altre tre sono le camere da letto. Per me, però, non c?è posto, e in attesa che la mia reggia venga costruita, mi viene mostrata un?immensa tenda bianca, sotto la quale c?è un letto, un tavolo, una sedia, e un mobile a scaffali. Sul tavolo, una lampada a petrolio. La corrente elettrica c?è in salotto e in cucina, sotto forma di un sistema a pannelli solari e c?è anche un generatore, che viene acceso di sera per caricare le batterie dei computer e permettere al telefono satellitare di funzionare. In teoria abbiamo l?acqua corrente, ma c?è solo quando il vento è sufficiente ad aspirare con un mulino l?acqua dal pozzo artesiano; normalmente usiamo delle cisterne e delle brocche. Per fare la doccia, bisogna riempire un cesto di gomma con attaccato il pomolo e tirare il tutto su con una carrucola. Funziona molto bene, e se lo riempiamo con l?acqua di un serbatoio di plastica nero rimasto al sole tutto il giorno, abbiamo anche la doccia calda. A prendersi cura di noi ci sono Magdalena e Cecilia, che ci preparano da mangiare, fanno le pulizie, lavano e stirano. Cecilia è molto bellina e molto incinta. Adesso che sto scrivendo, sento un grande rumore di acqua e fuoco; è Cecilia che immerge un ferro da stiro pieno di carboni ardenti dentro una bacinella d?acqua per raffreddarlo. Dal punto di vista culinario, non è il massimo. Da un lato, le ragazze non sono ne Excoffier ne Gualtiero Marchesi; dall?altro c?è una grave mancanza di ingredienti. Abbiamo della farina di granoturco bianco, del riso, dei fagioli, pochi pomodori, delle foglioline verdi che si cuociono come gli spinaci, a giorni della carne di capra (non male le trippe…), qualche uovo. A volte arriva in paese un camion, e si possono comperare papaie, manghi, canna da zucchero. Meno male che la birra non manca, e grazie al nostro frigorifero a kerosene la beviamo fresca. Per fortuna ogni tanto arriva da Kampala una jeep con del materiale per noi, e allora ne approfittiamo a far venire scatolame, formaggio, latte, frutta fresca, caffè (ottimo quello coltivato sulle pendici del monte Elgon…) e varie altre godurie. Al mattino non c?è bisogno della sveglia: ci pensano le campane della ?chiesa?, il ragliare degli asini, i galli, i bambini, il sole.

Lavoriamo all?Health Center, una specie di piccolo ospedale dall?altra parte della strada; per arrivarci ci basta attraversare gli alloggiamenti del personale, un insieme di baracche e casette con bambini e pollame intorno a una fontana dove c?è sempre la coda per riempire d?acqua dei bidoni di plastica gialla. L?health center è composto da un insieme di costruzioni basse dove ci sono i reparti, settanta letti e altri sessanta materassi, gli ambulatori, il laboratorio, l?ufficio, la farmacia e le latrine. E stato di recente aggiunto un obitorio, e c?è un progetto per migliorare l?inceneritore, costituito da un bidone arrugginito nel quale vengono versati i rifiuti infetti a cui viene dato fuoco dopo averli cosparsi di kerosene. Un nuovo reparto è appena stato costruito, intonacato, e poi dipinto di un bel giallo. Solo allora si sono accorti che si erano dimenticati di aprire la porta. Io passo le mie giornate in laboratorio, una stanza polverosa, insieme a Peter e Andrew, un farmacista e un aiuto-infermiere locali, diventati tecnici sul mucchio. Il più giovane, Andrew, è pieno di buona volontà e impara molto in fretta. Siccome non c?è corrente elettrica, ma solo un piccolo sistema a pannelli solari che comunque in laboratorio non arriva, noi ci arrabattiamo, dalla centrifuga a manovella al microscopio con lo specchietto invece della lampada. Fuori dalla porta si forma la coda dei pazienti che viene a farsi prelevare il sangue, e ogni tanto bisogna avere stomaco e cuore ben saldi. L?altro ieri sento un odore spaventoso e il pianto di un bambino, e vedo una mamma che tiene in braccio un pargolo con il lato destro della bocca tutto mangiato, viola di disinfettante. La dottoressa Kobi Boer, mia collega olandese, entra e mi dice che non sa se quel bambino sopravviverà. Le chiedo che cos?ha, e mi spiega che si tratta di ?Cancrum Oris?, una specie di gangrena della bocca, e che l?odore che ha invaso tutto il laboratorio viene da lì. Per fortuna in quel posto succedono anche cose positive; la tecnica per la diagnosi della leishmaniosi, per la quale sono stato inviato ad Amudat da MSF, funziona bene, e i miei due colleghi stanno imparando in fretta ad eseguirla. E molto importante, perché si tratta di una malattia sempre mortale, ma perfettamente guaribile. Ora la cura è non solo molto costosa, ma anche parecchio pesante, con una certa tossicità e effetti collaterali. E quindi importante darla solo ai malati di Leishmaniosi, e non a chi è affetto da malattie con sintomi simili, come la malaria, la brucellosi o la splenomegalia tropicale.

Amudat è un borgo di due-tremila abitanti, composto da una strada in terra fiancheggiata da tre o quattro case porticate, e un insieme di costruzioni a metà strada tra la baracca, la capanna e il prefabbricato. Ci sono due stazioni di servizio abbandonate, con le pompe che arrugginiscono, alcuni negozietti che vendono sapone, farina, riso, zucchero, uova, pile, biro, coca-cola e poco altro, e un sacco di gente, in maggioranza di etnia Pokot, per la strada tra asini e capre. Sono quasi tutti vestiti alla maniera tradizionale, non molto diversa da come si vestono i Masai, con collane multicolori e orecchini, gli uomini con un manto color mattone e un gonnellino corto e stretto.

L?altra sera si sono fermati a pranzo qui da noi due notabili del posto, e dalle loro storie abbiamo potuto saperne un po? di più sulle tradizioni Pokot. In questo periodo c?è tensione, perché ci sono state razzie di bestiame in alcuni villaggi della zona. Ci ha spiegato che una volta quando un uomo voleva sposarsi, doveva dare alla famiglia della fidanzata cento mucche. Vi rendete conto, CENTO vacche per UNA donna? Sembra che quando nasce una bambina, sia una benedizione, perché quando poi cresce c?è il bestiame assicurato per tutto il clan. Mentre se viene alla luce un maschietto, d?accordo, il suo ruolo nella società sarà quello di sorvegliare e accrescere la mandria, ma quando quello vorrà trovarsi moglie, Dio mio che pagata! Ora ci sono problemi economici, c?è un po? di carestia e quindi alla borsa Pokot è crollato il valore della donna: adesso bastano trenta capi per una fanciulla. Insomma, manca il bestiame, e queste razzie sono il risultato non della necessità di mangiare, ma bensì del desiderio altrettanto naturale di trovarsi una fidanzata.

Purtroppo queste razzie si svolgono a volte in maniera molto violenta: la settimana scorsa è arrivato un camion all?Health Center con una decina di feriti, bendati alla meglio. Sono stati scaricati e curati dalle mie colleghe, erano tutte ferite da arma da fuoco. Muriel ha dovuto arrabbiarsi con un ferito, che voleva portarsi dietro il Kalashnikov, nonostante il divieto formale: all?ingresso dell?ospedale c?è un grande cartello bianco, con un cerchio rosso, all?interno del quale c?è un Kalashnikov barrato. Le hanno obbedito, qui siamo molto rispettati. Sembra che al villaggio, trenta chilometri da Amudat, siano morte tredici persone, quasi tutti donne e bambini. Non preoccupatevi per noi: Amudat e i suoi immediati dintorni sono tranquillissimi, e qui non esiste banditismo, terrorismo, guerriglia o saccheggi: c?è solo questo problema delle razzie di bestiame tra Pokot, Karimojong e Turkana, che esiste da almeno un secolo, e purtroppo le lance sono state sostituite dai Kakshnikov. A Amudat non ci sono mandrie, e le poche cose che potrebbero trovare al compound, all?ospedale o in paese non valgono per potersi sposare.

