Gli usa: viaggio itinerante

GLI USA: VIAGGIO ITINERANTE CON ADOLESCENTI AL SEGUITO Destinazione Stati Uniti d’America: i grandi spazi dell’Ovest, grandi città come San Francisco, Los Angeles, Las Vegas, un must come New York. Questo è un viaggio evergreen, che quest’anno è tanto più allentante grazie alla forza dell’euro. Noi lo abbiamo fatto un anno fa, come...
Scritto da: R.S.
gli usa: viaggio itinerante
Partenza il: 04/08/2007
Ritorno il: 25/08/2007
Viaggiatori: fino a 6
GLI USA: VIAGGIO ITINERANTE CON ADOLESCENTI AL SEGUITO Destinazione Stati Uniti d’America: i grandi spazi dell’Ovest, grandi città come San Francisco, Los Angeles, Las Vegas, un must come New York. Questo è un viaggio evergreen, che quest’anno è tanto più allentante grazie alla forza dell’euro. Noi lo abbiamo fatto un anno fa, come regalo ai nostri due figli, 14 e 12 anni, per uno strepitoso anno scolastico. Loro non erano mai stati negli Usa. Noi sì, più di 15 anni prima. Siamo partiti il 4 agosto del 2007, dopo tre mesi di accurate ricerche su Internet e accantonando i timori legati al terrorismo. Il nostro obiettivo? Una vacanza interessante e divertente, varia e non stancante, una giusta dose di natura e città, adatta a due ragazzini alle soglie dell’adolescenza. A due anni di distanza lo ricordano con entusiasmo Al di là dell’itinerario, e lasciando alle guide tradizionali il compito di enumerare attrazioni e luoghi da visitare (ce ne sono a migliaia, e per tutti i gusti, quindi la scelta è decisamente soggettiva) riporto consigli e s/consigli, dritte, esperienze che spero possano essere utili a chi voglia seguire le nostre orme. Bisogna anche considerare che, essendo per noi un “ritorno”, molte cose erano state già viste nelle visite precedenti e quindi qui non figurano.

Per ogni tappa ho indicato: la distanza in chilometri (100 km equivalgono a circa 62 miglia); i ristoranti dove abbiamo cenato e i motel o alberghi dove abbiamo dormito con relativi indirizzi, numeri di telefono e siti web; ho segnalato il costo in dollari di cene e pernottamenti calcolando l’importo a persona comprensivo di tasse e di mance, (se non ricordo male, 100 dollari equivalevano a circa 78 euro). Ho interpuntato il mio resoconto con una serie di “CONSIGLI” e “SCONSIGLI”, tutti nati dall’esperienza diretta sul campo. Per esempio: se si viaggia con i ragazzi, SCONSIGLIO il camper. Perché? Perché in una vacanza del genere, anche l’andare on the road è parte integrante del viaggio. Detto così non si direbbe, ma poi anche i ragazzi ne restano affascinati. Ci sono tante cose da vedere, tante cose che fanno pensare in un tragitto del genere! In una macchina, contornati da finestrini, e a contatto più stretto con i genitori, partecipano direttamente a ciò che li circonda; in un camper, invece, finirebbero per isolarsi con i loro I-pod, o la mini-tv di bordo, e vivrebbero la strada non come un’esperienza anche intima, ma solo come una noiosa tappa di trasferimento.

Presentazione in pillole 1) Partecipanti: mamma, papà, due figli di 13 e 11 anni 2) Periodo: 3 settimane, dal 4 al 25 agosto 2007 3) Organizzazione: autonoma 4) Soggiorno: motel; alberghi nelle grandi città 5) Spostamenti: due tratte interne in aereo (Atlanta-Phoenix e Las Vegas-New York); il resto in auto 6) Noleggio auto: pick-up a Phoenix (Arizona); pick-off a Las Vegas (Nevada) 7) Itinerario: Roma-Atlanta (Georgia); Atlanta-Phoenix (Arizona); Phoenix-Page; Page-Bluff; Bluff-Moab; Moab-Boulder; Arizona-Utah-Nevada-California-New York Questo per un totale di: 1) 5.000 km circa, percorsi su strada 2) 13 alberghi in 21 giorni 3) 12.000 euro comprensivi di tutto, dall’aereo alle mance, dai ricordini ai motel, dalle mappe all’auto, dal cibo alle cartoline…(1000 euro settimanali a testa) CONSIGLIO di visitare New York City alla fine, e non all’inizio del viaggio. Perché? E’ solo una questione di fuso orario, ma non è questione da poco. Infatti, i primi giorni dopo l’arrivo ci si sveglia all’alba e già nel pomeriggio si cade dal sonno. In queste condizioni è comodo essere immersi nella natura e andare a letto presto senza rimorsi, mentre a New York per forza di cose si vuole star svegli fino a tardi e sarebbe un peccato dover cedere al richiamo dell’albergo.

Forti dell’esperienza del 1992, e non volendo creare ai ragazzi disagi gratuiti, decidiamo di prenotare i motel sulla base dell’itinerario che via via prende corpo nella fase di pianificazione. La libertà di movimento non ne soffre, perché se per qualsiasi motivo si vuole annullare una prenotazione, basta telefonare un giorno prima, a volte anche il giorno stesso, e non c’è problema. Vuoi mettere la comodità di arrivare in un posto, magari tardi o durante il week-end, e non dover perdere tempo a girare alla ricerca di una stanza? Per quanto riguarda il viaggio su strada, decidiamo di noleggiare una macchina molto grande: sarà la nostra casa per tanto tempo, specialmente i ragazzi devono stare comodi, se attaccano con le lamentele rischiamo di rovinarci la vacanza. Io ho fatto la prenotazione da Roma con largo anticipo via Internet. Poi una sera, tanto per fare qualcosa, ho simulato una nuova prenotazione, con gli stessi parametri della precedente e …Il prezzo che usciva era nettamente inferiore!! Ho così scoperto che, in certi giorni, vengono fatte delle offerte speciali. Mi sono affrettata a cambiare prenotazione, risparmiando così un bel po’ di soldi. Quindi: ogni tanto fate una prova, potreste incappare in un’offerta speciale.

Abbiamo deciso di non dotarci di un navigatore satellitare. Questo perché: 1) negli Usa è praticamente impossibile perdersi 2) strade e autostrade si capiscono bene sulle cartine 3) già da casa, con siti di mappe e itinerari (io ho usato www.Viamichelin.It) ci si può fare un’idea dei percorsi 4) fermarsi a chiedere una strada a uno sconosciuto e, come è capitato a noi, finire a cantare insieme è un’esperienza impareggiabile.

Stipulate assolutamente un’assicurazione sanitaria. E’ vero che costa 100 euro a testa, ma è anche vero che se per caso dovesse servire qualcosa, anche una semplice prescrizione di farmaci, negli Usa bisogna essere pronti a sborsare un sacco di soldi. Con due ragazzini, facciamo gli scongiuri…E l’assicurazione. Per fortuna non ci è servita. Abbiamo stipulato con Globy (polizza Globy classic–rosso), del gruppo Mondial Assistance. Per noi è risultata la migliore perché non fissa tetti di spesa. Il sito si trova a: www.Globy.It Qualche informazione: CENTRALE OPERATIVA GLOBY ROSSO in funzione 24 ore su 24 tutto l’anno Tel. + 39 02 26609862 Via Ampère 30 – 20131 MILANO Fax +39 02 70630091 (Globy è il prodotto venduto nelle agenzie di viaggio, adatto a chi non vuole usare la propria carta di credito in rete. Comunque c’è anche il prodotto, identico ma con un nome diverso (Elvia), acquistabile via Internet: http://www.Elvia.It/elvia/home/info_prodotto.Asp?tipo_polizza=R#) I bagagli. Siamo partiti con un piccolo trolley a testa e, dentro, il cambio per una sola settimana, con l’aggiunta di qualcosa di caldo per San Francisco che in agosto è piuttosto fredda. Viaggiando così leggeri, cambiare 13 alberghi in 3 settimane è stato agevole e veloce, ed è stato simpatico ogni sette giorni servirsi delle laundromat, lavanderie automatiche, che negli Usa si trovano ovunque.

In aereo ognuno di noi, grandi e piccoli, porta uno zainetto. Dentro, a parte macchina fotografica, passaporti, biglietti, soldi, libro da leggere, occhiali da sole, fazzolettini, MP3 per la musica o game boy a seconda delle necessità personali, mettiamo una felpa (in aereo specialmente all’inizio fa sempre freddo), pigiami e camicia da notte, un cambio di biancheria, spazzolino, dentifricio, deodorante, tachipirina, antibiotici in bustina: questo perché ci è capitato in passato di arrivare a destinazione dall’altra parte del mondo, magari con un febbrone scoppiato all’improvviso in aereo, e di scoprire che i bagagli non erano arrivati, e di trovarci così in albergo senza cambi e senza medicine di primissima necessità. Certo, con le nuove norme di sicurezza va rivisto un po’ il contenuto del bagaglio a mano, ma è sempre bene portare con sé a bordo l’essenziale.

Vale la pena sapere che la Coca Cola, grazie alla caffeina, cura mal di testa, mal di stomaco e mal d’aria, oltre che lo sfasamento da fuso. Mi spiace, non voglio fare pubblicità, ma è così.

Diario di viaggio 1° GIORNO – 4 AGOSTO (Roma-Atlanta) motel: BEST WESTERN ATLANTA AIRPORT EAST (23,51 dollari a testa) indirizzo: 301 N. Central Avenue –Hapeville, Georgia telefono: 001-404-763-8777 numero verde: 1-800-780-7234 fax: 001-404-761-1171 internet: www.Bestwestern.Com cena: saltata Volo Delta Airlines Roma Fiumicino-Atlanta (Georgia) delle 13.30. L’orario è comodo, non c’è bisogno di alzarsi all’alba e, sebbene il viaggio sia lunghetto (11 ore), c’è il vantaggio di non fare scali intermedi in Italia o in Europa, si passa direttamente oltre l’Atlantico. Controlli a rilento sia in uscita dall’Italia (è bene arrivare con largo anticipo in aeroporto) che in entrata negli Usa, ma tant’è: meglio lenti ma sicuri. Sui voli Delta i film sono a pagamento, l’acqua è servita di continuo. In classe turistica non c’è grande spazio tra i sedili.

Al momento della prenotazione chiedete i posti vicini alle uscite di emergenza. Sono più spaziosi ed è possibile allungare meglio le gambe. Io che, con poco più di un metro e sessanta di altezza, non godo purtroppo di gambe particolarmente lunghe e quindi finisco per stare scomoda, da tempo ho adottato il trucco di portare a bordo un beauty-case rigido, peraltro utilissimo per stipare le medicine e il necessario per il bagno, e di usarlo come poggiapiedi.

Portarsi le medicine da casa? Sì. Se poi si hanno dei figli: assolutamente sì. Non fosse altro che per scaramanzia. Ecco cosa: -contro la febbre, il mal di testa, ecc: -contro il mal di gola -contro la diarrea -contro il mal di denti -contro eritemi o punture -antibiotico a largo spettro in bustine -antidolorifico -termometro -cerotti -salviettine detergenti -acqua ossigenata Io tolgo le scatole e lego con un elastico il bugiardino (il foglietto) alle bustine o ai tubetti, così si occupa meno spazio.

Arriviamo a Atlanta in un tardo pomeriggio poco invitante, umido e nuvoloso (mettiamo l’orologio 7 ore indietro). C’è un vecchio detto in America che più o meno dice: “che tu vada in paradiso o all’inferno, devi comunque cambiare treno a Atlanta”. Lo stesso vale per gli aerei, la città è un importantissimo hub. L’aeroporto di conseguenza è molto grande, si deve prendere il trenino su monorotaia, una serie di tapis-roulant e scale mobili, poi all’altezza della dogana può capitare che ci si veda sottrarre la valigia dagli inservienti che la mettono su un nastro. Noi vediamo sparire le nostre con un certo allarme: non capiamo perché, cerchiamo di fermare gli inservienti, dei quali non capiamo l’inglese strascicato del sud. Ci soccorre un’italiana che vive in Georgia da 15 anni e ci spiega che potremo riprendere i nostri bagagli una volta arrivati agevolmente al piano di sopra tramite trenino monorotaia, camminate, tapis-roulant e scale mobili varie. Quindi: niente paura! Usciti dal terminal si va sulla destra e si raggiunge una sorta di capolinea delle navette (la pink-area) per i vari alberghi. Il nostro shuttle non c’è, ma chiamiamo l’albergo dai telefoni predisposti e in pochi minuti arriva. Abbiamo scelto il Best Western Atlanta Airport East perché è vicino all’aeroporto: domani mattina il nostro volo per Phoenix partirà presto e non vogliamo perdere tempo. Ora non abbiamo né la forza né la voglia di visitare Atlanta. Del resto per noi è come se fossero ormai le tre del mattino, ora italiana. Neanche abbiamo voglia di mangiare. Meglio andare a dormire.

