Nord America – Gli stati del sud-ovest

28 marzo arrivo a Las Vegas (Nevada) km 50 Arriviamo a Las Vegas alle 11 di sera ora locale (durante questo viaggio cambieremo ora diverse volte, perchè ogni Stato ha il suo orario: l'Arizona, per esempio, osserva il Mountain Standard Time per tutto l'anno, tranne nella Riserva Indiana, dove, in primavera, si cambia l'ora) e siamo immediatamente...
Scritto da: Mara Ambrosini
nord america - gli stati del sud-ovest
Partenza il: 28/03/2003
Ritorno il: 11/04/2003
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
28 marzo arrivo a Las Vegas (Nevada) km 50 Arriviamo a Las Vegas alle 11 di sera ora locale (durante questo viaggio cambieremo ora diverse volte, perchè ogni Stato ha il suo orario: l’Arizona, per esempio, osserva il Mountain Standard Time per tutto l’anno, tranne nella Riserva Indiana, dove, in primavera, si cambia l’ora) e siamo immediatamente catapultati nell’atmosfera tipica di questa città: slot machines ovunque , gente che gioca, vince, perde, e, soprattutto, un incessante e sordo tintinnio. Ci dirigiamo al bancone della Alamo per ritirare l’auto che abbiamo riservato. Ci accorgiamo subito della cortesia delle persone, della loro disponibilità. Ci portano in un enorme parcheggio pieno pieno di auto e ci indicano la categoria delle auto tra le quali possiamo scegliere: circa 50 fuoristrada, quasi tutti nuovi, super accessoriati. La scelta è ardua, soprattutto perchè Toki, il nostro “autista”, è molto pignolo in fatto di quattro ruote. Optiamo per una Pontiac grigia, non molto bella esteticamente (una supposta?) ma comoda e spaziosa. In un viaggio di questo tipo, il così detto viaggio on the road, l’auto è una vera priorità. Non risparmiate nè su spazio nè su prezzo, un fuoristrada è l’ideale. Ricordate che in due settimane abbiamo percorso più di 7000 km, perciò capite bene come un’auto confortevole sia essenziale. Noi l’abbiamo prenotata dall’Italia attraverso Internet, e se si tengono sotto controllo i siti delle migliori agenzie per qualche giorno, possono capitare offerte veramente vantaggiose. Prenotare in loco, comunque, non è affatto un problema, la disponibilità non si esaurisce mai. Raccomandiamo inoltre di non risparmiare su assicurazioni (la CASCO è d’obbligo), non si sa mai! Consigliamo inoltre un’assicurazione personale: le strutture ospedaliere negli States sono tutte private e piuttosto care. Anche in questo caso non si sa mai! Per la prima notte a Las Vegas abbiamo prenotato una camera dall’Italia, attraverso Internet. Anche questo non era necessario, le camere sono infinite in questa città, ma arrivando così tardi la sera, dopo un viaggio così lungo, nessuno ha voglia di mettersi a cercare una camera. Il nostro alberghetto (Nevada Palace Hotel & Casino) è lontano dalle luci intermittenti dello Strip, il vialone centrale di Las Vegas su cui si affacciano i più spettacolari alberghi a tema. Una volta sul posto scopriamo però che dormire in uno di quegli alberghi non è eccessivamente caro,… La prossima volta sperimenteremo! Oramai è l’una, sono più di 24 ore che giriamo, e domani ci aspetta una giornata pienissima, quindi ci concediamo solo una veloce perlustrazione della città , senza scendere nemmeno dall’auto (e chi ha le forze!). Commenti e sensazioni alla fine della vacanza.

29 marzo Las Vegas – Snow Canyon SP – Zion NP – Mount Carmel Jct(Utah) km 400 La sveglia suona alle 6 e mezza, alle 7 ci troviamo nel bar dell’albergo per fare colazione: incredibile ma vero, per accedere alla zona riservata al ristorante dobbiamo passare per una sala da gioco e zigzagare tra slot machines e tavoli verdi. Sono solo le sette del mattino e il casinò è già pieno. Non capiamo se la gente è lì dalla sera precedente o se abitualmente, ogni mattina, prima di andare a lavorare, tenta la fortuna al gioco. Fin dal primo giorno capiamo che la colazione sarà il pasto più appetitoso e salutare della giornata, quindi non ci risparmiamo nelle abbuffate. Dopo una veloce occhiata allo Strip, non più illuminato da miliardi di neon, lasciamo Las Vegas e sull’autostrada n.15 valichiamo prima il confine con l’Arizona nei pressi di Mesquite (a 135km) e poi quello con lo Utah (dopo altri 40km). Ci dirigiamo ora alla volta di St. George, cittadina a pochi km dal confine da dove comincerà la nostra visita allo Snow Canyon , ma non prima di aver sgranocchiato qualcosa in un posto chiamato Fazoli’s.

Ed eccoci al nostro primo parco. Essendo uno State Park, paghiamo 5$ a veicolo per entrare, e visitiamo il parco dalla macchina. Una comoda strada asfaltata infatti sale per la riserva naturale e permette di godere dei punti panoramici migliori. Per chi ha a disposizione più tempo, vi sono anche numerosi sentieri di varia lunghezza che conducono nelle zone più interessanti. Sebbene questo sia un parco minore, siamo subito abbagliati dal colore rosso fuoco delle pareti del canyon, che contrastano perfettamente con il blu intenso del cielo e con il nero delle rocce laviche. In quest’area infatti si possono vedere anche dei vulcani estinti, la cui lava, migliaia di anni fa, ha ricoperto di basalto porzioni di canyon. All’uscita del parco la strada ci riporta di nuovo a St.George dove prendiamo ancora l’autostrada n.15 per alcuni km, prima di deviare sulla strada n.9 che ci conduce nei pressi di Springdale, all’entrata del primo parco nazionale della nostra vacanza: lo Zion National Park (a 80 km da St.George). Compriamo la tessera cumulativa che ci permette di visitare tutti i parchi nazionali degli Stati Uniti ad un costo è incredibile: 50 dollari ad automobile.

Siamo ormai al tramonto; visitiamo il parco percorrendo la Scenic Drive per circa 30 km. La strada corre parallela al fiume Virgin, il quale ha scavato e continua a scavare il canyon. Il paesaggio è molto vario, e in parte simile alle nostre montagne alpine. Scogliere massicce e multicolori, canyon profondi, torri e monoliti dalle mille forme. Infine, per chi vuole godersi la giornata in tranquillità, sulle sponde del fiume si trovano recessi ombrosi (i cottonwoods) perfetti per un pic nic, un pisolino, e chissà, forse, un incontro ravvicinato con famiglie di mule deer. Questo tratto va visitato con il sole alto di mezzogiorno per poter effettuare fotografie con sufficiente illuminazione. Bellissimo è anche il paesaggio che si gode lungo la Zion-Mount Carmel Highway, che si snoda tra continui saliscendi e collega la parte bassa del canyon agli elevati plateaus a est. Questa strada, nata dall’arguzia di qualche ingegnere, è un perfetto esempio di come architettura umana e naturale possano convivere in modo armonioso senza arrecare danno l’una all’altra. La strada passa attraverso due tunnel, uno dei quali è lungo circa 1 miglio. All’uscita di questo tunnel il paesaggio cambia drasticamente. Da una parte le massicce e infuocate scogliere del canyon, dall’altra montagne di sandstones (Checkerboard Mesa) dall’andamento più sinuoso e dai colori più tenui. Ci fermiamo a dormire a Mount Carmel (a 30km dall’uscita del parco), in un motel dignitoso dove spendiamo veramente poco (30$ la doppia). 30 marzo Mt.Carmel Jct – Coral Pink Sand Dunes SP – Grand Staircase Escalante Canyon NM – Lake Powell e Glen Canyon NRA – Antelope Canyon SP – Little Colorado River Canyon (Arizona) km 400 Ci alziamo di buon ora e usciamo dal motel in direzione del Coral Pink Sand Dunes, una zona statale dove decidiamo di goderci il nascere del sole. Da Mount Carmel prendiamo la strada 89, dopo pochi chilometri incontriamo la deviazione per il Coral Pink Sand Dunes (30 km). All’ingresso troviamo un cartello che spiega come sia possibile visitare il parco a bordo di divertenti quad a quattro ruote. Sono però solo le 7 del mattino, alla reception non c’è anima viva, quindi decidiamo di visitarlo a piedi, seguendo il sentiero attrezzato che si inoltra tra le dune. Lasciamo i soldi del permesso (5$ a veicolo) in un’apposita busta che troviamo all’entrata e iniziamo l’esplorazione.

L’alba, con la sua luce carezzevole e il suo fresco silenzio, avvolge le dune sinuose esaltandone l’eleganza e l’armonia. La sabbia finissima penetra ovunque e la brezza mattutina è mitigata dalle tinte calde che creano un riuscito gioco di chiaro-scuri. E’ il nostro primo incontro con il deserto sabbioso. Il continuo e improvviso cambiamento di paesaggi che ci accompagnerà per tutta la vacanza, è qui esasperato, in un’area di piccola estensione, adagiata tra montagne e distese erbose. Come abbia avuto origine non lo capiamo proprio, ma ci lasciamo affascinare, perchè le dune, si sa, sebbene basse e poco estese, hanno sempre qualche mistero da raccontare.