Dopo aver passato parte della domenica a scrivere credevo di aver finito, stavo cercando i vari indirizzi e-mail di tutti gli amici, quando mi portano un bigliettino scritto da Muriel che dice testuale: ?c?è un caso di meningite potenziale, sto per fare una puntura lombare, devi venire a fare una colorazione di Gram?. E così sono andato all?imbrunire in laboratorio, ho cercato i vari manuali per implementare una tecnica che non conoscevo, e quando il sole è tramontato mi sono trovato al buio. E così mi sono trovato a preparare vetrini di microscopio con materiale potenzialmente infettivo alla luce di una lampada a petrolio. Prima uno striscio di liquido cefalo-rachidiano, centrifugato con una manovella per tentare di eliminare i globuli rossi, poi una goccia spessa per la malaria. Alla fine ne Muriel ne io siamo riusciti a concludere un granché dai nostri vetrini e il piccolo paziente è stato trattato per meningite e malaria, in attesa di esami più approfonditi eseguiti domani alla luce del sole. LUNEDI 7 FEBBRAIO 2000: UNA TRASFUSIONE Sono ormai a Amudat da tre settimane, e comincio ad abituarmi alla routine dell?ospedale. Che parolona, ?ospedale?, per un posto che ufficialmente è solo un ?Health Centre?. Inizio a partecipare a vari aspetti della vita del centro, e devo dire che le mie compagne dottoresse Muriel e Kobi hanno un certo fegato. Alcuni giorni fa stavo preparando dei vetrini per il microscopio, mentre oltre il tavolo i miei due colleghi facevano vari prelievi cutanei a una donna sospettata di avere la lebbra; la pizzicavano in vari posti, per trovare le parti della cute che avevano perso la sensibilità.

Ieri, domenica, mi è stato chiesto di donare il sangue per un bambino dall?aria molto malandato che avevo già visto: oltre ad averlo ricevuto in laboratorio varie volte, ero presente in reparto (uno stanzone dai muri sporchi e scrostati, con una decina di letti arrugginiti e un tetto di lamiera) quando le dottoresse hanno cercato di convincere i genitori, una madre incinta dall?aria angosciata, e un padre con sandali ricavati da un copertone, gonnellino, vecchia giacca occidentale, orecchini e collane, a nutrire sto bambino con una sonda gastrica. Be? non c?è stato niente da fare. Il padre, ubriaco secondo il mio collega Andrew che fungeva da traduttore, si rifiutava categoricamente. Pare che non sia la prima volta; sembra che la sonda sia contraria alle tradizioni Pokot. Comunque in un modo o nell?altro sono riusciti a fargli ingurgitare qualcosa, ma il bambino continuava a essere spaventosamente anemico e perciò sabato è stata decisa una trasfusione. Il padre non era compatibile, la madre era incinta, qui solo i parenti donano il sangue, e chi restava? Il sottoscritto, uno stupendo zero negativo. E quindi io ho ricevuto come istruzione di recarmi in ospedale domenica, a metà mattinata. Mi era stato detto: ?rivolgiti semplicemente all?infermiera di guardia, lì sono al corrente di tutto?; io trullo trullo mi incammino. Arrivo all?ospedale, e scopro che: – l?infermiera non è al corrente di nulla – comunque non sa dove sono le sacche per il sangue – Il guardiano, inviato a cercare il laboratorista di guardia, non lo trova – è appunto detto laboratorista che sa dove sono le sacche – è inoltre lui che deve prelevarmi il sangue – e soprattutto, manca il piccolo paziente che deve riceverlo.

Non mi perdo d?animo, mi avvicino a una specie di veranda utilizzata normalmente come sala riunioni, e dalla quale provengono canti e inni. Si sta svolgendo una lettura pubblica della bibbia che interrompo, spiego che sono volontario per donare del sangue, può cortesemente per favore qualcuno dirmi dov?è finito il paziente? Ovviamente non c?è una banca del sangue, quando si trova un donatore, si fa il test del gruppo sanguineo e quello dell?HIV, poi il sangue viene immediatamente trasfuso. Allora si danno tutti da fare, il guardiano riparte alla ricerca del tecnico, lo trova a messa, quello arriva, va a prendere una sacca, vengo avvertito che il paziente è lì che aspetta, vado a vedere, e mi accorgo che invece di un bambino di tre-quattro anni, ce n?è uno di dieci. Io allora mi inquieto, il bambino giusto finalmente arriva, accompagnato dai genitori. Viene spedito in reparto, mentre mi preparo. Vengo disteso sul tavolo del laboratorio, con due manuali di ?pratica di laboratorio in paesi tropicali? sotto la testa a mo? di cuscino. Peter, il tecnico, si lamenta che le mie vene non si vedono, e per farle apparire mi strofina il braccio con un guanto in gomma strappandomi tutti i peli e facendomi un male cane, ma infine il mio sangue viene prelevato. Poi lo portiamo in reparto, e nonostante le sofferenze del bimbo al quale si devono prima fare iniezioni poi infilare il tubo della trasfusione, è un piacere vedere la gioia della madre. Intanto abbiamo trovato un donatore anche per il bambino più grandicello, che aveva effettivamente bisogno di sangue pure lui. Il donatore è suo fratello, che capisce l?inglese e che è molto fiero di quello che sta facendo.

Il tempo di fare una foto mamma felice – bambino addormentato – donatore imbarazzato, e ecco che un altro bambino dall?aria malatissima ha inondato di diarrea il pavimento del laboratorio, mentre Kobi corre dietro a madre e infermiera affinché al bambino venga fatto bere il più possibile, cosa assolutamente essenziale in caso di dissenteria. Questa mattina in reparto i due bambini che avevano ricevuto il sangue avevano l?aria di stare meglio, mentre a quello con la dissenteria è stata fatta un a trasfusione. Questa volta a prodursi è stata Kobi, la dottoressa olandese, adagiata sullo stesso tavolo. Speriamo che il bambino guarisca, povera madre; la settimana scorsa ha portato la sorellina ammalata di morbillo: è morta appena arrivata in ospedale, e pare che si sia anche fatta rimproverare da un?infermiera per averla accompagnata così tardi. Nel letto vicino c?è una ragazza dai grandi occhi in un volto scavato e con le braccia magrissime; è malata di AIDS. Oltre la porta, in una minuscola stanzetta fungente da ingresso, ambulatorio e sala terapie una donna tentava di allattare un bambino piccolissimo, prematuro, malato con una grave deficienza polmonare, pesava due chili a due settimane. I genitori hanno accettato che sia nutrito con una sonda, ma poche ore dopo è morto. Sarebbe stato un miracolo fosse sopravvissuto; in un ospedale dalle nostre parti sarebbe immediatamente stato sottoposto a cure intensive con respirazione forzata.

