Settemila chilometri a zonzo per l’OVEST-USA

21-22settembre. Partenza da Roma ore 11,45 con quaranta minuti di ritardo, British Airways, ma tutto sommato si arriva perfettamente in orario a Los Angeles la sera stessa alle 21 circa. Ci accoglie un pessimo Motel6, economico ma non adeguato alle nostre aspettative. La mattina si inizia la nostra seconda avventura americana, esattamente un anno...
Scritto da: kris&lapo
settemila chilometri a zonzo per l'ovest-usa
Partenza il: 22/09/2009
Ritorno il: 08/10/2009
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
21-22settembre. Partenza da Roma ore 11,45 con quaranta minuti di ritardo, British Airways, ma tutto sommato si arriva perfettamente in orario a Los Angeles la sera stessa alle 21 circa. Ci accoglie un pessimo Motel6, economico ma non adeguato alle nostre aspettative. La mattina si inizia la nostra seconda avventura americana, esattamente un anno dopo la prima memorabile nel New England. Los Angeles ci accoglie con la Hollywood Boulevard, costosissima per i parcheggi, affollatissima dai turisti. Con la camminata delle stelle granitiche, memoria di ogni star che si possa immaginare e ricordare a memoria d’uomo, la mitica scritta HOLLYWOOD, in campo lungo che troneggia sulle colline e le villone di Beverly Hills, ciascuna meritevole di una pagina patinata sui giornali dei divi. Per la raffinatezza delle costruzioni e la bellezza e la cura dei giardini. Si mangia in un ristorante greco, ma poi ci si dirige a Santa Monica con il suo Pier variopinto di bancarelle, turisti, bambini e attrazioni in riva al mare e con un bellissimo porto turistico. Molto rilassante per smaltire il fuso orario la passeggiata lungo-mare. Alle 6 pm ci si dirige a Bakersfield, per la notte. 23-settembre. Stamattina alle otto dopo una ottima colazione da Starbucks, un espresso davvero buono per essere in America, poi siamo partiti alla volta del primo dei parchi nazionali USA, il Sequoia NTL Park. Da Bakersfield distante circa 150 miglia. La strada è davvero californiana, con i “CHiPs” a bordo carreggiata, lunghe distese gialle, roventi di sole (85°F di media), intervallate da colline verde smeraldo piene di alberi da frutto o vigneti pregiati, di tanto in tanto ulivi, il tutto a perdita d’occhio, ovviamente. Mentre la radio passa un pop USA che echeggia il country, inizia a cambiare paesaggio. La nuova strada è più stretta e curva e a tratti quasi aspra, intorno si vedono meglio, in progressione, le fattorie con gli animali domestici, i centri abitati e i centri turistici del Three Rivers. In breve si arriva all’ingresso del parco Sequoia dove si acquista il pass (80dollari) valido un anno, per tutti i parchi nazionali che si vogliono visitare, foto di rito davanti all’enorme effige in legno di un indiano d’America che troneggia festoso e un po’ sarcastico all’inizio del percorso turistico e così si comincia la visita. La natura è davvero maestosa, imponenti le creature antiche, anzi preistoriche, che la popolano: sequoie ed abeti incredibilmente elevati tracciano i contorni della riserva per miglia. Attraverso di essi la luce filtra appena, ma le dimensioni sono al pari della loro suggestiva bellezza, i colori dei tronchi vanno dal rosso, al rosa, al verde intenso se vi coabitano muschi o rampicanti, ma è solo l’inizio. Facciamo le foto più curiose e disparate lungo il percorso, mettendoci accanto ai giganti per esaltarne la grandezza, in alcuni tronchi si entra dentro per intero, alcuni invece sono divelti dal terreno e mostrano le loro enormi radici, come mostruosi piedi antidiluviani. Il parco offre diversi punti di informazione, ma soprattutto diverse meraviglie naturali accessibili con brevi camminate, dai parcheggi predisposti per i turisti. Una volta in macchina si parte alla volta delle sequoie giganti, non prima di esserci rifocillati al Lodgepole Visitor Center, ma ci dice male perché ci sono lavori in corso lungo la stretta strada che si infila in questa foresta incantata.

La prima attrattiva che si riesce a visitare è il Moro Rock, cima in granito, sulla quale si riesce a salire grazie ad una scaletta stretta e lunga che ascende fino alla vetta, scoprendo un panorama mozzafiato e delle altezze da brivido. Dopo questa sosta si decide di riprovare il passaggio verso il visitor center. Ma questa volta l’attesa è ripagata da un incontro davvero speciale. Mentre procediamo a bassissima velocità, infatti, scorgiamo nella boscaglia sottostante la strada un orso bruno. Un orso di medie dimensioni, panciuto e simpatico, in cerca di cibo, tra i rami caduti e gli arbusti, totalmente indifferente ai nostri scatti, prosegue nella sua buffa camminata arrivando poco distante da noi, poi deluso dal magro bottino si ritira traballante nel suo bosco, amico sicuro e insostituibile, per lui, quanto insondabile e misterioso, per noi. Arriviamo felici ed eccitati per l’incontro con l’orso, al cottage dove riusciamo a pranzare con un ottimo chili vegetale e degli hamburger di cui uno di soia, davvero good. Ci riposiamo una mezz’ora e nel frattempo compare un cerbiatto perplesso e dubbioso sulla presenza di tanti bipedi che ci fa dimenticare l’attesa del semaforo verde del ranger, custode implacabile della strada. Ripartiamo per andare a conoscer di persona il Generale Shermann, gloria nazionale, per gli americani e sequoia tra le più grandi e antiche del mondo, per tutti gli altri comuni mortali, che di questa terra possono essere solo ospiti graditi e affascinati. La strada che ci porta dal vecchio Shermann è un viottolo lastricato di granito, immerso nel verde-bruno di alberi fitti e altissimi, che ci riservano un’altra sorpresa di indescrivibile tenerezza. Questa volta a comparire tra rami secchi e cespugli sono due cuccioli di orso bruno, belli da commuovere, due personaggi di Walt Disney non sarebbero riusciti in alcun modo ad impensierirli in quanto a musetto e simpatia. Davvero vicini e mansueti si prestano a mille duemila scatti di turisti curiosi e allo stesso tempo attoniti di fronte ad un simile evento. Si sente rovistare tra le foglie e gli arbusti…Ma si vedono anche cadere pigne e rametti…Certo!!ecco che scorgiamo arrampicata su un abete di una ventina di metri di altezza la mamma orsa…Dopo poco, con un fare sicuro e davvero ondeggiante, discende lungo il tronco e giunge presso i figli, poi insieme decidono di attraversare la strada…Dove intanto si è radunata una piccola folla felice ma rispettosa degli animali. Si alza un po’ sulla schiena chiede permesso con un groarrr sommesso ed amichevole ed attraversa il viottolo con i cuccioli, riprendendo l’esplorazione nel bosco nel versante opposto a quello dove si trovavano prima. Infine, arriviamo alla sequoia; un essere dignitoso imponente antico e trisavolo del bosco che rimane rispettosamente tutto ai suoi piedi…I suoi colori e le sue fattezze sono perfetti e racchiusi nei migliaia di anni che lo hanno reso il Vecchio d’America…Emozionante. Dopo simili bellezze naturali ripartiamo alla volta di Merced. Abbiamo preso una stanza nel Super 8 motel, pulito e accogliente.