Ritorniamo sulla strada 89 e raggiungiamo la cittadina di Kanab (altri 30 km), fondata dai mormoni nel 1874 e oggi nota come “Little Hollywood” dello Utah, a causa dei 200 tra film e spettacoli girati qui negli ultimi cinquant’anni. Presso il Centro Visitatori è possibile conoscere quali set sono visitabili. Ci fermiamo in un grazioso bar-internet point a fare un’abbondante colazione a base di succulenti dolci locali. Lasciamo poi Kanab per dirigerci verso Page seguendo sempre la Scenic Byway US 89. Il paesaggio è bellissimo, caratterizzato da montagne rosse che fanno da cornice a distese di sabbia altrettanto rossa punteggiata da cespugli e piante basse. In questo tratto siamo testimoni di un vero e proprio mistero, un mistero che ancora oggi non ci siamo spiegati: ai lati della strada giaciono, a breve distanza le une dalle altre, un centinaio di carcasse di cervi attaccate dai corvi. Può essere che siano vittime di investimenti, non capiamo però per quale motivo la strage si interrompa improvvisamente. Dopo circa 45 km incontriamo una deviazione sulla sinistra, una strada sterrata, non mantenuta, proprio quello che ci vuole per mettere alla prova il nostro fuoristrada! Mai più avremmo immaginato di incontrare lo spettacolo di colori che ci si apre davanti: alti cumuli di argilla dagli strati variopinti disposti su terrazzamenti naturali.Le diverse tinte sono dovute ai diversi minerali che agiscono sull’argilla. Proseguiamo oltre tra piante basse e qualche sporadico cactus e ci ritroviamo su un set cinematografico (Old Paria’s Movie Set) in cui sono stati girati numerosi film Western. Troviamo l’immancabile saloon, alcune casette, addirittura il cimitero. Apriamo la nostra guida per scoprire dove siamo finiti. Dalla cartina capiamo di essere su una strada lunga circa 50 miglia che conduce fino ai pressi del Bryce Canyon. Ci troviamo nel Gran Staircase Escalante N.M., istituito alla fine degli anni ’90 dal Presidente Bill Clinton. La strada è dissestata e il luogo poco pubblicizzato al fine di preservare questo parco e le sue bellezze il più a lungo possibile. Consigliamo comunque di dedicare almeno un paio d’ore a questa visita che, sebbene meno famosa di altre, non ha nulla da invidiare alle mete più rinomate. Noi ci inoltriamo per circa 10 km e poi torniamo indietro per immetterci di nuovo sulla strada 89. Tra curve e saliscendi, passiamo prima per Big Water, e poi attraversiamo il confine tra Utah e Arizona (45km). Qui ci fermiamo per la foto e le riprese di rito. Siamo ormai già nei pressi del Lake Powell, lago artificiale che nasce dallo sbarramento del fiume Colorado, la maggiore arteria degli Stati Uniti Occidentali, e che si estende per 298 km nell’area del Glen Canyon. Giunti sulle sue sponde siamo subito abbagliati dall’azzurro intenso delle sue acque racchiuse tra due lembi di terra dalla vegetazione praticamente inesistente. Il lago offre numerose attrattive naturali e la possibilità di crociere in barca. Si possono inoltre praticare pesca, sci d’acqua, immersioni, vela e nuoto. Il tempo che abbiamo a disposizione è molto ridotto, quindi ci fermiamo per una breve sosta nel punto in cui dal lago si innalza una grossa roccia solitaria, chiamata appunto Lonely Rock. Qualche chilometro più avanti c’è un punto panoramico, da dove lo sguardo spazia sul porto di Wahweap Marina, unico insediamento sulle sponde del bacino. All’estremità meridionale del lago, a 213 mt sopra il letto del Colorado, è possibile ammirare la Glen Canyon Dam, lo sbarramento costruito nel 1963 il quale ha dato origine alla diga. In questa zona il Colorado ha assunto una particolare colorazione verde intenso che contrasta fortemente con il rosso delle pareti del canyon che lo sovrastano.

Ci fermiamo a Page (30 km dal confine) per il pranzo, che acquistiamo in un grande supermercato del centro. Nei supermercati della zona vi sono infatti delle rifornite rosticcerie che servono piatti freddi e caldi a prezzi modici. Consumiamo il nostro pranzo sulle panchine all’esterno del supermercato e veniamo attirati dalla pubblicità all’esterno di un’agenzia di escursioni locali (Antelope Canyon Adventures, www.Jeeptour.Com). Si tratta di una visita guidata al piccolo ma imperdibile Antelope Canyon, alla modica cifra di 30$ a persona! La guida passa a prenderci all’orario stabilito con una jeep scabinata e ci porta verso l’area Navajo, ad una decina di km a sud-est di Page (State n98). All’entrata del canyon vi sono altre guide disposte ad accompagnarvi e ad illustrarvi le meraviglie di questo spettacolo della natura. Creato dall’azione erosiva dovuta a vento e acqua, l’Antelope Canyon è costituito da una stretta fessura nella roccia, dove i raggi del sole, penetrando dall’alto, creano inaspettati giochi di luce sull’arenaria rossiccia. Consigliamo di visitarlo intorno a mezzogiorno, quando il sole, trovandosi nel punto più alto, penetra perpendicolarmente all’interno della fessura. La nostra guida ci indica strane conformazioni assunte dalla roccia come “il naso di Clinton” e “l’occhio che piange”. All’interno l’aria è particolarmente fresca, per questo motivo, nei mesi estivi, può capitare di imbattersi in serpenti e ragni in cerca di refrigerio, sfuggiti all’occhio vigile delle guide che al mattino si premurano di portare fuori dal canyon i piccoli ospiti. All’uscita ci si trova in un ampia distesa di appartenenza indiana. Proseguendo in questa direzione per 20 miglia, si raggiungono i primi insediamenti indiani. Nei pressi dell’accesso a questo canyon, in direzione opposta, si trova il Lower Antelope Canyon, dalla simile conformazione, ma che si estende per 30 mt sotto il manto stradale. E’ possibile visitarlo anche senza guida. Triste episodio legato a questo luogo è la sciagura che costò la vita a 13 turisti francesi avvenuta nel 1997 dovuta ad un’improvvisa inondazione del canyon. Sconsigliamo pertanto la visita nei giorni e nei periodi di pioggia. Non stanchi di questa giornata ricca di geologia e di chilometri, decidiamo di terminare il nostro girovagare al Grand Canyon. Prendiamo la State n89 per 100km fino a Cameron, dove lasciamo questa strada per imboccare la n64 che corre verso ovest costeggiando il Little Colorado River. Ci fermiamo in alcuni punti panoramici per scattare le prime foto a questo paesaggio, non prima però di esserci ripresi dall’incredulità provata di fronte a tale spettacolo. L’ingresso al Canyon vero e proprio si trova a Desert View. E’ già buio, quindi percorriamo la Desert View Drive fino al Grand Canyon Village, dove cerchiamo un posto per dormire. Qui gli alberghi sono tutti prenotati, quindi col senno di poi consigliamo di prenotare con largo anticipo, in ogni stagione. Non trovando alcun posto libero, andiamo a Tusayan (dalla deviazione di Cameron fino a Tusayan percorriamo circa 60km), un villaggio a circa 8 km a Sud, con numerosi alberghi. Nel caso in cui anche qui tutti gli alberghi siano al completo, la città più vicina, Williams, si trova a circa 50 km, sempre verso Sud.

A Tusayan pernottiamo al Red Leather (40U$ la doppia) e mangiamo alla Steak House che sconsigliamo a tutti per i prezzi e il servizio veramente scadente e il personale sgarbato… È questa l’unica nota dolente dell’esperienza al Grand Canyon! 31 marzo Grand Canyon NP km 100 Immenso, sconfinato, maestoso, mozzafiato… ma soprattutto ineffabile. Descrivere il Grand Canyon a parole è pressoché impossibile, nemmeno le foto di grandi professionisti (il nostro Roby) riescono ad esprimerne l’essenza. Perché il Grand Canyon è innanzitutto un’emozione, un brivido, un senso di vertigine, il sensazionalmente piccolo specchiato nell’infinitamente grande, l’abbandono totale di ciò che è umano nel ritmo vitale della Natura. Rinunciando ad ogni tipo di descrizione, ci limitiamo a fornire alcune informazioni relative a questo che sicuramente è uno dei parchi più conosciuti e frequentati del mondo. Appunto per questo motivo vi invitiamo a visitarlo nei mesi di bassa stagione (aprile è l’ideale), così da evitare code e affollamenti che rischiano di spezzare l’incanto e la tranquillità che qui regnano. Nei mesi di bassa stagione è possibile entrare al villaggio con mezzi propri, mentre in estate è necessario servirsi dei bus navetta. Le estremità del Grand Canyon sono chiamate South Rim e North Rim, distanti l’una dall’altra, nel punto massimo, ben 16 km. Il Grand Canyon Village si trova nel South Rim, la sponda più accessibile, mentre il North Rim si presenta più incontaminato e difficile da raggiungere. L’area rimane chiusa fino a maggio per la neve abbondante, e nessuna strada asfaltata giunge fin là. E’ possibile accedervi dal South Rim a piedi o a dorso di mulo, ma la gita richiede molto tempo e preparazione. E’ necessario affidarsi sempre all’esperienza delle guide del canyon. E’ possibile scoprire gli angoli più emozionanti del South Rim percorrendo un circuito a bordo di bus navetta che conduce fino a Hermits Rest. Il bus si fermerà lungo numerosi punti panoramici, dove è possibile scendere, ammirare il paesaggio e attendere la navetta successiva (che arriverà dopo circa 10 minuti; non lasciate nulla sul bus, perché il conducente non aspetta; non fate come abbiamo fatto noi, che, pensando che il conducente aspettasse che tutti avessero goduto del paesaggio per poi ripartire, abbiamo lasciato zaini e marsupi sul bus; fortunatamente, grazie alla perfetta organizzazione del parco, dopo alcuni minuti di panico, ci sono state restituite le nostre cose!). A Hermit Rest vi è un negozietto tipico dove tra magliette, gioielli e ogni tipo di souvenir, ci lasciamo tentare dai numerosi cd di musica indiana, che diventeranno la colonna sonora del nostro viaggio. Un altro negozietto ben fornito lo si trova all’altra estremità del rim, a Desert View, ai piedi della torre che qui sorge. A differenza di Hermits Rest qui si può accedere con l’automobile e da Grand Canyon Village la torre dista 30km circa. Anche su questo tratto i punti panoramici sono numerosi, tra i più interessanti ricordiamo l’area con le rovine e il museo nei pressi di Desert View. A Desert View è possibile salire in cima alla torre da dove il panorama si fa ancor più sorprendente e da cui è possibile scorgere anche il fiume Colorado, l’artefice di questo spettacolo incomparabile. Vi consigliamo di salire in cima alla torre al tramonto, prestando però attenzione all’orario di chiusura. Altro momento imperdibile del Grand Canyon è l’alba, dove le pareti del canyon si vestono del loro manto rosso fuoco, e dove gli animaletti più strani sono più inclini a lasciarsi fotografare.

Una giornata quindi intensa ma indimenticabile, che va sicuramente annoverata nella vetrina dei ricordi più belli della nostra vita. Pernottiamo di nuovo a Tusayan ma questa volta ceniamo al Pizza Hut (10€ a persona).

1 aprile Grand Canyon (elicottero) – Flagstaff e Meteor Crater – Petrified Forest e Painted Desert NP km 450 Ci alziamo alle 8 e dopo una buona colazione andiamo verso l’aereoporto del villaggio di Tusayan. Abbiamo infatti prenotato in albergo, a prezzo convenzionato (99U$ a persona), un’escursione con la compagnia aerea Air Star Helicopters (www.Airstar.Com).

E’ indescrivibile ciò che si prova volando sopra il Grand Canyon a bordo di un elicottero. L’adrenalina del volo mista ad un panorama spettacolare hanno reso questa esperienza uno dei momenti più intensi della nostra vita.