A volte, in corsia, ci sono alcuni pazienti che invece di starsene a letto sono sdraiati per terra, magari sotto i letti. Non è chiarissimo perché, forse fa più fresco. Ma sembra che di notte questo tipo di posto sia molto ricercato, soprattutto dalle mamme dei piccoli degenti. Intanto la sera, nel cortile e intorno ai reparti, ci sono tutte le famiglie dei malati che accovacciati intorno a dei fuochi, preparano da mangiare per loro e per i loro parenti ricoverati. Speriamo che questi focolari non creino pericoli come è il caso in paese e nei villaggi: tutti questi bracieri per terra sono causa di frequenti incidenti, di cui sono prime vittime i bambini; e infatti i piccoli ustionati sono pazienti frequenti e comuni. Ce n?era uno oggi, avrà avuto otto anni al massimo, con due bruciature di secondo grado abbastanza estese, una sulla pancia e una su pene e testicoli. Ho chiesto a Kobi come mai avesse la pancia così gonfia, e lei mi ha detto che è una ritenzione sicuramente dovuta al male tremendo che deve avere quando fa la pipì, ma che se continua bisogna mettergli un catetere, una cosa terribile alla sua età e nelle sue condizioni.

Per il resto non ho molto da raccontare; ogni tanto facciamo delle passeggiate nei dintorni. Ci sono delle montagne in lontananza e la vegetazione della campagna è composta da un groviglio di cespugli con delle spine lunghe così; è perciò consigliabile starsene lungo strade e sentieri. Dietro Amudat passa il letto sabbioso di un fiume in secca in questa stagione; ma basta scavare un po? per trovare l?acqua. Abbiamo assistito all?arrivo di un?imponente mandria di bestiame; i pastori hanno scavato un buco, poi prelevavano l?acqua con un grosso recipiente di legno e abbeveravano le vacche due per volta. Un po? più in là degli uomini bevevano, e ancora più lontano in una terza buca dei giovani si lavavano. Un ragazzino aveva arco e frecce, gli uomini erano tutti in abito tradizionale, con bastone e poggiatesta, e il tutto con il sole che tramontava formava un quadro molto bello.

Nonostante l?isolamento totale in cui ci troviamo, riesco a mantenermi al corrente sull?attualità mondiale. Possiedo infatti un bene molto prezioso in un posto come questo: una radiolina a onde corte, con il quale mi sintonizzo sulla BBC internazionale. Siccome si riesce a sentire qualcosa solo al mattino, rompo le scatole a tutti con fischi, gracchii, stridii, al tavolo della prima colazione, tra sguardi torvi intorno alla cuccuma del caffè, il pane in cassetta umido, il barattolo di burro di noccioline. Però se offro di usare le cuffie del walkman, i miei compagni dicono di no, che interessa anche loro. E così sono al corrente dell?aeroplano afgano dirottato, degli attentati a Teheran, e pure di notizie italiane come la chiusura domenicale al traffico e la partecipazione all?America?s Cup, ma nulla su Berlusconi-Dalema-Casini, con mio gran rammarico, come potete immaginare.

DOMENICA, 20 FEBBRAIO 2000: UOVA DI STRUZZO E COSTELLAZIONI Sono qui da un mese abbondante ormai, e la vita continua tranquillamente senza grosse novità. Rudiger, il logista tedesco è tornato dalle sue vacanze sulla costa kenyota, e ho lasciato la sua camera per tornare nella tenda. Non è un male; la sera le camere sono calde a causa del sole che ha arroventato i muri, mentre nella tenda fa un bel freschetto. In camera, si va a dormire senza nulla, e ci si sveglia infreddoliti per tirarsi una coperta addosso; nella tenda invece si va a dormire con una coperta fino al mento, e ci si sveglia per metterne una seconda. In compenso la tenda è inutilizzabile di giorno: è un vero forno. Devo evitare di lasciarci la roba da toilette, farmacia e pellicole: rischiano di rovinarsi e i deodoranti si sciolgono. Il suo principale vantaggio è lo spazio: è infatti immensa, mentre le camere sono minuscole.

Il laboratorio, nel quale passo la maggior parte delle mie giornate, è una stanza d?angolo, e quindi ho la vista su due lati dell?ospedale. Da una parte c?è il solito spettacolo di mamme, mogli e figlie di degenti che preparano da mangiare su dei fuochi tra tre pietre, in compagnia di bambini e uomini, questi ultimi spesso seduti sul loro tradizionale sgabello, molto simile ai poggiatesta che potete ammirare al Museo Egizio. Dall?altra parte vediamo la spianata davanti all?ospedale, con delle tende per supplire temporaneamente alla mancanza di spazio nei reparti, il cancello e la strada. L?effetto visivo che si ha quindi in laboratorio è a volte abbastanza forte: mentre Peter preleva il sangue a un bambino urlante tra le braccia di sua mamma che subito dopo gli da il seno, Andrew è chino sul microscopio davanti a una delle finestre che danno sull?ingresso, e si vede oltre la sua testa una mandria di vacche bianche e gobbute che avanzano lungo la strada sollevando un gran polverone. In primo piano passa un cieco, tenendo l?estremità di un bastone tirato da un bambino che gli fa da guida, scena molto comune in vaste zone d?Africa.

L?airstrip, la pista in terra dotata in tutto e per tutto di una manica per il vento (quella calza a strisce bianche e rosse in cima a un palo), non ha l?ambizione di diventare un aeroporto intercontinentale, ma c?è la necessità di allungarla un po? di modo che aerei bimotori possano atterrare. E stata quindi assunta una squadra di persone per dissodare la sterpaglia spinosa, spianare e lisciare il terreno così ricuperato. Gli operai sono portati al lavoro e riportati a casa stipati sul cassone del furgone, e quando vengono a farsi remunerare, si mettono tutti in fila con l?amministratore che li paga uno per uno e invece di fargli firmare una ricevuta, visto che sono quasi tutti analfabeti, gli fa premere il pollice prima sul tampone dei timbri e poi sul foglio. Se non fosse che questo amministratore ha un aspetto e un atteggiamento un po? fricchettoni, e che le condizioni di impiego di questa gente sono ottime, sembrerebbe una scena venuta dritta dritta dall?epoca coloniale.

Alcuni giorni fa stavo finendo di lavorare, quando arrivano due adolescenti e mi chiedono se mi interessa un uovo di struzzo. Voi che mi conoscete, credete che abbia detto di no? Che senso, che idea, ma insomma? Soprattutto che già una volta ho dovuto rinunciare? Ho ovviamente accettato, l?ho pagato la somma astronomica di quattro dollari, e l?ho portato a casa. Pesava almeno un chilo! Già un dilemma occupava tutti i miei pensieri: come cucinarlo? Avrei voluto trovare una padella enorme, e farlo all?occhio di bue, per poi fare una fotografia memorabile. Ma oltre a non avere una padella simile, i miei compagni hanno tutti votato per una frittata. Ho usato due padelle; in una ho fatto una stupenda omelette al formaggio, nell?altra una cosa più simile a uova strapazzate con cipolla e pomodoro. Ma non è stato un successo: l?uovo, benché freschissimo, ha un odore tutto suo non dei più piacevoli; e l?albume, cuocilo pure quanto basta, resta gelatinoso e fa un po? senso. Non ne comprerò più, ma mi resta il guscio solidissimo come ricordo, che ho avuto il buonsenso di rompere solo ad una estremità.