2° GIORNO – 5 AGOSTO (Atlanta-Phoenix-Grand Canyon) 358 km.

motel: RED FEATHER LODGE (29,25 dollari a testa) indirizzo: Highway 64, località Tusayan, di fronte al McDonald’s telefono: 001-928-638-2414 fax: 001-928-638-2707 internet: www.Redfeatherlodge.Com cena: steakhouse YIPPEE I OH (30,75 dollari a testa) indirizzo: sulla highway 64, di fronte al motel Come previsto, a causa del fuso orario ci svegliamo prima dell’alba. Facciamo colazione in albergo (compresa nel prezzo) e i ragazzi si divertono a usare una speciale macchinetta che sforna automaticamente pancake dopo che si sono versati gli ingredienti. Sebbene siano le 6:30 la navetta è a nostra disposizione per l’aeroporto. Alle 9:00 volo per Phoenix, Arizona. Circa quattro ore. Mettiamo l’orologio indietro di altre 2 ore. Il caldo in Arizona è migliore di quello della Georgia: più intenso, ma secco. Subito fuori del terminal c’è la base delle diverse società di autonoleggio. Felpa a portata di mano, perché dentro si gela.

Ci dirigiamo verso la Dollar, presso la quale avevamo prenotato un Minivan della Chrysler a sette posti, che sono stati così occupati: noi davanti, i due ragazzi nella fila mediana, ognuno sulla propria poltrona, e dietro, nella fila a tre posti, il nostro frigo portatile (vedi sotto). Il frigo portatile si è rivelato un’ottima scelta. Per pochissimi dollari, tre o quattro, si compra in un supermarket una scatolona di polistirolo con il coperchio, che di giorno in giorno viene rimpinguata con una busta di ghiaccio. A proposito di ghiaccio, è inutile comprare le confezioni già pronte e sigillate che si trovano ovunque: sono troppo grosse e non lascerebbero spazio all’interno della scatolona. Noi impariamo subito e ci dotiamo di una busta della spesa chiedendo gentilmente alla cassiera del market di farcela riempire al dispenser delle bibite. Quasi sempre ci fanno rifornire gratuitamente; quando paghiamo, raramente, si tratta di 50 centesimi. In questo modo possiamo tenere al fresco il nostro gallone (3,78 litri) di acqua quotidiano, un paio di bottigliette vuote che via via riempiamo e facciamo girare in macchina, e poi gli yogurt, la frutta, l’occorrente per i panini. Insomma: tutto il cibo che ci serve in viaggio per traghettarci dalla colazione alla cena. In albergo ci eravamo appropriati di qualche cucchiaino di plastica (per gli yogurt, ma poi abbiamo optato per quelli da bere, più grandi e più pratici), di un coltello di plastica per aprire i panini (dopo abbiamo scoperto che i panini si trovano già aperti a metà, oppure basta chiedere, anche in un supermarket, e lo fanno lì per lì, risigillando poi la busta) e di qualche forchettina sempre di plastica che ci è stata utile quando da un bellissimo supermercato in una località sperduta nel deserto sono uscita sorprendendo tutti con vaschette colme di frutta fresca a dadini. Il tutto racchiuso dopo l’uso in un paio di bustine, in attesa di essere lavato la sera in albergo.

La macchina, si diceva. Facciamo il contratto. Paghiamo uno sproposito di assicurazioni: contro terzi, kasko, passeggeri. Dalle mie ricerche su Internet avevo visto che alcune compagnie offrivano una formula “tutto compreso” a prezzi ovviamente più alti del nostro prezzo base, ma comunque convenienti; il problema è che non avevano la tipologia di auto che volevamo noi. Due parole sulle polizze assicurative. Le due formule più comuni sono: – la LDW che copre i danni causati al veicolo da collisione e dall’eventuale furto – la SLI o LIS (Liability Insurance Supplement) che copre i danni procurati a terzi a causa vostra. I costi sono piuttosto variabili (la California, in particolare, ha listini tutti suoi) ma si attestano sui 21$ al giorno per la CDW e 12$ al giorno per la LIS.

(Noi abbiamo pagato: 779 euro per l’auto per 15 giorni; 271 per SLI; 395 per la LDW) Non conviene fare l’assicurazione che protegge i passeggeri avendo già la copertura per spese mediche. Vale comunque la pena dedicare più tempo alla comparazione delle tariffe prima di partire. Non è facile, a meno che non si conosca bene l’inglese tecnico del linguaggio assicurativo americano. Comunque. Firmiamo tutto il firmabile dando a garanzia il nostro numero di carta di credito. Veniamo dunque indirizzati al garage dove troviamo un addetto che neanche si alza dalla sua postazione: “laggiù sono le macchine del vostro segmento”, dice, “scegliete quella che volete e andate”. Un po’ smarriti ci aggiriamo tra i minivan, io ne volevo uno rosso. Ci sta. Bene. Ha anche meno miglia degli altri. Foto di rito e via, buttiamoci tra cactus e deserto, senza dire ciao a nessuno, senza che nessuno ci fermi o ci spieghi qualcosa, tipo come funziona il freno a mano, che all’inizio ci ha fatto impazzire, o come eventualmente cambiare una gomma.

Sia come sia: la Interstate 17 è nostra. Direzione nord. Cactus, cactus e ancora cactus. Di ogni forma (la prima ramificazione avviene dopo circa 70 anni, ci hanno detto) e dimensione, sono dispiegati tutto intorno a questa strada che corre nel deserto rosso pompeiano. Qualche indicazione sul comportamento da tenere sulle strade. VELOCITA’ Salvo eccezioni, sulle grandi strade (Highways e Interstates) i limiti variano tra le 55 e le 75 mph (miglia all’ora, rispettivamente 88 e 110 km/h); nei centri abitati tra le 25 e le 45 mph (da 40 a 72 km/h); sulle strade panoramiche e nei Parchi Nazionali ci possono essere ulteriori restrizioni. Occhio all’attraversamento degli animali. In caso vi fermasse la polizia, fate esattamente come vedete al cinema: non scendete assolutamente dalla macchina, mani bene in vista sul volante. A noi è venuto da ridere a crepapelle perché il policeman aveva il cappellone, i Ray-Ban a specchio e gli stivali e non sorrideva, proprio come nei film. Ha voluto sapere altezza, peso, colore degli occhi del guidatore (in quel caso, mio marito) e ha,stampato sulla sua patente una ignominiosa scritta: “criminal traffic”, una sorta di cartellino giallo che si trasforma in rosso (arresto) alla seconda infrazione per eccesso di velocità. La multa l’abbiamo pagata al primo ufficio postale raggiungibile; in ogni caso bisogna stare attenti perché è facile superare i limiti. Strade lunghe, dritte, magari a più corsie, poco traffico (escluse le zone intorno alle grandi città: lì corrono tutti e sono tantissimi), macchine comode: è facile sforare. E anche se sembra impossibile, proprio come nei film la macchina della polizia sembra uscire dal nulla. Abbiamo anche ipotizzato botole nascoste sotto i cespugli, perché è roba da non credere! SEGNALETICA Sulle grandi direttrici (quindi, non in città) il numero delle strade è scritto all’interno di uno scudetto. Sono indicate anche le direzioni: North, South, West ed East. Il numero delle strade è dispari per quelle nord-sud e pari per il senso est-ovest. Capita che strade provenienti da direzioni diverse confluiscano coincidendo per un tratto, così ci si può imbattere in cartelli che riportano nei settori in comune due ma anche tre o quattro numeri differenti; l’importante è quindi tenere sempre la mappa a portata di mano e avere ben chiara la direzione verso cui si sta andando. Niente paura, comunque, è facilissimo.

Sulle arterie a più corsie intorno o dentro (come a Los Angeles) le grandi città, la corsia di sinistra è spesso riservata ai veicoli con due o più occupanti a bordo. L’indicazione è data, a seconda degli Stati, da cartelli HOV-2 o HOV-3 (high occupancy vehicles) o da un rombo bianco sull’asfalto.

Per uscire dall’Interstate il numero che contrassegna le “exit” è quello del miglio più vicino. Le autostrade (Freeway) non si pagano. Se si entra a San Francisco passando con l’auto sul Golden Gate bisogna pagare un pedaggio; l’uscita è free.

ALCOOL Le leggi variano da stato a stato. In linea di massima, tuttavia, la legge sulla DUI (Driving Under the Influence) stabilisce che il massimo consumabile è un drink per ora. Quindi se ti trattieni due ore al ristorante puoi scegliere al massimo tra: 2 birre, 2 bicchieri di vino oppure 2 cocktail. La legge regola anche la misura delle porzioni per rendere il quantitativo di alcool in un”drink” parametrabile agli altri. Quindi un bicchiere di vino di 6 once vale una birra di 12 once o un super alcolico di un’oncia. PROBLEMI Mai abbandonare la macchina se si è in zone desertiche. Lasciare il cofano sollevato: è il segnale di difficoltà.

COMPORTAMENTO Non lampeggiate con i fari come si fa in Italia, ho letto che negli States è reato. Se si va troppo lenti per qualsiasi motivo, ogni tanto accostate e lasciatevi superare. Nelle città spesso non abbiamo trovato semafori, ma quattro (quattro!) stop. Dopo un attimo di perplessità abbiamo capito che uno a uno passa chi è arrivato prima. Molto civile e molto più pratico. Le strisce pedonali sono sacre. I pedoni non attraversano mai dove pare a loro, ma solo agli incroci. Ritorniamo al nostro viaggio. Facciamo un intermezzo per il pranzo a Black Canyon City, hot dog e patatine, in un vecchio saloon con biliardo e pale per l’aria sul soffitto in perfetto stile da modernariato. Si chiama JAVALINA CROSSING SALOON, telefono 001-623-374-9593, indirizzo 34441 S Old Black Canyon Highway, Black Canyon City. Ospita gruppi musicali.

Nel ’92 dietro al banco c’era un ex fotografo dei Vip che aveva scelto di ritirarsi lontano dalla pazza folla di New York. Allora noi seguimmo l’usanza dei clienti di firmare sul soffitto con un pennarello. Oggi le centinaia di firme che c’erano sono, ahimè, sparite: qualcuno ha infatti deciso di far imbiancare il soffitto. Restiamo così male che decidiamo di non lasciare un dollaro da attaccare (nuova usanza?) sulla parete. Comunque non importa, il posto ha sempre una bella atmosfera e siamo contenti di essere tornati per una visitina. Andiamo via consapevoli di ignorare la città di Arcosanti, lì vicino, costruita dall’architetto italiano Paolo Soleri.

Consumato il primo hot dog in terra americana (ma ne mangeremo giusto un altro paio, in tutto il viaggio), riprendiamo la 17. Dopo un po’, tuttavia, usciamo sulla 179 verso Oak Creek e verso Sedona, località graziosa e con un’atmosfera new age. Abbiamo così un primo assaggio di questi panorami rocciosi e desertici tutti rossi, tipici dell’Arizona e dello Utah. Sembra che da un momento all’altro debba sbucare fuori Willy il Coyote. Dopo Sedona facciamo una deviazione per lo SLIDE ROCK STATE PARK, un piccolo parco statale (10 dollari) dove, incastonato tra i costoni rossi della montagna, un torrente crea piscine naturali con rocce piatte e lisce tra una “vasca” e l’altra. Ricorda un po’, a chi la conosce, le piscine naturali di Saturnia ma con l’acqua fresca e in un contesto naturale molto diverso. Nessuno di noi, però, ha voglia di recuperare il costume e le ciabattine tra i bagagli, inoltre non abbiamo intenzione di fermarci a lungo. Morale: avremmo potuto risparmiare quei dollari, parcheggiare sulla strada senza entrare nel parco e limitarci ad ammirare lo spettacolo dall’alto.