24-settembre. Ci alziamo presto ma riposati e in breve siamo pronti a riprendere il cammino per Yosemite Ntl Park. Lungo la strada ci imbattiamo in un delizioso villaggio, Mariposa, che sembra fermo ad un film del vecchio West ma non è kirstch anzi direi appropriato al paesaggio e alla cultura del luogo. Certamente turistico. Ci fermiamo a fare una foto all’antico tribunale (1854) poi procediamo. Attraversiamo ancora panorami davvero piacevoli e man mano che ci si avvicina all’ingresso Sud-Ovest della riserva sempre più verdi e intatti. Arriviamo, attraverso una strada di suggestivi saliscendi tra le montagne della Sierra, all’entrata del parco. Si continua lungo questa strada panoramica (la 140) con pareti rocciose a destra ed un fiume, il Merced, davvero pulito, fresco e guizzante dall’altro. Un fiume che offre lungo il suo corso spiaggette, insenature e soste panoramiche, dove è possibile rinfrescarsi anche facendo il bagno. Dopo le foto di questi scorci, arriviamo quasi subito, in una delle zone maggiormente turistiche (anche troppo!!) le cascate del velo della sposa (Bridalveil Falls) alle quali si può accedere con un sentiero nel bosco(che è già rigoglioso e fitto in questa zona e ancora di più salendo di quota) che ci accoglie insieme a decine di turisti appena sbarcati da pullman provenienti da tutta l’America. Nel sentiero per la cascata si avverte il rumore dell’acqua che scroscia e disegna da milioni di anni la roccia, ma quando ci si è sotto si apprezza il nome assegnatole. Le acque che la animano danzano leggere e sinuose proprio come la frusciante stoffa di un candido tulle nuziale. Scarsa la portata a causa della stagione ma davvero imperiosa la caduta dall’altissima falesia nel bosco, in contrasto con la dolcezza del gioco d’acqua. Si prosegue, riprendendo la strada ma per breve tratto, in quanto, subito dopo, ci appare una imponente e granitica falesia, El Capitan, alta 900m, che disegna un profilo mozzafiato sul cielo terso della California. Si prosegue e ci si ferma per i soliti lavori stradali che, però, questa volta non rallentano molto la nostra passeggiata poiché troviamo l’omino “SLOW” e non “STOP”, sia in entrata che in uscita. Davvero impervio, tuttavia il passaggio verso il Glacier Point, ma un po’ spezzato nel mezzo dal piacevole e indimenticabile panorama godibile a Tunnel View, che apre la vista su tutta la vallata. Cime, valli, boschi e sempre ben in vista l’Half Dome, un picco dalla forma strana (arrotondata sul dorso che poi degrada a becco) e dominante su tutta la zona, visibile da tutti view point. Si arriva al Glacier, dopo 16 miglia, con una fame ormai decisa, che viene calmata nel piccolo cottage-chiosco-gift shop, con due panini mega (22dollari) presente poco distante dal parcheggio. Si visita, infine, attraverso il breve percorso granitico, il trail (anche qui molto turistico) che si apre con un casottino che funge anche da osservatorio geologico sulla valle glaciale. 100 milioni di anni la natura ha impiegato per scolpire questa emozionante meraviglia che è uno spettacolo variegato e magico, che comprende le Yosemite Falls (asciutte in questo periodo) e sullo sfondo la Sierra in tutta la sua serena maestosità. Rallegrati e inteneriti anche dalla presenza di scoiattoli grassottelli e amichevoli, trascorre un’oretta davvero piacevole. Ma è ora di tornare a quote più discrete (lo spuntone dove ci troviamo si eleva per circa 100metri oltre i tremila sui quali passeggiamo), per un passaggio al Yosemite Village e poi verso Bishop, meta del riposo notturno. Adiamo via attraverso la Tenaya Road, lungo la quale si colloca l’omonimo lago, lo spettacolo del quale, al tramonto, in piena tranquillità, lasciamo alla più blu delle immaginazioni. Lungo la strada di montagna per arrivare al lago ci imbattiamo in un veloce e fiero lupo grigio…Straordinario, ma più a valle dove riprende la radura accecata dal sole, si delineano le sagome eleganti di un gruppo di cervi al pascolo, sereni nel loro habitat e dal colore dorato come il resto del paesaggio. Pernottiamo in un Days Inn molto accogliente. Mangiamo in un locale delizioso, all’aperto, Weeskey Kreek dove pasteggiamo con un ottimo pinot grigio californiano e mangiamo un dolce di cioccolato divino.

25-settembre. Ci svegliamo presto per accorciare un po’ i tempi, ma è inutile prima di un’ora e mezzo due, per preparare tutto e fare colazione, non si riesce ad andare. Si intraprende l’avventura per la Death Valley, che sappiamo già avrà dell’incredibile ma nemmeno noi ci rendiamo conto quanto sia vero. Strada schiacciata da un sole che già si fa caldo alle 9.00am, che quindi sarà molto più esplicito tra breve. Infatti, man mano che la Sierra si desertifica e ci ingoia, la temperatura sale ma si mantiene un vento sabbioso e secco che, comunque, rende sopportabile l’arrivo nella valle della morte. L’ingresso si confonde con il resto del paesaggio, non c’è il solito sorridente ranger che ti augura una buona giornata…In realtà non c’è nessuno, tranne qualche macchina a nolo come la nostra. Le prime foto coincidono con le prime attonite e momentanee soste. Lo scenario è meraviglioso e terribile al contempo, onirico. Non si riesce a dire, tuttavia, se sia un sogno o un incubo. La prima veduta che faticosamente si conquista, ovviamente in auto con condizionatore rigorosamente acceso, già sui 40 gradi assoluti, è Mosaic Canyon. Il paesaggio rovente merita la fatica di raggiungere il piccolo budello nella roccia ma non si riesce ad andare oltre l’ingresso. Si riparte e si vedono le Sand Dunes, piccola immagine di come credo siano i deserti africani, per circa un miglio, dune ocra di sabbia finissima che disegnano un paesaggio davvero insolito. Proseguendo incontriamo Stovepipe Wells Village, davvero accogliente e rinfrescante complesso motel-gift shop-store, ideale per una breve sosta all’ombra, attorniati dai tipici corvi neri del deserto. Finito il pranzetto al sacco, proseguiamo rassegnati al caldo, ma anche un po’ più acclimatati, riprendendo la 190 diretti a Furnace Creek e poco dopo ci imbattiamo nel Salt Creek Interpretative Trail, passaggio su un pontile di legno di circa 1 km, che a questa temperatura (in vertiginoso aumento dato che sono le 14) ci risulta possibile solo per metà perché, malgrado acqua e cappellino, il caldo è intollerabile. In primavera, scopriremo poi al visitor center, qui si ammirano i rari, variopinti e preziosi fiori adattati al clima…Davvero inimmaginabile dei fiori!!!…Si riparte e ci si ferma di nuovo a livello di Harmony Borax Works. Questo sito è raggiungibile in macchina attraverso una strada sterrata e ardimentosa, che qualsiasi auto soffre, a 45°C con condizionatore a palla da ormai un paio d’ore. Tuttavia, la Toyota Matrix consegnataci a Los Angeles si comporta da signora e ci traghetta anche in questa miniera abbandonata della seconda metà dell’Ottocento, dove si estraeva il borace, vero materiale prezioso della Death Valley. La struttura è in declino ma il carro che trasportava i materiali mediante i famosi venti muli (dieci coppie rese famose dalla resistenza e dalla caparbia generosità dell’animale che, solo, riusciva ad affiancare l’uomo in miniera in queste condizioni climatiche) e la fornace sono ben visibili e pressoché intatti. Sul dislivello che li accoglie si scorge il disegno elegante del Mustard Desert…Altopiano di rocce e sabbia di colore davvero uguale alla senape…Il tutto risulta piacevole se non ti mancasse il respiro dopo 10-15 min di permanenza. Siamo stanchi ma davvero impressionati da questa dimensione parallela e surreale. Tanta gente l’ha attraversata e ci ha vissuto tutta la vita per lavoro o per diletto. Come quel tale Scotty (truffatore di un magnate della finanza americano) la storia del quale ci è narrata al visitor center, che raggiungiamo dopo poco a Furnace Creek, in un video illustrativo della riserva. In uno dei siti da visitare c’è ancora la costruzione spagnoleggiante, tipo fazenda, che si chiama appunto Scotty’s Castle, dove egli visse fino al 1972, ma noi decidiamo di soprassedere perché è necessaria la guida e c’è pure da aspettare…Ma è davvero insolita e anche piacevole a vedersi oltre che condizionata. Decidiamo a questo punto di recarci a Zabriskie Point, mitico punto di osservazione in pieno deserto. È la parte più scenografica della valle, resa celebre anche dal film di Antonioni. Beh…Merita davvero il sacrificio delle ultime energie strappate all’insopportabile calura e