In tarda mattinata riprende il nostro lungo viaggio. Andiamo a Sud lungo la strada n.64. Poco prima di Flagstaff ci immettiamo in una bella autostrada (Interstate n.40). Flagstaff, a 100 km circa dal Grand Canyon, è una bella cittadina adagiata sulla storica Route 66 e nascosta dalle pinete dei San Francisco Peaks. Dopo aver pranzato ci dirigiamo verso il Meteor Crater, dove un cratere enorme nel bel mezzo del deserto testimonia ciò che accadde qui 50.000 anni fa. E’ davvero un segno indelebile e impressionante, anche tutt’attorno ci sembra di vedere disseminati ovunque i resti frantumati del materiale meteoritico.

Ma non c’è molto tempo, quindi lasciamo i resti del gigantesco figlio del vuoto interplanetario per dirigerci verso Holbrook, sempre sulla Interstate 40. Da Flagstaff a quest’ultima percorriamo un centinaio di chilometri con Toky che si diverte a farsi sorpassare da rombanti camion americani e talvolta supera strani camper lunghi almeno 10 metri: delle vere e proprie case viaggianti. Crediamo di aver letto che gli americani itineranti siano circa il 10% della popolazione totale.

Giunti a Holbrook deviamo sulla statale n.40 verso Sud, dopo 30 km siamo all’entrata del Petrified Forest N.P. Seppure di piccole dimensioni, il parco comprende non solo la Petrified Forest, cui deve il nome, ma anche il Painted Desert. Ci ha affascinato, anche se non emozionato, la particolarità del luogo: basti pensare che milioni di anni fa la zona era una palude. Il ritiro delle acque in un’epoca successiva ha portato allo scoperto una distesa di tronchi, i quali, a causa del biossido di silicio presente nell’acqua, si sono trasformati in quarzo con cristalli colorati, pur mantenendo la loro forma originale. Purtroppo oggi, a causa del frequente fenomeno dello sciacallaggio, i resti da vedere non sono molti. A fronte di questo all’entrata del parco viene distribuito un opuscolo che scoraggia fortemente la raccolta di questi tronchi. La speranza di tutti è infatti che anche i nostri figli possano vedere questa curiosità.

Percorrendo la strada panoramica di 45 km che attraversa il parco si può godere di un’ottima veduta del Painted Desert dove, nel corso della giornata, la roccia e la sabbia cambiano colore in base alla luce che ricevono creando spettacolari arcobaleni. All’interno dei Visitor Center sono riprodotti i diversi sedimenti di rocce presenti nel parco, mentre filmati illustrativi spiegano il fenomeno della pietrificazione.

All’uscita Nord del parco ci immettiamo di nuovo sulla Interstate 40, lasciata un paio d’ore prima. La percorriamo verso Est fino a Chambers (30km) per poi deviare verso Nord fino a Chinle (100km) lungo la Highway n.191 dove ci aspetta l’indomani la visita del Canyon de Chelly National Park. Qui abbiamo giusto il tempo di cercare un pernottamento, ma, nostro malgrado, la cittadina non offre granchè. Siamo disperati ma non c’è altra soluzione che andare a cercar fortuna più a Nord. Dopo una ventina di km troviamo una piccola area di servizio in cui chiediamo informazioni. Qui ci viene indicato un lodge dove dormire, gestito da un tizio che sta proprio facendo rifornimento all’automobile. Ci guardiamo in faccia, non sappiamo se ridere per la felicità o se piangere per il luogo in cui siamo incappati. Scegliamo la prima soluzione e seguiamo il tizio. Con assoluto sbigottimento valichiamo l’area delimitata dal filo spinato che segnala la riserva indiana e arriviamo ad un paesino indiano segnato sulla cartina come Many Farms. Parcheggiamo in una zona alquanto losca e seguiamo il tizio che si dirige all’interno di un edificio da film dell’orrore. Ci abbandona al nostro destino indicandoci un corridoio da percorrere per giungere alla reception. Siamo finiti in una scuola, sembra disabitata. Passato un lungo corridoio ci accoglie una gentile indiana che ci assegna due camere, rigorosamente senza servizi, ma dignitose. Paghiamo il conto: 30$ la doppia. Notiamo che vi sono delle docce in stile palestra sportiva, qualcuno di noi rinuncia… Sugli echi delle nostre risate lasciamo le camere e torniamo a Chinle perchè siamo affamati. Sono già le 10 di sera quando ci sediamo a cenare in una catena tipo Subway. Stanchissimi torniamo a dormire all’ormai già mitico Many Farms High School Inn.

2 aprile Canyon de Chelly NP – Mesa Verde NP (Colorado) km 400 Ci alziamo incredibilmente prima dell’alba, forse perchè vogliamo andarcene il prima possibile da Many Farms, che a posteriori si è invece per noi rivelata indispensabile, e per ciò diamo la mail per eventuali prenotazioni: mfhsinn@manyfarms.Bia.Edu – tel (928) 781 – 6362.

Sebbene molto meno esteso e maestoso rispetto al Gran Canyon, anzi forse proprio per questo, il Canyon de Chelly (pronunciato “Cheniondsciai”) rappresenta una meta irrinunciabile per chi desidera un contatto immediato con la natura e sperimentare l’ambiente-canyon da una prospettiva completamente diversa, ovvero dal basso verso l’alto. Un comodo e breve sentiero (almeno per noi che siamo vero e propri “alpinisti”) che parte da White House Overlook (quarto punto panoramico nel South Rim) e che scende per circa 250 metri di dislivello fino al letto del canyon, ci permette di godere gradualmente delle prospettive mutevoli. Vi interesserà forse saper che proprio in questo parco sono ambientate le famose avventure di Willy Coyote e Bee Bip. Siamo subito colpiti dalla bellezza del paesaggio e dal silenzio che vi regna. Le pareti levigate del canyon degradano verso il basso e alla luce del sole che pian piano si fa più calda si accendono di un colore rosa arancio intervallato da chiazze verdi. Giunti ai piedi del canyon ci attende una piacevole sorpresa, un piccolo gregge di pecore che dà movimento e vivacità ad un paesaggio quasi fiabesco che ci lascia senza parole. Proseguiamo per un centinaio di metri fino a raggiungere ciò che resta di un antico insediamento degli Anasazi risalente al 1200 d.C.Scopriamo di essere gli unici ad aver deciso di compiere questa escursione. Siamo meravigliati nell’ammirare queste abitazioni, le quali sono collocate sulle scoscese pareti di arenaria rossa, ad una ventina di metri di altezza da terra, all’interno di nicchie naturali. Soffia un vento fortissimo che ci spinge a riprendere la via del ritorno, proprio mentre una jeep sopraggiunge guadando il fiume (vi sono infatti delle guide Navajo che portano i visitatori a fare dei tour di 3 ore lungo il fondovalle – www.Tseyijeeptour.Com).

Ripercorrendo il sentiero a ritroso, ci imbattiamo in una anziana signora Navajo. Ci fermiamo un momento a parlare con lei in una lingua improvvisata al momento, poi lei riprende la sua discesa verso casa: “è là, vedete, proprio dietro quel costone roccioso! ” Torniamo quindi sulla strada che percorre il South Rim e ci dirigiamo all’ultimo punto panoramico che dista 30 km da Chinle: Spider Rock Overlook , dove un impressionante monolito si erge dal basso verso di noi. Leggiamo sulla guida ufficiale del parco che esso viene venerato dalla popolazione indiana e che il nome deriva da una leggenda.

E’ già mezzogiorno quindi torniamo a Chinle per mettere qualche cosa fra i denti e per decidere come proseguirà il nostro viaggio… A stomaco pieno si ragiona meglio! Sulle ali dell’entusiasmo decidiamo di andare oltre ciò che avevamo programmato da casa. Infatti ci dirigiamo verso il Colorado perchè vogliamo andare a far visita ad altre abitazioni indiane nel parco di Mesa Verde. Imbocchiamo la strada che percorre il North Rim del Canyon de Chelly, il cui nome sarebbe più precisamente Canyon del Muerto, fermandoci velocemente nei punti panoramici che ci permettono di ammirare ulteriori rovine Anasazi (Ledge Ruin e Antelope House Overlook) e luoghi di tragici scontri tra i nativi e i coloni spagnoli (Massacre Cave e Mummy Cave Overlook). Giungiamo quindi a Tsaile (a 35 km circa da Chinle), all’uscita del parco, dove prendiamo a Nord verso il confine con il Colorado.

Dopo un’ottantina di km siamo a Four Corners, un punto negli Stati Uniti dove è possibile avere piedi e mani in ben 4 stati: Utah, Arizona, New Mexico e Colorado… Ottimo esempio di tracciamento di confini in modo geometrico! Ma proseguiamo perchè il tempo è poco e il vento alza un polvere incredibile, ci sembra di essere stati catapultati nella nebbia della Brianza.