Finalmente arriviamo a TUSAYAN, che si trova proprio alle porte del GRAND CANYON NATIONAL PARK (http://www.Nps.Gov/grca/), ma non siamo stanchi. Lasciamo i bagagli al RED FEATHER LODGE e andiamo all’appuntamento con il primo dei più bei panorami di questa parte degli Usa. Per noi non è la prima volta, e sappiamo che il tramonto è, insieme all’alba, il momento migliore per affacciarsi al MOTHER’S POINT, 2170 metri di altitudine; in realtà arriviamo un po’ più tardi del tramonto, ed è ancora meglio! I ragazzi, che non si aspettano niente del genere restano senza fiato: c’è già la luna, l’aria è celeste, le rocce di fronte a noi sono gialle, rosa, rosse, arancio, viola, punteggiate dal verde dei pochi arbusti abbarbicati sulle pietre. Tutto è molto morbido, e non c’è più quasi nessuno. Che bello! Sulla sponda opposta vediamo una sola, singola, piccola lucina. Chi sei, tu, laggiù? Cosa fai? Il tempo di scattare due foto con l’ultimo barlume di luce e torniamo a Tusayan. Si cena alla Steakhouse YIPPEE I OH: bistecche, patate, onion rings, due birre e due coke. A letto.

Acquistate per 50 dollari il NATIONAL PARK PASS che dà accesso a tutti i parchi nazionali (non sono compresi i parchi statali, e nemmeno i parchi in territorio indiano, come Munument Valley): diventa conveniente già al terzo parco visitato.

3° GIORNO – 6 AGOSTO (Grand Canyon-Page) 223 km motel: LAKE POWELL DAYS INN AND SUITES (28,40 dollari a testa) indirizzo: 961 N Hwy 89 & Haul Road Page telefono: 001-928-645-2800 fax: 001-928-645-2604 internet: http://www.Daysinn.Net/ cena: FIESTA – messicano – (15,75 dollari a testa) indirizzo: 125 S Lake Powell Blvd telefono: 001-928-645-4082 Colazione (compresa nel prezzo) assolutamente orribile, in una stanzetta con pochissimi tavolini che nessuno pulisce, senza servizio, quasi nulla da mangiare. Meglio optare per un breakfast fuori. Vale la pena fare una considerazione. Se intendete dedicare più giorni al Grand Canyon, magari per scendere sul fondo e poi riposarvi tra vere comodità una volta pernottato giù, e se non avete problemi a spendere di più, allora prenotate con larghissimo anticipo un albergo all’interno del parco. La scelta è ampia: El Tovar Hotel, Thunderbird Lodge, Kachina Lodge, Maswik Lodge, Yavapai Lodge, Bright Angel Lodge. Noi abbiamo preferito Tusayan perché, pur trovandosi alle porte del Parco, è pur sempre all’esterno, e per questo offre prezzi migliori, oltre che un gran numero di servizi. Torniamo a noi. A due passi dal motel c’è l’IMAX, dove ci aspetta un incontro davvero ravvicinato con il Grand Canyon. L’Imax (http://www.Explorethecanyon.Com/Theater/index.Cfm?action=Movie) è un cinema con uno schermo immenso, un po’ avvolgente sopra, sotto e ai lati. Le poltrone permettono quasi di sdraiarsi. Il connubio tra queste caratteristiche e la qualità delle riprese trasmettono sensazioni super-realistiche. Noi lo provammo già a San Diego (allora vedemmo l’Antartide) in uno dei viaggi precedenti, e fin dall’Italia avevamo deciso di ripetere l’esperienza con i ragazzi. Non siamo rimasti delusi: per vedere altrettanto bene il Grand Canyon avremmo come minimo dovuto scendere a piedi o con i muli sui sentieri fino in fondo, lungo il fiume Colorado che da sopra quasi non si vede, oppure fare un’escursione in elicottero o in aereo. Ma: 1) per scendere bisogna dotarsi di un permesso del ranger con larghissimo anticipo, anche di mesi, soprattutto se si conta di andare in estate; 2) non si può scendere e salire nell’arco di una stessa giornata; 3) sebbene ci si trovi a oltre 2.000 metri di altezza, in agosto il caldo è tanto, e diventa più intenso man mano che si scende nel canyon; 4) la possibilità di inoltrarsi anche per un breve tratto a dorso di mulo (http://www.Grandcanyon.Com/gcnmule.Html) non è allettante: bisogna arrivare a un primo rifugio e lungo il tragitto anche quando ci si ferma si deve rimanere in sella, non bisogna aver paura dei dirupi o, come dice un sito, degli stessi muli; 5) per quattro persone la spesa per l’aereo o l’elicottero può diventare un po’ troppo impegnativa (http://www.Papillon.Com/popris/show_categories.Aspx?category_id=15&lang=en-US: in fondo alla home page si trovano i link a diverse compagnie tra le quali scegliere).

Dopo l’Imax torniamo al Grand Canyon vero, ma bisogna dire che la luce diretta del giorno uccide la magia di questo posto. Parcheggiamo e prendiamo la navetta gratuita che porta ai vari view point. Ci sono tre linee shuttle: la linea rossa che in 75 minuti, se non si fanno soste (ma è bene farne almeno qualcuna), percorre il tragitto lungo la West Rime Drive; la linea verde, che in 30 minuti porta verso est e fa vedere due begli scorci a Yaki Point e South Kaibab Trailhead; la linea azzurra, che fa da semplice collegamento fra le strutture interne al parco. Noi, come la maggior parte dei visitatori, abbiamo scelto la linea rossa. Si sale e, dove si preferisce, si scende. Il bus riparte subito, quindi non lasciate niente dentro. Si può risalire tranquillamente su uno dei bus successivi. La frequenza è ogni 5 minuti, più o meno.

Se possibile, evitate di trovarvi nei paraggi durante il week-end, l’afflusso turistico è nettamente superiore rispetto agli altri giorni.

Bene. Usciamo dal parco a est, sulla splendida 64, tutta ampie curve in un deserto rosa costellato ogni tanto da bancarelle di nativi. Di Navajo, o Dinè, come loro chiamano se stessi. Insomma, diciamola con i ragazzi: di indiani! Destinazione Page, sul lago Powell, che in realtà non è un vero lago ma l’immenso frutto di una diga costruita negli anni Sessanta per dissetare lo Stato (paradossalmente, abbiamo trovato una quantità maggiore di acqua qui che a New York). Strade lunghe, dritte, che corrono all’infinito. Si può fermare la macchina, scendere, mettersi in mezzo alla carreggiata, scattare con calma una foto e risalire a bordo senza alcun pericolo di essere investiti. Non c’è un’anima, eppure non si prova mai la sensazione di essere abbandonati. Non so perché.

All’incrocio tra la 64 e l’89, cioè tra due “nulla”, che qualche topografo spiritoso ha deciso di chiamare Cameron, troviamo un benzinaio con gruppo di motociclisti alla Easy Rider, un minimarket, e basta. E’ tempo di fare il pieno (questa macchina consuma abbastanza, e scopriamo presto che consuma di più con la benzina che costa di meno). Mio marito insiste per mettere il diesel, ma io resisto, SO che ci va la benzina, rischiamo di buttare il motore e le nostre vacanze, se cedo. Chiedo aiuto all’indiana che gestisce la pompa (siamo in territorio Navajo). Mi guarda stupita e risponde: “no, no! diesel is only for big trucks!!”. Dobbiamo ammetterlo: decisamente non siamo un grande tir…Meglio mettere la benzina! Viaggiate sempre con il serbatoio pieno. Le distanze negli Usa sono notevoli, a volte si gira l’ultimo angolo di una città e ci si ritrova improvvisamente nel deserto. Non è carino trovarsi senza benzina (e aria condizionata) per pigrizia. Ho saputo tra l’altro che in casi del genere la polizia può fare anche multe salate.

Come fare rifornimento? Non aspettatevi distributori sul ciglio della strada. Quasi sempre bisogna uscire allo svincolo, fare il pieno e poi rientrare. Non c’è nessuno a servire. Si deve guardare il numero della propria pompa, entrare nel negozio e comunicare alla cassa quel numero, lasciando in ostaggio la carta di credito o il denaro contante; a quel punto la pompa si mette in funzione; quando si è finito si comunica quanti litri sono entrati (tanto lo sanno anche loro dal computer) e si paga. Viaggiare in macchina attraverso gli Stati Uniti presuppone l’accettazione di un concetto fondamentale: l’obiettivo non è arrivare a destinazione, il bello sta in quello che c’è in mezzo. Se Keruac avesse avuto fretta, forse molte cose sarebbero diverse, oggi… Se si entra in questa logica, aiutati anche dal cambio automatico e dalla larghezza delle strade, si capisce perché si possono fare in un giorno centinaia e centinaia di chilometri divertendosi (anche i ragazzi!!) senza stancarsi. Insomma: non è come fare un Roma-Bologna, che non finisce mai, sempre sulla corsia di sinistra con il fiato dei tir sul collo e l’ansia del traffico, delle curve, dei sorpassi e tutto il resto. Il problema semmai è l’inverso, il guidatore rischia di addormentarsi per la guida troppo tranquilla e a volte senza una curva nell’arco di centinaia e centinaia di chilometri. Ma credetemi: è una bellezza! Ogni tanto viene da dirsi: ecco, sono nel Far West, tra poco sbucheranno gli indiani alla carica, là dietro potrebbe nascondersi Butch Cassidy, da lassù Tex Willer potrebbe mandarmi un segnale…Sfido chiunque a non averlo mai pensato attraversando queste terre sia pure in un’auto con aria condizionata!! Contro i rischi di sonnolenza, comunque, io non mi sono fatta trovare impreparata e, in mancanza di un caffè come si deve (unica cosa che rimpiango quando sono all’estero), sono riuscita a soddisfare il mio bisogno di caffeina bevendo Coca Cola, con grande stupore dei ragazzi, già eccitati dal fatto che in questo viaggio possono loro stessi berne senza restrizioni. Se non avete gusti perversi, fate attenzione a quale Coca comprate. Io, sprovveduta, mi sono ritrovata con una lattina al gusto di vaniglia. Orribile!! Arriviamo a PAGE, nata come agglomerato di abitazioni degli operai che lavoravano alla diga. Il nostro motel è LAKE POWELL DAYS INN AND SUITES. Ha una bella stanza molto grande e comoda, con un balcone che si affaccia sul deserto e sulla strada infinita che lo attraversa. Anche qui come a Tusayan c’è la piscina. Ho scelto apposta alloggi con piscina per la gioia e la distrazione dei ragazzi, che si stanno rivelando degli splendidi viaggiatori. Lasciamo i bagagli e andiamo a cercare la guida che ci dovrà accompagnare domani al CORKSCREW CANYON (o ANTELOPE CANYON: http://www.Antelopecanyon.Com/), uno dei posti più spettacolari che abbiamo visto, ora molto conosciuto grazie al passaparola di turisti di mezzo mondo. E’ tardi, alle 18:00 la guida non c’è più (22 S Lake Powell Boulevard; tel. 001-928-645-9102; numero verde 866-645-9102), ci sentiamo al telefono (after Hours: 001-435-675-9109) che abbiamo trovato esposto alla porta dell’agenzia e ci diamo appuntamento per domani alle 11:30. Scegliamo un ristorante messicano, FIESTA. Ottimo il burrito. Mangiano tutto anche i ragazzi, e questo la dice lunga. A letto.