all’ipotensione, una veduta mozzafiato. Sospesa nel vuoto del deserto, una terrazza che guarda le sculture di roccia e sabbia plasmate dagli agenti atmosferici e da milioni di anni. La perfezione e l’assoluto silenzio, come in ogni zona del parco, sono interrotti solo dai clic fotografici, dei coraggiosi turisti che, come noi, ascendono alla cima del belvedere. Ti emoziona essere lì perché prendi contatto con una realtà diversa e unica, difficile come una dimensione spirituale, perfetta in se stessa, al di fuori del tempo e dello spazio. Si rientra in macchina, luogo di refrigerio, e si prosegue verso la Artist Pallet altra visione davvero suggestiva, che a parole è difficile descrivere completamente. È un luogo dell’anima, ci si accede dopo l’Artist Drive, punto di veduta d’insieme, di queste rocce millenarie in continua evoluzione. Giungiamo sotto al punto di osservazione con l’auto e ci rendiamo conto della meraviglia che abbiamo di fronte. Colori tenui e forti (rosa lilla rosso arancio verde azzurro grigio ocra) si alternano e si mescolano sapientemente, come solo Madre Natura riesce a fare, sulle rocce. La tavolozza di un pittore creatore che dipinge l’anima di chi guarda di una emozione profonda come la quiete che infonde questo luogo, in cui anche l’assolamento e la fatica sembrano scomparire. Si avverte dentro una specie di infinito momento in cui le forme e i colori si confondono completamente…Il colore domina la luce del sole, anche troppo forte e solenne. Ma davvero è ora di andare…Si attraversa questa volta una stretta stradina, divertente, piena di saliscendi, che si infila tra rocce rosse rosa arancio verdi marroni a seconda del minerale che predomina nella loro composizione. Si giunge sulla strada principale, la 178, e ci si dirige verso Badwater, ma prima si incontra il Devil’s Golf Course…Qui, il bianco assoluto, sale, una immensa distesa di sale…Vestigia di un antico lago, ogni zolla è decorata da un orletto di candido e affilatissimo deposito salino, che la rende luminescente e preziosa, il campo da golf del diavolo…Lo sembra davvero. Si incontra un ennesima esperienza da fare, ma ad essa rinunciamo, è il Golden Canyon altra insenatura stretta e profonda della valle che le indicazioni del visitor center danno per indimenticabile. Cosi, dopo una ventina di torride miglia da Furnace Creek, si arriva a Bad Water, ripetizione in grande del giardino del diavolo, depressione di circa cento metri sotto il livello del mare (segnalato sul costone della montagna con una targa che ci da la dimensione del problema!!!). Foto di rito ma davvero ricordo indelebile a prescindere dal file che lo conterrà nel nostro PC. Proseguiamo sulla 178 (ma non la consigliamo perché se è più suggestiva si allunga rispetto alla 190 di una decina di miglia…Sono tante in questo ambiente) fino a Shoshoe, unico, minuscolo segno di vita, che oltrepassiamo imboccando per Las Vegas, contando di fermarci a Parhump, centro turistico della Death, ad una trentina di miglia. Ma non abbiamo fortuna. E forse è anche meglio. Un rodeo in città (il venerdì è comune nel “Vecchio West”) e hotel pieni di gente che tenta la sorte, ci spingono più avanti, fino alle porte della mitica città dei casinò per eccellenza. Arriviamo distrutti, guidati dal GPS (INDISPENSABILE IN USA!!!!), in un ranch vero e proprio, con tanto di hotel, ristorante, rodeo, zoo e canyon…Da non credere. Nell’assoluto nulla circostante. Il posto è accogliente e il personale altrettanto, ci spillano 100 dollari, ma alle porte di Las Vegas, è onesto…Cmq avremmo speso anche di più per doccia mangiare e dormire, dopo la giornata di oggi. La mattina ci rendiamo conto che la tenuta è davvero grande e bella, altrettanto il paesaggio in cui è immersa…Molto rilassante; anche se la camera di sicuro non era delle migliori. Bonnie Springs, Blue Diamond, davvero confortevole…Se capitate da quelle parti! 26-settembre. Si riparte alla volta dello Zion Ntl Park, Utah. Attraversiamo Las Vegas e ne approfittiamo per la solita colazione da Starbucks, ma non ci addentriamo troppo nella città dai cartelloni multi cromatici, perché abbiamo bisogno di un posto relaxing che non metta alla prova la nostra stabilità emotiva…Rimanendo impigliati ancora nella rete invisibile di sensazioni tessuta dal deserto, con la sua capacità ipnotica e la netta esaltazione del potere oscuro della nostra Terra. Estremo. Il panorama cambia rapidamente, dal deserto dopo poco, sembra di essere in un angolo di New England, con gli aceri gialli e rossi ad accogliere l’autunno…In alto la Sierra austera, in basso, scorre il fiume Virgin, con i suoi innumerevoli affluenti. Si colloca saggiamente al fresco di un canyon di rocce rosse e scolpite, una a una, dalla sapiente mano di un artista inconsapevole ed eterno, il tempo con i suoi cicli stagionali. Ci accorgiamo di essere nei territori appartenuti e appartenenti ai nativi d’America, te lo comunica il paesaggio, la quiete, la serenità, la forza espressiva e l’armonia, che vedi nell’insieme e in ogni singolo angolo di questa terra. Una didascalia innumerevole di cartelli ci indicano belvedere da ricordare…Il cielo netto e luminoso rende le rocce ancor più rosse e possenti, visibili nelle loro singole venature dal rosso scuro, al rosa, al violetto…Ma predomina su tutto il vermiglio che si illumina con il sole e si lascia accarezzare da un’aria fresca e domenicale che, allo scorrere felice del Virgin, è un inno alla vita. Ci piace. Entriamo nel parco, dopo la solita sosta dal ranger, che ci fornisce di mappa e giornalino e proseguiamo verso il visitor center, il parcheggio del quale risulta sold out…Alle solite…Si prosegue! Si prende la 89 ma si sbaglia o meglio ci si dirige verso EST, invece che verso NORD…Cmq molto bella la ascesa tra le falesie altissime. Vale la pena sbagliare, è una regola (si impara!!). Torniamo alla base turistica e finalmente troviamo posto e procediamo con le organizzatissime navette, che attraversano costantemente le rocce a picco sul fiume. L’asfalto è rosso per ridurre l’impatto ambientale, ma davvero tutto in questi parchi parla di ossequio nei confronti dell’ambiente. Prima fermata lo Zion Lodge, dove si respira una aria di festa domenicale con i bambini, sul prato verde antistante. Anche noi consumiamo uno snack e un gelato, francamente grande quanto insignificante. Ci si inoltra nel canyon dal sentiero del lodge. La passeggiata di Emerald Pools Trail vale bene la pena di una mezz’ora di saliscendi lungo le falesie dello Zion, perché riesce a restituirci il contatto con la natura (bosco sottobosco cascate di acqua sorgiva e piscinette sovrapposte) e con la atmosfera del parco intero. È pieno di persone che sebbene disabilità, età estreme, o sovrappeso, riescono ad essere perfettamente integrate nel contesto circostante. Vegetazione tipo macchia mediterranea ma davvero incontaminata. Riprendiamo la navetta alla fermata successiva e li ci riposiamo, godendoci la scarrozzata, fino alla sommità del canyon che è a fondo cieco, detta Temple of Sinawawa. Nella splendida luce ambrata di fine pomeriggio, appaiono vivide e sanguigne le irregolarità delle rocce e le loro striature ferrose, come un enorme opera di Action Painting (Pollock & C). Scesi nel sentiero di osservazione, ci compaiono davanti dei simpatici “muli dalle grandi orecchie”(praticamente dei cervi dalle buffe orecchie grandi), in gruppetti di due o tre, maschi e femmine, che si spingono curiosamente nella loro radura e indisturbati brucano al pascolo. Poco dopo, lungo l’argine del fiume scrosciante e limpido, vediamo una grossa, nera, splendida (nel suo genere) tarantola, perfettamente a suo agio nella escursione agile che compie tra i bipedi un po’ ritrosi. Si torna alla navetta e si scende a valle, si recupera la Matrix e si riparte verso una sistemazione per la notte. Cedar City, Motel Super 8, cena da “Dio Padre” dove scopriamo, dopo aver frainteso ciò che ci proponevano altri localini, che in Utah, spesso, nei posti medio-economici, ti propongono una cena a buffet (all you can eat) quindi con un prezzo quasi insignificante (9-12 dollari a persona) mangi pizza di qualunque tipo, appena sfornata ed insalata, la composizione della quale è a tuo piacimento(self service). Bevande escluse (2 dollari la coca grande). No alcolici perché si è nella comunità dei Mormoni e i locali che vendono bevande alcoliche sono espressamente indicate nell’insegna. Tutto ottimo, atmosfera familiare, a tratti singolare.

