Nel granaio dei Romani
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Le Oasi di Montagna
Sempre Syusy accennava anche a fiumi che non sono sempre stati disseccati. Un esempio di questo fenomeno sono le cosiddette Oasi di Montagna, cioè i villaggi di Mides, Tamerza o Chebika. Io ho visto coi miei occhi Mides, e sono rimasto impressionato. Credo che lo spettacolo di queste montagne, erose dal vento e – appunto – dall’acqua, sia degno del Grand Canyon americano: si tratta appunto di gole profonde, che cambiano colore in base al livello del sole, passando dal giallo ocra al rosso. La storia di questi villaggi è significativa: nel 1969 sono stati praticamente distrutti da… un’inondazione! In pratica è piovuto per 22 giorni, ininterrottamente. E queste bombe d’acqua, oltre che provocare dei morti, hanno spazzato via le case. Poco lontano c’è poi Chott El Jerid, un lago salato lungo 250 chilometri. Lago per modo di dire: solo in alcune stagioni è coperto da un sottile strato di acqua che evapora lasciando dei cristalli di sale che brillano sotto il sole, dando vita a fenomeni ottici incredibili. Io ho avuto la fortuna di sorvolarlo su un elicottero militare (un vecchio modello acquistato dagli USA, reduce dalla Guerra del Vietnam), ma ho avuto la sfortuna di beccare una giornata senza sole. Ma mi è bastato per rendermi conto del significato concreto della parola “deserto”…
Douz, la Porta del Deserto
Eppure ci sono dei turisti più coraggiosi di noi, che il deserto lo attraversano: mentre giravo l’inizio della puntata ho incontrato una carovana di dromedari, con sopra tende, materassi e turisti tedeschi. Era un trekking di una settimana attraverso il deserto. Li ho invidiati, almeno un po’. Ero a Douz, la città detta appunto “La Porta del Deserto”, perché da qui partivano le carovane che una volta erano solo di commercianti, e ora quasi solo di turisti. A Douz però è rimasto il Mercato del Giovedì, che ancora mantiene intatto il suo sapore e il suo valore “antropologico”. Molte cose sono cambiate: per esempio ci sono merci che arrivano dalla Cina e molte cose dozzinali in plastica, segno che la globalizzazione ormai non ha confini. Un’altra novità è che oggi ci possono andare a comprare e addirittura a vender anche le donne (fino a poco tempo fa il mercato era riservato agli uomini). Mi ha accompagnato un personaggio assolutamente unico per la sua competenza: Marino Zecchini, antropologo, esperto del deserto, che qui vive da 40 anni. E mi ha fatto da guida nelle varie zone in cui è diviso il deserto: c’è il sûq essay, cioè il mercato degli animali, dove ormai di dromedari (usati quasi solo per portare i turisti) non ce n’è più, ma in compenso ci sono moltissime capre, pecore e asini. Poi c’è il sûq al hubûb, il mercato delle spezie, che da sempre vengono da lontano, trasportate un tempo dalle carovane e ora dai camion. Ma qui l’utilizzo dei prodotti naturali, delle erbe e delle spezie, per mangiare e per curarsi, è ancora realtà. Sûq ruba fika, il mercato della roba vecchia, invece ha la particolarità che il suo nome deriva da una parola… siciliana. Qui si tocca con mano il passaggio in atto fra un’agricoltura tradizionale e un’altra più tecnologica: accanto ad antichi strumenti (come la ghirba per l’acqua fatta di pelle di animale), accanto ai pezzi per fare la tenda beduina, agli attrezzi per la pastorizia e la tosatura degli animali, alle trappole e ai ferri per la caccia, agli utensili agricoli per la coltura del palmeto, etc, si trovano anche le taniche di plastica. In conclusione: francamente la Tunisia mi ha sorpreso. È un viaggio interessantissimo, in un Paese apparentemente diverso e in realtà molto vicino a noi, in tutti i sensi, dove le contraddizioni ultime che coinvolgono il Medio Oriente si possono vedere e toccare, ma in un’atmosfera rilassata e rassicurante.