4° GIORNO – 7 AGOSTO (Page-Monument Valley-Bluff) 161 km.

motel: RECAPTURE LODGE (15,80 dollari a testa) cena: COTTONWOODS (20,81 dollari a testa) indirizzo: Main & 4th West St. Bluff, Utah 84512 telefono: 001-435-672-2282 internet: http://www.Bluffutah.Org/cottonwood.Htm Sveglia presto, come al solito, grazie al jet-lag. Dopo colazione, bagno in piscina sotto il sole cocente del deserto dell’Arizona e poi in città. La nostra guida ci carica su una specie di pick-up con il telone sopra come riparo; con noi ci sono altri quattro turisti americani che vengono da S. Antonio, Texas. In pochi minuti, sfidando il caldo tonnellate di polvere rossa volante (indispensabile proteggere gli occhi con gli occhiali da sole), arriviamo a questa meraviglia che è CORKSCREW: uno slot canyon, cioè una fessura nella roccia levigata negli anni dall’acqua. Acqua? Quale acqua se siamo nel deserto? Quando piove, magari anche molto lontano di qui, si crea il cosiddetto flashflood, un’ondata di piena, che si incunea qui dentro, si arrotola, gira, mulinella e crea queste pareti lisce e arrotondate, belle da accarezzare. Bisogna tuttavia stare attenti, esiste anche un sito per gli allarmi-flashflood ): nel 1997 un’ondata di piena travolse e uccise un gruppo di turisti. La nostra guida sostiene che ciò accadde perché le guide indiane non si preoccupano di consultare il bollettino. Non so che dire: potrebbe essere vero, ma potrebbe anche essere un colpo mancino dettato dalla voglia di denigrare la concorrenza. Anche perché i prezzi richiesti dalle guide indiane (che, volendo, si contattano direttamente sul piazzale di ingresso) sono infatti parecchio più bassi delle altre guide. Comunque. Entriamo. In certi punti se allarghiamo le braccia possiamo toccare le pareti opposte; i colori sono eccezionali: anche qui dal beige all’arancio, dal giallo al corallo intenso al rosso. Fuori il caldo ricorda un forno; dentro fa fresco. Su in alto filtra il sole. All’ora in cui siamo noi, le 12:00, i raggi entrano perpendicolari ed è bellissimo, ma non fatico a credere alla guida secondo la quale un po’ prima, o un po’ più tardi, gli effetti cromatici sono anche migliori. Usciamo dall’altra parte, dove sono state ambientate alcune scene di Indiana Jones e l’ultima Crociata (quello con Sean Connery che faceva il padre di Harrison Ford), poi ripercorriamo il canyon nell’altro senso: altra prospettiva, altre sfumature. Per miracolo, ci troviamo soli senza la calca di prima. E dire che nei primi anni Novanta questo posto, scoperto per caso da una ragazza Navajo che accudiva il bestiame, era ancora praticamente sconosciuto. La nostra guida ci dice di non fotografare con il flash. Poiché noi non riusciamo a isolarlo nella nostra fotocamera digitale, chiediamo per capire se si tratta di un suggerimento o di un divieto: è un suggerimento, dice che con il flash le foto non vengono bene. Noi siamo fortunati, le nostre foto sono bellissime! Corkscrew o Antelope, che dir si voglia, non è certo l’unico slot canyon. Un po’ più a nord-ovest, dopo Big Water, sulle Vermillion Cliffs, ce ne sono altri. Ma quella è soprattutto la zona di “THE WAVE”, l’Onda, uno spettacolo naturale impareggiabile, da non credere, ma che richiede un lungo cammino senza punti di riferimento per andare e per tornare e che, a causa della temperatura, sconsiglia una visita durante l’estate. Con i ragazzi non è cosa, dobbiamo rinunciare, ma senza rimpianti. Se avete modo, tuttavia, non mancate, è un posto mozzafiato! (http://www.States4u.Com/Fotoavventure/wave.Htm) Un altro posto che vale è Horseshoe Bend, nei pressi di Page. Non ci sono indicazioni, va trovato uno spiazzo con macchine parcheggiate e bancarelle indiane. C’è da camminare per oltre un miglio prima di arrivare a un precipizio. Solo in quel momento si vede l’incredibile ansa formata dal Colorado. L’acqua è di un azzurro-verde mai visto. Meglio andare nel primo pomeriggio.

Decidiamo di scendere al lago Powell per curiosare al marina e per fare lo spuntino di metà giornata con vista su queste enormi chiatte attrezzate a house-boat che gli americani trasportano su altrettanto enormi rimorchi lungo le infinite strade nel deserto. Prima di arrivare ci fermiamo al bellissimo e modernissimo Visitor’s Center della Glen Canyon Dam, proprio sopra la diga. Fermatevi, vale la pena entrare anche se sarete sottoposti a controlli di polizia quasi come in aeroporto. Si entra, e andando dritti in fondo, oltre un plastico della zona e una serie di pannelli esplicativi, si trovano delle grandi vetrate semicircolari che vanno dal soffitto al pavimento e che si affacciano su una vista spettacolare: la diga, con il lago da una parte tutto blu intenso e con il fiume dall’altra tutto verde smeraldo, i gommoni gialli ormeggiati giù in fondo, e il ponte di acciaio che collega i due speroni di roccia rossa, su uno dei quali è abbarbicato il Visitor’s Center. Nel quale, va detto, si gode di un bel freschetto e i bagni sono accoglienti ed estremamente puliti (come ovunque negli Usa, tranne che allo Yosemite National Park). Scendiamo al lago. Devo dire la verità: il lago Powell non mi piace, non mi è mai piaciuto. Certo, è un giudizio estremamente soggettivo, ma lo trovo troppo solitario, con quelle rocce desertiche tutte rosse che digradano verso il blu dell’acqua. La sensazione che provo non mi spinge a fare la gita in barca fino all’arco naturale sacro ai nativi, gita che peraltro è richiestissima dai turisti. E’ possibile che questo mio pregiudizio rischi di privarci di un aspetto molto bello di questo lago, ma del resto neanche mio marito e i ragazzi hanno molta voglia di andare, quindi lasciamo stare senza rimpianti.

Buona pizza Margherita al PIZZA, una sorta di fast food al marina, vicino allo scivolo delle house-boat, riconoscibile dalla sua forma semicircolare e dalle mattonelle bianche e rosse. Lo segnalo non solo per la pizza, che è buona, ma anche perché una cameriera ci lascia preparare la Moka che con ostinazione ho voluto mettere in valigia insieme a un pacco di caffè rigorosamente sottovuoto (per sapere cosa si può portare negli Usa: http://www.A-newyork.Com/. Quando vado all’estero mi adeguo agli stili alimentari del luogo, ma c’è un’unica, sola, cosa senza la quale vado in astinenza: il caffè dopo pranzo. Questo al lago Powell è l’unico che potrò preparare in tutto il viaggio, grazie alla gentilezza e, forse, all’ingenuità della cameriera che mi fa posare la caffettiera sullo sportello aperto del forno. Va detto che, nonostante la mia offerta, il personale non vuole assaggiare il mio squisitissimo caffè. Noi lo beviamo fino all’ultima goccia! E’ ora di avviarci verso Monument Valley, anche considerando che in quella zona si adotta l’ora legale a differenza dell’Arizona, e che quindi bisogna prestare attenzione agli orari di chiusura del parco, in territorio Navajo (per avere un’idea dei diversi fusi orari negli States http://www.Fusoorario.It/get_1stcity.Asp?id=753). Lungo la strada il tempo si annuvola, e pioviggina.

Arriviamo a Monument Valley un po’ tardi. La ranger ci avverte che se al momento di uscire troveremo il cancello chiuso, dovremo guardare sulla destra: un sentiero di un paio di centinaia di metri porta a ricongiungersi alla strada. Per chi vuole, ci sono escursioni a bordo delle jeep scoperte dei Navajo, che conducono in zone chiuse al pubblico; tuttavia il lungo e bellissimo percorso a disposizione dei turisti è non solo appagante di per sè, ma si può fare tranquillamente con la propria auto in un’ora e mezza-due, fermandosi dove si vuole e senza mangiare i quintali di polvere rossa che i nativi sollevano a grande velocità con i loro mezzi.

Iniziamo a scendere verso questo panorama davvero unico, inutile far finta di no, ci si sente davvero Tex Willer. Il posto è magico. Tacete e sentirete il vero silenzio.

Il rosso dei mittens (le formazioni rocciose modellate dal vento) si inerpica su fino al blu del cielo. Scendiamo dalla macchina incantati più e più volte, facciamo tante foto. E’ importantissimo essere qui al tramonto. La luce cambia in continuazione e oggi, con queste condizioni meteo, l’effetto è ancora più bello, comunque strano: a sinistra c’è il sole; a destra i nuvoloni neri, bassi e minacciosi incombono sui mittens con saette che si avvicinano. Sembra di essere nel film “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, quando cumuli come questi annunciano l’arrivo della navetta madre degli alieni.

In estate queste zone sono spesso soggette a tempeste di fulmini (electric storms). Anche senza pioggia. Se tra la saetta e il tuono trascorrono meno di 30 secondi, riparatevi in un luogo chiuso o all’interno dell’auto con i finestrini tirati su. Questo è quanto raccomandano altri viaggiatori, gli stessi siti sulla sicurezza e il materiale informativo che viene fornito dai ranger all’entrata di ogni parco.

Nonostante la tempesta incombente nella sera che avanza, mio figlio riesce a spuntarla grazie alla complicità di mio marito e si piazza fuori la macchina di fronte a questo splendido scenario, con l’intenzione di sentire ben due (!!) canzoni sull’MP3. A metà della seconda canzone lo costringo a rientrare, il temporale è troppo vicino, sembra di sentire il martello del dio Thor.

Infatti mentre ci ricolleghiamo alla strada si scatenano i classici “tuoni, fulmini e saette”, sia pure senza pioggia. Ma ormai siamo in macchina. E’ buio anche se non è tardi; lasciamo l’Arizona ed entriamo nello Utah, terra dei Mormoni; passiamo per Mexican Hat che prende il nome da una roccia a forma di sombrero e proseguiamo fino a Bluff, minuscolo paesino di poche case poste ai due lati della strada, dove dovremmo trovare il nostro motel. Non lo vediamo, in giro non c’è un’anima, quindi ci fermiamo a una steakhouse per chiedere informazioni e per sapere se si può ancora cenare. Ci dicono di sì, ma suggeriscono di non andare a posare prima i bagagli perché alle 21:30 la cucina chiude, perciò restiamo e telefoniamo per confermare la camera. Il locale, COTTONWOODS, è aperto da aprile a novembre tutta la settimana a partire dalle 18:00. E’ delizioso, ha una corte interna con un bell’albero grande addobbato di lucine come se fosse Natale; l’aria è proprio da Far West con una vecchia diligenza e, subito fuori, due tombe simpaticissime con due paia di stivaloni che spuntano dalla terra e iscrizioni che recitano: “Qui giace Whiskey Kip, impiccato perché non diede la mancia” e “Two Guns Pete si lamentò con il cuoco, ora sta a sei piedi di profondità”. Dopo cena (ancora è possibile bere una birra fresca, sebbene già ci troviamo nel severo Utah, forse perché siamo vicini al confine) arriviamo in un paio di minuti al motel RECAPTURE LODGE dove il gentilissimo Jim, il proprietario che nel frattempo è andato a dormire, ci fa trovare la chiave in una busta nel suo ufficio.

Il motel si articola in una serie di stanze a piano terra, le cui porte si aprono sotto una tettoia che corre lunga lunga, sostenuta da pali. Di fronte alla porta si può posteggiare la macchina. A vederlo così di notte è squallidino; sulla soglia prima di entrare io e i ragazzi ingaggiamo una piccola disputa con un grillo e uno scarafaggio, facendo attenzione a non farci vedere da mio marito che ha una fortissima ripulsa per gli insetti, sarebbe capace di guidare tutta la notte alla ricerca di un altro motel. Dentro la stanza c’è l’essenziale, tutto piuttosto vecchiotto, benché pulito e senza animali. Il mattino dopo, invece…

5° GIORNO – 8 AGOSTO (Bluff-Moab) 270 km motel: SUPER8 (21,00 dollari a testa) indirizzo: 889 N. Main Street, Moab telefono: 001-435-259-8868 internet: www.Super8moab.Com cena: EDDIE MCSTIFF (13,82 dollari a testa) indirizzo: 57 South Main Street, Moab telefono: 001-435-259-2337 internet:

Il mattino dopo, invece, la lettura del posto si fa più interessante: a parte una piccola piscina contornata dai fiori e dal verde, il tutto è, sì, datato, ma molto d’atmosfera. Jim è un ex naturalista che ha rilevato il motel da un geologo, e tutto ciò emerge dall’impronta molto maschile della “casa”: la reception e la sala dove si fa colazione (the, latte, caffè sono gratuiti, mentre si accetta un piccolo contributo per yogurt, muffin, burro e marmellata) ha i soffitti altissimi, vetrate stile liberty che vagamente ricordano la casa di Frank Lloyd Wright a Chicago, muri rivestiti di legno chiaro, mappe, fotografie d’epoca, un antico biliardino, un bel pianoforte a coda; fuori le finestre sono appese simpatiche vaschette dove diversi colibrì vanno a dissetarsi in continuazione.

