Thailandia fai da te

3. Agosto 1988 – Thailandia Allora, come ora, l’Oriente era già mitico. Kathmandu, Goa, Bangkok, Bali, erano tutte mete ambite dai viaggiatori “on a shoestring”; naturalmente, alcune destinazioni erano famose per motivi non troppo lusinghieri né salutari (da un punto di vista della medicina tradizionale, of course; può darsi che eroina...
Scritto da: steweboy
thailandia fai da te
Partenza il: 01/08/1995
Ritorno il: 22/08/1995
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
3. Agosto 1988 – Thailandia Allora, come ora, l’Oriente era già mitico. Kathmandu, Goa, Bangkok, Bali, erano tutte mete ambite dai viaggiatori “on a shoestring”; naturalmente, alcune destinazioni erano famose per motivi non troppo lusinghieri né salutari (da un punto di vista della medicina tradizionale, of course; può darsi che eroina e oppiacei vari siano considerati medicinali alternativi miracolosi, tuttavia…); altre località attiravano soltanto per il loro nome, che evocava colorate pagode in giardini lussureggianti, giungle misteriose piene di rumori e bruma traslucida, sconfinate risaie dai mille verdi cangianti, cappelli a cono, occhi a mandorla, risciò e riso fritto.

Quell’anno si era deciso di andare in Thailandia: la compagnia era composta da cinque amici: due coppie più un single, con una simpatica particolarità: a parte mia moglie e me, nessuno degli altri era andato mai più lontano della Svizzera, e non era mai salito su di un aereo. Era il mio primo viaggio organizzato “da solo”. Dopo l’esperienza a Sumatra dell’anno precedente ero convinto di aver assimilato da Franca tutte le malizie del viaggiatore fai-da-te, e mi ero plebiscitariamente autoeletto capocomitiva-organizzatore-guidaturistica-cammelliere e quant’altro; mia moglie aveva accettato (rassegnata, credo…) e gli amici, beh, non avevano scelta.

Il primo problema sorse all’atto della prenotazione dei voli; le tariffe delle compagnie aeree primarie in quel periodo erano semplicemente inaffrontabili, e per raggiungere le mete lontane i viaggiatori “al risparmio” dovevano giocoforza orientarsi su aerolinee “di seconda scelta” che – visto il gran numero di richieste – esaurivano di solito i posti ben prima dell’inizio dell’alta stagione. Fu così che – preventivando una partenza per i primi giorni di Agosto – a metà Marzo io, Pier e Max sbarcammo dal treno alla Stazione Centrale di Milano per recarci nell’unica Agenzia del nord Italia che, pare, disponesse ancora di alcuni posti per Bangkok (in allora le agenzie viaggi acquistavano direttamente dalle compagnie aeree i posti, pagandoli in contanti e rischiando quindi in prima persona di trovarsi sulla schiena dei biglietti invenduti; non esisteva l’usanza di inserire a computer migliaia di prenotazioni su decine di aerolinee, per disdire poi quelle in sovrappiù solo poche settimane prima della partenza; il tanto temuto overbooking è ahimé figlio di tempi più moderni). In effetti, i posti c’erano, sulla tratta Roma-Bangkok, volando con la PIA (Pakistan International Airlines), per la somma non disdicevole (considerando l’inflazione) di Lit. 1.050.000, tasse escluse.

La mattina della partenza, alle 4 del mattino, suona il telefono: è Pierluigi (il marito di Marina, insieme alla quale forma la coppia che viaggia con noi) che mi dice, ancora un po’ arrochito “Ciao! Vieni in Thailandia con me?” e butta giù. Dopo un’oretta ci si incontra, noi quattro più Max (il single), alla Stazione Brignole, dove prendiamo il treno Rapido (il pendolino a quei tempi lo usavano solo gli ipnotizzatori) per Roma Termini; dopo circa sei ore saliamo sul bus Termini-Fiumicino, e nel primo pomeriggio il Boeing 747 della PIA decolla alla volta di Bangkok.

Il piano di volo prevedeva uno scalo a Karachi, un’attesa di un paio d’ore e quindi il successivo imbarco per Bangkok. La prima ora trascorre a fare scherzi agli amici ignari dei rumori e dei tremolii tipici degli aerei, tipo voltarsi di scatto verso il finestrino, sbarrare gli occhi e dire “Ohmadonna!”, e godere degli sguardi supplichevoli, stile “Ti prego, dimmi che non è niente di grave” dei poveretti; finito il sadico divertimento, mi accorgo che il regime dei motori dell’aereo cambia impercettibilmente, così come la pressione all’interno delle orecchie; non c’è dubbio: stiamo scendendo, e per quanto la mia conoscenza della geografia non sia perfetta mi rendo conto che – visto che non siamo sul Concorde – la terra che ci viene incontro non è il Pakistan. Senza un annuncio del capitano, senza una hostess che spieghi nulla, dopo una ventina di minuti l’aereo atterra ad Atene (lo capiamo dalle scritte sull’edificio aeroportuale) e spegne i motori e il sistema di condizionamento dell’aria. Le porte rimangono chiuse, e dato che sulla pista dell’aeroporto la temperatura si avvicina ai 50°, lentamente il nostro Jumbo si trasforma in un cartoccio, e noi – di conseguenza – in branzini. Le proteste vengono sedate con un sorrisetto e un’alzata di spalle dalle hostess (tra l’altro bruttissime). Dopo un’ora e mezza, preceduto dal solito silenzio radio del pilota (ci sarà?), l’aereo rulla verso la pista e decolla. Cominciano a servire il pasto; è un piatto unico, quindi studiato attentamente in modo da incontrare tutti i gusti: montone al curry piccantissimo con riso bollito; la scelta delle bevande – acqua naturale calda e un po’ marroncina – incontra perfettamente l’aroma del piatto. A parte me e qualche altro pazzo, i passeggeri provvedono a restituire i vassoi intonsi al secondo passaggio del carrello.

Per circa cinque ore, a parte la proiezione – canale unico – di un film indopakistano dalla trama molto simile ad una sceneggiata napoletana (ma con meno pizza) ed ovviamente in lingua originale, non c’è nulla da segnalare, e sul far della sera veniamo depositati all’Aeroporto Internazionale di Karachi, dove ci accomodiamo – sorvegliati a vista da numerose guardie armate – in un’enorme sala d’aspetto. Veniamo fatti passare ai banconi dell’immigrazione, dove ci trattengono il passaporto “per i visti d’ingresso”; ultimato il ritiro dei documenti, un tipo in uniforme aeroportuale sale su un tavolo e urla in un inglese appena intelligibile che l’aereo per Bangkok ha più di 12 ore di ritardo, che sono molto dispiaciuti e che – per rimediare – ci offrono il pernottamento nei migliori alberghi di Karachi. Eravamo giovani e inesperti, e questo inconveniente aggiungeva un po’ di fascino imprevisto al nostro viaggio. Stupidi.

Durante l’assalto agli autobus per gli alberghi, le guardie ci separano; mia moglie, Max ed io da una parte e Pier e Marina dall’altra. Dopo pochi chilometri, veniamo depositati davanti all’Hotel Intercontinental che, una volta al suo interno, ci rivela quanto poco intercontinentale sia in realtà: mobili sghimbesci, staff sbragato con uniformi sdrucite e dita nel naso (lo sport nazionale oltre allo squash, scopriremo poi), moquette smunta dal contenuto di batteri simile ad una discarica indiana, odore di curry (ed altro) ovunque. Veniamo accompagnati in una “stanza” che offre soltanto un letto ed un comodino talmente storto che l’abat-jour è stata messa a terra per non cadere. Provati dalla giornata, sveniamo vestiti sul letto; alle sei del mattino un bussare violento ci ridesta, e veniamo invitati – in pakistano, quindi l’interpretazione è oltremodo empirica – ad accomodarci nella lobby per la colazione. Ci viene servito un panino vuoto e un po’ raffermo, accompagnato da un piatto pieno di gelatina verde (sic!) dal gusto vago di chewing-gum; naturalmente, acqua tiepida a go-go ad innaffiare il tutto.

Con cadenza da marines, una guardia ci imbarca sul bus verso l’aeroporto, nella cui sala d’aspetto incontriamo Pier e Marina con gli occhi un po’ spiritati. Ci raccontano che, giunti al loro albergo – probabilmente dello stesso, infimo livello del nostro – sono stati accompagnati alla stanza da un energumeno di 2 metri per 2 con le sopracciglia unite tipo il cattivo dei film di Charlot; una volta nella camera, il tipo è entrato con loro, ha chiuso la porta dietro di sé e – a gesti piuttosto chiari – ha chiesto una mancia. Pier, ignorando il costo della vita e il reddito medio del Pakistan, e forse anche un po’ spaventato, gli ha allungato una banconota da 20 dollari americani; l’individuo se ne è andato ululando di gioia e ballando una giga.

Dopo un’oretta di attesa sull’asfalto semidisciolto della pista, sotto il sole di mezzogiorno, veniamo imbarcati sul nostro aereo che, da mille particolari (tipo i sedili che scorrono sulle guide, l’acqua di condensa dei condizionatori che cola sui sedili e l’asse della toilette spaccata), si rivela come lo stesso che ci ha portato lì da Roma il giorno prima. Evitiamo ogni tipo di commento e – in confidenza – un po’ preghiamo durante il decollo. L’atterraggio a Bangkok viene accolto con un sospiro di sollievo corale ed un applauso spontaneo (allora non si parlava di standing ovation).

La Filosofia Basica di Viaggio, già evidenziata nei capitoli precedenti, e che (ahivoi!) verrà probabilmente ripetuta qua e là nel libro (un po’ tipo le 3 Leggi della Robotica dei racconti di Asimov), è quella di pensare locale, dando al denaro e al tempo lo stesso valore che gli darebbe un autoctono. Gli ospiti siamo noi; quando andiamo sott’acqua non chiediamo ai pesci di respirare la nostra aria o di camminare, e quando andiamo in altri Paesi non chiediamo agli abitanti di comportarsi come noi o di assimilare i nostri stress ed i nostri tempi. Se non siamo in grado di far ciò, stiamocene a casa o andiamo in un bel villaggio turistico ai Caraibi o alle Baleari: seduti in una piscina fresca, con un bel drink in mano, staremo meglio tutti quanti. Detto ciò, snobbando la colonna dei taxi con aria condizionata dai mille guidatori che urlano e strattonano, dopo aver chiesto indicazioni a circa dieci persone e ottenuto circa undici risposte diverse, ci infiliamo dentro un bus pubblico diretto in centro. La Lonely Planet mi indica con sicurezza che una delle migliori guesthouse di Bangkok è la TT Guesthouse. L’autista del mezzo, gentilissimo, ci deposita alla fermata giusta, spiegandoci in un perfetto thailandese come raggiungere il nostro alberghetto. Ci perdiamo naturalmente dopo il primo incrocio, ma la microcartina presente nella Guida (ed i nomi delle strade indicati anche in alfabeto occidentale sui cartelli) ci rimette nella giusta direzione. Ad un certo punto costeggiamo un prato-immondezzaio illuminato dalla luna e Marina, con un sospiro romantico, esclama “Oh, Pier, guarda quanti gattini!”, sentendosi ribattere da Max “Uèh, Marina, guarda che quelle sono pantegane della Madonna!”; rianimata Marina, troviamo finalmente il vicolo che conduce alla TT Guesthouse, il cui simpatico gestore ci assegna, per il controvalore di circa 3.000 lire a testa, una magnifica camera a cinque letti al terzo piano, con una vista parziale sui tetti della Città degli Angeli (Krung Thep – il nome thailandese ridotto di Bangkok – significa pressappoco questo).