Mancano un paio d’ore al tramonto quando giungiamo a Cortez (60 km da Four Corners), nei pressi delle Montagne Rocciose, in Colorado. Continuiamo sulla strada n160 in direzione Durango, e a 16 km incontriamo l’unica entrata del Mesa Verde National Park. La strada che conduce agli antichi insediamenti Anasazi (termine Navajo che significa “antichi nemici”) sale per curve e tornanti fino a 2600 metri. I punti panoramici si trovano tutti verso la fine del parco. Vi invitiamo a prestare molta attenzione ai grossi massi che minacciano il percorso dall’alto delle pareti montuose. La strada è infatti piuttosto pericolosa, soprattutto nei mesi primaverili quando la neve comincia a sciogliersi e il terreno diventa instabile. La vegetazione ha un aspetto tetro a causa dell’incendio spaventoso che ha devastato la zona nel luglio 2002 (attenzione ai mozziconi!). Abbiamo la fortuna di godere di queste meraviglie in un periodo ancora caratterizzato da candide chiazze di neve, e soprattutto con pochi turisti a disturbare l’incanto del posto. E sì, perchè proprio di un luogo incantevole si tratta. Lungo le pareti del canyon, più o meno a mezza costa, all’interno di profonde e ampie nicchie concave, gli antichi puebloan hanno costruito i loro villaggi in pietra. All’interno di questi insediamenti risiedevano comunità di circa 80-100 persone. Questi raggruppamenti risalgono all’XI-XIII sec. E presentano abitazioni a più piani, luoghi sacri (le kivas a forma circolare), torri (Square Tower House) e ambienti dedicati alla vita sociale. Gli insediamenti, che si trovano a decine di metri di altezza, erano collegati al fondovalle per mezzo di scale in legno o semplicemente attraverso dei buchi nella roccia. Giornalmente gli uomini scendevano ai piedi del canyon per andare a caccia, raccogliere bacche e gemme e cercare l’acqua. Si dedicavano inoltre all’agricoltura, modellavano vasi e utensili con pietre e ossa e creavano cesti di varie forme e dimensioni. Era una vita molto faticosa, minacciata oltre che dalle calamità naturali, anche dalle numerose tribù desiderose di impossessarsi delle risorse della zona. Durante il XIV sec., a causa di un lungo periodo di siccità, gli Anasazi furono costretti ad abbandonare le loro dimore primitive e a scendere a valle. Visitiamo Spruce Tree House (114 stanze e 8 kivas), l’unico insediamento avvicinabile in questo periodo dell’anno. Camminiamo per le sue “vie”, sbirciamo tra le finestre delle abitazioni e con l’immaginazione ci caliamo nei secoli passati, cercando di capire come fosse possibile una vita in questi luoghi. Il ranger che controlla questo sito ci fa da cicerone, e ci permette anche di scendere in una kiva coperta, luogo sacro scavato in profondità, al quale accediamo per mezzo di una scala in legno. Gli altri siti li osserviamo dall’alto, dai punti panoramici, e ci impressioniamo e stupiamo per la loro collocazione e vastità, per la loro architettura sorprendentemente sofisticata, per i loro dettagli artistici e ancor di più per l’aurea misteriosa che qui aleggia. Da non perdere è anche il museo archeologico (Chapin Mesa Archeological Museum) dove scene e ambienti ricostruiti illustrano e spiegano il modo di vivere di queste popolazioni. Una vita basata sul duro lavoro e sul continuo rapporto di complicità e subordinazione con la natura circostante. Una vita che tanto ci ha affascinato e che ci ha fatto anche un po’ di invidia. All’interno del parco percorriamo circa 80 km tra andata e ritorno. Decidiamo di pernottare a Cortez, dove ceniamo in un Subway, tipico fast-food americano dove è possibile però mangiare anche cibi salutari, sempre a prezzi contenuti. La città non offre molto, e comunque siamo sfiniti dal troppo vedere e viaggiare. Non ci resta che andare a dormire! 3 aprile Valley of the Gods SP – Natural Bridge NM – Goosenecks SP – Mexican Hat – Monument Valley TP (Arizona) km 400 Dopo un’ennesima levataccia, addolcita però da un’abbondante colazione, ci rimettiamo in viaggio verso il confine con lo Utah (80 km) e proseguiamo fino a Bluff (60 km). A circa 20 km a nord della città parte una strada sterrata che attraversa la Valley of the Gods. Un assaggio di Monument Valley e uno spasso per gli appassionati di fuoristrada, la Valley of the Gods è un percorso di 27 km (entrata est su US 163 e uscita ovest su SR 261) caratterizzato da continui saliscendi lungo il quale non incontriamo praticamente nessuno. Uscendo dal parco ci immettiamo sulla State Route 261, strada dissessata e pericolosa per l’alta probabilità di caduta massi, e saliamo a 2100 mt fino a trovarci in cima alla mesa, dove la paura viene ripagata da un ottimo panorama. Dopo 55 km incontriamo la n275 che in pochi chilometri ci conduce al Natural Bridge National Monument, che si sviluppa lungo un percorso circolare a senso unico. La giornata non è delle migliori e in cima alla mesa ci viene incontro una bella nevicata. I tre ponti cui è dedicato il parco sono impressionanti sia per le loro dimensioni che per la loro storia geologica. E’ possibile scendere ai piedi del canyon e godere della possenza dei ponti dal basso, oppure usufruire dei comodi overlook points raggiungibili in auto. Uno di questi si affaccia sulle tipiche abitazioni Anasazi , già incontrate a Canyon da Chelly e a Mesa Verde. Abituati come siamo a incredibili bellezza, questo parco non ci entusiasma un granchè. Percorriamo a ritroso la strada di andata fino all’uscita della Valley of the Gods. Qui procediamo verso sud, dove a 15 km incontriamo il Goosenecks Overlook, punto panoramico da cui si può vedere come il fiume San Juan abbia scavato un canyon profondo più di 300 mt. I meandri sono così vicini l’uno all’altro che il fiume scorre per una lunghezza di 6 miglia per coprire una distanza di 1,5 miglia .

Ci concediamo un “succulento” pranzo a Mexican Hat (a 15 km da Goosenecks), con menu a base di pollo fritto, pesce fritto e patatine fritte! Usciti dal “ristorante” siamo fritti anche noi! Per eliminare l’odore di cibo che si è impregnato nei nostri vestiti, e per cercare di digerire tutti quei grassi, facciamo una passeggiata ai piedi della collinetta su cui sorge il piccolo monumento naturale che dà il nome al villaggio: una serie di roccie in equilibrio le une sulle altre la cui forma ricorda quella di un cappello messicano. Ci chiediamo come sia possibile che quste rocce rimangano così in equilibrio, senza cadere, soprattutto con il vento che c’è qui, e allo stesso tempo pensiamo che questi americani si sanno vendere proprio bene: ogni pretesto è buono per attirare turisti. Noi italiani abbiamo molto da imparare in questo settore. Dopo la breve passeggiata ci rechiamo alla Monument Valley. Percorriamo per 30 km la strada asfaltata n163 che corre lungo una distesa totalmente deserta: non ci sono case, non ci sono villaggi, bar, benzinai. Siamo nella Riserva Navajo, e non ci è permesso abbandonare la strada principale, ai cui lati si innalzano reti che impediscono il passaggio. All’ingresso dobbiamo pagare 5 $ ciascuno, perchè qui la nostra tessera non è valida, ma siamo certi che ne varrà la pena. La Monument Valley è infatti una delle mete da cui ci aspettiamo di più, forse per i numerosi film di John Wayne e John Ford che sono stati girati qui e che sono ancora vivi nell’immaginario collettivo. Il tempo però ci ha voltato le spalle, nuvole grigie danno un’aria plumbea e irreale al paesaggio. Ad ogni modo siamo qui e abbiamo più di due ore per girare e sperare che il sole faccia capolino e rallegri l’atmosfera. Ci sono due possibilità per la visita del parco: autonomamente con la propria auto seguendo la Valley Drive, oppure accompagnati da guide indiane. Noi scegliamo la prima opzione, anche se il percorso con le guide è più lungo e permette di avvicinarsi alle dune di sabbia davanti a Totem Pole. La strada è in terra battuta e si sviluppa per circa 17 miglia. Numerosi sono i punti panoramici in cui è possibile fermarsi e contemplare gli imponenti ma allo stesso tempo fragili e delicati monoliti. Queste cattedrali naturali si elevano dalla piana e si stagliano contro il cielo, assumendo forme diverse dalle quali prendono il nome: Elephant Butte, Three Sisters, Camel Butte, The Thumb… Non ci soffermiamo a descrivere questo paesaggio che tutti ben conoscono ; ci limitiamo semplicemente a consigliarvi di essere rispettosi nei confronti dei limiti imposti dagli indiani, tra tutti quello di non allontanarsi dal tracciato della Valley Drive. Gli indiani abitano tra queste meraviglie naturali e le venerano come monumenti sacri. Perciò poche foto e riprese alle loro abitazioni se non autorizzati. Prima di lasciare la Monument, il sole ci fa un regalo e compare tra le nuvole inondando i monoliti del loro tipico colore rosso acceso! Un regalo emozionante. Al calare del sole partiamo alla volta di Monticello, grazioso paesino a 130 km nord da qui (la strada passa per Bluff e Blanding). Ceniamo al Grandma’s Restaurant (carne, verdure e un buffet ricco, il tutto per 27 $ in quattro!), un ristorante a conduzione familiare, consigliatoci dai proprietari del Motel National 9 Inn, dove pernottiamo.

4 aprile Canyonlands NP – Hole’n the Rock – Arches NP km 300 Da Monticello proseguiamo verso nord per 30 km lungo la US191 e poi deviamo a sinistra sulla strada 211 che percorriamo per 50 km fino all’entrata del parco. La nostra visita a Canyonlands non è stata molto dettagliata, soprattutto a causa del brutto tempo che ha trasformato il canyon in un luogo monocromatico e malinconico, e che in parte ha spento il nostro entusiasmo . Canyonlands è un’area di più ampio respiro rispetto al Grand Canyon, anche se non alla sua altezza (forse perchè dopo aver visto il Grand Canyon, tutti i canyon sembrano normali). Il punto più bello è sicuramente la zona chiamata The Needles, dove esili e sottili pinnacoli di roccia rigati bianco-arancio si levano verso il cielo, creando una skyline che non ha nulla da invidiare ai grattacieli di Manhattan. In questa zona sono numerosi anche gli archi naturali dalle varie dimensioni e forme: Angel Arch, che si trova in Salt Creek Canyon, ed è alto 46 m, archi a forma di zoccolo, fede nuziale e bruco. Vi è poi Elephant Hill, una pendice rocciosa che mette alla prova l’abilità dei guidatori più validi. Non distante di lì si può ammirare la confluenza tra il fiume Colorado e il fiume Green, ad un’altezza di 300m. La parte a nord del parco è chiamata Island in the Sky, alta tavola compresa tra il fiume Colorado e il fiume Green, la cui caratteristica geologica più significativa è l’Upheaval Dome, un cratere profondo 460 m. Ci sono diverse teorie che spiegano la formazione di Upheaval Dome. C’è chi sostiene che si sia formato in seguito all’azione di strati di sale in profondità, che, salendo, hanno spinto gli strati di arenaria verso la superficie. Un’altra teoria afferma che il cratere si sia formato in seguito alla collisione di un meteorite. A ovest dei due fiumi si estende la terza zona, chiamata The Maze, la regione più selvaggia di Canyonlands. La discesa di 185 m ai piedi del canyon è riservata a pochi; qui si possono osservare figure spettrali sulle pareti di Horseshoe Canyon, dipinte dagli indiani più di due mila anni fa.