Jim, che ha circa 60 anni, racconta di avere nonni provenienti dalla Svezia e dall’Irlanda, che gli hanno lasciato in eredità altezza, occhi e capelli chiari. Chiacchieriamo sulle rispettive origini, sull’importanza di sapere da dove veniamo per capire dove andiamo, finiamo per scherzare sulle superstizioni che, in Italia e in America rispettivamente, vedono il 17 e il 13 come numeri porta-sfortuna e si impegna ad approfondire la questione del 13 a tavola che porta male, Gesù e Giuda e via dicendo. Il nostro albergatore filosofo ci lascia dandoci un paio di indicazioni sulla strada. Quando sa che domani prenderemo la (splendida) UT-12 si raccomanda di andare piano, e non sarà il primo a farlo: questo ci metterà addosso un po’ di apprensione, salvo poi scoprire che la strada di un qualsiasi passo di montagna da noi in Italia o la stessa costa amalfitana sono ben più impegnative. Ma si sa, gli americani sono abituati diversamente! Lasciamo Bluff, dunque, e ce ne andiamo tranquilli verso Moab; ci fermiamo a un supermarket a fare un po’ di rifornimento di ghiaccio, acqua e yogurt e procediamo godendoci la strada. MOAB è una località turistica western-chic, davvero gradevole, con negozietti curati al punto giusto e l’aspetto di una cittadina accogliente. A differenza dei tanti centri attraversati finora, che si sviluppano appena ai due lati della strada, Moab è una vera cittadina, a un passo dal bellissimo ARCHES NATIONAL PARK e a circa 30 minuti a sud del DEAD HORSE POINT.

Il Dead Horse è uno State Park e quindi si paga per entrare, se non sbaglio 7 dollari a veicolo. Ci si affaccia sul fiume Colorado là dove questo crea un’ansa tanto profonda da formare una penisola alta sull’acqua. Recintando un solo lato, vi si usava convogliarci i cavalli. Non si sa perché, capitò che per alcuni giorni nessuno aprì il recinto, e questo portò alla morte per sete di centinaia di cavalli, e al nome di questo luogo. Notevole il contrasto fra il verde del fiume e il marrone rossiccio della terra circostante. I punti panoramici sono tutti a strapiombo, comunque protetti. Nelle vicinanze fu girata la scena conclusiva del film “Thelma e Louise”, quando le due si lanciano nel vuoto con la loro auto per sfuggire all’arresto.

A Moab alloggiamo al SUPER8. Stanza grande e comoda, ci sistemiamo bene. Ci riposiamo un paio d’ore, nella fascia più calda del giorno. Poi in pochi minuti di macchina raggiungiamo l’ARCHES NATIONAL PARK ). E’ un parco davvero molto agevole da visitare: si prende una strada che attraversa un habitat davvero degno di Willy il Coyote (ancora lui!), con massi improbabili in bilico su speroni di roccia rossa, con archi singoli, a coppia, solitari, delicati (da cui il nome “Delicate Arch”), aperti su vallate immense. Ci sono sentieri da percorrere a piedi se si vuole, e piccole passeggiate per giungere vicino ai principali punti degni di nota (vedi sotto). Ciò che ci ha colpito più dei vari archi sono state le rocce e le loro posizioni a rischio. Balanced Rock, per esempio, sembra quasi uno scherzo; ci è piaciuta tantissimo Park Avenue; lo stesso per The Great Wall… E poi…La ciliegina sulla torta! Giusto al tramonto (in assoluto l’ora migliore in queste terre dei deserti rossi) cerchiamo e troviamo una fessura tra due rocce, un piccolo slot canyon. L’indicazione da seguire è SAND DUNE ARCH.

Entriamo nel canyon, siamo soli, sembra di stare in una scena del film “Picnic a Hanging Rock”, camminiamo nella sabbia soffice color corallo che ci entra dappertutto (non resistiamo: ne mettiamo un po’ in un cappello e ora fa bella mostra di sé in un barattolo di vetro a casa…Effettivamente un gesto poco rispettoso della natura!!) e sbuchiamo in una minuscola oasi con un albero tutto verde e, a destra, un arco nascosto. Che posto! I ragazzi maneggiano tutta questa sabbia, ma poi lasciano perdere: questa è terra di serpenti a sonagli e ragni velenosi.

Quando si gira in zone desertiche non indossate mai scarpe aperte. Scarpe da ginnastica o scarponcini da trekking, più i calzettoni. Importante: a Roma, in un antico negozio di articoli sanitari a Corso Vittorio Emanuele, vicino a Piazza Navona, ho trovato un aggeggio inventato da un chimico che si salvò la vita in Australia dopo il morso di un serpente, così almeno mi hanno raccontato. E’ una specie di scatoletta lunga circa 15 cm e larga la metà, che a un’estremità ha due elettrodi: in caso di morsi o contatti con animali velenosi, gli elettrodi vanno posti sulla parte offesa per far partire alcune scariche a basso voltaggio. In questo modo le molecole del veleno si scompongono. Unica avvertenza: funziona solo con veleni che attaccano il sistema neurologico (quindi va bene, tra l’altro, per vipere italiane e serpenti americani); è inutile invece con veleni che si propagano nel sangue. Il costo è di circa 60 euro.

Più in generale, per quanto riguarda gli animali, inutile dire che non bisogna lasciare cibo incustodito o visibile se vi trovate in zona orsi; non avvicinate gli scoiattoli perché mordono e trasmettono brutte infezioni; proteggetevi dalle zanzare perché le punture di alcune possono avere effetti collaterali rischiosi (http://www.Cdc.Gov/).

Ci lasciamo sorprendere dal buio e ci fermiamo a scattare inutilmente foto alla “Balanced Rock”, in compagnia di uno stuolo di fotografi, quelli sì, molto più seri di noi, muniti di cavalletto e tutto il resto. E’ divertente lo stesso.

Ecco qualche indicazione, raccolta su Internet, per chi vuole cimentarsi con qualche escursione a piedi: Delicate Arc 3 miglia Balanced Rock 0,3 miglia North & South Windows 1 miglio Double Arch 0,8 miglia Skyline Arch 0,4 miglia Sand Dune Arch 0,5 miglia Broken Arch 1,3 miglia Park Avenue 1 miglio Se non avete voglia, o vi manca il tempo per arrivare proprio sotto il Delicate Arch con la passeggiata di 3 miglia andata-ritorno, allora c’è una strada più breve che vi porterà distanti dall’arco, ma vi permetterà di vederlo benissimo. Si scende dalla macchina al parcheggio del Delicate Arch View Point, si sale agevolmente per una decina di minuti lungo un sentiero ben segnato con le staccionate e i cumuli di pietre lasciate ai lati e si vede l’arco piuttosto vicino anche se ancora un po’ dal basso; poi, volendo proseguire sul crinale del Dome Plateau facendo un piccolo fuori pista, ci si trova alla stessa altezza dell’arco. Fate anche questo al tramonto.

Torniamo a Moab e andiamo a cena all’EDDIE MCSTIFF, unico posto in tutto lo Utah ad avere l’autorizzazione per la vendita di alcolici. Nota importante: non siamo certo dediti agli alcolici, ma è indubbio che dopo una giornata a macinare chilometri e polvere, al caldo e con appena uno spuntino di metà giornata nello stomaco, un bel bicchiere di birra “per sciacquarsi la gola”, come direbbe Tex, fa davvero piacere. Il locale è grande e non molto affollato, questa sera. Niente di speciale, ma la pizza che ordiniamo è buona. La guida (Lonely Planet, ottima) segnala invece che questo è di solito un posto animatissimo. Avremo sbagliato serata! Portate una felpa, come al solito nei locali chiusi, perché dentro fa freddo. Servono anche menu per bambini.

Posti in alternativa, segnalati su Internet ma non testati direttamente da noi, sono il Sunset Grill e il Moab Diner.

6° GIORNO – 9 AGOSTO (Moab-Boulder) 338 km motel: POLE’S PLACE (19,14 dollari a testa) indirizzo: UT-12 scenic road, Across from Anasazi State Park telefono: 800-730-7422 internet: http://www.Boulderutah.Com/ cena: BOULDER MESA RESTAURANT (13,87 dollari a testa) indirizzo: 155 East Burr Trail Road telefono: 001-435-335-7447 internet: http://www.Bouldermesa.Com/location.Ivnu Oggi è giorno di bucato, c’è la laundromat in albergo. Peccato che apra solo alle 10:00, e peccato che anche la piscina apra a quell’ora. Speravo di mettere dentro i panni da lavare e nell’attesa farmi una nuotata. Niente da fare. Oltre a tutto, sbaglio e metto il detersivo sopra e non sotto gli indumenti, perciò quando vado a fare il trasferimento nell’asciugatrice trovo che il sapone non si è sciolto bene e devo ricominciare!! Per usare la lavanderia automatica è bene munirsi di monete da 50 centesimi: in genere servono dai 3,25 ai 4 dollari per il sapone, l’avvio della lavatrice e l’avvio dell’asciugatrice.

Alla fine ce la facciamo, ripieghiamo tutte le nostre cose pulite e bene asciutte (meglio usare il programma “delicato” a freddo, le loro macchine vanno giù pesante e si rischia di restringere tutto), e le riponiamo nella sacca: questa sera, nel nuovo albergo, ridistribuiremo i vari capi nelle rispettive valigie. Anche questa sarà una giornata tranquilla. Prendiamo la 161 direzione nord, poi giriamo a sinistra sulla US-70 west che è infinita, nel deserto che sale con curve ampie e dolci. Molto interessante. A Three Rivers, che dicono famosa per i suoi cocomeri, dovremmo prendere la 24 per andare a congiungerci con la UT-12, la scenic road di cui abbiamo tanto sentito parlare. Ma non è semplice. Perché? Perché manchiamo letteralmente l’ingresso alla 24. Sembra incredibile ma è così: vediamo l’indicazione di Three Rivers e usciamo per fare benzina, ma il paese non lo avvistiamo; dopo il rifornimento risaliamo sulla 70 (a posteriori penso che, dal distributore, non saremmo dovuti rientrare, ma avremmo dovuto passare sotto l’autostrada e lì avremmo trovato l’indicazione per la nuova strada. Anzi, sono convinta di averla intravista proprio sotto il cavalcavia) e cerchiamo la giunzione con la 24.

Fatto sta che andiamo avanti per chilometri e chilometri con la sgradevole sensazione di aver mancato la strada giusta. Poco male: da un’occhiata alla carta stradale vedo che possiamo proseguire e dirigerci verso la UT-12 prendendo la parallela alla 24, cioè la 72. Peccato, però, perché avevo letto che la 24 aveva la particolarità di essere dritta come un fuso e di attraversare un posto singolare come il GOBLIN VALLEY STATE PARK. Il Goblin Valley State Park è una vallata le cui rocce hanno una forma tale da sembrare dei goblin, al tramonto. E’ un parco statale per cui non vale il National Pass. Si paga 5 dollari a veicolo. Chi ci è stato consiglia di fare una sia pur breve passeggiata tra i goblin. Niente di più, comunque. Occhio ai temibili temporali estivi pomeridiani. L’area è infatti soggetta a flashflood, piene improvvise, e a pericolosa attività elettrica.

Goblin a parte, la strada che percorriamo e che prendiamo nella deliziosa località chiamata Fremont è comunque gradevole: tante corsie, un po’ in salita, curve (evento estremamente raro, da queste parti) molto morbide e tutto intorno, a 360°, il paesaggio che cambia lentamente. Alla fine imbrocchiamo la deviazione giusta e iniziamo una bella strada di montagna, tranquilla, assolutamente solitaria. Bisogna dire che girare negli Usa è facile, ma bisogna avere una buona dose di fiducia in se stessi: un cartello migliaia di chilometri fa ti ha detto che devi andare dritto? Beh, non te lo ripete più, quindi inutile cercare conferme o lasciarsi prendere dall’ansia: devi crederci e andare avanti. Quanto alle autostrade, il discorso è diverso. A parte il fatto che, rispetto a 15 anni fa, ora gli americani corrono molto di più, specialmente vicino alle grandi città; in autostrada devi avere un self-control notevole. Perché? 1) Ci sono tante corsie, e puoi essere superato contemporaneamente da destra e da sinistra. Noi non siamo abituati.