Nonostante il ventilatore a soffitto, il clima umido e rovente rende la notte una specie di delirio sudaticcio e soffocante. Ci alziamo tuttavia corroborati, facciamo una colazione finalmente all’altezza del suo nome (Corn Flakes, insalata di papaya e ananas, caffè con latte condensato) e ci avviamo verso il fiume, dove abbiamo in mente di prendere il battello per visitare il Wat Pra Keo (la città-tempio) e gli altri templi della città.

Saliti sull’imbarcazione, scopriamo come il pilota e i suoi aiutanti si scambino indicazioni sulla navigazione e sulle manovre di attracco utilizzando un fischietto ed un apparentemente complicatissimo ma efficace codice di fischi brevi e lunghi; la gente sale e scende dalla barca, ed ognuno paga una cifra diversa ai vari “bigliettai” abbarbicati sulle fiancate, che paiono accorgersi di qualsiasi movimento venga effettuato. Arriviamo alla conclusione che prendano i soldi e diano il resto completamente a casaccio, tanto veloci ed incomprensibili sono i loro movimenti. Il fiume è inoltre solcato da numerosissime imbarcazioni allungate, tipo piroghe, sulla poppa delle quali è montato – con uno snodo enorme – un motore di auto al cui albero motore è stata collegata una lunghissima prolunga (oltre 5 metri!) per l’elica; le velocità raggiunte da questi natanti sono incredibili, e parimenti incredibile è la pericolosità delle manovre: i blocchi motore vengono sollevati dall’acqua con l’elica impazzita e ancora in movimento, senza porre eccessiva attenzione alle persone transitanti nel loro raggio d’azione. Non appena il barcone attracca alla “nostra fermata”, attendiamo il cenno di uno dei marinai e sbarchiamo sul moletto, seguendo le evidenti indicazioni per il tempio. All’ingresso ci fanno capire però che il nostro abbigliamento è considerato troppo ridotto e quindi “sconveniente”, e veniamo ”costretti” a noleggiare capi di vestiario più consoni al luogo che ci accingiamo a visitare. Data la non eccelsa qualità dei vestiti affittati (e tacciamo in questa sede l’indubbia mancanza di recenti lavaggi), veniamo trasformati in un batter d’occhio in una banda di cinque zingari scappati dalla Romania.

Per la descrizione dei vari templi leggetevi le guide ufficiali (vedi Appendice).

Il passatempo preferito nelle metropoli di tutto il mondo, sia per curiosità che per ingannare quell’oretta di tempo residuo che di solito si riesce a rosicchiare al termine delle giornate, è quello di gironzolare per i centri commerciali, il cui lusso è di solito inversamente proporzionale alla povertà e allo sfascio della nazione dove sorgono. Caratteristica primaria dei centri commerciali dei paesi caldi è l’aria condizionata, regolata a temperature da Cornetto Algida e quindi capacissima di bloccare all’istante qualsiasi processo digestivo in corso. Peggio ancora se i turisti curiosi passeranno da un centro commerciale all’altro, alternando quindi afa e temperature torride a folate di vento ghiacciato. Quel pomeriggio, alcuni secondi dopo essere entrato nel quarto Shopping Center di seguito, Pier sbarra gli occhi, la fronte imperlata di goccioline di sudore tipo würstel sulla graticola, la bocca semiaperta in una smorfia di terrore; si strappa lo zainetto dalle spalle ed afferra per il bavero il guardiano apriporte (con tanto di alamari regolamentari), urlandogli (Pier non sa una parola di nessuna lingua oltre ad italiano e genovese): “Toilet!”. Il poveretto, allibito da questo pazzo che gli urla “cesso” in faccia, gli indica con mano tremante la porta delle ritirate, in fondo ad un corridoio che a Pier – che lo percorre a testa bassa stile centometrista – deve essere sembrato lungo come la maratona di New York. La porta dei gabinetti gli si chiude dietro, silenziosa e oliatissima. Cominciamo a guardarci, ridendo sotto i baffi. Dopo una decina di minuti, la porta si riapre, ed un mesto Pierluigi ne esce, la schiena piegata e lo sguardo spento; trattenendoci quanto il pudore permette ci avviciniamo e gli chiediamo notizie. “Non ce la facevo più, è cominciato di colpo… pensavo di non farcela ad arrivare al cesso: mi sono strappato praticamente i calzoni prima di entrare. Finito tutto mi guardo in giro: cazzo, non c’è carta igienica né un fottuto rubinetto! – le nostre espressioni compunte si stanno lentamente deformando – Allora mi guardo in tasca: ho due biglietti da un dollaro: uso quelli ma non basta; allora strappo le pagine della mia agendina telefonica… – Max a questo punto gli ha già voltato le spalle e ride sommessamente, tradito dai sobbalzi della schiena – … ma non basta neanche quello! Cazzo, ho finito tutta l’agendina! Allora… oh, non avevo scelta… ho guardato dentro il cestino della spazzatura per trovare un po’ di carta usata!”. Le risate squarcianti non ci permettono di sentire se Pier ha poi terminato con successo la sua impresa, ma francamente preferiamo non saperlo. Alla sera, dopo una doccia che perlomeno ci lava via per qualche minuto la patina di sudore appiccicoso alla quale ci stiamo già abituando (che strana macchina adattabile è l’uomo), decidiamo di andare nella già allora famosa (ma non ancora famigerata) Pat Pong Road dove – pare – ci siano locali che offrono spettacolini “piccanti”.

Nota a margine: per quanto non siano passati dei secoli, negli anni ’80 la Thailandia era sì famosa per le sue “massaggiatrici”, ma non più di Amsterdam o Amburgo. Lo squallido traffico di minorenni ha cominciato a verificarsi parecchio dopo. La disumanità di questo abominio è tale che non vale neppure la pena di spendere parole di disapprovazione. A parer nostro, i “viaggiatori del sesso” andrebbero puniti con ordalie e torture degne della Santa Inquisizione, così come tutti gli esseri (“uomini” o “persone” sono definizioni un po’ esagerate) che da queste cose traggono profitto; purtroppo – o per fortuna – questo libro non ha né lo scopo né la pretesa di trattare questi argomenti. Leggete pertanto i paragrafi che seguono cercando di capire la mentalità di cinque giovani, incuriositi e un po’ sprovveduti, che capitano in questi ambienti squallidi e spietati davvero senza malizia o secondi fini.

Appena giunti nelle vicinanze della famosa strada, le luci multicolori – una specie di clone malaticcio dello “Strip” di Las Vegas – ci attraggono come fossimo falene. Lungo le case, innumerevoli bancarelle di audiocassette pirata, occhiali e abbigliamento griffato e falso come le lacrime di Giuda, incensi e droghe più o meno legali. Dai locali con insegne al neon gli imbonitori attirano i turisti disorientati promettendo – come nei Luna Park d’inizio secolo – meraviglie mai viste, donne fantastiche, spettacoli incredibili a prezzi quasi irrisori. Dopo un po’, poveri genovesi provincialotti drogati da questo mondo nuovo e proibito, cediamo alle lusinghe di un “buttadentro” un po’ più convincente ed entriamo in un locale. L’arredamento ed il layout sono tipo night club: tavolini sparpagliati nel locale ed alti sgabelli di fronte ad un bancone di vetro che – scopriremo – funge da palcoscenico. Palle rotanti a specchio, luci strobo, musica disco anni ’70, fumo, sudore, moquette usurata, cerchi umidi dei bicchieri sul vetro; in un angolo, un po’ rialzata, una doccia (sic!) a tre posti. Prendiamo posto sugli sgabelli, e subito un nugolo di giovani “cameriere” ci assale; ordiniamo Coca Cola per tutti (si vive una volta sola, che diamine!), ed attendiamo che lo spettacolo cominci.

Un rumore d’acqua ci fa voltare: nella doccia ci sono tre ragazze – nude – che si lavano. Ma si lavano “originale”: sapone, mignolo nelle orecchie e tutto quanto. Finite le abluzioni, si fasciano in un asciugamano e se ne vanno. Qualche deficiente applaude.

Sale sul palco un’altra ragazza; la cosa che colpisce subito è l’espressione triste: non la grinta strafottente delle lapdancer americane né il sorriso stereotipato delle ballerine del Crazy Horse; un mezzo sorriso stentato, tradito dagli occhi con i bordi all’ingiù. Nuda dalla vita in su; un pareo arrotolato sui fianchi. Se lo toglie e rimane bella nuda; accenna qualche movimento – che un tempo forse era “felino” ma ora è stanco, molto stanco – coi fianchi, poi si inginocchia, si introduce due dita nella vagina e comincia a tirarne fuori un filo interminabile al quale – a intervalli di una ventina di centimetri – sono attaccati lunghi spilli. Alla fine il filo è lungo parecchi metri. Come è arrivata, la ragazza sparisce.

Si presenta un’altra collega, un po’ più sorridente ma con un vistoso cerotto bianco sullo zigomo. Stessa scena del pareo e del colpo d’anca, triste uguale. Dal nulla compare una bottiglietta di Coca Cola (forma sinuosa brevettata, 33 cl.), regolarmente tappata. La ragazza la infila nel solito posto come se niente fosse; un solerte colpo di polso, uno sfrizzolare allegro di bollicine color caramello, un tappo a corona – umidiccio? – che cade sul palcoscenico. Marina sbotta “Bella forza, ha un apribottiglie nascosto dentro!”, e Pier non si trattiene: “Allora stasera in albergo ci provi tu a tenerlo fermo mentre io apro le bottigliette per tutti!”.