Noi però ci limiteremo quest’oggi alla visita di The Needles e l’indomani Island in the Sky, non visitiamo quindi l’area di The Maze. Dopo aver visto i Needles prendiamo la 211 che percorriamo di nuovo per 50 km fino ad immetterci sulla US191. Ci dirigiamo verso nord e lungo la strada per Moab (a 90 km) incontriamo un minuscolo villaggio che sembra essersi fermato a 50 anni fa. E’ Hole’n the Rock, il cui nome deriva dall’insenatura rocciosa in cui si inseriscono le abitazioni. Negli anni ’50 la famiglia Christensen si è insediata qui e ha aperto un ristorantino molto famoso sia tra i locali che tra i turisti, e in cui si servivano le bistecche più buone del West. Un tour di 10 minuti permette di visitare le varie stanze delle case ricavate dalla roccia. Noi ci limitiamo a perlustrare l’area esterna: carrozza, carovana, Trading post, pullman e auto d’epoca. Ci sono perfino un recinto con degli struzzi e una parete su cui sono attaccate decine di targhe dei diversi stati. Dopo pranzo raggiungiamo Moab dove trascorriamo un’oretta tra shopping e internet point. Proseguiamo poi sulla 191, attraversiamo il fiume Colorado nei pressi della Moab Valley, dopo 8 km siamo all’entrata dell’Arches N.P. Sono le 15,30 e cominciamo la nostra visita dalla Park Avenue, un sentiero di circa un chilometro che si adagia come il letto di un fiume. E’ necessario mantenersi all’interno del tracciato indicato dagli ometti (cumuli di sassi) ed evitare di calpestare il terreno caratterizzato da “suolo vivo”, al fine di non alterare il fragile equilibrio che permette alla vegetazione di crescere. La Park Avenue prende il nome dalle alte pareti di roccia che la fiancheggiano come se fossero degli imponenti grattacieli. Queste pareti mettono in evidenza i vari strati di roccia costitutivi di quest’area, dal più recente al più antico, dal più chiaro al più scuro. Il cielo è ancora coperto, ci sediamo tutti e quattro in meditazione lungo il sentiero. Forse servirà a qualcosa. Davanti ai nostri occhi si elevano due monumenti naturali: Three Gossips, ovvero tre obelischi di roccia che assomigliano a tre donne intente nel pettegolezzo, e Sheep Rock, la cui forma è quella di una grossa pecora. Scorgiamo anche il primo arco, chiamato Baby Arch per le sue dimensioni e per la sua recente formazione. Una cartina ci illustra come probabilmente in passato alcuni archi univano queste rocce, ora crollati sotto il loro stesso peso. Capiamo presto che questo è il destino di tutti gli archi, i quali continuano ad espandersi nel processo di erosione causato dal vento, per poi crollare inevitabilmente a causa del loro peso e della loro fragilità. Con l’auto ci rechiamo verso un altro punto panoramico, quello che si affaccia su Balanced Rock che, come dice il nome, è formato da un alto obelisco in cima al quale sembra esservi appoggiata in equilibrio precario una grossa roccia ovale. E’ sorprendente pensare che questa roccia se ne stia lì da chissà quanto tempo senza cadere. E’ sorprendente, sì, ma nessuno di noi ha il coraggio di mettersi sotto! Il vento, nel suo ruolo di artista e scultore, ha creato poi 4 bellissimi archi, 3 dei quali sono facilmente avvicinabili e osservati da tutte le prospettive: North Window, South Window e Turret Arch. All’interno del parco sono allestiti numerosi sentieri ad anello lungo i quali possono essere osservate decine e decine di archi. Il più ricco è sicuramente il Devil’s Garden Trail che visiteremo il giorno successivo. Il cielo comincia ad aprirsi e il sole dà l’ultima pennellata a queste opere d’arte, coronando il lavoro tanto faticoso del vento. Sono le 17,15, se ci affrettiamo riusciamo a raggiungere il Delicate Arch giusto in tempo per uno scatto al tramonto. Il sentiero è lungo 2,5 km (solo andata) e sale per circa 150 mt di dislivello. Ce la possiamo fare! E così è! L’arco è bellissimo, il nome è proprio azzeccato: un arco meno possente di quelli precedenti, molto più fragile nell’aspetto, e creatosi, non capiamo come, sulla sponda di un’ampia conca ad anfiteatro. L’atmosfera è come sospesa, la luce del tramonto conferisce al paesaggio un aurea magica e surreale . E’ già buio quando torniamo all’automobile parcheggiata al Wolfe Ranch. Ripercorriamo i 24 km fino all’uscita e gli altri 8 per raggiungere Moab. I primi motel che troviamo sulla strada sono piuttosto belli ma cari. Cerchiamo quindi in città e dopo varie proposte ci fermiamo al Rustic Inn. Paghiamo 30$, colazione inclusa. O per lo meno questo è quanto ci fanno credere. La mattina infatti, quando ci svegliamo, scopriamo che non è così. Le uniche bevande che abbiamo a disposizione sono quelle della macchinetta. Quando chiediamo spiegazioni, ci trattano in modo a dir poco sgarbato. La sera dobbiamo addirittura pulire il pavimento della camera dalle foglie che penetrano dalla fessura sotto la porta. Non andateci! Andate invece pure a cena al Moab Diner, dove le porzioni sono molto abbondanti (da provare le omelette), il personale gentile, il prezzo onesto. Per chiudere in bellezza ci facciamo tentare anche da un enorme gelato! 5 aprile Canyonlands NP – Arches NP km 250 Al mattino ci dirigiamo di nuovo ad Arches, dove abbiamo deciso di fare una bella passeggiata nella zona di Devils Garden, all’estremità settentrionale del parco (parcheggiamo dopo 35 km da Moab). Il sentiero si snoda per circa 7 km lungo un percorso circolare dov’è possibile ammirare circa 60 archi, tra cui l’arco naturale più lungo del mondo, il Landscape Arch, con i suoi 91 metri da base a base; e poi ancora il Wall Arch, il Partition Arch e il Double Arch. Il primo arco che incontriamo è proprio il Landscape Arch: e’ davvero impressionante come possa ancora essere in piedi! Non possiamo avvicinarci troppo perchè c’è il rischio di caduta di sassi, quindi proseguiamo oltre. Purtroppo il tempo negli ultimi giorni non ci è stato un buon amico, addirittura comincia a nevicare! Non ci resta che fare retromarcia e tornare alla macchina, soprattutto per la paura che la sottile nevicata si trasformi in acquazzone. Ciò comporterebbe notevoli disagi per la nostra apparecchiatura video e fotografica. Salutiamo questo parco, quasi arrabbiati, ma con la speranza di poter tornare un giorno per avventurarci nei percorsi che non abbiamo completato! Dopo essere usciti dal parco ci dirigiamo verso Canyonlands, dove, come già detto precedentemente, vogliamo visitare la zona indicata sulla cartina come Island in the Sky. Dall’uscita di Arches seguiamo la US191 fino alla giunzione con la N313 che seguiamo per 35 km sino all’entrata di Canyonlands. Su questa strada c’è anche la deviazione per il Dead Horse Point. I due parchi sono molto vicini tra loro, si potrebbe tranquillamente stare un’intera settimana a Moab, e magari fare qualche escursione in mountain-bike, dato che la cittadina è proprio la capitale della due ruote. Ma noi abbiamo poco tempo e, considerando che anche quello metereologico ultimamente ha deciso di essere piuttosto cupo, pensiamo che sia inutile restare. Dopo una breve visita dall’alto verso il dirupo dove si gettarono Thelma e Louise nel famoso film, scartiamo l’ipotesi di visitare il Dead Horse Point (ci verrà in seguito segnalato come il più bel punto panoramico dove poter restare affascinati dall’intrigato succedersi di Canyon) e andiamo a pranzo, di nuovo al Moab Diner, cui ci siamo affezionati.

Dopo aver digerito il meritato pranzo rioccupiamo nuovamente i nostri posti sulla Pontiac 4×4 e notiamo che il contachilometri giornaliero è già arrivato oltre i 150 chilometri. Riprendiamo la US191 e puntiamo l’andatura a 50 miglia orarie, ben attenti al limite di velocità. Andiamo a nord a prendere la Highways 70 (autostrada) per poter proseguire l’indomani alla scoperta del selvaggio Utah. La incontriamo dopo 65 km all’altezza di Crescent Junction. Il posto non offre granchè quindi ci portiamo avanti sino al paese successivo: è Green River, in verità dista solo 30 km. Qui troviamo un pernottamento in un motel zeppo di camionisti, con tutto il rispetto per loro dobbiamo però dire che nelle camere c’è una puzza bestiale. Ne cambiamo tre prima di vederci assegnata una doppia accettabile a 35$. Ceniamo al West Winds, qui non ci possiamo certo lamentare delle bistecche che ci vengono servite, cui si sarebbero chinati pure i fiorentini! 6 aprile Goblin Valley SP – Capitol Reef NP – Anasazi Indian Village SP – Grand Staircase Escalante Canyon NM – Bryce Canyon NP km 400 E’ Domenica, giorno di festa… Quindi? Si parte! Dopo aver puntato decisi sull’autostrada verso ovest, incontriamo a 20 km una strada statale che devia a sud, la n.24, fino a Hanksville (a 70 km). A metà strada comincia ad albeggiare e noi ci lasciamo tentare da un innocuo cartello che indica uno State Park. Scopriamo, come spesso ci capita, di essere gli unici ad aver deviato su questa strada, ma è normale visto che è ancora molto presto. Siamo felici però di essere i soli visitatori del parco perchè lo spettacolo che ci si fissa davanti al momento del nostro arrivo è a dir poco strabiliante. Avete presente i puffi e i loro cugini, gli gnomi? Ebbene, noi li abbiamo incontrati, o quanto meno, abbiamo scoperto dove vivono: il loro villaggio è proprio qui, nella Goblin Valley . Nonostante le sue dimensioni assai ridotte, ci colpisce per la sua originalità. Caratteristica fondamentale di questo viaggio è, infatti, il continuo mutamento di ambienti e scenari. Siamo improvvisamente catapultati in un villaggio di folletti. I folletti dormono ancora, meglio non svegliarli, potrebbero arrabbiarsi. La nostra mente razionale, poco abituata ormai alle fiabe, ci porta ad aprire e a cercare nella nostra guida per capire dove siamo, cos’è questo posto. La guida ci spiega che siamo circondati da cumuli di sabbia pietrificata che, grazie all’azione erosiva del vento e dell’acqua, hanno assunto forme e dimensioni diverse che variano a seconda della prospettiva da cui si osservano e in base all’occhio dell’osservatore. Ci perdiamo in questo labirinto di forme bizzarre, meravigliandoci di come venga poco pubblicizzata l’area.

Appagati da un ottimo inizio di giornata riprendiamo la State Route 24 e andiamo a sud verso Hanksville e poi a ovest fino ad entrare nel parco nazionale Capitol Reef. Lungo questo tratto di strada (circa 60 km) è possibile ammirare delle splendide formazioni rocciose dai mille colori.

Capitol Reef, o “Land of the sleeping Rainbow”, come gli indiani Paiute solevano chiamarlo, è un’area rugosa e allo stesso tempo sinuosa della crosta terrestre che si estende per 100 miglia nella zona centro-meridionale dello Utah. Il territorio cominciò ad assumere questo aspetto circa 65 milioni di anni fa in seguito agli stessi tremendi movimenti che hanno sollevato il Colorado Plateau. La zona viene definita Waterpocket Fold e può essere esplorata viaggiando lungo la strada principale del parco, la US24 appunto, che procede parallela al Fremont River. Una stretta Scenic Drive permette inoltre di visitare l’area verso sud sino ai pressi dell’Egyptian Temple, passando per due fiumi chiamati Grand Wash e Capitol Gorge, o meglio due profondi e intricati canyon scavati dall’acqua dei fiumi (attenzione ai flash floods). Circa 20 km di strada da prendere con calma per poter ammirare i mille colori assunti dalle scogliere che la cingono. Crediamo però che una visita dall’alto sarebbe più significativa per ammirare alcune aree di Capitol Reef rimanendo a bocca aperta. Il parco è inoltre ricco di testimonianze storiche, dalla rock art lasciata dalla cultura di Fremont, all’insediamento Paiute di Fruita, ai villaggi dei pionieri. Ancora oggi è possibile gustare i frutti raccolti dagli alberi piantati dai pionieri. Proprio nei pressi di Fruita facciamo un incontro con uno sparuto gruppo di cervi-muli (Mule Deer). Una sezione molto bella è la Cathedral Valley, all’estremità settentrionale del parco, ben lontana da ogni strada turistica. La si raggiunge infatti solo in fuoristrada e ci vorrebbe un giorno intero.