27-settembre. Oggi il programma che seguiremo prevede due parchi nazionali, tra loro non vicinissimi (circa un centinaio di miglia che separano lo UTAH e Kanab dalla bella Page quindi dall’ARIZONA, separate anche da un’ora di fuso, che ci fa guadagnare tempo, perché andiamo da -8 a -9) il Bryce Canyon e il Glenn Canyon con il Lake Powell. La strada che ci introduce al primo parco di oggi è simpatica perché parla dei suoi abitanti, gente semplice raccolta in piccoli insediamenti, dedita all’agricoltura o al bestiame…Piccoli villaggi di un Old West che sa molto di vecchio film e nostalgia…Su tutto domina incontrastata la bellezza assoluta del Creato. Si arriva alle porte del Parco e si acquista il pranzo (insalate gustose fresche e buone, in pratiche vaschette, acqua e frutta, cibi che accompagnano sempre e rigorosamente le nostre escursioni, per evitare disidratazione e stanchezza muscolare eccessiva) in un enorme store da Ruby’s; procediamo fino all’immancabile ranger. Si prosegue in macchina fino a Sunset Point…Dove si rimane intensamente silenziosi per tutta la passeggiata asfaltata, poi si decide di scendere nella gola ancestrale del canyon, diretti a Sunrise Point, ovviamente a piedi. Sembra che un bambino pieno di fantasia, all’inizio di ogni tempo, si sia divertito a disegnare castelli di sabbia arancio, rosa, rossi e fucsia, sopra un altipiano roccioso che li difende e li nasconde gelosamente. La discesa è ripida ma davvero incantevole, un alternarsi di pinnacoli leggeri e sottili a grandi sculture concrete e altissime, un gioco di volute e spioventi, di archi e stiletti, un florilegio di rossi arancio e rosa che ogni hoodoos ripropone diverso e inatteso. Gli hoodos appunto sono queste meravigliose concrezioni di roccia calcarea e sali di ferro e manganese che provengono da un fondale marino risalente alla notte delle prime stelle. Da vedere almeno una volta nella vita. Il trail che abbiamo percorso (di media difficoltà) è quello che ne unisce due il Queen’s Garden e il Navajo Loop…Un anfiteatro di forme in cui il trekking è reso più leggero dal continuo variare dell’ambiente naturale..Gli hoodoos sono quasi in movimento tanto è varia la loro disposizione e la loro altezza larghezza forma dimensione singolarmente e collettivamente presi. Si arriva stanchi ed affamati alla fine del percorso e si mangia nel boschetto antistante a Sunrise. Si recupera l’auto e si visitano gli altri punti panoramici: Farview Point (veduta verde) e Bryce Point altro panorama splendido. Si riparte alla volta del Lake Powell per vedere la diga di Glenn, la marina Wahweap e infine il tramonto a Horseshoe, leggendario ferro di cavallo roccioso che si staglia a picco sul Colorado River, poco distante da Page dove pernotteremo al Super8. La strada non è affatto breve ma al calar del sole riusciamo a godere del silenzioso e intimo scorcio (viene considerato meta di innamorati) che offre lo Scenic View sul Lago Powell. Numerose le barche ancorate nella marina e perfetto l’abbinamento del bacino con il circostante paesaggio del canyon, che rende molto vicino l’aspetto di questo lago artificiale a uno naturale. Ci fermiamo sopra la diga di Glenn, meta turistica esplorabile, (ma non certo a quest’ora), ri-attraversiamo il ponte di collegamento tra le due sponde del Colorado River, a piedi, per godere dell’emozionante salto nel vuoto che si scorge, guardando in basso, da questa imponente struttura sospesa nel canyon di Glenn. Il sole sta scomparendo quando arriviamo, attraverso un altopiano sabbioso ma ricco di coniglietti selvatici, all’Horseshoe. C’è da rimanerne estasiati. Tanta è la potenza della roccia rossa che nasconde ormai il giorno e l’impetuosità del fiume, suo prigioniero, che, quasi, sembra di pari arroganza e tenacia. Siamo rimasti un po’ ad osservare la natura addormentarsi: le luci tenui e calde del tramonto trasformarsi, lentamente, nel buio ormai prossimo, fino al riposo e alla quiete. 28-settembre. È questo il giorno della visita al canyon dei canyon: il Gran Canyon. Partiamo di buon mattino e in tarda mattinata si è al cospetto di questo mostro sacro. È davvero imponente. Entriamo nel parco dopo il saluto al cordialissimo ranger e ci fermiamo al primo punto di osservazione previsto venendo dall’ingresso EST : Desert View e Yaki Point. Prima facciamo colazione allo snack bar dove mangiamo una crostata di lamponi ottima, poi ci dirigiamo all’affollatissimo belvedere. Di fronte a noi il rosso scuro e le falesie dello Zion riproposto in scala dieci o forse cento. Uno spettacolo insondabile, inospitale, non a misura d’uomo, primitivo. Non solo la dimensione comunica queste caratteristiche, ma anche le asperità, gli scoscesi angoli di osservazione, le rocce impossibili, i sentieri appesi a un filo sul nulla, la superficie nuda e ripida delle rupi, il fiume impetuoso che urla e si arrotola su se stesso scappando verso la quiete dell’oceano immenso. Reso insignificante da quella dispoticità. È una meraviglia della Natura che scopre all’uomo un altro lato oscuro del suo carattere, come già era stato per il deserto. Si prosegue nell’osservazione dei paesaggi d’insieme del canyon, molto simili tra loro, che permettono, più o meno netta, la vista del fiume Colorado, di un azzurro intenso e nervoso. Arriviamo al visitor center di Mother Point e cerchiamo invano di parcheggiare per poi accedere al servizio navetta e percorrere con la linea rossa la suggestiva Hermits Rest Route. Allora proseguiamo fino a Yavapai Observation Station e li finalmente possiamo riconquistare la vera ragione della gita, una breve escursione nel parco. In macchina ti senti estraniato, confinato, stare in mezzo alla gente (anche se qui è davvero tantissima) e poter scegliere un trail da infilare vuol dire, anche, scaricare un po’ di tensione muscolare e mentale…Stanchezza del viaggio, jet leg, nomadismo, mancanza di caffeina…Così, si prende la navetta e si intraprende la Hermits, primo step fino al Brigth Angel, dove facciamo sosta per il pranzo, alla caffetteria del posto. Il secondo tratto lo percorriamo a piedi, nelle stradine turistiche tracciate per godere delle stratosferiche profondità del canyon. Dall’alto, mentre al Bryce dal basso. La suggestione è completamente diversa. Siamo già più rilassati e ci lasciamo andare lungo il sentiero che offre davvero belle atmosfere: da Trailview Overlook fino a Maricopa Point…Infine il Rim Trail più sterrata la strada, ma il tutto è davvero godibile. Affollatissimo. L’ultimo tratto (altre sette miglia) lo abbiamo percorso in autobus e ci siamo fermati in cima all’Hermits Rest per una limonata ghiacciata. Le navette sono frequenti e piene di personaggi stravaganti a partire dagli autisti che interagiscono con i visitatori narrando le varie zone del parco e consigliando le fermate. La discesa non è così breve e dopo una breve pausa al General Store del Village (davvero grande e fornitissimo dalla frutta all’artigianato locale) si torna alla macchina. Contenti anche di questo iper-turistico e imperscrutabile Gran Canyon. Serata distesa a Kayenta, sebbene il posto sia tristarello, offre tutto ciò di cui si ha bisogno. Ricordarsi di mettere di nuovo le lancette dell’orologio a -9 dall’Italia, cioè avanti di un’ora rispetto all’Arizona, perché si è in una riserva Navajo. Abbiamo dormito all’Holiday Inn, costosissimo (180$)per il servizio e la struttura che offre, ma il ristorante è davvero ottimo e onesto. Il tutto gestito da Navajo.

29-settembre. Ecco uno dei più attesi, almeno da noi, parchi dell’Ovest americano. La Monument Valley. Ci arrivi imbevuto della cultura hollywoodiana che fin da bambino respiri nella piccola (non solo per le dimensioni) provincia italiana aspettandoti di vedere, in questo luogo, il set di un film western. Quando ci arrivi, invece, ti rendi conto di passare un confine culturale che è come un vallo profondo, solcato tra differenti etnie e culture, ostico e lungo qualche secolo. Ti senti piccolo e insignificante, ti piomba addosso il silenzio della sacralità. Ma non quello naturale e misterioso del deserto (che pure si avverte) quello della inviolabilità. Siamo arrivati a fare colazione nell’albergo-ristorante-store-visitor center, subito dopo l’ingresso nella valle Navajo (non è valido l’Annual Pass, 5$ a persona). Ottimo servizio ottimo cibo. Si parte per l’escursione in auto attraverso la Valley Drive seguendo la piccola guida che ci hanno consegnato all’ingresso. La veduta d’insieme è straordinaria. Questi monoliti rossi come la sabbia che sonda la nostra Matrix, a dir poco, intimidiscono lo sguardo e muovono alla concentrazione e alla pace. Ogni singola posizione che si occupa lungo il tragitto scopre una valle diversa, le varie denominazioni dei butt (alti e meno larghi) e dei mesa (larghi e meno alti) suggeriscono una esperienza che dalla natura procede nell’anima di questo popolo. La tomba, l’elefante, il cammello, via via una decina, fino al più prosaico (solo nel nome), John Ford’s Point, che delinea l’intero profilo della spiritualità di questo luogo. Il parco suggerisce un senso di infinito e al tempo stesso di raccoglimento. Il popolo Navajo, i popoli nativi d’America, vivono in questa dimensione sociale, personale, lavorativa, economica, sociale, spirituale e razziale. Attraversando l’America dell’Ovest, prendi sommessamente coscienza di questa realtà, vedi la civiltà di questi uomini e queste donne spinta ai margini delle strade (a vendere il loro artigianato) e nelle periferie dei centri urbani, in piccole comunità, nomadi o stanziali, ospiti nei loro stessi territori. Ma non ti accorgi e non comprendi la loro straordinaria dignità. Alla Monument Valley hai l’ultimo tassello del puzzle. Nel 21° Secolo, dopo quattro secoli di sterminio, questa costola della società americana, è riuscita in molti casi a integrarsi, gestendo alberghi, attrazioni turistiche, interi centri urbani, senza rinunciare alla integrità culturale dell’etnia di appartenenza, alla millenaria struttura sociale in cui si riconosce, alla capacità di autodeterminazione e consapevolezza che trasmette