Rullo di tamburi. Dopo un’altra doccia alle nostre spalle (questa volta non si sono insaponate tanto…), salgono sul palco un ragazzo e una ragazza, nudi. Lui si siede scazzato per terra e lei comincia a baciarlo ovunque, ma soprattutto OVUNQUE. Dopo un po’ cominciano un rapporto completo, con lo stesso trasporto di magazzinieri addetti all’inventario dei cuscinetti a sfere; le espressioni tradiscono la completa assenza di qualsiasi sensazione, manca solo che lui fischietti e lei si limi le unghie. Dopo i primi – inevitabili – istanti di salivazione assente, lo spettacolo diventa quantomeno noioso. Colpo d’occhio ai compagni di viaggio: bella serata del cazzo. Chiediamo il conto, che ci viene recapitato da una giovincella seminuda la quale – con l’occhio allenato ai single arrapati – assesta una poderosa ma sensuale manata tra le cosce di Max, che ne risente diventando bianco, rosso, di nuovo bianco e un po’ blu verso la fine. Al momento di pagare, solita sceneggiata, peraltro prevedibile in quel genere di locali: il conto è decuplicato. Utilizzando lo sguardo minaccioso numero 8, ma soprattutto i miei 191 centimetri per 87 chili di gentilezza straniera, convinco il padrone del locale che, forse, qualcuno ha sbagliato. Dopo un po’ di strilli ultrasonici in austrothailandese, il boss accetta 15 dollari di totale (ci ha fregato comunque) e ci saluta con ampi cenni del capo. Bighelloniamo per le bancarelle, acquistiamo qualche cassetta di musica e poi a nanna. Oggi si parte per Chiang Mai, da dove ho previsto di effettuare un trekking di circa tre giorni nelle montagne del Nord. Durante il tragitto in bus, lungo oltre ogni aspettativa, ci fermiamo in un coloratissimo mercato, dove vengono commercializzati prodotti di ogni tipo: vegetali, attrezzi agricoli, animali, alimentari, cibi già cucinati (alcuni forse già masticati), cibi da cuocere, cibi precotti, pesci vivi e non (qualcuno moribondo). Su tutto, l’odore dell’Oriente (del quale forse ripeterò la composizione ancora qualche volta su queste pagine…): un misto tra mille profumatissime spezie, un goccio di latente aroma di feci, un pizzico di sudore umano ed animale, uno spruzzo di gas di scarico di motori “scoppiati”, e un pochino di immaginazione personale. Proprio in questo mercato nasce una scommessa tra me e Max: individuati alcuni cibi, si assegnerà loro – di comune accordo – un punteggio direttamente proporzionale allo schifo che suscitano. Chi, dopo la valutazione, assaggerà volontariamente un copioso boccone del cibo in questione, si vedrà assegnati i punti in palio. Ammessa la parità in caso di equanime coraggio delle parti. La sfida comincia subito a colpi di cavallette fritte (non male se chiudi gli occhi e non ci pensi: sembrano Cipster. Peraltro, come dico sempre, se un orientale venisse in uno dei nostri ristoranti “tipici” e ci vedesse succhiare le gambe e le chele delle aragoste, o mangiare le lumache sorbendole direttamente dal guscio, non credo che gli susciteremmo meno schifo!) e pescegatto in umido, piccante oltre ogni limite (mucose orali pulsanti e completamente insensibili dopo il primo boccone). Parità, si riparte.

Durante il resto del tragitto verso Chiang Mai, consulto febbrilmente la Lonely Planet in cerca di indicazioni su come organizzare il trekking; mi immagino già di arrivare in un brumoso paesino di montagna modello residenza estiva del Dalai Lama, con gli indigeni coperti di stracci che escono esitanti dalle capanne di palma e si avvicinano allo straniero, timorosi e curiosi come i piccioni con i pensionati del parco. Arrivati a Chiang Mai, appena scesi dall’autobus, veniamo avvicinati, anzi assaliti da un’orda vociante che in pochi secondi ci ricopre di volantini colorati: almeno venti guesthouse organizzano i loro trekking privati con jeep, guida, zaini, cozze e frattaglie. Rapido consulto della guida per vedere se cita qualche guesthouse di cui fidarsi un po’ di più, magari anche in base alle testimonianze di precedenti viaggiatori; niente di definitivo. Nel frattempo, veniamo abbordati da una tipa che ci pare lievemente più affidabile: parla un inglese decente, non ha neanche un dente marcio, non mastica niente di sputabile a breve, sembra pulita ed è l’unica a non rintronarci con gli slogan pubblicitari ed a non strattonarci tipo difensore in area di rigore. In tutti i viaggi, se devo decidere per qualsiasi cosa, preferisco scegliere – a parità di condizioni – la proposta di quello che urla, tocca e spintona meno (d’accordo, in India è quasi impossibile, tuttavia… questa è un’altra storia, o meglio capitolo).

Arrivati all’alberghetto, vediamo che è carino, nuovo, appena costruito, formato da bungalow doppi con il loro bel bagno, zanzariere alle finestre, ventilatorone al soffitto ecc.; ha anche il pregio di essere vicino al ristorante di Lek, un francese trapiantatosi in Thailandia che offre a buon prezzo squisite bistecche di bufalo, spiedini misti ed altre carni gustose su cui non abbiamo – in verità – mai indagato a fondo.

Cominciamo a parlare di come organizzare il trekking, ed al termine del “summit” concordiamo un quattro-giorni-tre-notti con lunghi percorsi a piedi, mezza giornata a dorso di elefante e mezza di rafting su zattere di bambù. Si parte l’indomani; ci viene presentato Ya, il ragazzo che sarà la nostra guida (perlomeno facile da chiamare in caso di bisogno…), che, per far vedere che sa l’inglese come Churchill, ogni due parole strascica un “I mean…” (il nostro “cioè”) che dopo alcuni minuti ce lo “mena” davvero. Conosciamo anche i nostri compagni di avventura: Oliver ed Emma, una coppia di inglesi adolescent-fricchettoni, e Jaan e Reneete, una coppia di olandesi che, in patria, praticano lo sport della corsa nel bosco (che Mondo strano, il nostro…).

Si parte di buon’ora: gli zaini forniti dalla guesthouse riempiti con il minimo del minimo indispensabile (Autan, cerotti antivesciche, carta igienica, zampironi, K-Way, calzoni, maglietta, calze di ricambio e stop) vengono caricati sul portapacchi, e noi caricati sul retro della jeep. Dopo qualche ora di trazione integrale su di una mulattiera che neanche i muli, la jeep si incarta dentro una pozza fangosa larga come Piazza del Duomo. Ya scambia un’occhiata con l’autista ed esclama: “I mean… cominciamo il trekking!”. Entusiasti e un po’, come nei “pensierini” delle elementari, stanchi ma felici, ci mettiamo gli zaini in spalla e un piede dietro l’altro arranchiamo sulla salita. Gli inglesi sono equipaggiati come per una gita al parco: Oliver monta un paio di scarpe da tennis di stoffa tipo Superga, Emma un paio di ballerine di vernice nera ed un vestitino a fiori che farebbe venire la labirintite alla Regina Madre. Il clima è dannatamente umido, e ben presto le battute alla Bruce Chatwin lasciano il posto a vari gradi di fiatone pernicioso. Verso il tardo pomeriggio, tra le brume della giungla si intravede un villaggio: grandi capanne di legno, qualche pezza di lamiera ondulata…Ed una jeep bella nuova parcheggiata in un angolo. La indichiamo a Ya come per dirgli “brutto bastardo di un thailandese di merda, perché accidenti ci hai fatto camminare a fare se c’è la jeep che ci arriva?”; lui comprende, e sistema il tutto con un’alzatina di spalle e un sorriso. Veniamo presentati al capo del villaggio, che ci fa accomodare in una enorme capanna di legno con una fila di brande – pure di legno – su cui ci fa segno di posare i nostri zaini. Nel locale a fianco, su di un fuoco acceso per terra, il “cuoco” sta preparando una brodaglia untuosa, il cui profumo – dopo oltre sei ore di marcia – non evita comunque di solleticarci le narici.

Da una condotta di bambù che esce da sopra un tetto, ma sembra uscire dal cielo, cade un rivolo d’acqua piacevolmente fresca e a turno, eliminando quasi del tutto l’imbarazzo di eventuali nudità concesse alla vista dei presenti, ci concediamo una bella doccia rinfrancante, per poi sederci a tavola con un sospiro di sollievo. Nei piatti che vengono riempiti campeggia una robusta porzione di stufato di carne e vegetali, sul quale ci gettiamo con un certo impeto parossistico. Il gusto – anche se l’opinione momentanea è viziata da necessità e fame – è molto buono e, come fa osservare Pier, la carne è particolarmente saporita. Attirando l’attenzione del capo, che cena con noi, Pier gli indica un maialino selvatico che passeggia – insieme ad altri – per il villaggio, poi indica la carne che ha nel piatto e, con il cenno universale delle dita a mazzetto ed imitando rozzamente il grugnito del maiale, guarda il nostro ospite con aria interrogativa come per chiedergli “è di maiale questa carne così buona?”. Il capo scoppia a ridere facendo ampi segni di diniego con la testa ed entrambe le braccia, poi indica un cagnolino spelacchiato che transita per di lì, guarda lo stufato ed esclama “bau bau!”. Il viso di Pier perde otto anni in due secondi, le occhiaie assumono i colori dell’iride per poi stabilizzarsi su un grigio antracite, e le spalle si caricano del peso di mille secoli. Gli altri continuano a mangiare impassibili. Bau.

Il buio, come quasi sempre in Oriente, arriva in un attimo, e dopo qualche discorso con i nostri compagni di viaggio decidiamo di andarcene a letto. A parte qualche urletto da incubo incipiente di Pier e qualche “vaffanculo e lasciaci dormire” multilingue indirizzatogli dagli stanchi vicini di letto, la notte trascorre tranquilla, e l’indomani di buon’ora – dopo una colazione a base di uova fritte nell’olio di cocco (cinque punti-sfida) – l’allegra comitiva si rimette in cammino. La giornata è bellissima e il paesaggio davvero stupefacente. Un continuo alternarsi di giungla, piccoli fiumiciattoli da attraversare (alti fino alle caviglie o poco più: camminare con i piedi che fanno cic ciac ci fa sentire molto Marines nel Vietnam), risaie con contadini sorridenti (licenza poetica: veramente non sorridono poi tanto, curvi come sono tutto il giorno a strappare e ripiantare piantine di riso, nell’acqua fino ai polpacci, pieni di sanguisughe, sotto un sole della Madonna tutto l’anno e che se gli va di culo hanno la figlia che apre le bottiglie di Coca Cola senza mani nei bordelli di Bangkok); Ya tiene un ritmo piuttosto sostenuto ma tutti lo seguono ostinatamente; Emma comincia a zoppicare perché le ballerine – le uniche scarpe che si è portata – le stanno scavando perfide vesciche nel tallone e sul collo del piede; gli olandesi accennano ogni tanto a qualche passetto di corsa, tanto per l’allenamento. Dopo la solita parentesi comica di Max che si imbosca a fare i bisogni grossi dietro un cespuglio e cerca di pulirsi con una lucidissima foglia di una pianta simile al banano che lo sporca fino alle scapole, e Oliver che si siede su di un formicaio e si tuffa di testa, vestito, nel fiume profondo solo qualche centimetro, giungiamo in vista del villaggio dove dormiremo quella notte. Trattasi di quattro capanne in riva ad un fiume, tutte costruite con la tecnica delle palafitte, ma su terraferma. Proprio mentre sistemiamo i bagagli sui pagliericci, Madre Natura sceglie il momento di chiedermi il contributo per la fertilizzazione del suolo thailandese, sotto forma di uno spasmo intestinale irresistibile.