Dopo un paio d’ore ripartiamo in cerca di un ristorante. Anche questa zona dello Utah non offre molto, è proprio tutto diverso dall’Italia. Talvolta capita di incontrare un villaggio di dieci case o poco più, quello successivo poi non lo si trova che a 50 km di distanza. E’ una gioia vedere una natura così incontaminata! Per questo motivo ci mettiamo a tavola solamente due ore più tardi, dopo aver viaggiato per 100 km nella magica atmosfera innevata della Dixie National Forest, sulla US12. Più precisamente siamo in un ristorante molto carino a Boulder. Spendiamo in quattro 30$, cifra che in media è stata sufficiente per ogni pranzo o cena del nostro viaggio.

A Boulder ne approfittiamo per visitare l’Anasazi State Park Museum, dove indaghiamo meglio circa la storia, gli usi ed i costumi relativi al popolo Anasazi. Una sosta di un’oretta è quanto basta.

La nostra rotta segue sempre la US12, costeggiando l’Escalante National Monument. Non è stata una grande idea tentare un’escursione su uno degli sterrati che si diramano dalla strada principale. Il paesaggio è stranamente monotono e il carburante, da nessuno rilevato, lamenta un livello ben al di sotto della soglia minima. Torniamo alla statale sperando che le città sulla mappa offrano benzina. I minuscoli agglomerati di Escalante ed Henrieville non hanno mai visto una pompa di benzina ai loro giorni, sappiamo che sarà Cannonville (100 km da Boulder) la nostra ultima spiaggia. Così è infatti… Il cartello della Texaco è come un miraggio… Ma è chiuso!!! Forse accetta la carta di credito? SIIIII… Abbiamo rischiato grosso di rimanere a piedi. La prossima volta metteremo in valigia anche un libro con le nostre esperienze, che useremo soprattutto di Domenica! Rinvigoriti da un’iniezione di entusiasmo ci lanciamo su per i tornanti che ci conducono a Rubys Inn, presso l’entrata del Bryce Canyon (a 25 km). Abbiamo solo il tempo di entrare a dare una scrutata perchè il sole è già tramontato. Torniamo quindi fuori dal parco dove vi sono raggruppati una decina di alberghi ed alcuni ristoranti, deliziosamente integrati in una pittoresca pineta. I prezzi ci confermano, come fu per il Grand Canyon, che anche gli americani se ne approfittano non appena possibile. Quello che costa meno (60$), comunque ottimo, sarà il nostro rifugio giornaliero. Scarichiamo le valigie e mettiamo il riscaldamento al massimo perchè, tutto d’un tratto, fiocchi di neve grossi come palline da tennis ci danno il benvenuto. In realtà noi siamo quasi sfiduciati dalle condizioni del tempo negli ultimi giorni, temiamo che anche l’indomani il tempo continuerà a non assisterci. Ma il tempo, si sa, è come le donne: fa quello che vuole. Così, per il momento ci godiamo la fitta nevicata, sgranocchiando qualcosa, prima di darci la buonanotte…

7 aprile Bryce Canyon NP – Kodachrome Basin SP – St.George km 300 “In principio era il mare, poi qualcosa cambiò. Dopo essere stati estasiati dalle immani bellezze del Sud-Ovest non avremmo mai immaginato, noi comuni mortali, che si potesse presentare di nuovo ai nostri occhi quel nettare che inevitabilmente porta a sussurrare, quasi con timore, “questo è il più bel luogo che io abbia mai visto”. Chi potrà mai dire quali forze abbiano deciso tali cambiamenti? Chi potrà mai dire come il tempo vorrà ancora modellare un simile anfiteatro all’aria aperta? Chiunque è affascinato di fronte alle verità del passato e ai misteri del futuro; il nostro compito è semplicemente quello di emozionarci specchiando anima e cuore dentro al laghetto del presente. Ed è così che nasce e forse muore dentro ad una pellicola mentale la fotografia del Bryce Canyon. Sarebbe più corretto chiamarlo “Lake Flagstaff”, in onore di uno dei suoi più importanti artefici nonchè primo proprietario. Le guglie naturali sono erose dal vento e dall’acqua, scultori e pittori che hanno partecipato e tuttora partecipano a questo gioco della natura, tra i rossi anfratti rocciosi dove ancora rieccheggia misteriosa l’onda di un antico mare prosciugato ormai da 25 milioni di anni. Camminando ai piedi dell’anfiteatro siamo riusciti per un momento a sognare di vivere sul fondo di questo mare, dove per milioni di anni si depositarono centinaia di metri di sabbia e fango. Com’è bizzarro il tempo… Per millenni decide di architettare forme e disegni tanto confusi quanto affascinanti, poi ordina un innalzamento della crosta terrestre per portare alla luce i suoi lavori dalle mille colorazioni. L’enorme lago scompare e con esso chissà quale numero di creature. Ma questo è il prezzo da pagare per poter oggi ammirare le torri, i campanili, i castelli e tutto ciò che l’immaginazione ci permette di vedere e di fare per sempre nostro, fermando, una volta per tutte, il tempo”.

Abbiamo deciso di cominciare in questo modo la descrizione del Bryce Canyon, uno dei luoghi più fantastici di questo viaggio e, forse, del mondo. Il tempo è bellissimo, non c’è una nuvola in cielo, solo un grande freddo a causa dell’altitudine (quasi 2500 metri). Ma il freddo dura solo un paio d’ore, giusto il tempo per fa sì che il sole riscaldi al meglio l’anfiteatro del Bryce e sciolga pian piano i 10 centimetri di neve fresca che la notte ha pennellato, regalandoci un paesaggio illustre.

All’alba scattiamo alcune fotografie e filmiamo lo spettacolo spostandoci a piedi per il sentiero attrezzato che collega Sunrise, Sunset, Inspiration e Bryce Point. Poco dopo, con l’automobile, ci avviamo sulla strada principale che percorre il parco per 25 km, salendo costantemente fino al limite massimo di 2778 metri, nei pressi di Rainbow Point. Ogni punto panoramico è mozzafiato, quindi decidiamo di non perderci alcuna sosta. Purtroppo non facciamo le escursioni a piedi che scendono verso la vallata perchè la neve potrebbe risultare insidiosa. Così spendiamo tutta la mattina tra fotografie e commenti stupefatti. A mezzogiorni decidiamo di tornare verso Cannonville dove visiteremo il Kodachrome Basin State Park, ben pubblicizzato persino dalla National Geographic Society, cui siamo fedelissimi abbonati. Prima però ci concediamo un pranzo a Tropic, per la modica cifra di 10$ scarsi a testa.

La giornata è davvero splendida, non ci resta che ringraziare il buon Dio. A Cannonville non c’è traccia della neve di cui siamo stati spettatori al Bryce, quindi decidiamo che dopo la visita al Kodachrome torneremo al Bryce per effettuare una salutare escursione a piedi. Siamo del resto attrezzati con ottime scarpe da trekking che usiamo tutte le domeniche estive sulle nostre amate Alpi lombarde, dove viviamo.

Il Kodachrome è raggiungibile su uno sterrato a soli 10 km da Cannonville. Al suo interno si innalzano comignoli di sabbia pietrificata dalle forme più svariate. Persino con la luce alta di mezzogiorno riusciamo a scattare delle foto fantastiche. Decidiamo infine di percorrere un sentiero di 2 km dove riusciamo a perderci tra cespugli e strani arbusti. Il parco è ideale per un pic-nic, grazie alle aree attrezzate, e per campeggiare.

Verso le 15 siamo di nuovo al Bryce pronti per avventurarci a piedi. Tra le varie escursioni segnalate sulla mappa decidiamo di intraprendere la discesa da Sunset Point per il Navajo Loop Trail. I ripidi tornanti ci catapultano ben presto alla base del canyon, duecentro metri di dislivello più in basso, dove un’inattesa visuale ci meraviglia. La neve pressochè scomparsa fa riemergere il rosso fiammante dell’arenaria. La rigogliosa vegetazione e il blu polarizzato del cielo compongono una cartolina che trafigge il cuore. E’ inevitabile perciò raddoppiare l’itinerario previsto (percorriamo 4-5 km tra salita e discesa). Raggiungiamo il Sunrise Point dopo aver ammirato da vicino lo scenario del Queens Garden Trail. All’arrivo all’automobile, un picchio rosso, intento a scortecciare un abete in cerca di cibo, ci saluta affettuosamente. Lacrime agli occhi, gli ultimi raggi del sole illuminano il nostro viso.

Visto l’alto prezzo dei motel non ci fermiamo a dormire, raggiungiamo bensì St.George (200 km) e pernottiamo al Day’s Inn (23$ a testa). E’ già buio da molto quando ci sediamo a cenare. Andiamo ancora al Fazoli’s, dove, 10 giorni prima, ci eravamo trovati molto bene.

8 aprile St.George (Utah) – Las Vegas (Nevada) – Death Valley (California) – Lone Pine km 700 Ci lasciamo alle spalle la bellezza del Bryce Canyon per iniziare il lungo viaggio che ci porterà verso la California, meta “fuori programma”; la nostra fame di voler vedere il maggior numero di parchi possibili, al costo di svegliarci sempre molto presto, ci ha spinto a finire con qualche giorno di anticipo il nostro programma iniziale quindi … Perché non approfittarne ?! Lasciamo St.George e lo Utah. Dopo un breve sconfinamento in Arizona siamo ben presto in Nevada (varia di 1 ora l’ora legale… Scusateci il gioco di parole). Seguiamo la Highways 15, direzione Las Vegas. Il tempo è bello, approfittiamo del viaggio per ascoltare il compact disc con le musiche indiane acquistato al Grand Canyon. Verso le 10 del mattino raggiungiamo Las Vegas , che dista 190 km da St.George. Poco oltre lasciamo l’autostrada e imbocchiamo verso nord-ovest la statale 160. Abbiamo preferito non andare verso nord e costeggiare la proibitissima area 51 per paura di finir preda di qualche extra-terrestre. A Parhump, dopo 90 km, deviamo a ovest sulla statale 372 o 178 che oltrepassa il confine con la California. Dopo 50 km siamo a Shoshone, ultimo avamposto prima di entrare nella temibile Valle della Morte, un’area desolata lunga 200 km e larga 50. Il paesaggio è desertico, non troviamo nemmeno un ristorante e ci dobbiamo accontentare di qualcosa al sacco. Facciamo rifornimento di benzina ad un prezzo sbalorditivo e dopo una breve sosta nel Museo di Shoshone ci rimettiamo in moto.