2) Le uscite sono diverse dalle nostre: da noi quando sai che devi uscire alla prossima, metti la freccia e ti sfili dal flusso di auto; qui invece è proprio la corsia dove hai camminato magari per centinaia di chilometri che si “trasforma” in corsia di uscita. Sembra una magia, ma è così. Oltretutto in questo modo bisogna stare attenti, perché se per caso avevi deciso di metterti sulla corsia di destra solo perché volevi prendertela comoda ma volevi andare dritto per la tua strada, può capitare che, se non cambi posizione in tempo, sei costretto a uscire per forza. A noi è capitato.

In prossimità delle grandi città come San Francisco, Los Angeles o Las Vegas, all’improvviso i cartelli sospesi sopra la strada si moltiplicano con le più svariate direzioni. A quel punto il segreto è mettersi nella corsia che materialmente sta sotto la freccia indicata dal cartello per la destinazione voluta. Comunque: solo sul posto si può capire davvero bene come muoversi. Pausa e giretto esplorativo a Escalante, tipico paesino dell’ovest, che ha un monumento ai caduti del posto in tutte le guerre. “Freedom is not free”, la libertà non è gratis, ha un prezzo, dice l’iscrizione. Nel bene o nel male, qualsiasi cosa si pensi della politica estera americana, i nomi di quei ragazzi, tantissimi con lo stesso cognome, scritti sulla pietra, stanno a testimoniare un tributo troppo alto.

Bene, arriviamo alla UT-12, che è veramente una gran bella strada. In effetti è tortuosa ma sufficientemente larga, e in alcuni punti senza protezione: capiamo perché la signora del motel di Boulder, quando ho prenotato, si è raccomandata di non farla di notte. In ogni caso non è niente di trascendentale, in Italia abbiamo fatto molto di peggio. Bei paesaggi: siamo passati dalla montagna dove abbiamo visto cervi e scoiattoli, alla pianura verde e operosa dei mormoni, punteggiata da decine e decine di spruzzi d’acqua per irrigare, che sembravano bianche bandiere sventolanti in tutte le direzioni, animate da una regia arcana. Suggestivo. Boulder è piccola, quasi non esiste. Sapevamo che avremmo pernottato al Pole’s Place, di fronte a un piccolo museo degli Asanazi (gli “Antenati”, secondo gli indiani) lungo la strada. E infatti proprio lì lo troviamo: piccolo, solitario, semplice ma grazioso. La proprietaria ci indica gli unici tre ristoranti del luogo: uno è chiuso il mercoledì a cena; l’altro è più ricercato, ci andremo domani mattina per la colazione. Stasera andiamo al BOULDER MESA RESTAURANT. Il posto è gradevole, la clientela è del posto. Scelgo la zuppa della casa che si rivelerà ottima, al pari della birra rigorosamente analcolica di cui purtroppo non ricordo la marca, ma che credo proprio fosse di produzione locale e quindi introvabile altrove.

I ristoranti 1) BOULDER MESA RESTAURANT (indirizzo: 155 east burr trail; telefono: 001-435-335-7447; internet: http://www.Bouldermesa.Com/) 2) HELL’S BACKBONE GRILL – tel. 001-435-335-7464 (indirizzo: No. 20 North Highway 12 Boulder – Utah; internet: http://www.Hellsbackbonegrill.Com/index.Html) 3) BURR TRAIL GRILL AND DELI (indirizzo: all’angolo fra il Burr Trail and la Highway UT-12, Boulder; telefono: 001-435-335-7565; Internet: ; la sera aperto dal giovedì alla domenica. Aperto sempre a pranzo.

Ecco di seguito alcune indicazioni per chi volesse dedicare del tempo ai dintorni ed effettuare qualche escursione. Le ho copiate dal grande quaderno che fa parte della dotazione della stanza del motel: 1) LOWER CALF CREEK FALLS (12,15 miglia a est di Escalante). Per entrare si paga 2 dollari a veicolo. Si parcheggia e si intraprende la passeggiata di 6 miglia andata e ritorno. Il percorso è moderatamente impegnativo. Fa molto caldo in estate, quindi è bene portare acqua in abbondanza.

2) ESCALANTE NATURAL BRIDGE. Si tratta di 4 miglia andata e ritorno. Si deve attraversare quattro corsi d’acqua.

3) ESCALANTE RIVER CANYON. Prevedete anche qui di dover camminare nell’acqua.

4) DEVILS GARDEN (da Escalante, 5 miglia a est, sulla UT-12, poi 13 miglia a sud sulla strada di Hole in the Rock; girare al segnale per Devils garden; infine 1,5 miglia fino all’area di parcheggio). Percorso adatto alle famiglie, 30 minuti a piedi in tutto.

5) COVERED WAGON NATURAL BRIDGE; CEDAR WASH ARCH. Si tratta di luoghi che possono essere raggiunti solo se si è alla guida di una 4×4.

Calf Creek Recreation Area. La principale attrazione è il ponte sospeso che porta oltre il Calf Creek. Seguendo il ruscello in direzione nord lungo un sentiero sabbioso, dopo poco più di 7 miglia si giunge alle Lower Calf Creek Falls, una cascata di 50 metri che regala frescura.

7° GIORNO – 10 AGOSTO (Boulder-Bryce Canyon) 107 km motel: BEST WESTERN RUBY’INN (36 dollari a testa) indirizzo: 1000 South Highway 63, Bryce telefono: 001-435-834-5341 internet: http://www.Rubysinn.Com/ cena: RUBY’S CANYON DINER (9,14 dollari a testa) indirizzo: Hwy 63, Ruby’s Inn telefono: 1-800-468-8660 oppure 001-435-834-5341 Ristorantino, colazione e cameriere davvero da ricordare: il locale, HELL’S BACKBONE GRILL, è gestito da due donne, Jen Castle e Blake Spalding che è studiosa di buddismo tibetano, tanto che la bandiera del Tibet fa bella mostra di sé nel patio esterno.

Il ristorante è nello stile locale, a metà tra il Far West come lo immaginiamo noi e lo chalet di montagna (dove in effetti siamo); la cucina è ottima e ricercata, gli ingredienti base sono coltivati in loco secondo i dettami dell’agricoltura organica. I sapori e gli accostamenti rendono particolare anche la classica colazione all’americana, cioè uova e bacon: qui sono accompagnati, per esaltarne il gusto, da eccellenti marmellate. Il menu lascia intendere altre prelibatezze per i pasti principali. Ho letto in seguito su una recensione pubblicata su Internet che questo è considerato il miglior ristorante dello Utah.

Il nostro cameriere è un ragazzo slovacco decisamente interessante di 27 anni che mastica qualche parola di italiano, giramondo dall’età di 18 anni, cosa che non gli sta impedendo di laurearsi in ingegneria. Capitò qui un anno fa, doveva fare rifornimento di benzina ma si fermò per aiutare le ragazze che gestivano la pompa e ora sono sue grandi amiche. In questo periodo lavora come cameriere, ha il permesso per 18 mesi, poi si vedrà: il mondo è grande, dice. Pensiamo che i nostri figli potrebbero essere e vivere come lui tra qualche anno, un po’ studiosi e un po’ giramondo, belli e aperti alle esperienze. Ci inteneriamo e gli lasciamo una mancia consistente, 10 dollari, su un conto complessivo di 50. Alla fine questa colazione si è rivelata un po’ cara; ci consoliamo pensando che comunque ci farà anche da pranzo, visto l’ora che abbiamo fatto e le cose appetitose e sostanziose che abbiamo mangiato.

Su suggerimento della nostra albergatrice, invece di avviarci subito lungo la strada che ci porterà a Bryce Canyon prendiamo sulla sinistra la Burr Trail. ”E’ molto bella”, ci aveva spiegato, “capirete che cosa hanno dovuto affrontare i nostri pionieri…”. Incuriositi, imbocchiamo questa stradina all’inizio della quale sulla sinistra c’è il ristorante dove abbiamo cenato ieri sera, e sulla destra un cartello ci avverte: “percorrete questa strada a vostro rischio e pericolo”. Ci assale l’ansia. Per fortuna un giovanotto mormone, con la tipica barba, occhi chiari sorridenti, i libri sottobraccio e una camicia a quadri tipo taglialegna, abbottonata fino all’ultimo bottone sul collo, ci dà gli opportuni chiarimenti: innanzi tutto non c’è da temere perché è tutto asfaltato e ci sono protezioni ai bordi della strada; poi, ci dice, dopo un certo numero di miglia quando ci si inoltra fra le montagne, dobbiamo guardare a sinistra, c’è uno slot canyon strettissimo; infine, visto che il percorso va avanti per centinaia di chilometri fino a raggiungere, da nord, il lago Powell, meglio fermarsi dopo 24 miglia in un grande spiazzo per ammirare il panorama e poi tornare indietro.

Più che mormone sembra svizzero, per la sua precisione! La strada è una delle cose che più mi ha colpito in questo viaggio. La mattinata è limpidissima, il caldo non è eccessivo e comunque il clima è secco, l’aria è pulita, il cielo è blu, le rocce che ci sovrastano quando passiamo in mezzo hanno il colore dei gamberoni rossi; sopra i costoni e sotto, dove passiamo noi, c’è il verde delle piante. Bello, davvero bello.

Giungiamo allo spiazzo come previsto, c’è solo un tizio con un pick-up dal quale fa scendere una moto da cross. Chiude l’auto, si mette il casco, una maschera con il filtro contro la polvere e poi si butta giù a rotta di collo sui tornanti in terra battuta che, indoviniamo, ci riporterebbero di nuovo in Arizona. Che tipo! Torniamo indietro e, prima di arrivare in zona Bryce, facciamo una deviazione per KODACHRONE BASIN (internet: http://www.Americansouthwest.Net/utah/kodachrome_basin/state_park.Html). Percorrendo la UT-12 scenic road, questo parco statale (il fatto che non sia nazionale comporta che il Pass non vale, quindi si paga una manciata di dollari) si trova circa 12 km, cioè 20 miglia, a sudest del Bryce Canyon National Park. Raccontano le guide che quando gli inviati di National Geographic vennero per la prima volta a visitare questo posto, in un solo giorno diedero fondo alle loro riserve di rullini fotografici, tanto erano incredibili i colori che trovarono.

Noi invece siamo sfortunati, perché nel frattempo la giornata si è fatta nuvolosa. Il posto risulta non eccezionale come ci aspettavamo. C’è anche un’altra considerazione: nessuno lo dice apertamente, ma ho il sospetto che dopo il Grand Canyon, dopo Corkscrew, dopo le riserve indiane e Monument Valley, dopo i deserti rossi dell’Arizona e la splendida strada di questa mattina, pochi luoghi di questo genere ormai hanno il potere di entusiasmarci…È tempo di imprimere una svolta e cercare la grande città, la gente, i rumori, il traffico. Perfetta, la nostra organizzazione è perfetta: tra poco più di un giorno saremo a San Francisco, poi toccherà a Los Angeles, poi a Las Vegas, e poi ancora a New York. Per ora, comunque, la nostra destinazione è BRYCE CANYON. Subito prima del parco nazionale troviamo il nostro tra gli altri motel. E’ il BEST WESTERN RUBY’S INN. E’ molto grande, sembra di essere dalle parti dei Flintstone e dell’orso Yoghi. Pittoresco e un po’ caotico, con un corpo centrale e altre costruzioni intorno. Abbiamo una stanza immensa, sarà 10 metri per 4. Ci fermiamo giusto il tempo di lasciare i bagagli prima di uscire per il nostro appuntamento con quest’altro posto incredibile che è il Bryce.

La nostra filosofia è, dove possibile, arrivare nei posti mai prima del tramonto, per godere appieno di tutti i colori che esplodono con gli ultimi raggi di sole. Entrati nel Bryce Canyon National Park (http://www.Nps.Gov/archive/brca/home.Htm), una bellissima strada di montagna molto, molto larga e sinuosa ci porta fino ai vari punti di osservazione di questo che in realtà non è un canyon, ma un anfiteatro spettacolare. Mr. Bryce, che lo scoprì, osservò che era “il peggior posto dove perdere una mucca”. In effetti.