alle generazioni successive. Fino a quando ci riusciranno. Non hanno bisogno e non vogliono compatimento (sfatato secondo noi sia il mito del selvaggio cattivo sia quello del selvaggio vittima) cercano semplicemente di rimanere se stessi, con dignità, pulizia, coraggio, impegno e rispetto per gli altri. Si riparte, con grande fatica, dopo circa tre ore di assoluta inconsapevole preghiera, in territorio Navajo. La meta questa volta è Moab, Utah, per visitare il parco degli Arches. Li abbiamo raggiunti, attraversando di nuovo un panorama desertico e maestoso, nel pieno del pomeriggio, dopo la sosta per il pranzo frugale, data l’abbondante colazione, recuperando un’ora per il fuso e poggiando bagagli nel Super 8 che ci ospitava per la notte. Moab è davvero carina e ben organizzata (turistica il giusto). Ci addentriamo in questo che si autodefinisce l’ottava meraviglia del mondo…E in effetti!!!Appena entrati nel parco subito dopo il visitor center, piccolo a dimensione del posto, ci si inerpica lungo una strada che subito si mostra divertente e piena di attrattive. Il primo sito che si incontra è Park Avenue dove, le rocce rosse e sedimentate nel corso dei millenni grazie al sale di origine marina, nonché scolpite dagli eventi atmosferici nel tempo, sono alte ed imponenti come i grattacieli di New York, di cui evocano il nome. Andiamo oltre fino a raggiungere le Three Gossips (le tre comari) e infine The Organ e Rock Balance. Ci fermiamo nel parcheggio di North Window e South Window, dove si potrebbe proseguire su un percorso che conduce sotto il Double Arch, ma andiamo oltre (anche se lo raccomandano come imperdibile, se avete tempo…), per arrivare a Delicate Arch a vedere il tramonto. Il percorso è di circa 4km (andata e ritorno), non difficile, ma aspro in alcuni passaggi sulle rocce, lisce e ripide, sbagliamo anche direzione allungando un po’,ma al culmine ci offre una ricompensa davvero grande. Un arco, perfetto, leggero, eterno, sembra poggiato direttamente sul cielo sereno e terso, di fronte al sole amaranto e violaceo che scende e dipinge tutto con i colori dell’oblio. La quiete è magica e spontanea. L’ingresso all’infinito è li, a portata di mano, da sentirselo addosso e ascoltarlo dentro il rumore delle nuvole che passano leggere. Ti senti in un puntino al centro dell’Universo. Poi imbrunisce e si torna alla base. Sono già le 9.00pm, ci facciamo convincere da una pizzeria, Zax Pizza and Family Restaurant, davvero squisita che reclamizza e vende molto bene il suo “all you can eat”, per 12$ ciascuno, è davvero da provare, abbiamo mangiato da morire…Tutto ottimo. 30-settembre. Moab ci sveglia all’alba, con il suo odore di caffè americano e toast al burro e bacon. Ma noi optiamo per Starbucks. Facciamo un giretto tra i negozietti di gift e il mio compagno acquista una splendida collana di agata per la mamma, in un negozietto che ne avrà avute appese due o tremila, ogni specie di gemma semi-preziosa che si riesca ad immaginare…Qui davvero estraggono e lavorano le pietre in modo sapiente e antico…Il turchese, pietra sacra ai nativi, propizia e ornamentale, grazie a queste tradizionali tecniche di intaglio diviene arte in se stessa…Un mondo a parte, anche questo aspetto apparentemente futile legato all’estetica femminile. In realtà antica narrazione di sapiente manualità e cultura millenaria. Oggi è giornata di traversata di tre Stati US (Utah Idaho Wyoming) alla volta del mitico Yellowstone!!! L’arrivo è a Jackson Hole, cittadina bella e accogliente, ma il viaggio è davvero un’avventura. Si passa dal paesaggio tipicamente desertico al quale siamo ormai adattati (con una media di 30°C) ad un ambiente di alta montagna, quello delle Montagne Rocciose (con una media tra 0 e -4°C). Il tutto condito con la prima nevicata dell’anno da queste parti. Uno spettacolo singolare, interi tratti di strada raggelati e imbiancati dall’abbondante e glaciale fenomeno, tutt’intorno i profili di boschi, colline, montagne e passi annullati da nuvole bianche e nevose…Le persone che incontriamo nella provincia, osservano l’ingresso dell’inverno dalla porta principale, ma non sembrano preoccuparsene, piuttosto appaiono divertite e (quasi) soddisfatte. Si arriva in una serata davvero gelida, ma il Super 6, tutto rinnovato nella struttura, che si è prenotato in rete, è davvero confortevole. Pulito e ospitale, essenziale ma molto comodo e moderno nell’arredamento. Consigliatissimo. 1 ottobre. Jackson è uno dei posti che, finora, somiglia di più, ad una delle nostre attrattive turistiche, ovviamente di montagna. Per la colazione ci affidiamo ad un piccolo locale (Pearl Street Bagels) che sforna “bagels” tipici panini, speziati e profumati, che si mangiano con formaggio fresco e gustoso, ma udite udite: accompagnate da un fantastico espresso in tazzina di porcellana bianca…Altro che bicchierone di carta di Starbucks!!!Esplorato ed assaggiato (anche questo consigliatissimo) questo angolino di gusto si parte per la Mecca naturalistica che tanto desideriamo conoscere. Dobbiamo percorrere altre 75 miglia circa. Già sappiamo che un tratto a Nord-Est del parco rimarrà chiuso a causa del fuoco che dai primi di settembre flagella di nuovo la foresta, dopo l’incendio a Sud che lo ha devastato nel 1988. Una vera disgrazia!! Passiamo attraverso il Teton Park (passaggio obbligato per chi viene da Sud) e già ci sentiamo felici. La nevicata ha reso l’aspetto della radura circostante, del bosco, del lago Jackson e delle montagne che circondano l’intero panorama, incantato. La Natura indossa il mantello fatato della neve ghiacciata. Splende al cospetto del sole che cerca di passare tra le nubi ancora minacciose, ma alla fine tutta la valle si illumina ornata di trine e merletti e si riempirà di vita nuova solo a Primavera. In questo meraviglioso panorama, si procede verso Yellowstone…Non senza qualche sosta per le foto, perché alcune immagini non puoi non imprimerle nella tua vita, per sempre. Si arriva dal mitico ranger, che per noi ha l’aspetto di una bella ragazza americana tutta sorrisi e fossette (davvero carina e gentile), e finalmente ci siamo. Yellowstone per chi ama la natura è come per un bambino la prima volta che arriva a Disneyland…175 miglia di parco dove la natura praticamente incontaminata (se si escludono le razzie degli Europei conquistatori prima del 1872, anno di costituzione dell’area in Parco Ntl) dove ogni specie di fauna e flora può liberamente vivere e riprodursi nel suo ambiente più idoneo, senza intromissione (o quasi) di umani. Iniziamo la nostra indimenticabile esplorazione, guidati dai preziosi consigli della cartina e del giornalino del parco, consegnatici all’entrata. Si arriva costeggiando il lago Lewis e poi il fiume…E ci appaiono per prime le cascate, imbellettate di neve… Che ai nostri occhi si presentano scroscianti e allegre sebbene davvero le incontriamo in un clima gelido (siamo a -2°C).

Perveniamo, in breve, al primo punto di ristoro e prendiamo dell’acqua…Ma proseguiamo, subito dopo, per l’Old Faithful. Dopo aver parcheggiato la Matrix, nell’immenso parcheggio antistante l’area dell’Upper Basin, ci infiliamo nel visitor center per verificare l’orario di esplosione del Vecchio Fedele, perché la temperatura esterna non permette certo di aspettare all’aperto. L’ora “x” è segnata per le 2.12pm: ogni ora e mezza circa il geyser emette un getto d’acqua che arriva anche a 60 metri di altezza. C’è una tolleranza di 10 minuti prima e dopo l’ “ora x”. Andiamo a mangiare nello snack bar antistante all’area protetta e aspettiamo tra gadget indiani e suppellettili di ogni genere. Comperiamo due caldi berrettoni di lana per affrontare il resto della gita. Puntuale come un orologio un po’ scarico di batteria, alle 2.25, ecco il geyser che soffia con un’incredibile getto d’acqua. Il tutto prende una decina di minuti terribilmente freddi, ma impareggiabilmente belli. Riprendiamo l’auto e continuiamo il tour. Ci fermiamo al Midway Geyser Basin e facciamo una magica passeggiata (è un loop) sul cratere del geyser. I colori e i giochi d’acqua che riusciamo a vedere, malgrado i vapori termali che si espandono su tutto il bacino tendano a nasconderli, sono davvero fiabeschi. Turchese, onice, ocra, bianco, qua e la rosso…E le acque che sgorgano rumorose e bollenti dai crateri e dalle fenditure della roccia sembrano danzare gioiose e ritmate, come sul piatto di una immensa fontana variopinta e caldissima. Altra meraviglia è Fountain Pot, stessa camminata su un esiguo strato di crosta terrestre, che permette di ascoltare il ribollire eterno del magma sottostante, che spinge l’acqua calda a zampillare e a soffiare con i suoi vapori leggeri e sulfurei. Vivono in questi laghetti solo batteri termofili e alghe che donano loro tipici colori e aspetti. Arriva un pomeriggio rigido e rabbuiato dalle nubi…Ma si procede verso Mammoth Hot Spring, dovendo passare per il bacino di Morris, costeggiando il lago Yellowstone con le sue meraviglie e i tuffi altissimi del fiume omonimo e vivace. Ma ci aspetta una brutta sorpresa…La strada è interrotta per fumo denso che ostruisce la visuale fino alle 18.00 e rimarrà aperta solo per due ore…Non riusciremmo a percorrerne che la metà…Quindi esplorati ancora un po’ i dintorni, a malincuore, torniamo verso Jackson, anche perché il freddo è davvero pungente. Inoltre, c’è un cantiere di 26 miglia, che ci costringe al senso unico alternato che determina un ritardo medio di un’ora, sulla tabella di marcia, ogni volta che oltrepassiamo il Teton Park. Il rientro è all’insegna di un piano da attuare il giorno successivo: primo, affrontare la strada chiusa e, poi, arrivare nel Nord del parco per essere, infine, per le otto all’uscita e alle nove e mezzo p.M., a Jackson, dove si vuole assaggiare la zuppa in un ristorantino tipico. Ma il parco ci invita ancora alle sue meraviglie, cervi e cerbiatte che indisturbate se ne vanno a zonzo scansando la neve con le zampe, per mangiare le erbette tenerelle sottostanti. Davvero simpatici e miti. Andiamo a dormire tanto siamo stanchi e infreddoliti (anche un po’ delusi).