L’impatto con la Death Valley è forte, soprattutto perchè nel giro di poche ore passiamo da 0 a 35°C. Ci troviamo in un’ampia valle paragonabile ad un “catino”, dove delle formazioni montuose fanno da corona ad una vasta pianura. In estate la temperatura raggiunge punte tanto proibitive da impedirne l’accesso per il pericolo di disidratazione e per il rischio di ritrovarsi bloccati con l’auto in mezzo al nulla; ecco spiegata la presenza delle numerose cisterne d’acqua presenti lungo il percorso. Ed in fondo eccone spiegato anche il nome stesso! Valichiamo in sequenza due passi, Salsberry e Jubilee, dopo i quali l’altitudine comincia ad abbassarsi. Rimaniamo subito affascinati da questo territorio prevalentemente desertico, sul quale però, seppur con difficoltà, alcuni fiori e piante riescono a spuntare facendosi strada tra la terra spaccata dalla forte siccità. Come al solito il nostro fotografo Roby ha studiato bene la mappa ed ha già individuato i luoghi più interessanti da visitare… e fotografare. Prima di tutto la depressione presso Bad Water (86 m sotto il livello del mare) dove ammiriamo un’ immensa distesa di lastroni di sale seccato al sole che rendono il paesaggio lunare. Percorriamo poi la Artist Drive, famosa per i colori delle collinette tutto intorno, particolarmente accesi all’Artist’s Palette, la tavolozza del pittore. Ci fermiamo alla Mushroom Rock, strana formazione rocciosa nella zona delle Badlands. Le ore passano e il caldo aumenta. Rimpiangiamo di esserci dimenticati capi leggeri per l’occasione (ricordatevi bene questo piccolo appunto!). Proseguiamo quindi verso Zabriskie Point, reso famoso dall’omonimo film del regista Antonioni. La luce troppo intensa del primo pomeriggio non ci permette, purtroppo, di godere appieno delle molteplici sfumature della sabbia. Morbide dune caratterizzano questo luogo fatto di silenzio, un luogo di rara bellezza che induce il visitatore alla contemplazione. Proseguiamo inesorabili spinti dalla voglia di vedere quali altre bellezze ci attendono. Non rimarremo certo delusi! Ci fermiamo per una breve sosta al Vistitor Center di Furnace Creek, dove ci rilassiamo godendoci un po’ di “frescura” all’interno del negozio d’alimentari. La prossima tappa sarà il Golden Canyon, una gola di 2,5 Km dalle pareti di roccia dorata, al termine del quale è possibile visitare lo Scott’s Castle. Per motivi di tempo non ci è possibile raggiungerlo, ci accontentiamo quindi di una breve visita. Vicino a Furnace Creek facciamo due passi lungo il sentiero attrezzato per vedere le rovine degli impianti di estrazione della borace (Borax ruins). Poco oltre ci facciamo tentare dalla mappa che segnala un luogo dove è possibile vedere un lago con pesci e uccelli (Salt Creek Interpretative Trail). C’è pochissima acqua e di fauna non c’è traccia, quindi pensiamo che non deve essere il periodo giusto e ce ne andiamo, anche perchè si sta facendo tardi e abbiamo deciso di ammirare il tramonto tra le dune nei pressi di Stovepipe Wells Village. Siamo giusto in tempo: la sabbia si sta tingendo di un rosso accesso che ci lascia senza fiato. L’atmosfera è magica e, nonostante la sabbia che si insinua ovunque, ci lasciamo affascinare e trasportare dal silenzio e dalla magia di questo luogo dove è la natura ad avere il sopravvento, proprio come gli stessi granelli di sabbia che mossi dal vento rimodellano ogni giorno questo pittoresco quadro californiano. Il sole cala all’orizzonte e noi ce ne torniamo all’automobile. La giornata ci riserva un’ultima emozione: un serpente a sonagli si è risvegliato con il calare del sole e attraversa la strada poco distante da noi. Siamo impauriti ma anche incuriositi. Lasciamo quindi il parco alla ricerca di un motel, impresa che si rivelerà alquanto ardua, sia per gli scarsi insediamenti della zona, che per il costo pazzesco dei due-tre alberghi qui presenti (200$ a testa!).

Solo dopo due ore buone di marcia in una zona di montagna, tra curve e saliscendi, raggiungiamo un abitato chiamato Lone Pine dove pernottiamo per 30$ a testa in un hotel molto carino. Nonostante l’orario troviamo anche un ristorante aperto. Abbiamo percorso circa 150 km all’interno della Valle del Morte più altrettanti per giungere a Lone Pine, che d’altra parte è l’insediamento più vicino al di fuori del parco. Stremati crolliamo in un sonno profondo quanto le fenditure del Grand Canyon, ma il viaggio non finisce certo oggi! 9 aprile Mono Lake – Gost Town – Topaz km 450 Sono molte le zone che vorremmo visitare ma il tempo è poco quindi dobbiamo per forza di cose fare una selezione. Ne nasce un dibattito con qualcuno che vuole andare a San Francisco oppure a riposare sulla costa nei pressi di Los Angeles. Alla fine rimaniamo fedeli alla linea originaria, ovvero la visita dei parchi nazionali. Di fronte a noi c’è però un limite invalicabile: la Sierra Nevada, una catena montuosa che si estende per centinaia di chilometri. Quando al mattino usciamo dal motel scopriamo una montagna altissima che si erge proprio sopra le nostre teste: è il Mount Whitney, che con i suoi quasi 4000 metri è il monte più alto degli Stati Uniti ad esclusione del Mc Kinley in Alaska. Al momento l’unica alternativa è andare verso nord in cerca di un passo valicabile. Ne approfittiamo per visitiare le bellezze del distretto della Mono County. La prima tappa è il Mono Lake, che raggiungiamo dopo aver percorso 200 km sulla US 395 (a chiunque si trovasse qui da maggio in poi consigliamo di andare a visitare il Devils Postpile National Monument, geometriche formazioni assunte dalla roccia basaltica). Esso è tristemente diventato famoso dal 1941 in poi, quando, la sete della crescente Los Angeles ha rubato l’acqua che alimentava il lago, deviando nelle tubature che portano alla città ben quattro dei cinque maggiori fiumi tributari del Mono Basin. Ciò ha causato via via un innalzamento della salinità che sarebbe potuto essere ancor maggiore se, nel 1978, non si interessò a questa causa un gruppo di studenti e scienzati (Mono Lake Committee). Nel 1998 la commissione è riuscita a far imporre un equilibrio tra l’esigenza della città e quella dell’ambiente. Per il momento una vera e propria vittoria. Sappiamo però purtroppo che le decisioni in ambito politico possono col tempo cambiare. Oggi si calcola che l’acqua del lago ha una salinità tripla rispetto a quella del mare, causando un’ inevitabile assenza di pesci e una minaccia vera e propria per i milioni di uccelli che visitano il lago ogni anno. Sono invece presenti bizzarre formazioni chiamate “Tufa Towers”, per le quali il parco è famoso e visitatissimo. Un bianco polveroso ricopre tutto ciò che si trova attorno al lago. Sono gli effetti inevitabili dell’alcalinità dell’acqua.

Dopo una visita di un’oretta ci rechiamo al paesino appollaiato sul versante occidentale della vallata, che fa da sentinella al lago. Facciamo uno spuntino nell’unico bar dell’unica strada del paese. A giudicare dall’ambiente pensiamo che non dev’esserci un gran movimento in questa zona. Diamo perciò un’ultima occhiata verso i bassi rilievi vulcanici (Mono Craters) che costellano la vallata prima di rimetterci in moto.