Senza profferir parola, scendo la scaletta malferma e, con occhio iniettato di sangue, comincio a cercare un posto dove espletare questo imprescindibile compito; tutto intorno, erba bassa; l’unico albero della zona è troppo lontano per poter essere davvero sicuro di raggiungerlo. L’unica soluzione possibile mi appare di colpo: il fiume! Mi ci precipito, cerco affannosamente un posto dove l’orografia mi consenta di scendere, mi denudo le parti basse depositando calzoni e mutande sull’argine e mi calo in acqua afferrandomi ad una radice. Giusto sul più bello (…Parliamone…), questa pensa bene di cedere, ed in un batter d’occhio mi ritrovo ghermito dalla corrente che, se non è quella del Rio delle Amazzoni, non è neanche il torrentello sotto casa. Dimenticato per il momento il compito che stavo terminando, comincio a nuotare verso la sponda, che raggiungo non senza difficoltà, approdando a circa duecento metri dal luogo dal quale mi sono staccato. Riprendo fiato svaccato sul fango dell’argine stile Robinson Crusoe, mi rimetto in piedi e mi avvio verso il villaggio, momentaneamente dimentico del fatto che indosso solo una T-shirt. Quando me ne accorgo sono l’ultimo: tutti gli indigeni stanno ridendo a crepapelle, indicando la parte del mio corpo che, non potendone proprio fare a meno, penzola fuori dalla maglietta. Cercando di sorridere con spirito orientale (ma dentro mi sento un po’ una delle “artiste” di Bangkok), ritorno con nonchalance al fiume, recupero il resto dei miei vestiti e risalgo nella capanna senza voltarmi indietro. L’unica volta che lo faccio, colgo Pier che agita la macchina fotografica come per farmi capire che ogni cosa è stata scrupolosamente documentata.

Meno male arriva la sera; durante la cena a base di riso fritto con uova e vegetali, pesce gatto in umido e cocco (tutto insieme…) ci viene comunicato che l’indomani mattina effettueremo la gita a dorso di elefante fino al molo di partenza delle zattere. Poi, con sguardo complice, Ya ci chiede se vogliamo – per caso – provare a fumare l’oppio. Io sono da sempre contrario ad ogni tipo di droga, sia leggera che pesante, a partire dalle sigarette passando per il vino, l’alcool, gli spinelli e il gioco d’azzardo. Però… l’oppio… mi ridesta memorie di fumerie clandestine nella New York di fine Ottocento, teatri di ombre cinesi, musiche orientali, fumi aromatici. Tutti quanti decidiamo di provare, e veniamo accompagnati nella capanna adibita a fumeria. Dentro di essa un vecchio secolare siede a fianco di una brandina, sulla quale fa segno ad uno di noi di accomodarsi; decido di passare per primo (nota: non ho mai fumato in vita mia neppure mezza sigaretta…); imitando Robert De Niro in “C’era una volta in America” afferro la pipa e, mentre il vecchietto ne appoggia sul foro una pallina di oppio e la tiene sulla fiamma, aspiro a rapide boccate trattenendo il fumo dentro di me: prima di morire per sincope da apnea prolungata espiro il fumo – buonissimo: sa di menta e resina – formando una nuvola, chiamata nell’ambiente “l’alito del drago”. Attendo la “botta”, mentre cedo il posto a Pier: niente. Quando tutti hanno finito il primo giro, sono lucido come un pilota di Formula Uno; un po’ deluso, decido di riprovare. Niente. Nessuno di noi cinque – hanno provato tutti due volte, alla fine – prova il benché minimo sintomo; o ci hanno dato da fumare merda di scimmia oppure bisogna fumare per sei ore prima di sentire lo “sballo”. Sentiamo un rantolo dietro di noi e ci giriamo di scatto: Emma e Oliver (che probabilmente già in inghilterra si “sminchiano” regolarmente) giacciono a terra con gli occhi bianchi, bisbigliando frasi sconnesse tipo “Oh my God, how strong… I can see… argh! Every single… oh mymy, the stars are… oh boy!”. Boh! Paghiamo lo “spaccia” (cinquecento lire a “dose”, una follia!), torniamo nelle nostre “stanze” e ci addormentiamo con Moira Orfei che ci sorride bonariamente nel sonno. Veniamo ridestati nel cuore della notte da numerosi colpi di fucile, esplosi esattamente sotto la nostra capanna. Rimesso il cuore nella cavità toracica, il primo a ritrovare la favella è Max, che riesce con grandi doti di concisione ad esprimere in una sola, breve frase tutti i nostri interrogativi: “Che cazzo succede?”.

Ci vestiamo di corsa, immaginandoci già protagonisti di un’imboscata tipo “Apocalypse Now”, e scendiamo la scaletta, per vedere un nugolo di thailandesi armati di fucili che ridono e saltano intorno al cadavere di una scimmia, uccisa – anzi, crivellata di colpi – mentre si aggirava nottetempo nel villaggio per cercare un po’ di cibo. Mentre il clamore comincia a sedarsi, tutti quanti tornano a letto. L’ultima frase che sento prima di riaddormentarmi è di Pier: “Io domani lo stufato non lo mangio”.

Al mattino veniamo svegliati dai barriti degli elefanti giunti al villaggio per consentirci di effettuare la passeggiata. Ci precipitiamo a vederli, mentre i loro guidatori li stanno facendo bagnare nel fiume. Al primo istante rimaniamo lievemente delusi: immaginavamo i poderosi e maestosi elefanti africani, alti tre metri e veramente imponenti e terrificanti; questi sono piccolini, con piccole zanne, dal muso tenero e pacioccone. Stando in piedi vicino a loro riesco agevolmente ad accarezzarne la testa.

Dopo il bagno, sul dorso degli elefanti vengono montate delle panche di legno piuttosto artigianali, e – due a due – veniamo fatti accomodare sugli animali. La gita comincia; dopo un paio di minuti riusciamo a prendere il ritmo ondeggiante del passo dei pachidermi, ed iniziamo a goderci il paesaggio. La formazione di viaggio vede l’elefante di Oliver ed Emma in prima posizione, seguito da quello di Pier e Marina, dal mio e da quello con a bordo gli olandesi. Max ed il suo animale, solitari, chiudono il gruppo. Dopo un paio d’ore comincia una salita ripidissima, che gli animali affrontano senza grossi problemi, nonostante debbano camminare in posizione quasi verticale. Ad un certo punto l’elefante degli inglesi alza la coda, e da quello che si vede sotto di essa si può facilmente prevedere cosa sta per succedere; dal foro (immaginatevi l’oblò di una lavatrice…) sotto il codino, infatti, comincia a fare capolino il risultato finale degli enormi pasti degli elefanti: un’immane palla di escrementi del peso apparente di una trentina di chili e delle dimensioni di un bambino di otto anni. Tutto rientrerebbe nei canoni di Madre Natura, se non fosse che la traiettoria del “proiettile” punta esattamente sul pachiderma sottostante, anzi per essere esatti sulla panchina posta sulla schiena del pachiderma sottostante. Se ne accorgono anche Pier e Marina (gli occupanti della panchina posta bla bla bla), che cominciano a cercare di attirare l’attenzione del guidatore – che se ne è già accorto da tempo, e sorride sotto i baffi radi – prima con dei timidi “Ehiiii…Scusa…”, poi con un’escalation di imprecazioni e urla belluine. Quando l’elefante scarica il poco pregiato carico, il guidatore sottostante fa virare con perizia la sua bestia un attimo prima dell’impatto, proprio mentre i nostri due amici stavano per sperimentare in prima persona e in posizione privilegiata le sensazioni di un monumento assalito dai piccioni.

Presa confidenza con le bestie, Pier, Max ed io chiediamo di poterci sedere direttamente sulla loro schiena. Per quanto gli elefanti siano animali buoni, calmi e socievoli, il fatto di avere un tipo di ottanta chili con le ginocchia piantate nella delicata cartilagine che hanno dietro le orecchie sicuramente non li tranquillizza. Infatti, dopo aver scrollato la testa sbuffando una dozzina di volte, senza palpabile sollievo, l’elefante di Max tuffa la proboscide in un boschetto di mangrovie, ne strappa un ramo spesso come un braccio e lungo un paio di metri, lo agita in aria un paio di volte come un battitore di baseball potrebbe fare per provare la mazza, e senza un attimo di esitazione lo sbatte sulla faccia di Max che, per quanto stordito, riesce a non cadere solo afferrandosi alle orecchie del povero animale; questi, pensando “Allora sei scemo! Ti picchio perché mi fai male alle orecchie e insisti?”, gli assesta un’altra mazzata, che stavolta sortisce l’effetto desiderato, facendo piombare a terra – con ferite solo nell’orgoglio, per fortuna – il nostro corpulento amico.

Verso l’ora di pranzo arriviamo in un piccolo villaggio, dove veniamo nutriti (ormai non importa più molto quello che mangiamo, anche se la sfida-schifezze tra me e Max continua inarrestabile), salutiamo gli elefanti (tranne Max, che zoppica ancora un pochino) e ci dirigiamo verso il fiume, dove ci aspetta l’ultimo tratto di “avventura”: la discesa con le zattere. Esse sono costruite dagli indigeni, e sono costituite interamente da canne di bambù lunghe una decina di metri e del diametro di un braccio; sono larghe all’incirca un metro e mezzo, ed al centro hanno un trespolo (di bambù anch’esso) sul quale – fasciati in sacchetti di plastica – trovano alloggio e parziale riparo i nostri bagagli. La manovra delle zattere, ci spiega Ya, è semplicissima. Ogni imbarcazione accoglie cinque sfigati: uno non deve fare niente se non evitare di cadere nel fiume e controllare i bagagli, gli altri quattro pilotano la zattera utilizzando pertiche (di bambù: originale, vero?) lunghe circa quattro metri. “Che figata!” pensiamo all’unisono, sentendoci già un misto tra Capitani Coraggiosi, Tom Sawyer e Indiana Jones. Dopo mezz’ora di navigazione, tra le grida del pilota “Lept” (che significa “Punta la tua pertica sul fondo del fiume passando per il lato sinistro della zattera”) e “Ràit” (che non traduco), le nostre mani, grazie alla pelle sempre bagnata ed all’attrito con la pertica – pesante qualche chiletto, bagnata anch’essa e ruvida come un tronco – sembrano hamburger al sangue. Il fiume è tutt’altro che turistico, e alcune rapide vengono affrontate dai passeggeri con una tecnica a dir poco invidiabile: si gettano nel fiume, superano le turbolenze a nuoto e poi chiedono di essere ripescati. Dopo quattro ore, con le mani ormai degne di Muzio Scevola, attracchiamo al porto di arrivo e mangiamo in un piccolo “ristorantino” presente nel villaggio. Dopo il pranzo, effettuato con qualche difficoltà vista l’impossibilità di impugnare correttamente le posate, possiamo osservare come uno dei “camerieri” porti fuori i piatti sporchi e li appoggi sul terreno vicino alla sponda del fiume. “Li laveranno dopo, tutti insieme” pensiamo, ma veniamo subito smentiti quando un branco di simpatici cagnolini spelacchiati si avvicina, finisce gli avanzi con la stessa frenesia di un branco di squali, e comincia quindi a leccare le stoviglie fino a ripulirle completamente. A quel punto abbandoniamo il ristorante senza chiederci se i piatti verranno – successivamente – risciacquati. Rapida disinfezione delle mani con quel poco di medicinale che ci è rimasto negli zaini e a nanna – sconvolti – nel peggior posto finora incontrato: una capanna piena di materassini di gommapiuma (meglio il legno, almeno non raccoglie parassiti) e frequentata da topi che sembrano piccoli pointer, ma che perlomeno – bisogna sempre pensare alle cose positive, no? – non abbaiano. Il sonno ci afferra comunque implacabile e rapidissimo, e ci risvegliamo il mattino dopo.