2 ottobre. Stamattina ci sveglia il sole e l’aria frizzante è meno insopportabile di ieri. Colazione con l’immancabile bagel accompagnata dall’espresso e di buon ora sulla strada per Yellowstone. A rifletterci, prenotando con anticipo, è meglio andare a West Yellowstone, la prox volta che si progetterà un viaggio da queste parti, dato che il villaggio è a due miglia dall’ingresso OVEST(Montana) del parco e dicono che sia altrettanto accogliente di questo caratteristico Jackson Hole, con il vantaggio di non avere di fronte ogni volta due ore di trasferimento. Anche se il paesaggio del Teton merita davvero l’escursione. Ci fermiamo proprio in quest’ultimo parco per una di quelle foto da mettere in cima ai “preferiti” di una vacanza…Uno dei picchi delle Montagne Rocciose si staglia potente, in un cielo limpido e teso, orlato di nubi bianche, specchiandosi vanesio nel lago Lewis, adorante in basso, al di sopra di un bosco variopinto e autunnale che con i suoi colori traccia una cornice di gialli e rossi a contenere questa immensità di toni del blu. Da brivido. Si prosegue e si arriva al casottino della bella e simpatica ranger alla quale si chiedono spiegazioni per la strada di collegamento con il Nord del parco. Ci risponde, cortese, che la strada è aperta solo un’ora al mattino e due al pomeriggio a causa degli incendi boschivi che ancora sono attivi. Purtroppo!!! In effetti Yellowstone porta le cicatrici degli incendi, ma è incredibile come la foresta abbia saputo reagire alla devastazione. Una miriade di abeti, pini e altra macchia montana rimarginano coraggiosamente la grande ferita ancora aperta. Sembra un miracolo, vedere questi alberi piccoli rispetto all’ambiente circostante con quanta tenacia conquistino lo spazio imbrunito dal fuoco e rendano il paesaggio di un verde brillante che fa sopportare gli innumerevoli, altissimi, scheletri neri che testimoniano la violenza e la disgrazia del fuoco. Ci sarà da aspettare un’oretta per il passaggio, ma va bene, considerato che è l’unica via di accesso a Nord di Yellowstone. L’attesa è rallegrata da bambini festosi che fuori dalle automobili giocano a palle di neve, davvero spensierati in questa giornata di sole, che diviene tiepido e piacevole(6-7 gradi). Si passa tra i rami bruciati e gli alberi abbattuti per delimitare l’incendio…Mentre gli uomini e le donne ranger continuano incessantemente il loro lavoro di contenimento dei danni lungo il West Thumb. In breve, si arriva al Fishing Bridge, vicino al Lake Village. Antico avamposto di pesca dove il fiume regalava trofei giganteschi (trote) ai pescatori di qualche decennio fa. Si visita lo store, ma si prosegue subito (dopo aver preso qualcosa per il picnic), lungo le sponde del lago Yellowstone. Dopo i cervi incontrati al mattino, ora è la volta del nostro primo bisonte. Un immenso nero, placido, silenzioso, lento e inesorabile animale, in compagnia di un suo simile, sono al ciglio del bosco, in pendenza, tanto che sembrano lì lì, per cadere, mentre invece mangiano beatamente sotto ai nostri occhi curiosi e increduli. Ben fermi sulle zampe. Sono davvero enormi!! Nel proseguo, dopo poco, vediamo balzare nel verde scuro del sotto-bosco un lupo…Bello e fiero…Peccato che guarda un po’ giù, ma va via quasi subito, in cerca del suo pranzo…Si prosegue…(senza foto sigh sigh!!) ma ci si ferma quasi subito dopo perché i colleghi del bisonte precedentemente immortalato, attraversano ora, incuranti, la strada trafficata da umani, per andare a rinfrescarsi nel fiume che scorre tranquillo nel lato opposto della vallata. Dopo qualche miglio ci si ferma per aver visto una decina di fotografi con i mega-obiettivi puntati, in silenzioso appostamento, sul fiume. Eccoli passare a gran velocità…Sono loro : i castori. Sette splendidi esemplari nuotano ad una velocità impressionante nel fiume freddissimo tirando fuori ritmicamente la testa e affiorando con il corpo sul pelo dell’acqua. Sono di una grazia velocità armonia e coordinazione che neppure in un quadro di nuoto sincronizzato a squadre si riesce a vedere tanta perfezione e leggiadria. Raggiungono la sponda e prendono un pendio ripidissimo tra le rocce, non appena giungono sulla sponda del fiume più lontana dagli uomini…A loro ben noti per aver sterminato intere delle loro passate generazioni. Dopo quest’altro dono del parco alla nostra anima di bambini, ci mettiamo in cammino verso Artist Point e Inspiration Point, aree dove parcheggiata l’auto si può ammirare il grande canyon dello Yellowstone, dal quale l’intero parco trae il nome. Lo spettacolo che ci aspetta è unico al mondo. Per effetto dell’incessante scorrere dell’acqua calda sulle rocce la composizione chimica dei sedimenti si modifica e prende la caratteristica colorazione gialla (soprattutto sulle sponde del fiume da cui il nome del parco) ma anche screziata di un variopinto arcobaleno di toni caldi dal rosso al verde, dal rosa al blu. Il più bello dei quadri naturalistici si gode da Inspiration Point, la vista è davvero grandiosa e libera come un volo di rapace su un canyon profondo una quarantina di chilometri. Colori intensi e vividi rendono l’atmosfera simile ad una composizione armonica difficile e raffinatissima. Solo il fiume conosce ogni singola nota della misteriosa esecuzione che risuona nella valle ed alla quale si assiste raccolti. Proseguiamo, per andare a conoscere una splendida e fulva volpe, che fa capolino sulla strada e guarda sorniona e vanesia, le macchine fotografiche, prima di incamminarsi per i fatti suoi, divertita. Si arriva nel Norris Geyser Basin, altro sito di acque bollenti e rumorose che fuoriescono più o meno sommessamente riscaldate dal magma terrestre, dai fori sul terreno e che scolpiscono i loro panorami colorati e calcarei con una sapienza e una perfezione sbalorditiva. Sembra di essere all’interno di una grande teiera al punto di ebollizione. Si passeggia in questo saliscendi di passerelle di legno e si individuano le forme e i colori più originali e nascosti. Purtroppo il tempo ci tiranneggia e a bordo della Matrix californiana, ci rechiamo verso Mammoth Hot Spring, dove si trova l’unico villaggio presente sul territorio del parco, oggi appannaggio dei ranger. Il lato spoglio della montagna che ospita una serie di bacini degradanti e coloratissimi. Una delle vedute più affrescate del parco e molto vicina alla strada è l’immancabile Artist Pallett dove l’acqua caldissima e ricca di ossidi scioglie il calcare in una variopinta colata di rossi gialli rosa e bianchi, che come una creta primigenia si plasma come in un gesto pittorico astratto e intensissimo. Non ci si inoltra nella Canary Spring, che ci consigliano come unica e splendida, perché ci vogliono due ore a tornare indietro prima che il passaggio verso Sud-Ovest venga chiuso. Si raggiunge solo la terrazza Minerva che ci appare dello stesso etereo colore della neve e quasi della sua impalpabile consistenza, sebbene sia di composizione calcarea. Bellissima. Si torna verso Sud, con il continuo ripetersi che si tornerà presto qui, per vedere il resto. Si incontrano altri animali nella loro selvaggia e serena passeggiata pomeridiana che annuncia loro il pasto. Siamo un po’ tristi per non aver potuto esplorare il restante territorio Nord dove la fauna è ancora più ricca e originale e i paesaggi più aspri e rigogliosi (fuoco permettendo, speriamo bene!!!). Torniamo a Jackson, stanchi e un po’ giù di umore per la partenza anticipata, ma ceniamo allo Sweetwater. Mangiamo intimi e scaldati anche dall’ambiente accogliente e soft , con ottimo cibo e un dolce davvero squisito, musica ottima e arredamento tutto in legno come tipico da queste parti. Consigliatissimo. 3 ottobre. Stamattina bagels, espresso e shopping a Jackson, in un negozio dove un cappellaio confeziona manualmente cappelli da cow boy, c’è una miriade di stivali dai disegni originalissimi, si apprezza una costellazione di oggetti in pietra e gioielli di ogni foggia, dove mi riesce di comprare una scatola in pietra per la mamma che pesa un po’ ma ha le venature del granito delle Montagne Rocciose e i colori caldi di questi paesaggi. Indimenticabili. Si parte per Winnemucca, Super8, a metà percorso rispetto alla prossima meta da visitare: S. Francisco. La strada è un nastro interminabile che si snoda lungo il territorio dell’Idaho e del Nevada, ma alla fine si completa la corsa e si arriva. Si mangia nel dinner (uno dei pochi che abbiamo ritrovato qui nell’Ovest US) davanti al motel, si va presto a dormire perché a pranzo vorremmo essere a S. Francisco.