Avevo la velleità di percorrere uno dei sentieri che si snodano ai piedi di queste immense e incredibili torri di roccia coloratissima, e che ricordano le guglie che si fanno da bambini sulla spiaggia con la sabbia mixata al punto giusto con l’acqua di mare, in modo che scivoli tra le dita. Un’occhiata ai ragazzi mi convince però che è meglio desistere. Non hanno granchè voglia, stanno incollati all’MP3, si interessano per un attimo e poi solo per un attimo ancora quando, al di sotto del nostro punto di osservazione, vedono volare uno splendido falco. Credo che la dose di natura per loro sia arrivata al massimo della sopportazione. In ogni caso, come del resto suggeriscono anche altri viaggiatori, Bryce è perfetto per un giorno e una notte: una bella escursione la mattina, magari anche a cavallo, un riposo, una panoramica assolutamente da non perdere al tramonto, cena, pernottamento e partenza la mattina.

Per coloro che vorranno, ecco alcune indicazioni su possibili escursioni ai piedi di questi splendidi pinnacoli che, prima, si saranno ammirati dai vari punti panoramici di osservazione: 1) Navajo-Queens Garden (2,9 miglia. Circa 5 km. Moderato) 2) Navajo Loop (1,3 miglia. Circa 3 km. Moderato) 3) Peekaboo Loop (5,3 miglia. Circa 9 km. Moderato) Ecco invece qualche informazione per chi vuole compiere il tragitto a cavallo: http://www.Canyonrides.Com/pkbrycecanyon.Html dal sito www.Canyonrides.Com/. In linea di massima, una passeggiata di due ore a cavallo fino alla base del canyon costa circa 40 dollari a persona. Ricordate sempre di aggiungere le tasse a ogni spesa che fate. L’entità delle tasse cambia da Stato a Stato. Per il cavallo il limite di età è di 7 anni. Le escursioni si effettuano dalle 9 del mattino alle 14:00.

Alle 19:00, proprio di fronte al nostro albergo, ogni sera d’estate si tiene un rodeo. E’ stata questa l’unica nota negativa del nostro viaggio, una sciocchezza e una noia talmente grandi che addirittura i ragazzi ci hanno chiesto di andare via. E’ una penosissima attrazione per turisti ingenui, niente a che vedere, credo, con i raduni che si fanno nel Wyoming con gente e organizzazione più serie. Morale: 33 dollari buttati. Andiamo via, dunque, e facciamo bene: quando il triste spettacolo finisce (cavallerizze in sella con il cellulare all’orecchio, tanto per dire) la gente si riversa nel locale di fronte, il RUBY’S CANYON DINER, un self service tipo fast food dove noi avevamo già trovato un tavolo. Senza infamia e senza lode. La pizza però non è male.

8° GIORNO – 11 AGOSTO (Bryce Canyon-Mono Lake) 960 km motel: LAKE VIEW LODGE (32 dollari a testa) indirizzo: 30 Main Street, Lee Vining, California telefono: 001-760-647-6543 opp. 1-800-990-6614 internet: http://www.Bwlakeviewlodge.Com/ cena: BODIE MIKES (15,26 dollari a testa) indirizzo: Downtown Lee Vining on Hwy 120 telefono: 001-760-647-6432 internet: oppure, per vedere una foto: http://www.Dgrin.Com/showthread.Php?t=3023 Oggi lunga giornata di trasferimento. E’ l’unica in tutto il viaggio in cui saremo in macchina non per il nostro piacere, liberi di fermarci o di proseguire, con la meta quotidiana vicina, ma per raggiungere un posto lontano. Dobbiamo arrivare a Lee Vining, sul MONO LAKE, in California. Sulla carta sono circa 11 ore di viaggio. In realtà ce ne metteremo di meno e non sarà stancante come temevamo.

Per uscire dallo Utah verso il Nevada percorriamo l’ultimo tratto, forse il più bello, della UT-12: rosso rosso rosso, da non credere, si passa dentro brevi gallerie scavate nella roccia cremisi, sovrastata da alberi.

Preparate in anticipo la macchina fotografica perché, dopo che si è rimasti a bocca aperta, dopo che ci si è ripresi e si è visto l’ennesimo scenario indimenticabile, quando alla fine si dice “è troppo bello, è troppo bello, dobbiamo scattare almeno una foto”, c’è una curva, e dopo la curva come per incanto cambiano completamente colori e panorama.

Il tragitto più agevole ci porta ad attraversare lo spicchio meridionale del Nevada; si aggira Las Vegas e si sbuca in California, dove dovremo poi dirigerci a nord fino ad arrivare sulle sponde del Mono Lake. Lungo la strada vediamo la deviazione per la DEATH VALLEY. Inizialmente l’avevamo inserita nel nostro programma, collocandola più tardi, dopo Los Angeles e prima di Las Vegas; in un secondo momento invece avevamo deciso di saltarla perché noi l’avevamo già vista e l’idea di fare una lunga deviazione per farla vedere ai ragazzi, ormai stanchi di tanta natura, non ci allettava più di tanto… Invece capiamo che se ci andiamo adesso, invece che dopo, in realtà non sconvolgeremmo i nostri piani, perché è praticamente sulla nostra strada. Quindi: giriamo per il Death Valley National Park.

Serbatoio sempre pieno, acqua da bere a sufficienza: se queste due semplici regole vanno sempre applicate, qui diventano essenziali. Non sforzate il motore perché fareste aumentare la temperatura all’interno del radiatore. Tenete accesa l’aria condizionata, ma non al massimo. Fuori la temperatura arriva a 57° C, i vetri diventano bollenti, i cellulari non hanno campo (a meno che non abbiate il satellitare), quindi meglio essere prudenti, anche se un certo andirivieni c’è sempre, e quindi non si è mai soli e abbandonati.

Il posto è particolare. Estremo. Desolato. Non c’è un ingresso vero e proprio con il ranger che controlla la card dei parchi o raccoglie i soldi. Se non avete la card e dovete pagare, sappiate che si deve arrivare a Furnace Creek (il nome è tutto un programma). Nessuno pensi di fare il furbo, perché i ranger girano nel parco e possono controllare, e poi: perché fare una terribile figuraccia? Dante’s View offre una veduta mozzafiato su tutta la valle, bisogna fare una ventina di km in salita prima di arrivare allo spiazzo battuto dalla termica bollente che soffia incessantemente, ma non è il solo posto degno di nota. Ci sono Artists Palette, Zabriskie Point, Furnace Creek, Badwater (il punto più basso degli Usa, 85 metri al di sotto del livello del mare) e poi Stovepipe Wells (dove si può anche dormire; il saloon chiude alle 21:30, di solito la mancia è compresa nel prezzo al contrario di quanto avviene nel resto degli Usa), e ancora uscendo verso ovest, bellissime dune di sabbia immote, e ogni tanto piazzole con l’acqua per il radiatore, se mai ce ne fosse bisogno.

A Furnace Creek ci sono i bagni, un campo da golf (!!), un motel con piscina, un pub, un negozio di souvenir e generi alimentari di prima necessità, la base del ranger, un minuscolo museo (si può entrare per comprendere l’epopea dei coloni che passarono di qui), i telefoni. Il Visitor’s Center chiude alle 18:00. Per lo stupore dei ragazzi: prendiamo nel nostro frigo portatile un piccolo panetto di burro, lo scartiamo e lo posiamo per terra, all’ombra della macchina. In una trentina di secondi letteralmente sparisce, lasciandoci solo la carta da buttare!!! Noi abbiamo deciso di non spingerci a nord fino allo Scottish Castle, un improbabile castello scozzese in pieno deserto, fatto costruire da uno strampalato truffatore la cui storia non ci è mai stata simpatica; per questo motivo tiriamo dritti. Inoltre la deviazione verso nord ci avrebbe portato troppo lontano.

Bene, proseguiamo sulla 190, poi prendiamo a destra per la 136 e a Lone Pine ci immettiamo sulla 395 direzione nord che ci porta sul Mono Lake intorno alle 18:00, dopo aver prima costeggiato e poi essere saliti sulla Sierra Nevada percorrendo una bella e larga strada di montagna. Il lago è di origine glaciale, ha un’estensione di circa 200 kmq e si trova a 1900 metri di altezza. Dall’acqua blu si ergono degli strani pinnacoli di roccia. Ma guarda tu, che strano…All’improvviso, con prepotenza, apparentemente senza motivo, cominciano a girarmi in testa delle parole e della musica: “… so …So you think you can tell…Heaven from hell…Blu sky from pain …”. Comincio a cantare, ma perché questo? Poi riconosco il panorama, mi accorgo di avere davanti agli occhi la stessa immagine che appare, rimpicciolita, sia sul retro della copertina interna, sia nella cartolina che accompagnava l’album dei Pink Floyd “Wish you were here”. Inutile resistere: per tutto il tempo che saremo in zona questo sarà il tormentone, con tanto di imitazione, azzardata quanto sciagurata, delle prime note della chitarra elettrica di David Gilmour.

Chi è andato sulla spiaggia del Mono Lake, almeno in alcune zone, ha raccontato che è piena di moscerini. Noi evitiamo, tanto anche questo lago, pur molto bello, è desolato. Non c’è una barca, non c’è attività intorno o sull’acqua. Comunque l’aria è perfetta, calda al punto giusto, mentre le cime intorno sono addirittura innevate. La sera è comunque comoda una felpa. Il nostro punto di arrivo è Lee Vining, una graziosa località turistica piuttosto curata, con un Visitor’s Center dove ci si può collegare a Internet e prendere tutte le informazioni sulla zona. Il motel che abbiamo prenotato, il LAKE VIEW LODGE, va benissimo: stanza spaziosa di ringhiera con vista lago, ampio bagno e, sotto, un bel giardino con fiori e panchine che indirizzano verso una sorta di baita, il GARDEN HOUSE COFFEE ), dove la mattina seguente faremo una bella colazione e avremo anche lo sconto esibendo un foglietto verde fornito dall’albergo al momento del check-in. Ottima cena al BODIE MIKE, un ristorante gestito da ispanici: non crediamo ai nostro occhi e lo stomaco fa festa quando al buffet, dove ci si può servire a volontà in attesa delle ordinazioni, vediamo insalatina verde, olio di oliva (!!!), aceto, olive, ceci, pomodorini, cetrioli. Tutte cose fresche e mediterranee che il nostro fisico comincia a reclamare, dopo otto giorni di uova, burro, carne, patate e compagnia bella! 9° GIORNO – 12 AGOSTO (Mono Lake-Bodie-Yosemite-San Francisco) 375 km motel: HOTEL METROPOLIS (28,21 dollari a testa per notte) indirizzo: 25 Mason Street, San Francisco telefono: 1-800-553-1900 internet: http://www.Hotelmetropolis.Com/ cena: BLONDIE’S (3 dollari a testa; pizza a taglio buona) indirizzo: 63 Powell Street telefono: 001-415-982-6168 internet: Cambio di programma dopo colazione: invece di dirigerci subito a ovest verso il Tioga Pass e lo Yosemite National Park, puntiamo a nord per visitare, dopo pochi chilometri, la città fantasma di BODIE https://lakeviewlodgeyosemite.com/), che ebbe il suo boom con la corsa all’oro nel 1877, sfavillante per alcuni decenni, decimata da due incendi (1892 e 1932) e ormai abbandonata da quasi un secolo. Di tutte le costruzioni di allora, solo il 10% ne rimane ancora in piedi.

Scelta assolutamente positiva. L’ultimo tratto di strada è sterrato, poi si pagano 5 dollari al ranger, si parcheggia e si fa un salto indietro nel tempo. Le case, il saloon (ai tempi d’oro se ne contavano 65), le stalle, la chiesa, l’albergo: quasi tutto chiuso a chiave, ma dai vetri si vedono i letti, le tende, le poltrone, le pentole, qualche bottiglietta di Coca Cola (sì, proprio la Coca, che del resto venne inventata nel 1886). Sembra di entrare nell’intimità di qualcuno. Un gruppo di teatranti vestiti da banditi e sceriffi, su cavalli e diligenza, inscenano sparatorie e inseguimenti in una zona della città, rendendo più pittoresco – anche se più turistico – il tutto, quasi a voler ricordare che Bodie era nota, ai tempi, più per la delinquenza e la dissolutezza che per le sue miniere d’oro.