La settimana scorsa sono venute un po? di persone da Moroto, il capoluogo regionale, e sono state organizzate una serie di riunioni. In previsione di questo avvenimento è stata costruita una ?veranda? di fronte al nostro salotto, cioè due muretti ad angolo con panca incorporata, un pavimento di cemento e il tutto coperto da una tettoia di lamiera. E utile, perché si possono mettere tavoli e sedie e discutere in pace fuori dall?ospedale. Peccato che tolga la vista dello stupendo cielo stellato che c?è da queste parti. Parlando di stelle, non ho capito bene come si spostano le costellazioni: la sera vedo solo gruppi a me sconosciuti, poi a notte inoltrata appare l?Orsa Maggiore rovesciata a nord, e la Croce del Sud a meridione. Ma perché solo dopo mezzanotte? E perché tutt?e due insieme? La prima fa parte dell?emisfero nord, la seconda di quello sud. Qui siamo sull?equatore, quindi se si devono vedere solo per alcune ore a causa dell?inclinazione dell?asse terrestre, si dovrebbe osservare prima l?una, poi l?altra. Comunque, come dicevo questa veranda è stata utilizzata per delle riunioni, a cui per fortuna sia Kobi, la dottoressa esperta in Leishmaniosi, che io siamo stati dispensati dal partecipare. Dico per fortuna perché l?umore dei colleghi la sera rendeva da solo l?idea del divertimento folle che ci siamo persi, e i loro resoconti non erano da meno. Sembra per esempio che sono state spese quattro, dico quattro ore per discutere come avrebbe dovuto essere scritto il resoconto della riunione precedente, avvenuta a novembre. L?inviato del vescovo della chiesa anglicana tra l?altro insisteva che venisse messo a verbale che i lavori si sono aperti e chiusi con una preghiera.

Ieri c?è stata una gita. Siamo andati a Karita, a settanta chilometri da qui. La strada è uno sterrato, e l?ultima parte è un vero e proprio sentiero largo abbastanza per la nostra Toyota. Si passa dal Kenya, poi si rientra in Uganda. Niente frontiera, ma una pietra indica il cambio di nazione. Karita è un villaggio con una ventina di capanne in terra con il tetto conico di paglia, più alcune costruzioni ?all?occidentale? diroccate. Abbiamo fatto un giro; ci sono due pompe a mano e ho aiutato delle donne a tirar su dell?acqua. Abbiamo attraversato un fiume completamente in secca, e ci hanno mostrato qualche palo di cemento infilato nel terreno dicendoci ?questa una volta era la farmacia?. Tornati in centro al paese, ha iniziato la sessione di PHC (Primary Health Care). Si tratta di vaccinare dei bambini, pesarli, sentire dalla gente se ha dei problemi di salute, eccetera. All?ombra di un grande albero, viene aperta la borsa termica nella quale erano stati trasportati i vaccini. I bambini vengono pesati; per fare ciò viene attaccata a un ramo una di quelle bilance con il gancio, come negli uffici postali. Al bambino vengono messi dei mutandoni di plastica verde con delle lunghissime bretelle; queste ultime vengono attaccate al gancio. E il bambino urlante viene in questo modo appeso lì per alcuni secondi come un prosciutto ad essiccare. Poi iniziano le vaccinazioni: morbillo, tubercolosi, tetano, polio, difterite. Infine i problemi individuali; Muriel ha medicato le ferite di una donna picchiata, poi io ho raccolto su un fazzoletto di carta (purtroppo non avevamo la cartafiltro apposita) un po? di sangue a una ragazzina sospetta di avere la Leishmaniosi. Infine siamo ripartiti, non prima di esserci informati sui prezzi praticati per le poche cose in vendita su un telo per terra in mezzo al villaggio: granoturco, farina, zucchero, margarina, sapone, the. Sulla strada del ritorno ci siamo fermati sotto dei rovi spinosi per un glorioso pic-nic: pane in cassetta, formaggio, pomodori, the. Ho rapito l?attenzione di tutti quanti parlando della S. Sindone; e la conclusione dei credentissimi anglicani ugandesi e di Wilma, l?olandese protestante che ci accompagnava è stata che l?importante è credere, e quando si crede non c?è bisogno di prove.

Dopo la gita sono andato con Rudiger a fare un giro in paese, e siamo andati a vedere il pozzo artesiano attivato da un mulino a vento: è un sistema geniale; una grande pala gira e pompa su acqua purissima da quaranta metri sotto terra. Dei bambini ci seguivano sghignazzando, uno ha strisciato le sue mani fangose sui miei pantaloni puliti e amorevolmente stirati da Cecilia; poi non contento si riempiva la bocca d?acqua e ce la spruzzava addosso a lunghi getti. Ci sono voluti parecchi urlacci e mani alzate per farlo smettere. Poi ci siamo fermati in una specie di negozio oscuro che vende riso, sapone, zucchero e bibite; nel cortile è allestito un vago bar e abbiamo bevuto qualcosa con alcuni colleghi ugandesi. Nell?angolo c?erano due bellissimi dromedari dallo sguardo dolcissimo, zoppicanti perché avevano una zampa legata per la notte. Tornati a casa, ho tentato di produrmi in un risotto con tutti gli ingredienti sbagliati, incluso il riso. Era mangiabile lo stesso. Stamattina sono stato svegliato da vari rumori poco identificabili oltre ai soliti noti (campane, asini, galli). A colazione, per dimenticare l?incazzatura della sveglia domenicale, abbiamo cercato di identificarli. Quello che assomigliava al diesel di un vecchio rimorchiatore era una macchina per macinare il granoturco monocilindro a gasolio, mentre un rumore chiaramente di origine animale, è stato di individuazione molto più difficile. Sordo, profondo, ma forte. Molto più basso di tono, ma ahimè non di volume, del ragliare degli asini. Kobi ha pensato che potesse trattarsi di un asino con la tonsillite; noi abbiamo subito bocciato tale ipotesi e abbiamo concluso che doveva essere un dromedario.

Questo pomeriggio Muriel, Kobi e io siamo andati a fare una lunga passeggiata. Appena usciti dal paese siamo stati seguiti da quattro donne: una già un po? anziana, una ragazza e due bambine. Ridevano, schiamazzavano, e ci dicevano un sacco di cose. Non abbiamo capito niente, ma può darsi che la ragazza volesse scambiare la sua gonna con i pantaloni di Muriel. Potava un sacco in equilibrio sulla testa, io ho provato a portarglielo per un po?. Pieno credo di granoturco, pesava circa dieci chili e dopo cinque minuti avevo male al collo. Lei era graziosa, abbastanza minuta, non aveva muscoli possenti visibili sul collo, e portava quella roba in equilibrio sulla testa, senza aiutarsi con le mani. Ma come diavolo fanno? Dopo un po? incontriamo una mandria di mucche, e la vecchia mi insegna a mungere. Prima una delle bambine stimola con la mano la vulva della mucca, credo per favorire la lattazione, poi la signora mi mostra come tirare il latte. E ci riesco! Un bello spruzzo bianco, che finisce nel recipiente che lei portava, e se lo beve subito. Le vacche di qua hanno mammelle molto più piccole delle nostre, e l?operazione è stata compiuta con la punta delle dita. Infine abbiamo raggiunto Kobi, che correva come un treno ed era sparita davanti a noi, e siamo tornati a casa stanchi e assetati, ma per fortuna abbiamo trovato il frigo pieno di birra ghiacciata.