Ultimo giorno di trekking, e nella marcia di avvicinamento alla strada carrabile incontriamo il villaggio dei Karen Bianchi, presso i quali ci rechiamo. Per quanto piuttosto vicini alla “civiltà”, i Karen hanno mantenuto una certa vita appartata, e la breve permanenza presso di loro è quantomai piacevole e “selvaggia”.

La jeep ci aspetta proprio dove si iniziano ad intravedere delle parvenze di strada carrabile. Ora sappiamo che è proprio finita. Piuttosto mesti, carichiamo il bagaglio sul tetto e ci infiliamo all’interno del veicolo. Breve sosta presso un altro mercatino, dove – gironzolando curiosi – io e Max ci imbattiamo in una bancarella di “alimentari” che sfoggia alcune nefandezze impossibili; su tutte campeggia una bacinella di metallo smaltato bianco, contenente un ammasso di materia morbida che dall’aspetto sembra merda, dal colore sembra merda, dall’odore sembra proprio merda e dalle mosche che vi si posano sopra non può essere altro che merda. La padrona della bancarella ce la indica sorridendo come a dire “Ah, finalmente due intenditori! So che voi sapete quanto vale questo prodotto pregiato, e che non vedete l’ora di prendervene una bella porzione!”. Max avvicina il naso, lo strizza e, con le lacrime agli occhi per i vapori venefici inalati, mi dice: “Se assaggi questa ti dò partita vinta!”. Alla prospettiva di risultare vincitore di una così nobile tenzone, infilo senza esitare il dito nella poltiglia infame, lo piego in modo che possa intrappolare tra le falangi una buona quantità di prodotto, ed in apnea me lo introduco in bocca, inghiottendo l’abietta mistura senza il tempo di assaggiarla troppo. Max strabuzza gli occhi e mi stringe la mano (l’altra) mormorando “Cazzo, sei un eroe!”. Sorrido non troppo convinto. La pappetta mefitica è pasta di pesce putrefatto con spezie varie (tra cui – sicuramente – moltissimo peperoncino) per il condimento dei piatti più elaborati; in effetti – per i thailandesi (e forse neanche per tutti…) – una vera delikatessen. Il suo gusto sicuramente indimenticabile mi si ripresenterà – giorno e notte, ad intervalli regolari, cioè ad ogni digestione – per una settimana circa, rendendomi così possibile, grazie al semplice gesto dell’espirazione, il condividere questa gioia con i miei compagni di viaggio che, caso strano, non sembrano apprezzarla appieno.

Dopo una sontuosa cena da Lek, dove diamo fondo sia al nostro budget che alle scorte nel frigorifero del ristorante, salutiamo Chiang Mai e – a bordo di un autobus con aria condizionata – rientriamo a Bangkok e ci ripresentiamo alla TT Guesthouse, dove ci viene assegnata d’ufficio la stessa stanza della prima volta.

La mattina successiva ci rechiamo in un’agenzia viaggi e prenotiamo – con partenza una settimana dopo – un volo per Hong Kong. Strano a dirsi, non c’è nessun problema nel reperire i posti, sia per l’andata che per il ritorno, previsto dopo tre giorni di permanenza. Ritiriamo i biglietti, che vengono emessi in un paio d’ore, e ci rechiamo alla stazione ferroviaria, dove prenotiamo – per la sera stessa – i biglietti (di terza classe) per Surat Thani, un paesino 600 chilometri a sud di Bangkok dal quale partono i traghetti per Ko Samui, una magnifica isola tropicale esaltata nelle pagine della guida per le sue acque cristalline e per la quasi totale carenza di turisti (mi spiace dovervelo dire così brutalmente, ma al giorno d’oggi anche Ko Samui, al pari di Tioman, è sempre una magnifica isola tropicale ma ben lungi dall’essere incontaminata e poco turistica; la Thailandia resta comunque un’ottima meta con un eccezionale rapporto qualità-prezzo). Gironzoliamo ancora un po’ per centri commerciali e per bancarelle di magliette Lacoste fasulle, andiamo a “casa” a preparare i bagagli, ceniamo e ci rechiamo alla stazione dalla quale – con precisione svizzera – il treno per Surat Thani lascia il binario di partenza. Qualche chilometro fuori Bangkok, il nostro convoglio transita nei pressi di uno slum, dove – per la prima volta in questo viaggio – entriamo in contatto con la miseria e la fame vera. Ai bordi della massicciata ferroviaria, ragazzini seminudi vendono ad altri “concittadini” delle pantegane giganti, delle dimensioni di un coniglio adulto, già scuoiate e ripulite, pronte per essere – aaargh! – cucinate. Quando cala il buio, cerchiamo di assestarci meglio nei sedili per provare a dormire un po’, ma veniamo subito assediati da una folla di autoctoni che cercano di infilarsi sotto i nostri posti e sotto le nostre ascelle, appoggiando anche la testa sui nostri braccioli o sulle nostre gambe. Proviamo prima ad essere simpaticamente accondiscendenti, poi gentilmente intransigenti, quindi proviamo a scacciarli a calci gridando “Vaffanculo!”: niente. Appena ci addormentiamo, peggio degli scarafaggi di Singapore, sciamano ovunque intorno a noi. Alla fine cediamo e crolliamo sfiniti, circondati e ricoperti di thailandesi sudati. Apro gli occhi sul far del mattino: Pier dorme testa contro testa con un signore sulla cinquantina, Marina ospita sulle cosce una ragazza, sul bracciolo sotto la mia ascella sinistra c’è un altro tizio, elegante e di mezza età. Max apre gli occhi di scatto e grida rauco: “No! Signore, non adesso, non qui! Ah, cazzo!” e tenendosi una mano sulla pancia si getta a capofitto nel cesso, dal quale escono miasmi degni di una trincea ostrogota.

Scendiamo a Surat Thani verso mezzogiorno, grattandoci come cani randagi: abbiamo preso le pulci! Ci gettiamo in mare quasi subito, ripulendoci e fregandoci forsennatamente la pelle. Disinfestati (e disinfettati), partiamo dopo un paio d’ore con il traghetto per Ko Samui, e sbarchiamo sulla magnifica isola nel tardo pomeriggio. All’imbarcadero incontriamo la solita ressa di pulmini, taxi, risciò, minibus, eccetera. Ci facciamo accompagnare in uno dei pochi resort dell’isola, consigliato dalla guida. È un posto carinissimo: bungalow con camera e bagno sparpagliati in un bosco di cocchi (si chiama “coccheto” secondo voi?), a due passi dal mare; un’area comune molto bella con ristorante e salotto per fare quattro chiacchiere con gli altri ospiti, se ce ne fossero. Il tutto gestito da alcune thailandesi di mezza età simpaticissime. Ci viene subito offerta la possibilità di noleggiare delle moto per girare l’isola. Sono Honda 125 cc. Da cross, molto belle e ben tenute. Ne prendiamo tre e cominciamo a gironzolare. Pier non ha mai guidato una moto del genere – solo la Vespa – e trova subito alcuni problemi, tra cui il cambio a pedale, il manubrio, la stabilità, la frenata, le ruote grandi, la sella, l’acceleratore, i freni e altri inconvenienti minori.

Arriviamo nel villaggio principale dell’isola, che dista una decina di chilometri dal nostro resort. Curiosiamo un po’ per le solite bancarelle-trappola, accarezziamo una simpaticissima scimmietta che si affeziona subito a mia moglie (Darwin vedeva lontano…) e, ad un tratto, osserviamo verso il mare una preoccupante linea di nuvole nerissime; il vento si alza, la temperatura scende di colpo, ed il mare comincia ad agitarsi. Chiediamo lumi ad un indigeno, che sorridendo ci risponde “No problem, hurricane”. Mentre opiniamo sul “no problem”, temendo “l’hurricane” ci dirigiamo verso le motociclette; non appena le avviamo comincia a piovere: gocce grosse e caldissime, che fanno quasi male quando colpiscono. Cominciamo a guidare rombando verso “casa”, e in pochissimo tempo le strade si allagano e vengono popolate da migliaia di rospi e batraci vari; c’è anche qualche serpentone. Pier è partito per primo, ma lo incontriamo dopo qualche chilometro, fradicio sotto l’acqua, con la moto sul cavalletto, spenta; ci vede arrivare e si getta in mezzo alla strada, con le mani giunte, urlando “Vi prego, fermatevi, non trovo la riserva!”.

Aiutato lo sconsolato ed inesperto centauro, arriviamo all’albergo percorrendo l’ultimo tratto su di uno sterrato che si è trasformato in un vero e proprio fiume di fango. Le nostre albergatrici ci stanno aspettando con degli enormi asciugamani tra le braccia, e dopo qualche minuto siamo seduti a tavola di fronte a delle fumanti ed apprezzatissime tazze di the. Pier nel frattempo è andato in camera a prendere le pillole settimanali per la prevenzione antimalarica, il Metakelfin. Questo medicinale – negli anni successivi – è stato praticamente messo fuorilegge a causa degli enormi effetti collaterali che provocava, primi fra tutti gravi problemi – fortunatamente transitori – alla vista.