4-5-6-7 ottobre. Si parte di buon mattino e si arriva a S. Francisco nel primo pomeriggio di una domenica sonnacchiosa e calma. Ci fermeremo fino al 7, giorno di trasferimento a St Josè, a circa mezz’ora da qui, da dove la mattina dell’8, mestamente ci avvicineremo a Los Angeles per la partenza verso Londra e infine per Roma, in serata. La prenotazione, già effettuata dall’Italia, è per l’Holiday Inn, che ci costerà un po’ (circa 195 $ a giorno) tasse e parcheggio compreso, ma è a Fishermans Wharf, che scopriremo essere in ottima posizione per l’esplorazione della città. La città ci conquista immediatamente con i suoi caleidoscopici aspetti, umani e naturali, perfettamente integrati, in una struttura sociale solida, che rende le diversità un punto di forza della sua cultura e della sua storia. C’è una musicalità e una eufonia tutta europea, in questo popolo meticcio di avventurieri e cercatori d’oro di due o tre secoli fa, in commistione fantasiosa (e finanziaria) con la solita ideologia meritocratica e opulenta che si respira in tutti gli US. Un effetto davvero dirompente sui nostri neuroni impolverati e malinconici da Vecchio Continente. Camminiamo fino a sera tra le Pier, sul lungomare del porto, immersi nell’odore delle friggitorie del pesce e dei ristoranti storici (siculi e calabri, Alioto’s ecc..) facendo conoscenza con la stra-famosa colonia di leoni marini, pigri e pingui, che occupano beatamente le piattaforme di legno della Pier 39 e la rallegrano con il loro latrare buffo e continuo. Accompagnati nel loro canto singolare dai pellicani e dai gabbiani che pescano e si divertono in volo, alle prime luci di una serata freddina, ma ancora piacevole. La commercializzazione e la spettacolarizzazione di questo posto è ovviamente enorme, ma non eccessiva…Non ti piomba addosso quel senso di artificiale e busta maxxi che respiri in altri luoghi simili negli States. Negozi di ogni tipo di cianfrusaglie e cineserie ovunque straripano di curiosi e turisti, come noi, in cerca di ricordi a buon mercato. Decidiamo di risalire verso la prima delle colline che ci troviamo di fronte. La città è avvolta nella quiete serale di una provincia bene, non sembra neppure sfiorata dai clamori di una metropoli US. Le abitazioni sono ordinate, in legno dipinto, curate nell’aspetto e nei particolari profili, tutte contribuiscono ad un pachwork architetturale gradevole e distinto. Le auto parcheggiate a 90°, fitte fitte e tutte signorili. Arriviamo in breve in un quartiere rumoroso e colorato. North Beach. Italiano. I locali sono piccoli e accoglienti, i menu esposti e le insegne fine de siecle rimandano tutti al nostro Paese, con un che di artefatto e di originale insieme che ti comunicano la scelta di molti e la necessità di moltissimi. Mangiamo una coppa di gelato, buono, in un locale, Caffè Greco, che ha dei tavolini all’esterno, lungo la passeggiata in leggera pendenza, dove c’è ancora lo struscio di ragazzi americani un po’ brilli e turisti dopo cena. Atmosfera divertente, si prosegue e si scorgono le caffetterie storiche: Caffè Trieste, Caffè Roma, Caffè Puccini, Caffè Tosca fino al mitico Caffè Vesuvio, rallegrato da murales a sfondo sociale che ornano sapientemente le mura, spesso anonime e fin troppo pulite, di una città che pulsa di stimoli culturali. Mi perdo in adorazione di fronte ad un pezzo di storia del mondo letterario del 900, di quello splin artistico e intellettuale che tanto ha formato i nostri genitori e in parte anche noi, la libreria City Lights…Di Lawrence Ferlinghetti and C., culla del movimento Beat (anni ’50-’60). La visita accurata è però rimandata a tempo debito. Da sola. Ubriachi di sonno e stanchezza ci dirigiamo, lungo Columbus Avenue, o come lo chiamano qui Corso Cristòforo Colombo, all’Holiday Inn, già afferrati e stretti dai tentacoli del passato e del presente di questa città multi-etnica e multi-culturale. Il mattino successivo è febbrile nei preparativi e nei programmi per le innumerevoli tappe che vorremmo raggiungere. Si fa colazione da un calabrese (Mara’s Italian Pastries) sempre su Columbus Av, che ci prepara un ottimo espresso e un cornetto pieno di Nutella e così rinfrancati si parte per la visita al Coit Tower. Sorge su Pioneer Park, area che alla fine dell’Ottocento, fu acquistata dai cittadini e negli anni Trenta, poi, grazie al lascito di una ricca vedova, Lillie Coit, venne edificata con questa costruzione cilindrica alta 64 metri che domina sulla città. È stata costruita in memoria dei generosi e operosi pompieri della Company 5° Engine (la squadra dell’autopompa nr. 5) del S Francisco F.D. Del tempo, ma anche decorata all’interno da un gruppo di muralisti seguaci di D. Rivera che hanno creato all’interno un affresco storico. Fedele e multi-cromatica rappresentazione di quegli anni, con le proteste operaie, i giornali di estrazione comunista, il degrado e la delinquenza cittadina, il lavoro tranquillo e umile nei vigneti e nei frutteti californiani. L’immigrazione. Ottima fattura e bella finestra temporale e sociale sul mondo americano, dalla Grande Depressione in poi. Sul piazzale antistante statua commemorativa di C.Colombo, mentre dalla sommità splendida vista di insieme su S. Francisco, i suoi ponti, la baia, l’oceano.

Attraverso i giardini curati che impreziosiscono la collina di Telegraph Hill, dove si appoggia la torre, scendiamo verso il quartiere finanziario, guidati dalla maestosa Transamerica Pyramid, bianca e inconfondibile nello skyline della città. Dopo poco ci troviamo sotto alla Bank of America, altra costruzione possente in granito rosso, e da Montgomery Street, ci dirigiamo verso Market Street, alla ricerca di un posto dove prendere un caffè e qualcosa da mangiare per pranzo. Ci lasciamo incantare dal magnifico store della Apple, dove acquistiamo i soliti cover per I-Phone e I-Pod e infine curiosiamo nei negozi di abbigliamento…Particolare di gusto etno-chic (il mio preferito) Antropologie…Infine arriviamo a Powell Street Cable Car Turntable, piattaforma mobile mediante la quale gi addetti riescono manualmente a girare, una alla volta, queste tipiche, divertentissime, carrozze di legno di S Francisco. Ci fermiamo un po’ a guardare questi straordinari marchingegni semplici, ma incredibili, animati da cavi e pulegge, guidati da leve azionate muscolarmente e ritmicamente da uomini, coordinatissimi a mezzo di una campanella squillante. Il tutto sembra proiettato da un film muto, in bianco e nero. Risaliamo Powell Street fino alla frequentatissima Union Square, dove sulla terrazza del Macy’s mangiamo, al sole tiepido e piacevole della terrazza di Cheescake Factory, buona catena di ristoranti americani, che troneggia sulla piazza. Ottimo dolce e gradevolissimo il servizio. La visuale e il vino Beringer un Pinot Rosee californaino DOC, ci ripagano degli 80$ spesi per il pranzo. Questa zona tra Post e Stockton ospita Bulgari, Levi’s, Ferragamo, Gucci, Niketown e mille altre griffe e dove un paio di secoli orsono si praticava liberamente la prostituzione (Maiden Lane) testimoniata nei murales delle poche abitazioni scampate a terremoto e incendio (del 1906). Il recupero dell’area con strutture architettonicamente di pregio è degli anni ’50, a partire da un edificio attribuito Frank Lloyd Wrigth, al 140 di Maiden Lane, che anticipa e ricorda il Guggenheim di NY. Gironzoliamo qua e là, poi ci dirigiamo alla volta del museo delle Cable Car, in Mason Str. Angolo con Washington Str. Così si passa per Nob Hill, conquistata dopo un’ennesima ripidissima salita, che ospitava le più belle residenze della città ridotte in cenere nel 1906 e dove ora sorgono gli Hotel più esclusivi. A seguire ci appare Grace Cathedral, copia in cemento armato, di Notre Dame, con il portale riprodotto da quello del Ghiberti del Battistero di Firenze. Davanti il bel parco Huntingthon dove la gente si rilassa nella lettura e nella quiete del primo pomeriggio. Arriviamo al museo-deposito dei primi del Novecento, costruito in mattoncini di arenaria rossa, come tutti gli edifici storici sopravvissuti agli eventi disastrosi della città, (anche a Jackson Square); lo visitiamo gratuitamente, facendo attenzione all’enorme gigantesco insieme di ruote meccaniche e congegni (a me completamente oscuri) che con cavi di acciaio che scorrono sotto il piano stradale lungo tutto il loro percorso, fanno a muovere tutte le carrozze di legno da un punto all’altro della città con il tipico frusciare al di sotto delle rotaie di