LUNEDI, 6 MARZO 2000: UNA MONTAGNA DI PUTTANE Avrei voglia di cominciare così: fa bello, fa caldo, fa secco. Come sempre, ogni giorno, tutti i giorni. E invece no! Inizia ad esserci un po’ di umidità nell’aria, sono addirittura cadute alcune gocce di pioggia. Meno male! Basta con questa polvere, e vorrei tanto vedere la natura rinverdirsi un po’. Per ora si è solo rinfrescato, speriamo inizi la stagione delle piogge. Detto ciò, qui le cose continuano al ritmo abituale, e ci arrabattiamo come possiamo con il materiale che abbiamo. Quando l’altro ieri c’è stato il bisogno urgente di esaminare il liquido cefalo-rachidiano di un paziente sospetto di meningite, ci siamo trovati davanti alla necessità di centrifugarlo. Ora abbiamo: una centrifuga a manovella rugginosa vecchia e scassa, e una bella centrifuga elettrica, ma ahimè niente elettricità (qui la corrente manca proprio). Ho quindi ricuperato di corsa il generatore, l’ho posato davanti al portico, e l’ho collegato alla centrifuga per terra, con tutti che mi guardavano. Il generatore fa il rumore e il fumo puzzolente di un ciclomotore, ma è stato utile, e alla fine abbiamo diagnosticato senza dubbi un’infezione da meningococci. Per il resto la nostra vita sociale procede tranquillamente, e la mattina svegliato alle sette come al solito da campane, asini e sole, ho, primo per la colazione, la gioia di vedere Cecilia, carina e incinta, china a quattro gambe che lava il pavimento. Abbiamo avuto due ospiti la settimana scorsa: Bernard, il marito della capomissione, e Philippe, il responsabile della logistica. Eravamo quindi allo stretto, ma perlomeno c’era qualche faccia nuova. Mercoledì abbiamo organizzato una festicciola per salutare Cobi, la dottoressa olandese, che se ne va. Abbiamo invitato il personale dell’ospedale, e si sono tutti seduti ben composti sulle due panche di cemento ad angolo della nostra “veranda”. Per fortuna, era così solo all’inizio, poi si sono scatenati ballando fino a tardi. Una delle infermiere, molto insistente, voleva a tutti i costi ballare con me, e io ne avevo altrettanta voglia che di infilarmi una supposta.

Il giorno dopo, giovedì, partiamo tutti per Kampala. Finalmente! Cominciavo a trovare la vita ad Amudat un po’ noiosa, con il coprifuoco serale (in paese sono tutti ubriachi di sera, si vede gente che deambula ciondolante e che sa di alcool a tre metri di distanza; e molti sono armati di Kalashnikov) e nessuna possibilità di andare in giro. Al programma, oltre a dare un degno addio a Cobi, riunioni, e ovviamente le gioie della vita notturna in capitale, l’accesso all’e-mail, all’ufficio postale e ai negozi. Muriel, Grégoire e Rudiger vanno in aereo, mentre Cobi, Bernard, Philippe e io andiamo in automobile, passando, per ragioni di sicurezza, dal Kenya. Partiamo con la Toyota molto carica, e tutti i bagagli in fondo. I sedili dietro sono delle panche imbottite laterali, e chi è seduto in fondo riceve addosso sacche e valige ogni volta che freniamo o che urtiamo una buca su quell’orrido sterrato chiamato pomposamente “strada”. Entriamo in Kenya senza incontrare alcun controllo di frontiera, ma poi dobbiamo fermarci a un posto di polizia dove perdiamo parecchio tempo aspettando che una milizia di “ausiliari” venga armata e spedita a caccia di terroristi. Sono molto amichevoli e ci salutano tutti. Traversiamo un fiume pieno, udite udite, di acqua! Era una visione che incominciava a mancarmi. Poi la strada sempre più brutta inizia ad inerpicarsi su per delle montagne, e dall’altra parte il paesaggio cambia: è verde! Finalmente giungiamo ad una cittadina, e lì inizia una strada asfaltata. Proseguiamo quindi molto più spediti in una regione con campi coltivati e piantagioni di caffè, e arriviamo a Kitale, dove facciamo sosta per la notte in un simpatico alberghetto in un giardino fuori città, con chissà perchè una macelleria di fianco alla reception. La sera andiamo a mangiare in un ristorante indiano deserto, facciamo una passeggiata nel centro a portici senza nessuno, ma con un bar, deserto pure lui, da cui usciva un tale baccano che da solo animava tutta la città. Di ritorno in albergo, abbiamo voluto bere qualcosa al bar, e prima che potessimo dirgli “non preoccupatevi” una cameriera già correva lungo la strada alla ricerca delle bibite che avevamo chiesto.

Il mattino seguente, partenza alla volta della frontiera ugandese. Arriviamo in un luogo caldo, polveroso, imbottigliato da camion, e dobbiamo tutti entrare in un ufficio a fare vistare il nostro passaporto. Difficoltà e problemi nacquero dal fatto che visto che eravamo passati da una frontiera senza controlli, non avevamo il visto di ingresso. Intanto eravamo assediati da venditori di uova sode, banane, noccioline, e shellini ugandesi. Riusciamo ad estirparci, entriamo in Uganda, e il controllo dei passaporti è molto più semplice, ma poi perdiamo un tempo infinito all’ufficio doganale perchè sembra che mancava un documento dell’automobile. Finalmente passiamo, e la strada in Uganda è faticosissima: è asfaltata, sì, ma è piena di buchi, quindi dobbiamo frenare di continuo. Traversiamo un bosco, e sulla strada appaiono numerosi babbuini. Gli lanciamo delle banane, e quelli vengono a prenderle, ma appena tiriamo fuori la macchina fotografica, si spaventano. Intelligenti! Giungiamo a Jinja, dove l’esploratore Speke ha ufficialmente definito le Sorgenti del Nilo, cioè dove il Nilo esce dal lago Vittoria; c’è un immenso cantiere per la costruzione di una seconda diga che dovrebbe assicurare la fornitura elettrica a tutto il paese e la possibilità di esportarne nelle nazioni vicine. Tra Jinja e Kampala c’è un autogrill pazzesco: sotto alcune tettoie, un’infinità di polli arrostiscono sulla carbonella. E folti gruppi di uomini, donne e ragazzi in uniforme blu si avventano su automobili, pulmini e autobus brandendo ventagli di spiedi con cosce di pollo, fegatini o “gésiers” (il primo stomaco, delicatezza della cucina francese). Dietro le griglierie, ci sono alcuni baretti, dove ci si può sedere a bere una birra mica tanto in pace, visto che i tizi che brandiscono gli spiedi vi seguono fin lì per ficcarveli sotto il naso. Comunque è buonissimo, ed è una sosta che raccomando a tutti la prossima volta che prendete quella strada. Ripartiamo, e ben presto giungiamo a Kampala. Quella sera pranzo da Regina, la capomissione, con veri, autentici formaggi francesi arrivati due giorni prima con Maria, la nuova amministratrice. Dopo un mese e mezzo di fagioli, polenta bianca, cavolo e ogni tanto stufato di capra, non vi rendete conto l’emozione! Il giorno seguente, ufficio postale, dove, dopo aver cercato cartoline decenti in dieci negozi, ne ho spedite a caterve. Passeggiata in centro, rallegrata dalla vista di mendicanti senza braccia e gambe, poliomielitici e lebbrosi, e visita a centro dell’artigianato. Colazione in un take away a base di pesce e patate fritte unte, poi riunione in ufficio. La sera, sabato, pranzo di addio per Cobi al ristorante etiope, molto buono, anche se un pipistrello ha scagazzato sulla camicia pulita di Grégoire. Siamo poi andati in un locale alla moda, dove la gioventù dorata e la classe media emergente di Kampala, si mescolava ai “muzungu”, i bianchi. Musica, un bigliardo, una pista da ballo in un angolo, tanta gente animata con bottiglia di birra in mano.