Ci rilassiamo un paio d’ore sulle poltrone del resort, e vediamo Pier che ritorna da noi con passo malfermo; quando si avvicina, ci accorgiamo che tiene gli occhi socchiusi e la testa alta, come se volesse guardarci di sottecchi. “Cazzo, ragazzi, non vedo più niente” ci dice; pensiamo subito ad un effetto passeggero del Metakelfin, e lo convinciamo a sederci a tavola. Oltre che parzialmente cieco, sembra anche lievemente rintronato. Una delle padrone gli si avvicina (ricordiamo che Pier non sa una parola d’inglese) e gli sussurra che sono disponibili – su ordinazione – ottimi pesci da fare alla griglia. Pier, reso impotente dal disagio, risponde “Yes yes yes, tenchiu”; noi nel frattempo ordiniamo una cena piuttosto sontuosa. Nonostante l’occhio cadente, Pier divora una cospicua parte di quanto ordinato. Dopo il dessert, con lo sguardo ancora spentarello, sta per accendersi una sigaretta quando arriva un cameriere con un plateau di legno grande come un tavolo da ping pong, e gli snocciola davanti un king-fish lungo mezzo metro, perfettamente cotto alla brace. “Che cazzo è questo?” ci chiede con flemma inglese il nostro amico; gli rispondiamo che è stato lui ad ordinarlo, e che – visto che non siamo stati interpellati – se lo deve mangiare tutto da solo, oppure buttarlo via; comunque – gli ricordiamo – deve pagarlo separatamente. Pier non ama spendere i soldi: diciamo che è anche piuttosto avaro; al pensiero di dilapidare un patrimonio (nell’ottica del luogo: il pesce alla fine è stato pagato intorno alle 5.000 lire) comincia mestamente a divorare il povero animale, ed al termine del supplizio chiede pietà con la pancia gonfia. Mossi a compassione (anche perché avevamo voglia di assaggiarlo, quel pesce magnifico), io e Max decidiamo di aiutarlo nello “sporco lavoro”.

Veniamo svegliati il mattino dopo dalle urla delle padrone; ci affacciamo alla finestra del nostro bungalow e le vediamo, con delle scope in mano, che battono i cespugli intorno agli alloggi emettendo urla stridule. Quando chiediamo loro cosa stia succedendo, ci rispondono sorridendo “Niente, nessun problema, solo qualche cobra!”. Ci verrà poi spiegato che l’isola di Ko Samui è nota per ospitare numerosissime colonie di cobra malesi che, anche se non sono velenosi come i loro parenti più importanti (i cobra reali), non rappresentano sicuramente un incontro simpatico. Capiamo che non è proprio la nostra giornata poco dopo, quando – terminata la colazione – decidiamo di recarci in qualche spiaggetta isolata. Le prime che incontriamo sono già discretamente popolate di bagnanti, e continuiamo quindi a guidare fino ad incontrare, in una baietta deliziosa, una spiaggia fantastica e completamente deserta. Ci piazziamo in riva al mare con i nostri asciugamani e, indossata la maschera, cominciamo un appassionante snorkeling; il mare è stupendo e popolatissimo: pesci colorati a branchi che vengono a mangiarci in mano i pezzi di pane tostato che ci siamo portati dietro, un paio di testuggini, coralli multicolori che tappezzano gli scogli e le pareti. Quando alziamo la testa, Roberta e Marina – sulla spiaggia – attirano la nostra attenzione agitando le braccia. Vicino a loro, un indigeno. Nuotiamo rapidamente verso di loro, e quando usciamo l’autoctono – un pescatore – ci spiega perché quella spiaggia è deserta. Sotto gli scogli dove stavamo facendo snorkeling c’è un famoso – e popolatissimo – nido di serpenti di mare, al confronto dei quali i cobra malesi sono velenosi come lombrichi. Sorridendo, ringraziamo il pescatore e sveniamo con decenza sulla spiaggia.

Il giorno successivo trascorre tra gitarelle, bagni, altri snorkeling e attività vacanziere collaterali; alla sera lasciamo Ko Samui a bordo di un traghetto, che ci deposita a Surat Thani dove troviamo un magnifico autobus air-con (con hostess e snack a bordo) diretto a Bangkok, che parte (miracolo!) dopo pochissimo tempo. Viaggiamo di notte, senza pulci e – soprattutto – senza thailandesi accoccolati sotto le gambe, e di buon mattino arriviamo a Bangkok; passiamo direttamente su di un taxi una tantum e ci rechiamo all’aeroporto, dal quale decolliamo prima di mezzogiorno alla volta di Hong Kong.

Dopo tre ore circa di volo, giungiamo in vista della mitica città-stato; l’aereo comincia la discesa verso l’aeroporto, e quando siamo a circa 500 metri di quota (io adoro volare, e tutte le volte che salgo su di un aereo chiedo il posto dal finestrino, e guardo fuori con la curiosità e l’entusiasmo di un bambino…) mi preparo a vedere la pista sotto di me e a sentire subito dopo il sobbalzo delle ruote che toccano terra; ad un tratto l’aereo – già a bassissima quota sopra la città – vira bruscamente di lato, e dal finestrino riesco a vedere perfettamente il viso di una donna che sta stendendo uno straccio bianco fuori dalla finestra di una delle case che sono sotto di noi; dopo la virata l’aereo si raddrizza e – ormai a poche decine di metri dal suolo – tocca la pista senza darmi neppure il tempo di riprendere fiato. Il vecchio aeroporto di Hong Kong, infatti (ora, purtroppo per voi, con quello nuovo inaugurato qualche anno fa, non potrete più provare questo brivido…), sorgeva nel mezzo della città, e l’unico modo per atterrarvi era quello di effettuare una virata di 60 gradi a bassissima quota; i piloti autorizzati ad atterrare laggiù dovevano fregiarsi di almeno cinquemila ore di volo con il modello di aereo che stavano pilotando. Una volta ritirati i bagagli, prima di uscire dall’aeroporto decido di passare dagli sportelli della Japan Airlines (JAL), la compagnia con la quale abbiamo volato, per riconfermare il volo di ritorno, previsto dopo tre giorni. L’impiegata molto gentile ci spiega che chi ci ha venduto i biglietti ci ha in qualche modo truffato: i nostri posti sul volo di ritorno sono in lista di attesa, e abbiamo così tante persone davanti che sperare di partire è impossibile. Quando le spiego che dobbiamo partire, poiché il giorno successivo abbiamo il volo intercontinentale di ritorno, mi risponde che l’unica alternativa è acquistare dei biglietti di business class; non avendo scelta paghiamo la differenza per il cambio di classe, ripromettendoci, una volta a Bangkok, di passare dall’agenzia viaggi per scuoiare il titolare. Marina ha un lieve crollo psicologico e cade preda di un pianto isterico; Pier la calma quasi subito con una frase dolcissima del tipo “Marina non rompere i coglioni che con quello che ho pagato il biglietto non voglio perdere neppure un minuto per visitare questa città di merda!!”. Usciamo dall’aeroporto: fa un caldo umido veramente tragico; saliamo su di un taxi con aria condizionata, e mentre prendo posto sul sedile davanti, colpisco qualcosa con il piede: è il manicotto che porta l’aria al condizionatore, che quindi smette quasi subito di funzionare. La temperatura assume subito valori da fonderia, e il guidatore mi incenerisce con uno sguardo alla Bruce Lee. Ci dirigiamo verso il centro di Kowloon (Hong Kong è in realtà composta da due città separate: Kowloon sulla terraferma, e la Hong Kong vera e propria, che è un’isola di fronte a Kowloon), dove la Lonely Planet ha segnalato il posto più economico dove dormire, la Chungking Mansion. Quando comunico l’indirizzo all’autista questi, per quanto incazzato per la manovra del condizionatore, non riesce a reprimere un ghigno sadico. Dopo poco tempo ci deposita di fronte ad un edificio di oltre venti piani al centro di Kowloon, ridacchiando “You are Ciunchin Menscion, Mister!”. Entriamo: ci sono tre o quattro ascensori; di fronte una lista smisurata di “hotel”: almeno una decina per ogni piano, impossibile! Man mano che saliamo e guardiamo la situazione, ci rendiamo conto che – di fatto – ogni appartamento su ogni piano è stato trasformato in “albergo” da gestori perlopiù mediorientali; le condizioni igieniche sono a dir poco deprecabili, l’odore rispecchia le condizioni igieniche, la condizione delle camere si identifica perfettamente con i parametri precedenti, e la cordialità dei proprietari completa il quadro generale. Verso il decimo piano ci sembra di aver trovato una camera diciamo sopportabile; il prezzo è – per cinque persone – pari al controvalore di circa 3.000 lire. La stanza è più o meno tre metri per tre, con un comodino, un televisore appeso al muro, una finestra e due letti matrimoniali tanto affiancati che sembrano uno solo; il quinto ospite, ci biascica il padrone, dovrà dormire per terra su di un materasso. Ci portano il materasso: in Italia mi vergognerei persino ad infilarlo in un bidone della spazzatura. Ci affrettiamo a rifasciarlo con uno dei nostri lenzuolini da viaggio, ma il fetore ed il lerciume sembrano trasudare dalle trame del tessuto. Decidiamo che, per le tre notti che passeremo in questo merdaio, un maschietto alla volta si prenderà il disturbo di dormire sulla “pantegana” (come è stato immediatamente ribattezzato il giaciglio); per darvi comunque un’idea delle condizioni generali della stanza, vi basti immaginare che – giocando a carte prima di addormentarci – segniamo i punti sul muro con un pennarello indelebile a punta grossa, senza per questo recare nocumento al valore intrinseco dell’abitazione.

Il clima è umidissimo e piovoso; usciamo comunque curiosi e cominciamo a gironzolare per Kowloon; il posto è veramente particolare: negozi e insegne coloratissime, ideogrammi (è logico!) ovunque, bellissimi tram che girano per tutta la città a prezzi irrisori, milioni di persone che si accalcano, apparentemente senza meta, per le strade che – grazie alla pioggia – riflettono tremolanti le luci delle insegne. Anche qui – con sfumature diverse – l’Odore dell’Oriente.