A pochi chilometri c’è una deviazione per il Tioga Pass, porta d’accesso al Yosemite National Park. Ci sarebbe piaciuto visitarlo ma il passo è chiuso per neve e, a giudicare dalle notizie in nostro possesso, lo sarà fino a maggio. Yosemite, tanto spesso paragonato alla nostra “Val di Mello”, lo visiteremo la prossima volta… E vi racconteremo. Se ci andate mandateci qualche fotografia! Eccoci allora a proseguire sulla US395. Dopo una trentina di chilometri incontriamo una deviazione sulla sinistra che indica “Bodie Gosht Town”. Non possiamo perderla visto che abbiamo appena dovuto rinunciare a uno dei più famosi parchi d’America. In verità non sappiamo nemmeno di cosa si tratti, tanto che, dopo una mezz’ora di viaggio su una strada di montagna quasi pensiamo di aver sbagliato qualcosa. Ma alla fine un parcheggio con alcune automobili ci conferma la presenza di un sito turistico. Ecco, finalmente, la città fantasma: Bodie Ghost Town. Siamo oltre i 2000 metri di altezza, la neve e l’aria pungente ne sono testimoni. Chiunque dovesse andare da maggio in poi non incontrerà certo un paesaggio dipinto di bianco. All’ingresso paghiamo qualche dollaro e ci viene consegnato un opuscolo che narra la storia della città. Alla fine del XIX secolo questo grosso centro abitato ospitava circa 10.000 persone, che vivevano qui grazie alle miniere d’oro. Ma poi, cosa è successo? Noi possiamo solo dire di aver ammirato ciò che rimane: dai saloon ai negozi, dalle scuole alla chiesa, solo una piccola parte, il 10%, di quello che era in origine. Da ringraziare i mitici rangers che ne garantiscono una buona conservazione. Addirittura alcuni di loro risiedono qui in pianta stabile: ce lo fa pensare il fatto che fuori da una abitazione vi è un mucchio enorme di legna da ardere, non crediamo risalga al 1900… Nonostante il manto nevoso che ricopre ancora il terreno ci aggiriamo affascinati tra vecchie costruzioni di legno, con finestre appannate dagli anni o rotte dalle intemperie, con la polvere che ricopre ogni oggetto d’antiquariato. Per ovvi motivi di sicurezza non è possibile accedere all’interno, con unica eccezione della graziosa chiesa. E’ un’emozione unica, basta lasciarsi trascinare dai pensieri e dalla fantasia. La storia che racconta ogni singolo oggetto in fondo ci mette una certa malinconia. Questa si accentua quando, dalla polverosa arteria principale della città, sbirciamo oltre gli imbronciati vetri della scuola e notiamo i banchi e le sedie messi disordinatamente, come se fosse suonato l’intervallo; la lavagna è ancora piena di appunti e spiegazioni, le cartine sono al loro posto sulle pareti… La classe ci sembra lì, viva ed in silenzio. Allora ci chiediamo: stiamo curiosando nel passato o siamo finiti nel futuro? Perchè questa città è stata abbandonata così in fretta? Lasciamo la Ghost Town e ci avventuriamo per il percorso più sfortunato della nostra vacanza. Considerato che, come già detto, il Tioga Pass è chiuso, andiamo a nord in cerca di un valico aperto, con l’obiettivo di attraversare la Sierra Nevada per essere già avanti l’indomani per la visita al Sequoia NP. Dopo una cinquantina di chilometri, nei pressi di Sonora Junction, troviamo l’indicazione per il valico omonimo. Quando siamo ormai in vista del passo, scopriamo che anche questo è chiuso, forse per lavori, ma nessuna segnalazione ci aveva informato della cosa. Perdiamo così circa due ore e si fa tardi. Torniamo a valle e andiamo di nuovo a nord. E’ gia buio profondo, ci fermiamo perciò a Topaz, sul confine col Nevada, dove immediatamente rispuntano i luccicanti casinò. Non c’è posto per dormire, ma ne approfittiamo per cenare. Sfiniti torniamo a Walker, un paese a 25 km a sud, dove precedentemente ci eravamo accordati per una camera (80$). 10 aprile Monitor Pass – Fresno – Sequoia NP km 600 Ci alziamo di buon’ora alla volta del Sequoia Park. La salita verso il Monitor Pass e il successivo Ebbets Pass è lunga e piena di curve. Rischiamo di sprecare l’ultimo giorno in macchina. Viaggiamo lungo la strada n.4 e passiamo per i centri di Arnold, Angels e Farmington, prima di raggiungere l’autostrada all’altezza di Stockton, non distante da San Francisco (a 250 km da Walker). Dopo quasi due settimane di paesaggio semi-desertico e di paesini di poche anime, ci stupiamo di fronte alle tipiche cittadine californiane che incontriamo lungo la strada: villette a schiera con giardini ben curati, negozi e ristoranti, chiese e campi sportivi. Il percorso in autostrada è lungo ma piuttosto veloce; passiamo per le città di Modesto, Ceres, Merced e Madera, prima di raggiungere Fresno (200 km da Stockton), dove pranziamo in un fast-food. Prendiamo infine la strada 180 verso est che ci conduce all’entrata del parco (a 80 km). Sono già le 16,30, abbiamo comunque ancora qualche ora di luce. Rinunciamo però alla visita del Kings Canyon, il parco gemello che si trova più a nord. All’ingresso nord (Big Stump Entrance) ci accoglie una sequoia gigantesca. Le sequoie… Slancio di vita verso il cielo, e radici ben salde alla terra. Un passato millenario e un futuro incerto davanti a sè. Il Sequoia NP, unica testimonianza, se non relitto, di uno scenaro tipico e comune a molte aree fino alle devastazioni di qualche secolo fa, è una tappa obbligatoria e necessaria, esperienza ineguagliabile dell’incommensurabilità della natura. “Abbracciare” una sequoia, farsi inebriare dal suo profumo, lasciarsi impressionare dalle sue dimensioni e dai suoi colori. Ci si sente infinitamente piccoli, un’ esistenza effimera, fragile. Di fronte ad una sequoia, ciascuno – turista, appassionato, scienziato che sia – impara a ridimensionare la propria figura, il proprio ruolo nel mondo. Percorriamo la strada asfaltata che si inoltra nel bosco. Scendiamo dalla macchina per le foto di rito: tutti e quattro abbracciati alle sequoie: sembriamo delle formiche, dei moscerini! Non ci allontaniamo molto dal nostro fuoristrada perchè intimiditi dai cartelli gialli con la scritta: “Attenzione agli orsi”! Di orsi non ne vediamo (“Peccato”, dice qualcuno), in compenso, ci imbattiamo in una famiglia di caprioli che ordinatamente si mette in posa per farsi fotografare. Tappa obbligata è la sequoia dedicata al Generale Sherman, la più grande del mondo: 36 metri di circonferenza!!! Ormai è buio, lasciamo il parco dalla Ash Mountain Entrance e rischiamo di rimanere senza benzina (all’interno non c’è possibilità di rifornimento). Ci fermiamo a cena a Three Rivers in un ristorante molto carino, dove mangiamo finalmente piuttosto bene (50$ in quattro). Il cameriere è veramente molto gentile e ci offre anche il dolce: una deliziosissima fetta di Cheese Cake…Meglio tardi che mai!! Pernottiamo al Days Inn nello stesso villaggio, per 25$ a testa.

11 aprile in viaggio verso Las Vegas (Nevada) km 600 Da Three Rivers ripartiamo per raggiungere l’autostrada nei pressi di Visalia (60 km; in realtà si tratta di una superstrada). Poco prima di Barstow, dove inizia l’autostrada 15, rimaniamo imbottigliati nel traffico causato da un incidente. Restiamo fermi per 4 ore! Quando raggiungiamo Las Vegas (550 km) è già buio. Abbiamo perso tutta la giornata. Ma Las Vegas, fortunatamente, è una città che vive soprattutto di notte, e noi, di certo, non abbiamo nessuna intenzione di andare a letto! Tutti almeno una volta hanno sentito parlare di Las Vegas, forse perché viene spesso associata a nomi di grandi personaggi quali Helvis Presley, che vi sposò Priscilla, oppure il più attuale Mike Tyson che vi ha disputato numerosi incontri. Iniziamo la nostra visita dello Strip, l’arteria principale della città, dal Mandalay Bay, dove ceniamo e dove è in programma un concerto di Bon Jovi; non è raro infatti che proprio questi grandi alberghi siano sede di importati concerti ed eventi sportivi. Qui ogni minimo dettaglio è realizzato “in grande” per cercare di stupire e, perché no, soddisfare ogni esigenza dei visitatori. Rimaniamo affascinati da tutto ciò che ci circonda e che ai nostri occhi appare ancora più eccezionale. Migliaia sono le persone con in mano barattoli carichi di monetine che vivono nell’illusione della vincita che possa cambiare loro la vita. Continuiamo il nostro viaggio tra un albergo e l’altro, ognuno dei quali narra una propria storia. Visitiamo il Luxor, davanti a quale fa bella mostra di sè una sfinge che accoglie i visitatori all’entrata…Alle sue spalle una perfetta ricostruzione di una piramide ospita al suo interno il casinò e l’albergo. Di spiccata bellezza è il New York New York, riproduzione di alcuni dei più importati edifici di Manhattan, capeggiati dalla Statua della Libertà e dal Ponte di Brooklin (grande un quinto dell’originale). Intorno al complesso sfrecciano le montagne russe. Una visita all’Excalibur ci proietta in un’atmosfera fiabesca fatta di dame, cavalieri ed eterne tenzoni medievali. Non poteva mancare il tempio della boxe, l’MGM dove sono stati disputati numerosi incontri di boxe e dove il leone d’oro, simbolo dell’omonima casa cinematografica di Hollywood, osserva tutto ciò che succede sotto di lui nella più totale indifferenza. Non sappiamo più dove guardare tanti sono gli alberghi che ci circondano, proseguiamo lungo la via per visitare il Paris, fedele riproduzione della capitale francese in cui non poteva certo mancare la Torre Eiffel che ospita, a 33 m di altezza, un ristorante. Anche qui troviamo un po’ di Italia visitando il Venetian dove possiamo ammirare una fedele ricostruzione in miniatura della città lagunare con tanto di canali e gondole. Restiamo quasi a bocca aperta di fronte a tale “esagerazione”. Anche il Bellagio rappresenta una dimostrazione di quanto il nostro paese sia amato in tutto il mondo. Ci fa ancora più piacere vedere che un posto tanto vicino alla Valtellina sia stato riprodotto persino in America. Qui una ricostruzione del lago di Como fa da cornice ad uno splendido albergo la cui attrattiva principale è rappresentata della fontane che ad intervalli regolari offrono straordinari spettacoli in cui l’acqua “danza” a ritmo di musica. Noi ragazze speriamo ovviamente in un incontro con Brad Pitt o George Clooney rimasti lì dopo le riprese di “Ocean’s eleven”, ma senza alcun risultato…Sigh. E’ una città che non finisce mai di stupire per la sua diversità e, perché no, anche “falsità”, dove tutto viene spinto quasi all’esasperazione. Certo gli alberghi sono tantissimi, uno più bello dell’altro, ognuno dei quali ci ha lasciato un ricordo particolare che certo non scorderemo mai anche perché Las Vegas è unica…Per fortuna! Verso le quattro del mattino, ormai sfiniti dalla camminata e ubriachi di suoni e colori, riconsegnamo il fuoristrada alla Alamo e andiamo all’areoporto, dove però il tintinnio continua anche dopo il check-in. Facciamo di nuovo scalo a New York prima di arrivare alla Malpensa.

Consigli utili Cellulare: inutile, non prende praticamente mai e si spende molto; più conveniente utilizzare le schede telefoniche Alberghi: in questa stagione non serve prenotare, per strada si incontrano numerosi motel e i prezzi sono vantaggiosi (per chi vuole spendere poco ci sono anche motel dignitosi da 35/40 $ la doppia). Nel territorio compreso nella riserva indiana è un po’ più difficile trovare sistemazioni per la notte, soprattutto perché è difficile trovare villaggi che superino le 10 case che tra l’altro distano almeno 50 km uno dall’altro.

Ultima nota: le camere si dividono in Queen Size (doppia normale, anche se i letti in America sono più ampi dei nostri) e King Size (due letti matrimoniali). La catene in cui ci siamo trovati meglio è la Days Inn.

Mangiare: unica nota dolente della vacanza, se si vuole mangiare bene bisogna spendere tanto. Anche le famose bistecche del sud-ovest non te le regalano. A pranzo ci affidavamo, quando possibile, al Subway, catena di fast food dove al posto di patatine e hamburger vengono servite abbondanti insalate preparate al momento a seconda dei gusti e panini più salutari; ben forniti sono anche i grandi supermercati, che però si trovano solo nelle cittadine medio-grandi. Carta dei parchi: costa 50 $, vale per un veicolo, può essere acquistata all’ingresso di ogni parco, ha la durata di un anno e permette l’accesso a tutti i National Parks.

Auto: noleggiare un auto spaziosa è indispensabile, se siete in 4 consigliamo un fuoristrada che costa circa 1000 € per 2 settimane. Includete tutte le assicurazioni aggiuntive per non avere problemi. Leggere con attenzione le clausole perchè in caso di incidenti diventa molto problematico risarcire gli americani! Assicurazioni: indispensabile avere un’assicurazione personale per le spese mediche, in America è risaputo che non ti cura nessuno se non paghi. Noi abbiamo scelto Europe Assistance.

Volo: cercare su più siti di compagnie aeree perchè i prezzi variano molto. Noi con Continental abbiamo speso meno di 500€ a testa per il volo andata ritorno Milano-New York-Las Vegas.



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