La domenica è stata passata in ufficio ad occuparmi delle mie e-mails, e la sera sono uscito con Rudiger. Siamo prima andati al “Petit Bistrot”, un ristorantino francese molto simpatico sotto una tettoia di bambù, dove ho mangiato un filetto al pepe pazzesco, incredibile, fenomenale. Valgono le stesse considerazioni emotive che ho già espresso riguardanti i formaggi della sera prima. Dopo siamo andati a fare un giro a Kalabagala, un quartiere vicino a casa, sulle colline dove la sera c’è un grande animazione. Un caffè dopo l’altro con davanti barbecue di polli, musica, gruppi di giovani. Siamo entrati in un grande locale, dove ci sono slot machines e bigliardi. C’è un sacco di gente, pochi muzungu, e un gruppo di ragazze discinte balla in un angolo. In mezzo c’è un grande bar circolare sotto una tettoia conica di paglia, e ci siamo seduti lì. Ed è allora che è cominciato l’assalto. Ragazze, ragazze, ragazze. Una dopo l’altra, a gruppi, tutte insieme, si sono appiccicate a noi, di fianco, dietro, da tutte le parti. Ci accarezzavano con una mano, strusciavano una tetta contro la mia spalla, spingevano, schiacciavano. Una vera montagna di puttane. All’inizio era quasi divertente, ma poi diventava stressante. Io avevo paura che mentre allungavano una mano in maniera provocante, infilassero l’altra nella tasca dove tengo il portafoglio. Per fortuna, a forza di dirle che avevamo fidanzate gelose, al che replicavano di non preoccuparci che anche loro avevano fidanzati gelosi, e soprattutto di fissare con grande interesse il fondo del nostro bicchiere, si sono stufate e ci hanno lasciati in pace. Siamo così tornati a casa sani e salvi (e non accompagnati), dove i nostri letti sotto zanzariere ci aspettavano, per una notte rinfrancatrice prima di un lunedì di riunioni.

Domani mattina martedì torno ad Amudat, di nuovo con un aereo della MAF (Missionary Air Force). Vi farò sapere nella prossima lettera com’è andata, e cos’è successo durante la mia assenza.

MARTEDI, 28 MARZO 2000: “TU RIDI, MA LEI VOMITA” Sono tornato da Kampala come preannunciato in aereo. Tutto bene, paesaggi affascinanti, il Nilo, le grandi paludi del lago Kyoga, poi le distese aride della Karamoja; prima tappa a Moroto, capoluogo di quest?ultima. Ci siamo fermati lì per poche ore, dovevamo passare all?ospedale e al ?distretto? (i politici localI). Moroto è una cittadina calda e polverosa, povera, ma con dei begli alberi verdi e ai piedi del monte omonimo; insomma il posto è molto bello. Anche lì l?aeroporto è costituito da una striscia di terra battuta, ma con qualcosa in più: c?è un capanno! All?ospedale lavorano due Italiani, e uno di loro mi ha accompagnato al ristorante locale dove ho mangiato chapati, cioè piadine bisunte. Abbiamo voluto fare delle fotocopie, ci hanno portato all?administrative building?, un bell?edificio costruito subito dopo l?indipendenza, ma prima non si trovava la chiave della porta, poi quella del generatore. Finalmente ripartiti in ritardo ma con le fotocopie, siamo arrivati ad Amudat dopo aver sorvolato dei ?maniata? o ?kral?, il villaggio tradizionale Karimojong e Pokot, con una cinta esterna, una interna per le mucche e capanne e granai tra le due.

Ad Amudat la vita ha ripreso tranquilla, abbiamo avuto una lunga visita durata dieci giorni da parte di Sophie, una dottoressa venuta dalla sede di MSF. Ci ha detto che il nostro progetto funziona bene; è una cosa che fa parecchio piacere sentirsi dire! Un pomeriggio, all?uscita dal lavoro sono andato a fare un giro con il mio collega Andrew, in principio per andare a fare delle foto dell?abbeverata delle vacche. Era uno spettacolo che avevo già visto: al tramonto, la mandria è portata al fiume in secca; scavano un buco nella sabbia fino a trovare l?acqua, poi riempiono un recipiente di legno e danno da bere alle mucche a due per volta. Che lavoraccio! Per raggiungere il fiume siamo passati da dietro il paese, e ho avuto occasione di constatare di persona un problema di cui già sapevo l?esistenza: gruppi di donne urlavano e avevano l?aria di litigare; Andrew mi ha detto che erano ubriache. Lungo la strada, parecchie, con il bambino sulla schiena ci gridavano delle cose; a due metri puzzavano d?alcool. Erano soprattutto donne, forse perché era ancora presto; ma anche gli uomini bevono. E siccome molti sono armati di Kalashnikov, è il caso starsene alla larga quando hanno alzato troppo il gomito. La sera, proprio per questo motivo, abbiamo una specie di coprifuoco, ci hanno detto di non uscire. Immaginate un gruppo di uomini traballanti: ?shciommetto che riuscio a colpire la gliuna ??.

Da pochi giorni è stato aperto il nuovo reparto per la Leishmaniosi; si tratta dell?edificio di cui vi avevo parlato nella mia prima missiva, quello che avevano dipinto prima di aprire la porta. Quando il direttore della ditta che aveva avuto l?appalto ce lo ha ufficialmente ?consegnato?, siamo andati molto vicini all?incidente diplomatico. Il fabbricato aveva parecchi difetti, come zanzariere sulle finestre così male fissate che gli insetti possono entrare a milioni, e così via. A Rudi, il logista che aveva seguito tutta la costruzione e che si era dato molto da fare, sono saltati i nervi. Aveva mostrato al costruttore tutti i difetti e gli aveva ricordato le clausole del contratto. Quest?ultimo si arrabbia e comincia a rispondere male. Allora Rudi non si trattiene e gli dice: ?faresti meglio ad andare a vender banane??. Non so com?è andata a finire la storia, ma ad Amudat si continua a non trovare banane.