Decidiamo di inoltrarci per la via principale di Kowloon, dove sorgono i principali – e più forniti – negozi di materiale fotografico. Entriamo dentro il primo e veniamo accolti da un impiegato molto gentile che parla un ottimo inglese il quale – dietro la nostra richiesta relativa ad una telecamera – ci presenta una serie sconfinata di modelli, con prezzi abbordabilissimi e già molto convenienti, anche senza la successiva, abituale contrattazione. Visto che è il primo negozio dove entriamo, e memori degli acquisti troppo affrettati di Singapore dell’anno passato, decidiamo di girare ancora un po’ prima di prendere una decisione. Arriviamo quasi fino in fondo alla strada, quando vediamo un negozio che espone decine e decine di telecamere a prezzi sconcertantemente bassi. Entriamo e identifichiamo il modello che ci interessa: il prezzo è incredibile; chiediamo al venditore – un cinese dalla faccia un po’ di merda – di confermarci che quel modello, proprio quello, costa così, proprio così. Conferma senza batter ciglio, ribadendoci che i prezzi non sono trattabili; “e chissenefrega” verrebbe voglia di rispondergli, tanto meno di così non riusciremmo ad ottenerlo – negli altri posti – neppure contrattando due giorni difilato. Per onestà, però, Pier suggerisce di tornare dal primo tipo, quello tanto gentile, e chiedergli qual è il suo ultimo prezzo; detto, fatto: quando gli offriamo lo stesso importo richiestoci dal negozio del cinese si mette a ridere e ci dice “Un prezzo così non solo non lo trovate a Hong Kong, ma neanche in giro per il mondo!”; punti sul vivo, gli diciamo che invece, a poche centinaia di metri da lui, un suo collega – e gli diciamo il nome del negozio – ci ha richiesto proprio quella somma, per lo stesso modello di telecamera. Il “nostro amico” sbarra gli occhi e ci dice, con lo sguardo triste “Per favore, non comprate da lui: è un bastardo truffatore! Vi dice quel prezzo e poi vi frega!”. Sorridiamo sornioni come a dirgli “Certo, certo… dite tutti così perché lui fa i prezzi più bassi e voi perdete i clienti!”, lo ringraziamo e usciamo dal negozio; ci segue per qualche decina di metri continuando a ripetere di non andare “da quello là”, poi scuote la testa e torna sui suoi passi sconsolatamente.

Torniamo dal cinese e gli chiediamo di farci vedere la telecamera; ce la giostriamo in mano per un buon quarto d’ora. Bellissima! Io e Pier decidiamo per l’acquisto. Concordiamo il prezzo, ci stringiamo la mano e gli consegniamo la carta di credito, che viene regolarmente addebitata; facendo finta di essere furbi e smaliziati, controlliamo attentamente che sulla ricevuta della carta siano stati riportati i dati esatti, poi firmiamo compiaciuti. Il cinese sorride, ci restituisce le carte, la nostra copia della ricevuta, la fattura da lui emessa e due telecamere belle “nude”, senza scatola, batteria, manuale di istruzioni e accessori vari. Lo guardiamo stupiti e leggiamo la fattura che ci è stata fornita, su cui campeggia “1 (one) Sony videocamera ONLY”. Storditi perché realizziamo quanto siamo stati idioti, chiediamo quanto costano gli accessori: il loro prezzo – non trattabile – sommato a quanto abbiamo pagato per la telecamera risulta di qualche decina di migliaia di lire superiore a quanto ci era stato chiesto – trattabile – dal nostro amico in cima alla strada. Non potendo fare altro, insultiamo il bastardo cinese fino a rimanere senza voce, paghiamo gli accessori, lo ri-insultiamo di nuovo, apriamo la porta, qualche ultimo insulto (Pier sputa anche per terra) e torniamo a “casa” con le pive nel sacco.

Alla sera, cercando di dimenticare la semi-truffa subita (abbiano comunque speso parecchio meno che in Italia, anche se il pensiero di esserci fatti fregare da un cosiddetto terzomondista ci urta alquanto), ci rechiamo in un magnifico ristorante cinese, dove ci vengono assegnati cinque camerieri – uno a testa – che per tutta la durata della cena ci stanno dietro, provvedendo a versarci the al gelsomino ogniqualvolta il livello della nostra tazza si trova sotto il minimo consentito. Le bacchette sono di avorio, e i poggiabacchette sono di argento antico; la qualità del cibo è enormemente sopra la media, ma il conto rimane sempre di poche migliaia di lire. Per ammortizzare le telecamere, filmiamo anche i cessi del ristorante. La prima notte trascorre come una sorta di incubo cibernetico: la televisione è collegata ad un interruttore generale fuori dalla camera, e non si riesce a spegnere: trasmette film di kung-fu tutta la notte o, a scelta, sull’unico altro canale, film arabi di guerra sottotitolati in cinese. La prima notte sulla “pantegana” – che, per inciso, è sistemata sotto il supporto pericolante della televisione: oltre al rischio-malattie vi è anche il rischio-crash – tocca a Max, che la supera praticamente insonne. Al mattino guardiamo fuori: piove. Usciamo e, seguendo i suggerimenti della Lonely Planet, andiamo a visitare il mercato generale, un’esperienza indimenticabile: centinaia di settori, per terra ogni tipo di liquidi e solidi, rifiuti e non, pezzi di carne, scarafaggi mutanti, pezzi di vestiti, blocchi di ghiaccio, scaglie di pesce, componentistica elettronica mista; centinaia di persone accalcate intorno ad ogni stand, che discutono, comprano, protestano, urlano tra di loro e con i venditori; profumi, odori, miasmi e fetori tutti mischiati tra di loro (non l’Odore dell’Oriente…); il reparto della carne è la cosa più vicina all’inferno dantesco che io abbia mai sperimentato: carne di ogni tipo, di ogni provenienza, di ogni colore e dimensione, di ogni grado di frollatura ed invecchiamento, in ogni luogo: ganci, banconi, trespoli di legno, enormi frigoriferi, carrelli idraulici, montacarichi, paranchi a catena, binari sopraelevati che dai camion portano direttamente nei frigoriferi industriali. L’odore di carne e sangue pervade ogni atomo del luogo, e ben presto anche il nostro olfatto viene interamente carpito da questo guazzabuglio di aromi violenti. Gli addetti alla pulizia – appena un gradino sopra gli intoccabili dell’India – continuano a gettare secchiate di acqua calda sul pavimento di piastrelle, pulendolo quindi con enormi spazzole di gomma. Il vapore, aromatizzato al sangue rappreso, costituisce la molla che ci spinge ad abbandonare il mercato. Roberta riesce a guadagnare l’uscita prima di consegnare la colazione alle fogne di Kowloon (a parte alcuni spruzzi sulle scarpe di Pier), ma anche le facce di noialtri quattro lasciano indovinare quanto siamo lungi dalla pace intestinale.

Piove ancora. Prendiamo la metropolitana – che corre sotto il mare – e dopo pochi minuti ci troviamo sull’isola di Hong Kong, dove visitiamo i luoghi giustamente famosi (su tutti la collina – con vista sulla baia – resa celebre da molteplici film). Alla sera saliamo su di un tram e – per sessanta centesimi di dollaro di Hong Kong (poche centinaia di lire) – facciamo il giro completo della città che, tanto per cambiare, è rinfrescata da una sottile ma insistente pioggerellina. Scendiamo (non piove!) vicino ad un mercatino notturno in mezzo al quale sorgono numerosissimi ristorantini, la cui qualità media non raggiunge neppure quella dello sciacquone rotto del cesso del locale della sera precedente. Ci sediamo ad ogni buon conto ai tavoli di quello che ci pare offra un buon compromesso odore-pulizia-facce dei camerieri: il menù (un foglio di carta unto e bisunto; in alcuni punti anche trisunto) è scritto in cinese, con una traduzione in inglo-asiatico (“loste” per “lobster”, “krads” per “crab”, eccetera) a matita. Riusciamo a decifrare quanto basta per non morire di fame, e quando il cameriere passa a tiro lo placchiamo stile All-Blacks neozelandesi e gli spieghiamo l’ordine: gamberi per due (Roberta e Marina), cicale di mare per due (Pier ed io) e granchio gigante per Max. Il cibo arriva dopo una manciata di secondi; già ci immaginavamo – stupidi! – portate degne di Paul Bocuse: crostacei sdraiati su letti di verdure fumanti, piatti di portata profumati di condimenti speziati, un set di salse per accompagnare le portate. Col cazzo: cinque scodellacce di alluminio con dentro i nostri animali, semplicemente bolliti (c’è anche un po’ d’acqua – un po’ tanta – sul fondo dei contenitori); posate neanche a morire; un rotolo di carta igienica industriale sul tavolo a mò di tovagliolo collettivo, e via andare. Con un’iniziativa senza precedenti, Marina alza un braccio, richiama l’attenzione del cameriere più vicino (un incrocio tra un lottatore di sumo e un agente del Kgb, con lo sguardo di chi ha il mal di denti e sta per avere un attacco di diarrea a otto chilometri dal cesso più vicino) e gli chiede “It’s possible some mayonnaise, please?”. Il tipo la guarda come potreste guardare uno che ha appena cagato sul vostro nuovo divano di Alcantara bianco e se ne va senza neppure degnarla di risposta; Marina ci guarda disorientata come a cercare conforto, ma trova solo risatine sommesse. Nel frattempo Max combatte con il suo granchio gigante; dopo aver eseguito diverse posizioni del Kamasutra ed alcune del Manuale del Trapper, riesce a sventrarlo ed a scartare tutto il non-edibile: intestini, escrementi, uova, frammenti di cibo maldigerito (bleah!)…Alla fine ci mostra trionfante un pezzettino di carne lungo tre centimetri e largo forse uno, che gli scivola di mano e cade per terra; Max lo raccoglie e se lo infila in bocca senza esitare: gli concedo il pareggio della nostra antica sfida-schifo. Dopo aver cercato di succhiargli le zampe (e forse anche il buco del culo, suggerisce maligno Pier), abbandona l’improba sfida e comincia a pulirsi la faccia e le mani con la carta igienica: nel frattempo, meno male, ha ricominciato a piovere: decidiamo di rischiare un po’ di capitale e prendiamo un taxi per tornare a casina. La pantegana di questa notte è toccata a me; la televisione mi ha deliziato (tanto, chi dorme?) con un programma arabo sui carri armati e con tre partite di calcio della seconda divisione cinese; mi alzo per primo (non vedevo l’ora di abbandonare quel fetido pagliericcio) e mi precipito a guardare fuori dalla finestra: piove. Abbiamo in programma di visitare quello che la guida definisce “il più grande acquario del mondo”; arrivati a Hong Kong raggiungiamo l’ingresso del parco marino, caratterizzato dalla scala mobile più lunga del mondo (e dài!), che in realtà è divisa in quattro tronconi ma che, comunque, dal livello del mare porta ad oltre centocinquanta metri di altezza, su di una collina prospiciente la baia di fronte a Kowloon. Entriamo nell’edificio e scopriamo che – in effetti – trattasi sicuramente del “più grande acquario del mondo”, ma in senso letterale: è un’unica vasca alta oltre venti metri, larga come un condominio, con reti divisorie orizzontali poste a diverse profondità, nella quale nuotano mille specie diverse di pesci, dal pesce pagliaccio alla testuggine, dal barracuda allo squalo toro, dalla sogliola alla torpedine; un corridoio stile Guggenheim Museum di New York si avvita per parecchi giri intorno alla vasca, consentendo così ai visitatori di osservarne ogni seppur recondito anfratto. Seguono altre minuscole vaschette monotematiche, ma gli occhi sono così pieni dall’incredibile, opulenta manifestazione di gigantismo progettuale che non riescono ad apprezzare queste altre, seppur lodevoli, esibizioni naturalistiche.