scorrimento. Nuova tappa: Lombard Street. Passiamo per Russian Hill, incamminandoci per quella che scopriremo a nostre spese è la strada più ripida e pendente tra quelle delle circostanti colline, Filbert Street, che ci porta dritti dritti a Hyde Street, cima residenziale e verde, poco sotto la quale si snoda la mitica e suggestiva Lombard Street. La zona di Russian è davvero un altro di quei luoghi che in passato è stato teatro di circoli letterari, piccoli e grandi, dove personaggi come Ina Collbrigth, poetessa laureata, nel 1600, ospitava riunioni di intellettuali e dove Kerouac scrisse la gran parte del suo On the Road, inno alla libertà culturale ed espressiva del Novecento. Dai bei giardini, freschi e aperti sulla baia di S Francisco, con vedute cinematografiche, passiamo alla più turistica passeggiata zig zag degli US. Piacevolissima discesa sui gradini pedonali di Lombard st, da dove si osserva la discesa di ogni tipo di vettura possibile, attraverso il passaggio ostruito dai giardini, splendidi e fioriti, che gratificano e complicano il tragitto, rendendolo unico al mondo. Scendendo torniamo in albergo a mettere via qualche busta e a riposare un’oretta. Si riparte per cena alla volta del quartiere italiano dove si cena in un ristorante da sperimentare assolutamente, di un siculo-americano, E’ TUTTO QUA, che ci riconcilia con il mondo occidentale oltreoceano. Si dorme stanchi e assolutamente felici. La mattina seguente si parte (dopo rigoroso caffè e cornetto dal nostro connazionale di cui sopra) per la Pier 33, avamposto turistico per le partenze del battello che porta ad Alcatraz, presso la compagnia che effettua anche la discesa sull’isoletta, e che permette la visita dell’isola fortezza/carcere. Il mio compagno si imbarca emozionatissimo e io dirigo la mia prua altrettanto gaia alla volta della libreria dei miei sogni: City Ligths…Ci diamo appuntamento al molo per il pranzo. Entrambi riportiamo una esperienza incredibile, in cui riusciamo a visitare e ad immedesimarci per ciò che più ci attrae e ci è vicino culturalmente, a lui la storia e l’evoluzione della società, a me la letteratura e l’arte. Si riparte insieme dopo il panino da Molinari’s Deli, prosciutto crudo e provolone in pane da fornaio ancora odoroso di forno. Si conquista un posto su uno dei tanti tram d’epoca (Boston 1950) che, come le Cable, traghettano le persone (ma qui meno turisti) dal Fisherman’s Wharf verso gli altri quartieri storici, dove vorremmo fare una capatina per poi tornare a Market St per tornare indietro con la Cable Car al tramonto per godere dall’alto dello spettacolo della baia. Infatti procediamo come da copione e ci rechiamo verso Mission District e Castro District. Pagati i nostri due dollari per un biglietto di 90 min, partiamo e scendiamo, dalle porte di legno del tram verdone in prossimità del quartiere cattolico (Church Street) e di Mission Dolores, chiesetta del 1790, davvero di pregio, almeno per il nostro gusto sobrio. Proseguiamo attraverso i giardini omonimi e poi verso Castro che però intravediamo appena con i suoi negozi trendy e stravaganti in continuità con Market St di cui eredita il buon gusto e l’originalità. Ma si sta facendo tardi e si riprende la stessa linea di tram per tornare indietro, fino alla piattaforma di inversione di marcia della Cable Car. Si acquista il biglietto e si parte da questo capolinea fino al Fisherman, nel sali-scendi pittoresco e infantile che caratterizza questa corsa di carrozza ottocentesca. Da tornare a S Francisco anche solo per questa piccola follia. Emozionante e romanticissima. Ceniamo in Ghirardelli’s Square nell’omonima gelateria-cioccolateria con un gigantesco gelato artigianale family, the Earthquake, proveniente da una squisita e raffinata mano di emigrante italiano (da Rapallo nel 1850 o giù di li) accompagnato da un cameriere, con baffetto alla Dalì, che improvvisa un’aria cantata al nostro tavolo per augurarci il buon appetito. Deliziati anche dall’enorme meccanismo che gira e cola cioccolato liquido con ruote originali e vasca piena di incredibile delizia appena prodotta, ce ne andiamo a nanna proseguendo lungo una strada piena zeppa di gallerie d’arte di elevato livello e molto molto chic. Ultimo giorno di sfrenata passione per questa città americana, testimonianza dalle infinite sfumature dell’estro, del gusto, della civiltà e del pensiero dell’uomo. Si affitta una bicicletta (dal gettonatissimo BLAZING SADDLES per 89$ in due, per tutto il giorno, ferry-boat per il rientro compreso) per raggiungere l’imperdibile e rosso-aranciato (il tono di colore è precisamente l’International Orange) Golden Gate Bridge…Ponte per eccellenza che congiunge le due sponde dell’oceano culla di S Francisco, dalla Baia alla Marin County. È una presenza costante da quasi tutti i punti di osservazione di S Francisco, scompare e riappare, sempre sospeso nel cielo e qualche volta cancellato dalla nebbia tipica della città. Si parte lungo la estesa pista ciclabile verso la Marina, poi lungo mare e nel mezzo della città verso l’ingresso del ponte. Rilassante quanto faticosa la passeggiata tra i pendii della town, ma alla fine, il tutto scompare nella vertiginosa altezza del ponte e nella struttura aerea quanto solida e possente. Le vedute dello skyline della più europea delle città americane, ripaga della fatica e del vento forte che si deve affrontare per il passaggio in bici. Ci siamo molto soffermati a Fort Baker, nuovo scenario naturale, opposto rispetto al nostro usuale punto di vista sulla città, a guardare un banco di nebbia che a velocità incredibile, avvolgeva la struttura del Golden Gate Bridge come una soffice nuvola, bianca ed impenetrabile. Ripreso il percorso ciclabile arriviamo dopo circa due ore e mezzo a Sausalito, zona della baia piena di negozi e ristoranti, ricca e piena di belle abitazioni baciate dal sole e prossime al mare. Alle 2.30pm siamo sul ferry che ci trasporta, bici al seguito, sull’altra sponda in mezz’ora circa. Parcheggiata e assicurata la bici con l’apposito lucchetto (anche se credo che qui nessuno rubi un bicicletta) si pranza da Boudin Bakery tipico e antichissimo panettiere francese, che pare dal 1849 produca il pane tipico d’oltralpe con la originaria pasta madre, che gli abitanti di S Francisco, sostengono inimitabile perché lievitata naturalmente al clima umido e nebbioso della loro inimitabile città. Tipica la zuppa di molluschi o il cocktail di gamberoni serviti nella pagnottina svuotata…Un gusto da apprezzare con tutti i sensi…Ottime anche le insalate e da incantarsi a guardare gli interni dove le mille forme del pane viaggiano aeree in secchi di latta che dal forno, attraverso cavi e pulegge, vengono sospinte lentamente, sopra le teste degli incuriositi avventori, fino ai punti di vendita dietro ai banconi. C’è un profumo di pane e di mare…Di cose buone…Da svenire!! Consigliatissimo!!! Si prosegue la passeggiata nella pista lungo mare fino all’AT&T Park, ovvero “la casa dei San Francisco Giants”. Alle 18 si ritira l’auto dal parcheggio dell’Holiday Inn e si va via a malincuore da questo piccolo micro-cosmo californiano. S Francisco è una musica jazz piena di contaminazione e di temi improvvisati, riesce a sorprenderti in ogni sua espressione, in ogni suo angolo, in ogni sua veduta, via, esperienza presente passata e futura. È colorata, poetica, letteraria, famigerata, violenta e dolcissima in ogni sua pietra antica o ricostruita. È a misura d’uomo e di grattacielo, è altissima e ima, passa in un attimo da altezze vertiginose a profondità inusitate. Si dorme al Motel6 di San Josè, portando nel cuore l’ultima immagine di una città che ti entra nell’anima con la prepotenza dell’odio o dell’amore, della preghiera o della fantasia. 8 ottobre. Si parte verso Los Angeles e si parla ancora dei giorni precedenti. Neanche Malibù con il suo Oceano da cartolina e da surf, con le sue villone e i suoi personaggi VIP, riesce a cancellare il velo di malinconia che ci ha pervaso ormai da ieri sera. Si completano circa 4537 miglia pari circa a 7301 km e si scrive questo diario nelle pause di viaggio e la sera prima di dormire. La British è puntuale ma si arriva comunque a Roma con un ritardo di circa un’ora, maturato a Londra, a causa del maltempo. Il viaggio, tuttavia, è davvero tranquillo e confortevole. Lungo ma possibile. Torneremo senza meno a Yellowstone e a S Francisco. Ciao America, see you soon.



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