Abbiamo avuto qualche ospite sgradito all?health centre?. Un giorno mi lamentavo che i guanti monouso che utilizziamo in laboratorio erano piccoli e inoltre stavano per finire. Sul che mi è stato chiesto se era necessario che i guanti fossero sterili. Ho risposto di no; a noi servono solo per proteggerci da possibili infezioni. ?Benissimo, puoi utilizzare tutti quelli mangiati dalle termiti?. ?Come sarebbe a dire, mangiati dalle termiti?? Insomma, uno stock di guanti sterili, di quelli che si utilizzano per i parti o per piccoli interventi chirurgici, hanno subito un attacco di termiti, che hanno mangiato l?imballaggio sterile, ma non hanno toccato la gomma dei guanti. Buon appetito! E così abbiamo a disposizione centinaia di guanti di varie dimensioni, con la confezione tutta mangiata, ma per il resto sono perfetti. Oggi invece abbiamo sentito un rumore dentro uno scatolone sotto il bancone dove vengono posati i catarri dei tubercolotici. Lo abbiamo aperto, e un grosso topo marrone è saltato fuori. Sono andato in farmacia in cerca di un topicida, e mi è stato detto di andare in magazzino, prendere una trappola, e posarci sopra qualche chicco di granoturco. Si tratta di una di quelle trappole a molla come credevo esistessero solo nei cartoni animati di Tom e Jerry! Mercoledì abbiamo fatto una gita stupenda. Lo scopo era andare a vedere se era possibile portare l?acqua potabile al paese di Lemusui, sotto al monte Kadam, la montagna a nordovest di Amudat. Ci avevano parlato dell?esistenza di una sorgente sulla montagna, e dovevamo andare a verificare che esistesse veramente, che si trattasse effettivamente di acqua pulita e se fosse possibile costruire una tubazione per portare l?acqua in paese. Sveglia all?alba, colazione ancora al buio, e partenza alle sei e mezza. Ci accompagna il mio collega di laboratorio Andrew, che fungerà da interprete. Prendiamo uno sterrato che sarà di sicuro impraticabile in stagione delle piogge, e arriviamo a Lemusui, proprio sotto la montagna. Si tratta di un gruppo di capanne sparpagliato, con una capanna un po? più grande e il tetto di lamiera, il dispensario. Ci lavora Agatha, infermiera; ci sono alcune medicine di base e un frigo a gas per i vaccini. Spieghiamo che abbiamo bisogno di una guida per raggiungere la sorgente, e rapidamente troviamo tre accompagnatori. Ci incamminiamo poco prima delle nove, e subito ci preoccupiamo del sole e del caldo: se già picchia così forte adesso, che ne sarà a mezzogiorno, e in salita? Invece questo problema non ci sarà: appena cominciamo a salire sulle pendici della montagna, ci immergiamo in una folta, verde, densa foresta, fitta di alberi altissimi. E un cambiamento di paesaggio drastico, incredibile e inaspettato: da una savana secca, con pochi alberi e arbusti spinosi, si passa a una foresta umida, senza rovi; una foresta di quelle belle, e dopo due mesi di sabbia, secco e polvere faceva proprio piacere. Detto ciò, la salita è stata parecchio faticosa, ma abbiamo raggiunto la meta: un ruscelletto di acqua fresca e limpida, che sgorga da delle rocce e dopo un po? sparisce nel terreno. Ci fermiamo per un graditissimo pic-nic gustando i panini farciti da avocado, pomodoro, cipolla, tonno, formaggio, uovo sodo, maionese e senape preparati dal sottoscritto la sera prima, ci riposiamo e ripartiamo per la difficile discesa. Rudiger, meccanico-costruttore, decreta che costruire una tubazione robusta e stabile in quella valle costerebbe troppo caro; optiamo quindi per un pozzo con pompa a mano. Tornati a Lemusui, voglio comperare un favoloso arco con cinque frecce, ma Andrew, che mi fa da interprete, dice che la somma richiesta di sette dollari è eccessiva, e assolutamente di non comperarlo lì. Io fremevo dalla voglia, ma non ho osato, perché non posso fare la figura del riccone che spende e spande davanti al mio collega. Spero di trovarne un altro, magari vado a cercarmelo da solo, sennò ci rimango male. Abbiamo dato un passaggio al ritorno a una mamma col bambino malato, e a una donna più anziana che voleva venire per occuparsi del marito, ricoverato ad Amudat. La mamma è una bellissima ragazza, simpatica e sorridente, con una stupenda fila di denti bianchi. Era seduta di fronte a me, con i seni al vento, e ogni volta che la macchina sobbalzava quelli sballonzolavano. Allattava il bambino, e la sequenza delle immagini davanti ai miei occhi era la seguente: capezzolo turgido – bocca di bimbo che succhia ? goccia di latte ? mosca che si posa. Intanto alla vecchia è venuto il mal d?auto, per fortuna siamo riusciti a farla uscire in tempo due volte. La ragazza rideva, e allora le ho detto, chiedendo ad Andrew di tradurre: ?tu ridi, ma se lei vomita, io non rido affatto?.

Due giorni dopo, venerdì, alla fine della giornata di lavoro Andrew si è proposto di accompagnare Muriel e me a fare un giro. Grazie a lui, abbiamo potuto visitare un Maniata o Kral di cui non sospettavamo l?esistenza subito fuori Amudat. C?è una cinta di rovi spinosi, e si entra passando chinati da una piccola apertura. All?interno, parecchie capanne tonde in terra battuta con il tetto in paglia, e dei granai, cioè capanne in vimini col tetto anche loro conico in paglia, ma sospesi su palafitte. Poi, in mezzo al Maniata, una seconda cinta circolare, all?interno della quale vengono tenute di notte mucche e capre. Al nostro ingresso, siamo stati subito accolti da una turbe di bambini urlanti e ridenti, che gridavano: ?Muzungu! Muzungu!? (?Uomo bianco! Uomo bianco!?), una ragazza adolescente calma e sorridente, e una vecchia coi seni al vento che si è arrabbiata coi bambini. Prima che Muriel avesse finito di chiedere a Andrew se potevamo fare fotografie, i bambini si erano già messi in posa gridando ?Foto! Foto!?. Usciti dal Kral, siamo stati subito intercettati da un tipo ubriaco fradicio che voleva darci la mano, è quasi caduto per terra, poi ci gridava ridendo delle cose. E comunque interessante vedere che questo tipo di villaggio tradizionale continua a esistere alle porte del borgo, anche se è vero che Amudat, nonostante il suo piccolo ospedale, la sua scuola, la sua chiesa cattolica e quella protestante non è che sia un grande esempio di ricca modernità: sono poche le case in muratura; molte, anche se rettangolari e col tetto di lamiera, hanno i muri in terra battuta; ci sono pure numerose capanne. L?altra sera c?è stata una tempesta di polvere in paese. Ero andato a comperare del pepe (che non ho trovato), e vedevo accumularsi enormi nuvoloni neri, che col sole tramontante davano una luce bellissima. Improvvisamente si è scatenato un vento fortissimo, che ha sollevato una polvere tale da mostrare le capanne come avvolte da una nebbia marrone. Mi sono maledetto per non aver preso con me la macchina fotografica. Tornato a casa ha cominciato a piovere, e ho sistemato alla meglio il sistema di grondaie e tubi per raccogliere l?acqua piovana, che il vento aveva ovviamente divelto. La sera mi sono coperto di gloria facendo una frittata con cipolle e melanzane. Avete udito bene: melanzane trovate in paese! Le abbiamo ogni tanto quando la macchina torna dal Kenya, ma qui, come già vi avevo accennato, oltre a cipolle, pomodori e cavoli, di verdura non si trova un granché.

Sabato sera abbiamo fatto una partita a Monopoli. Dello staff internazionale c?erano Grégoire, Rudiger e io; la popolazione locale era rappresentata da Andrew. Il gioco era una versione fabbricata chissà dove in inglese e in arabo; il tabellone era in cartoncino così leggero che si curvava, e i dadi cosi mal fatti che si confondeva continuamente il quattro col cinque. Per vederci qualcosa abbiamo usato una lampada a pressione. Si tratta di una lampada a petrolio con la retina come quelle a gas; per accenderla bisogna prima dare fuoco a una vaschetta di alcool, poi pompare come dei disperati per un?ora fino a che la retina diventa di un giallo chiaro luminoso come una lampadina elettrica. Ci siamo divertiti molto, anche se con quell?illuminazione e quella versione del gioco si confondevano i colori dei gruppi di terreni, e Andrew ha imparato molto in fretta. Altre attività ricreative locali sono i film della domenica sera. Nel quartiere del personale o al tempio protestante, mostrano una cassetta video. Ovviamente, per far ciò devono accendere un generatore rumoroso. La scelta passa da Kung-Fu a videoclip musicali e drammi americani anni cinquanta. Qualunque sia la scelta, c?è una gran folla con molti bambini. Il suono è pessimo, credo che la metà, me incluso, non capisca niente, ma non fa nulla: sono tutti incantati. Magia delle immagini. Parlando di lampade a pressione, voglio raccontarvi la scenetta di ieri sera. Il nuovo reparto di cui ho parlato più su è dotato di un sistema di illuminazione a pannelli solari; il guardiano è venuto ad avvertirci che non funzionava. Si può controllare l?impianto solo di giorno, ma Rudi e io andiamo lo stesso per aiutarli ad accender alcune di quelle lampade particolari. Arriviamo e vediamo fuori dalla porta, alla luce di una lampada a petrolio sporca, un?infermiera che mette una sonda ad un bambino urlante per toglierli l?aria dallo stomaco. Dentro, accendiamo l?alcool della prima lampada, pompiamo alacremente, la retina si accende, ma poi si rompe a causa delle vibrazioni di noi che pompiamo, il getto di kerosene vaporizzato incandescente si dirige contro il vetro, e quello si spacca. Vogliamo usare la seconda, riempiamo di petrolio per errore (eravamo quasi al buio) l?orifizio della pompa, e quindi inondiamo di kerosene la stanza delle infermiere. Finalmente riusciamo ad accenderla, e torniamo a casa sotto un cielo stellato meraviglioso lasciando William, il farmacista, che continuava a pompare affinché la luce durasse alcune ore.