All’uscita scopriamo che, oltre all’acquario, ci sono anche alcune attrazioni più smaccatamente “americane”: lo spettacolo dei delfini, quello delle orche, la vasca delle foche, quella degli orsi bianchi, i tuffatori-acrobati-equilibristi-giocolieri-comici; inoltre, in un angolo del parco, si trovano anche alcuni giochi tipo parco dei divertimenti: montagne russe, giostre da vomito eccetera. Durante lo show delle orche mi siedo al fianco di un’anziana signora cinese, vestita con un tradizionale completo di seta; a metà dello spettacolo mi volto a guardarla e scopro con orrore che, sulla spalla, ospita il più grosso scarafaggio che io abbia mai visto; sembra che si goda le evoluzioni delle orche anche lui. Segnalo – il più educatamente possibile – il fatto alla signora, che annuisce con un sorriso e, con un colpetto del dito (aaarghhh!), invita l’animale a ritornare al suo posto, cioè dentro il vestito; detto, fatto: l’ignobile creatura sparisce…Per riapparire dopo qualche minuto, con mio sommo disgusto (ormai non guardavo più lo spettacolo, ero rapito da questo schifo che si svolgeva al mio fianco) sulla mano della tipa, che non batte ciglio. I capelli sulla nuca mi si alzano tipo gli aculei di un istrice incazzato, e probabilmente ho la bocca semiaperta con un’espressione totalmente idiota. Meno male che lo show finisce e riesco ad alzarmi prima che questa sordida megera mi tocchi per passare. Ci avviamo verso l’uscita passando per habitat naturali meticolosamente ricostruiti, dove fenicotteri rosa sguazzano nell’acqua, pellicani si litigano i pesci per il pranzo, e altri magnifici animali acquatici e non sembrano vivere lietamente (per quanto lietamente si possa stare in uno zoo, comunque…).

Tornati in città, scegliamo un altro “lussuoso” ristorante cinese dove trascorrere la serata, dopodiché – accompagnati dall’espressione compunta di Pier, che paventa il suo turno sul giaciglio diabolico – ritorniamo alla Chungking Mansion per l’ultima notte ad Hong Kong. È mattina. Piove. Arrivati all’aeroporto, con fare tra il trionfante e l’imbarazzato, saltiamo tutta la coda di “straccioni” e ci presentiamo di fronte al banco del check-in riservato alla Business Class della Japan Air Lines; veniamo imbarcati subito e con molte smancerie. Appena seduti, due hostess (la cui bellezza è davvero da “business class”) ci offrono champagne, succo di mandarino e squisiti spiedini di frutti di mare. Pier che, come già accennato, è piuttosto attaccato ai soldi, decide di ammortizzare fino in fondo il prezzo del suo biglietto e si sbronza quasi subito di champagne, continuando nella semi incoscienza ad ingozzarsi di spiedini. Poco prima del decollo, nel sedile di fronte al suo si sprofonda – è il caso di dirlo – un arabo puzzolentissimo del peso di circa centocinquanta chili, che per prima cosa abbassa lo schienale, appoggiandosi in pratica sulle cosce del nostro amico (che effettuerà in queste condizioni quasi tutto il viaggio, ottima occasione per creare nuove bestemmie coloratissime da inserire nel suo già vasto repertorio). Il pasto di metà volo non fa invidia a nessun ristorante cinque stelle; prima di scendere rubiamo il rubabile: bicchierini con il logo della Jal, cuffiette stereo, posate, confezioni sigillate di succo di mandarino… peccato – si lamenta Max – che i sedili siano inchiodati così bene al pavimento: gliene avrebbe proprio fatto comodo uno in salotto al posto della sua poltrona sfondata! Appena arrivati a Bangkok, posiamo i bagagli alla TT Guesthouse e ci rechiamo, belli bellicosi, alla sede della Japan Air Lines, dove denunciamo la truffa perpetrataci dalla loro agenzia concessionaria; il responsabile, oltremodo gentile, ci consiglia di sporgere denuncia presso la Polizia Turistica e di ritornare dal titolare dell’agenzia sventolandogliene una copia sotto il naso. Detto, fatto; il poliziotto che raccoglie la denuncia parla inglese come un sordomuto libanese, ma riusciamo lo stesso a fargli scrivere qualcosa di comprensibile sul modulo di verbale. Ci rechiamo quindi all’agenzia, spalancando la porta stile “Sartana: Dio perdona, io no”; l’impiegata che ci ha servito ci riconosce appena ci vede, sgrana gli occhi e sorride stentata. Chiediamo di parlare con il titolare, che arriva, bestemmia sottovoce in thailandese quindi, sorridendo viscido come un mercante ebreo, ci invita nel suo ufficio. Gli esponiamo tutto quanto, dalla scoperta che i biglietti che ci ha venduto come “OK” erano in realtà in waiting list, alla forte disapprovazione espressa dal responsabile Assistenza Clienti della Jal, alla (colpo di scena!) denuncia – della quale abbiamo, sorpresa!, una copia anche per lui – da noi sporta alla Polizia Turistica pochi minuti prima. Tutte le sue scuse (ci avevano detto che i biglietti erano in lista d’attesa, ma forse hanno parlato in thailandese quindi, forse, non abbiamo capito bene; la lista d’attesa non c’era quando hanno emesso i biglietti; la Jal è una compagnia di merda; il responsabile a Bangkok della Jal ce l’ha con lui perché gli ha soffiato la fidanzata trentotto anni fa, …) cadono come un castello di carte sopra una lavatrice in centrifuga; per mettere a tacere le cose – e farci ritirare la denuncia – ci offre di rimborsarci in contanti la differenza da noi pagata tra il nostro biglietto di classe turistica e quello di business. Godendo ed esultando dentro, ma con faccia da poker, fingiamo di sacrificarci ad accettare questo accordo, riceviamo i contanti con mani tremanti (ops: rima!) e gli strappiamo in faccia la denuncia. Pomposi come Carlo Martello dopo la battaglia di Poitiers, usciamo dall’agenzia, giriamo l’angolo… ed esultiamo tipo stadio tra urla, salti e abbracci vari. Tornati a Bangkok, nell’ultimo pomeriggio a nostra disposizione decidiamo di andare a visitare l’Istituto Pasteur, un’organizzazione senza scopo di lucro che, in cambio di un biglietto d’ingresso simbolico, consente di assistere alle operazioni effettuate sui principali serpenti velenosi dell’Oriente per studiare la preparazione di efficaci sieri antiveleno. Osserviamo così la cattura – simulata, in quanto l’esemplare era già in cattività (ma comunque fa una paura della Madonna) – di un cobra reale di quattro metri e la successiva estrazione del veleno; assistiamo alla presentazione dei più pericolosi serpenti del Sud-Est asiatico, tutti abilmente manipolati dagli operatori dell’Istituto; visitiamo – a debita distanza dalle gabbie – un’esposizione di animali misti (gatti, topi, conigli, pipistrelli, procioni…) affetti da varie forme idrofobiche; rimaniamo però intristiti dalla vista di un pitone reticolato lungo oltre cinque metri, che gli addetti lasciano accarezzare a chiunque: il povero animale è evidentemente stressato; reputiamo però inutile qualsiasi protesta e ci allontaniamo scuotendo platealmente la testa. Durante l’esibizione dei serpenti velenosi, chiedo il permesso di avvicinarmi per fotografare un cobra malese; ricevuto l’O.K. Prendo posto, lo inquadro con la macchina fotografica, rallegrandomi con me stesso per le prestazioni del mio teleobiettivo… e ricordandomi quasi subito che prima di entrare nell’Istituto ho montato il grandangolo! Tolgo gli occhi dal mirino, e mi trovo il simpatico rettile – piuttosto incazzato anzichenò – a circa mezzo metro dalla faccia; scatto tremante un paio di fotografie per salvare la faccia e mi dileguo nella folla tra gli strali della consorte.

Alla sera, piuttosto tristi, ceniamo nel ristorantino a fianco della nostra guesthouse; nessuno ha tanta voglia di parlare: sappiamo che la notte dell’indomani la trascorreremo nei nostri letti genovesi, belli puliti, con le lenzuola profumate. Qualcuno di noi – forse – è contento. Io, senza dubbio, no.

Decollati da Bangkok, nel pomeriggio atterriamo a Karachi dove veniamo informati che il nostro aereo per Roma ha un ritardo di circa dodici ore, quindi – a spese della Pakistan Air Lines – verremo accompagnati in un albergo di lusso dove potremo trascorrere la notte (non vi sembra di aver già letto qualcosa del genere?). Questa volta – decidiamo – non se ne fa niente. Ci chiudiamo nei gabinetti per un paio d’ore e, quando tutti gli altri passeggeri sono stati sistemati negli autobus e spediti nei vari alberghi fetidi, usciamo nella hall e, visto che non ci hanno ritirato il passaporto, riusciamo anche ad uscire a farci un giretto nella “Karachi by night”. Verso sera ritorniamo all’aeroporto e ci svacchiamo sui divani – vuoti! – per passare la notte; ci svegliamo un po’ intontiti al mattino presto e… miracolo! Il bancone del check-in è già aperto. Ci precipitiamo, consegniamo i nostri bagagli, otteniamo i posti dove vogliamo, e ci sediamo tranquilli ad osservare la scena: dopo neanche mezz’ora quattrocento persone si riversano come un sol uomo nei locali aeroportuali, brandendo in una mano il passaporto appena riconsegnato e nell’altra il biglietto aereo; si accalcano con furore belluino ai due (dicasi 2) banconi aperti e cominciano a sbraitare per l’indolenza – in parte genetica in parte autoappresa – da parte delle impiegate in chador. Quando chiamano per il boarding, più di cento passeggeri devono ancora fare il check-in e consegnare i bagagli. Fischiettando ci accomodiamo al cancello di imbarco e, al momento opportuno, prendiamo posto in aereo, divertendoci ad osservare sadicamente le facce arrossate e sudate dei nostri compagni di viaggio; meno male che, poco prima del decollo – in ritardo faraonico – passano le solerti hostess pachistane con i loro famosi bicchieri d’acqua tiepida e limacciosa. Saltato l’ormai preventivato scalo fantasma di Atene (pensate un po’ che piani di volo da incubo devono presentare questi pazzi!), atterriamo a Roma e, nonostante quello che ciò significa – ritorno a casa, al lavoro, alla solita estenuante routine sfigata di tutti i giorni – ci permettiamo un sospiro di sollievo.

Non appena saliti sul treno ci addormentiamo sui sedili; dopo più di tre settimane in Oriente il nostro aspetto – per quanto abbastanza puliti ed in ordine – contrasta chiassosamente con quello degli altri passeggeri, che cominciano, forse inconsciamente, ad isolarci, lasciandoci quindi un magnifico scompartimento a nostra disposizione. Io e Pier apriamo gli occhi contemporaneamente, ed il nostro reciproco, muto sguardo di intesa ci riporta alla terza classe del Bangkok-Surat Thani; è inutile negarlo… lo rimpiangiamo tutti e due, pulci comprese!



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