Come vedete, la vita qui si colora di intense attività sociali; altroché Parigi, Madrid e Berlino. Dovrei tornare tra tre settimane, e allora confronteremo con la vita torinese.

MERCOLEDI, 5 APRILE 2000: SULLA MONTAGNA Questo weekend abbiamo fatto una gita stupenda: siamo andati a Doo, sul Monte Kadam. Si tratta di un a montagna isolata, di origine vulcanica, a ovest di Amudat e ben visibile da casa e dal laboratorio. Di sera si vedono i fuochi appiccati dai contadini per rinnovare i campi. E la stessa montagna della gita della settimana scorsa, quando ci siamo arrampicati su per un bosco in cerca di una sorgente, ma questa volta il progetto era di andare a passare la notte al villaggio di Doo, in cima. Sveglia alle cinque e mezzo la mattina di sabato, rapida colazione alla luce di lampade a petrolio, e partenza alle sei. Partecipano alla gita Grégoire, l?amministratore; Rudiger, il logista e io, dello staff internazionale; del personale locale ci sono Andrew, il mio collega in laboratorio, e Tom, del PHC (Primary Health Care), che va in giro a distribuire vaccini. Inoltre, abbiamo trovato una guida ideale: il ?Chief of Kadam?, una specie di capo tradizionale di tutta la popolazione che vive sul monte, si trovava in questi giorni ad Amudat e accetta volentieri di accompagnarci. E un uomo di cinquantasei anni, vestito con una giacca a vento rossa e un berretto basco azzurro. Non parla inglese, ha sei mogli (poveretto) e innumerevoli figli. Non so perché, ma mi ha fatto pensare a un messaggero della resistenza francese.

Dopo due ore di pista che da sterrato diventa poco più che sentiero per vacche, arriviamo a Lemusui, alla base della montagna, da dove eravamo già partiti per la gita precedente. Grazie alla presenza del capo non abbiamo bisogno di cercar guide, e iniziamo quasi subito ad arrampicarci su per un sentiero scosceso. Questa volta purtroppo niente foresta, e il sole già cocente alle nove ci fa perdere litri d?acqua sotto forma di sudore che lascia grosse chiazze di sale sulle nostre magliette. Il sentiero sale tra rovi spinosi e alberi spogli, ma per fortuna la sfacchinata dura solo tre ore. Arriviamo su un altopiano dove ci sono vari villaggi tra campi appena arati. Capiamo che Doo non è il nome di un villaggio, ma di una zona abitata. Ci fermiamo a mangiare panini e uova sode sotto un albero, poi ripartiamo con una camminata di venti minuti per raggiungere un villaggio più in alto dove c?è l?unica scuola di tutta la montagna, ed è in detta scuola che il capo ci propone di dormire. Sto parlando di una ?scuola?, ma dovete capire che si tratta di una costruzione rettangolare in terra battuta, divisa in due stanze, col tetto di lamiera. E l?unico tetto di lamiera di tutta la zona, e mi stupisco di come abbiano fatto a trasportarlo lassù. Mi viene spiegato che le lamiere vengono arrotolate, e trasportate a spalla da due uomini. Per il resto, i muri sono in uno stato pietoso, con più spazi vuoti che terra. Dentro, niente banchi, niente panche o sedie, ma un tavolo che forse serve da cattedra. In compenso c?è una lavagna, con dei disegni e delle indicazioni: ?this is a chicken?, ?this is a tree?? Arrivati quindi lì, abbiamo visitato il villaggio, interamente composto da capanne rotonde, di tre tipi: le più grandi per le persone, le più piccole per le capre e quelle su palafitte sono granai. Gli uomini non hanno una capanna propria; ogni moglie ne ha una e il marito passa dall?una all?altra.

Il pomeriggio ci siamo divisi in due gruppi: alcuni sono andati a vedere il ruscello, a mezz?ora di marcia, per vedere la situazione in acqua potabile, mentre noi abbiamo continuato a salire fino ad un punto da dove ci si rende conto di come sono distribuiti i vari villaggi. La vista era proprio stupenda. Ritornati al campo, notiamo Tom in grandi conciliaboli con il capo e alcuni notabili; stava negoziando l?acquisto di una capra. Dopo mezz?ora arrivano due uomini che trascinano un caprone; gli tagliano la gola raccogliendo il sangue che bevono subito dopo. Quindi svuotano e fanno a pezzi l?animale; vengono accesi due fuochi, uno dentro la scuola e uno fuori. Su quello all?esterno vengono arrostiti i cosciotti e le costine; tutto il resto viene messo a cuocere in umido in un pentolone sul fuoco all?interno. Ovviamente ormai era buio, quindi lavoriamo alla luce di pile elettriche. Quando finalmente è pronto, ci rimpinziamo di carne e frattaglie, riso scotto e mais in scatola. Poi finalmente tutti a nanna, chi dentro la scuola, o chi come Rudiger o io, refrattari all?idea di dormire su uno strato di polvere di due centimetri, ci installiamo sul prato fuori, facendo attenzione alle cacche di capra. I sacchi a pelo sono sufficientemente caldi (fa freddo, lassù, di notte), ma il vento che ci soffia in faccia è sgradevole. Riusciamo lo stesso a dormire, e siamo svegliati dal canto di un gallo e dalle prime luci dell?alba. Dopo qualche foto alla montagna illuminata dal sole nascente e una rapida colazione a base di piadine gnecche e uova sode, iniziamo la discesa. Dio mio, che male ai muscoli! Con le gambe sempre più traballanti, succede l?inevitabile: scivolo, casco e finisco con una mano dritto su un ciuffo di spine aguzze e ricurve, poco prima dell?arrivo. Con la mano sinistra sanguinante e tirando accidenti, raggiungo lo stesso Lemusui dove Agatha, l?infermiera, ci prepara un buon the. Ripartiamo per Amudat, dando un passaggio a una donna che ha perso tutte le falangi delle dita delle due mani a causa della lebbra, e arriviamo a casa all?una stanchi, sporchi e affamati. Fortunatamente Cecilia, bellina e vicina al parto, ci aveva preparato un?ottimo stufato di capra (tanto per cambiare).

Quella sera, Rudi ed io eravamo invitati fuori a pranzo. Ueh! Una mondanità! Siamo stati invitati da Josephine e Martha, rispettivamente contabile e infermiera del programma di salute primaria. Josephine è minuta, graziosa e un po? taciturna, mentre Martha è grande, bella, estroversa. Hanno tutt?e due partecipato al concorso di miss emoglobina, con Martha per ora largamente in testa. Ci hanno accolto nella casetta che dividono dietro una specie di hangar facente funzione di Chiesa Anglicana e ci hanno offerto prima dell?ovomaltina, poi? stufato di capra, riso, piadine. Il tutto preparato su fornelletti a carbone, alla luce di una lampada a petrolio. E stato molto simpatico, sono proprio due care ragazze, ma visto lo stato fisico in cui ci trovavamo, siamo andati a letto presto.

Bene, mi sa che questa è la mia ultima lettera da Amudat. Parto tra poco più di una settimana, e come per salutarmi, sta arrivando la stagione delle piogge. E già un po? che si fa annunciare, con nuvole, umidità e qualche sporadica piovuta. Ma oggi il cielo è plumbeo, fa fresco, l?aria sa di pioggia, e se le avessimo dovremmo accendere le luci alle tre del pomeriggio. Parto per Kampala il venerdì 14, da lì sabato sera per Ginevra, dove lunedì e probabilmente martedì devo andare all?ufficio di MSF per il ?debriefing?, quindi torno a Torino.



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