In un edificio, comunque, si può entrare: lì vi sono raccolti oggetti di vita ordinaria come i registri con i pagamenti dei minatori, pettini e forcine, pipe per l’oppio, scarpe, foto (si chiede ai visitatori di avvertire se qualcuno riconosce un proprio antenato), strumenti da dentista, una bara, lo specchio del saloon. Vita vera, vita vissuta. Molto interessante, anche per i ragazzi.

Ma è tempo di andare. Il Tioga Pass ci aspetta, con la sua entrata Est dello YOSEMITE NATIONAL PARK (http://www.Nps.Gov/archive/yose/home.Htm). Una settimana fa è nevicato, il che ricorda che è sempre bene informarsi se questo passo è aperto. In caso contrario, bisogna fare una bella deviazione ed entrare da sud.

Yosemite già lo conosciamo. E’ molto bello, anche se tra tutti i parchi che abbiamo visto è quello dai connotati più “europei”. Chi ha tempo può prenotare con larghissimo anticipo un motel all’interno del parco per trascorrere qualche giorno tra sentieri, boschi, laghi montani bellissimi, cascate, arrampicate. Noi ci limitiamo ad attraversarlo sulla Hwy 120, contenti della possibilità di ammirare la parte est, meno battuta, che dai 3.031 metri di altitudine ci porta giù fino alla Yosemite Valley. Una volta usciti restiamo sulla 120. E’ lunga, costeggia un laghetto splendido, e da un certo punto in poi comincia a essere trafficata. Ci sono numerosi banchetti di frutta sulla strada, vale la pena fermarsi, perché è molto buona (siamo in California!) e non è cara; attraversiamo località turistiche molto chic, poi di nuovo strada dritta, un po’ lenta per via dei semafori. Abbiamo ancora una catena montuosa da superare prima di affacciarci sull’Oceano Pacifico e immaginare come devono essersi sentiti i pionieri (senza nulla togliere ai poveri indiani che nel frattempo venivano sterminati, però). E’ bello questo andare: nel corso della giornata le montagne e i boschi hanno lasciato il posto alle colline, le colline alla pianura, e ora la pianura sta per accompagnarci fino al mare. E che mare: è l’oceano. E che oceano: è il Pacifico. Siamo davvero all’ultima frontiera; oltre quell’acqua c’è un altro mondo, c’è il Giappone, c’è la Cina.

Sai di essere nei pressi di San Francisco quando le auto si moltiplicano, le corsie aumentano di numero, la velocità media sale e, sulla cima delle colline, centinaia e centinaia di pale per la produzione dell’energia eolica salutano il viaggiatore, per chilometri e chilometri: è uno spettacolo bellissimo, molto suggestivo, che mette allegria.

Entrare a San Francisco è stato impegnativo, anzi è stata l’unica volta in cui ci siamo persi e abbiamo chiesto aiuto una volta usciti dall’autostrada.

Parlate, parlate sempre con tutti, anche se non sapete bene l’inglese. Tranne che a New York (dove la fretta rende tutti più sbrigativi) gli americani sono gentilissimi, curiosi e molto disponibili. A San Francisco, poi, sono grandiosi. Sarà perché la città è l’ultimo lembo di terra prima dell’Asia, o perché sta seduta su una zona fortemente sismica e vive con la voracità di chi non sa quanto tempo ha ancora davanti, sarà perché gli abitanti discendono da avventurieri, malandrini, gente aperta e pronta a tutto che con il tempo ha fatto della tolleranza uno stile di vita…Insomma: a San Francisco sono speciali.

Perché dico questo? Perché ogni volta che veniamo incontriamo gente divertente, per nulla ingabbiata, molto easy. Esempio. Quando, lasciando l’autostrada, capiamo che ci siamo persi, ci fermiamo di fronte a una drogheria chissà dove, nei sobborghi. Mi rivolgo a un signore con cane. Gli dico: “Excuse me, I’m lost” (mi scusi, mi sono persa). E lui: “lost? You are not lost. You are in San Francisco, do you know, San Francisco…” e attacca a cantare il motivetto che tutti conosciamo. Un mito. Esce fuori che è stato il bassista di Ray Charles quando andava in tournee, è stato anche in Italia. Ci fornisce indicazioni precisissime, perfette. Siamo contenti. Anche 14 anni fa facemmo per caso incontri altrettanto simpatici, casuali, speciali, molto free. I ragazzi sono estasiati.

Bella, bella, San Francisco è proprio bella, anche più di quanto ricordassi. Tra le città Usa che conosco è quella dove verrei a vivere immediatamente, anche se non è pulita come Chicago. Unico neo: il freddo in agosto. Ma basta saperlo e organizzarsi di conseguenza.

Pur trovando, come è capitato a noi, giornate spettacolari, la mattina fa freddo e c’è la nebbia che poi per fortuna si dissolve. Meglio vestirsi a cipolla. Ecco cosa indossavamo: jeans, calzini e scarpe da ginnastica; una t-shirt a maniche lunghe o una polo a maniche corte; la felpa; il giubbotto di cotone o di jeans. Un paio di volte abbiamo rimpianto di non esserci portati il giubbino leggero con il pile dentro, ma in linea di massima siamo stati bene anche perché con il passare delle ore ci siamo spogliati. La sera è più tiepida della mattina.

Frisco, come la chiamano qui, ha delle linee di demarcazione tra zone tranquille e zone che lo sono meno. E’ così in tutte le grandi città americane, comunque. Il nostro albergo, che sta a downtown, al centro, è proprio al confine. Quando ho prenotato sapevo che downtown era border-line, ricordavo anche che le parti di Union Square sono da evitare di notte; tuttavia dalle guide non avevo tratto indicazioni attendibili su zone alternative e su alberghi che non costassero un patrimonio per quattro persone. Per cui, incrociando le dita e parlando a lungo al telefono con la reception, ho prenotato al Metropolis. Proprio dietro Market Street, che rappresenta il punto di confine tra la città bene a quella che lo è meno, il Metropolis ha un look di tendenza, un po’ all’orientale, con acqua che scorre su un pannello all’ingresso, sala per la meditazione, sala Internet, gradevole arredamento moderno e cose del genere. Le stanze non sono grandi ma ci si può stare. L’ascensore funziona solo se, una volta entrati, si inserisce la chiave magnetica in una fessura, come se fosse una carta di credito. Il problema a San Francisco è il parcheggio. Ce n’è uno nello stesso cortile dell’albergo, con un nutrito numero di guardiani 24 ore su 24 che nemmeno ti fanno avvicinare se non mostri il cartellino che ti danno all’inizio e che non va assolutamente perso. Costo: 34 dollari a notte. Forse si può risparmiare qualcosa altrove ma, come ci spiegherà la receptionist italiana di Sorrento (”perché sono qui da sette anni? E’ una lunga storia”, ammicca) i prezzi sono più o meno uguali dappertutto.

La zona dove siamo, scopriamo subito rincuorati quando scendiamo per andare a mangiare una pizza al Blondie, è sicura nonostante quello che può sembrare al primo sguardo, e subito si trasforma nella parte vitale di Union Square. Che, a differenza dei primi anni Novanta, ora è frequentatissima fino a tarda notte. Ristoranti, bar, pasticcerie, bei negozi e lì vicino la parte di Market Street che vede teatri, negozi di firme sportive, una fila di tavolini dove si gioca perennemente a scacchi, il capolinea del cable-car.

Per quanto riguarda il Cable car: ogni corsa costa 2 dollari, quindi può essere conveniente fare il giornaliero da 6 dollari. Il tragitto? Da Powell Street a Jefferson Street. Se c’è posto, attaccatevi fuori, sul predellino, e al capolinea aiutate il guidatore a girare la vettura. Il cable-car fu inventato per assicurare un mezzo di trasporto sicuro ai “signori dell’argento” che vivevano in sontuose dimore a Nob Hill e avevano bisogno di non correre rischi lungo il percorso che li avrebbe portati a casa.

10° GIORNO – 13 AGOSTO (San Francisco) Brunch/pranzo: BAKER STREET BISTRO (13 dollari a testa) indirizzo: 2953 baker street telefono:001-415-931-1475 internet: “Se hai un amico a San Francisco che, quando arrivi, ti porta al Fisherman’s Wharf (http://www.Fishermanswharf.Org/), pensaci bene: non è un vero amico”: ho letto questa frase da qualche parte in Internet, su un sito americano. Niente di più vero, e con gli anni la zona è peggiorata. Certo, questo giudizio così tranciante è strettamente personale; a smentirmi basterebbe il grandissimo numero di turisti che vi si trova. Ma poiché sono convinta che conta più la qualità della quantità… Per quanto mi riguarda, anzi: per quanto ci riguarda, solo due validi motivi possono giustificare un’incursione in questo luogo molto turistico (dando al termine “turistico” il peggior significato possibile) e maledettamente kitsch: 1) La partenza del traghetto per visitare Alcatraz 2) Uno spuntino alle bancarelle di granchi e gamberetti Andiamo con ordine. 1) L’effetto jet-lag è ormai sparito da un pezzo. Emergiamo dall’albergo alle 9:30 passate e i ragazzi reclamano la colazione. Bene, visto che dobbiamo verificare se per miracolo troviamo i biglietti per Alcatraz che, chissà perché, mio marito non ha voluto prenotare da Roma, ci conviene andare al Fisherman’s Wharf e fare colazione lì. Al Pier (molo) 41 i biglietti non ci sono più da giorni (di tutto il viaggio è l’unico rimpianto, che mio marito pagherà caro, anche se non so ancora come…) ed è un peccato perché chi ha visitato Alcatraz con la guida in cuffia in lingua italiana, un paio d’ore in tutto, ha detto che veramente ne vale la pena. Oltretutto, giusto prima di partire per gli Usa avevamo rivisto il film “The Rock”, con Nicholas Cage, Sean Connery e Ed Harris.

Prenotate per tempo al Blue & Gold Fleet (http://www.Destinationcoupons.Com/California/sfo/activity_b&g/bg.Asp). Telefono: (415) 705.5555. Gli adulti pagano 16,50 dollari a testa; i bambini dai 5 agli 11 anni pagano 10,75 dollari; coloro che hanno più di 62 anni pagano 14,75 dollari. Il prezzo comprende il traghetto andata e ritorno (20 minuti a tratta), il giro e la cuffia in lingua italiana con le spiegazioni di ex secondini ed ex detenuti. Per le prenotazioni effettuate via telefono o via Internet c’è un sovraprezzo di 2,25 dollari a biglietto. Il giro, andata e ritorno, dura fra le due e le tre ore. Si può prendere il traghetto quando si vuole.

Ecco gli orari: DAL PIER 41 9:30 am 1:15 pm 10:15 am 1:45 pm 10:45 am 2:15 pm 11:15 am 2:45 pm 11:45 am 3:15 pm 12:15 pm 3:45 pm 12:45 pm 4:15 pm DA ALCATRAZ 9:50 am 2:45 pm 10:35 am 3:15 pm 11:10 am 3:45 pm 11:45 am 4:15 pm 12:15 pm 4:45 pm 12:45 pm 5:20 pm 1:15 pm 5:50 pm 1:45 pm 6:30 pm 2:15 pm Chiuso il capitolo. Bene, facciamo colazione? Ok, c’è un posto simpatico anni Cinquanta stile Fonzie, ma aspettiamo 15 minuti e della cameriera neanche l’ombra. Ce ne andiamo.

E meno male. Gira che ti rigira (questo no, questo è troppo caro, questo è solo per turisti, questo è brutto, questo non ha parcheggio, e così via fino ai limiti del litigio tra i grandi e della sommossa dei piccoli per fame), e seguendo il percorso del Gabbiano (49 mile drive, vedi e http://www.Sfvisitor.Org/maps/html/49MileMap.Html) mio marito, forse per farsi perdonare, trova un posticino dove fare il brunch. Si chiama BAKER STREET BISTRO. Promosso a pieni voti. Siamo gli unici turisti, si mangia benissimo, l’atmosfera è tranquilla e capisci come in questa città si può vivere in modo rilassato. Una volta in Italia, ho letto che per tre volte questo locale ha vinto la classifica del San Francisco Chronicle risultando il primo tra i migliori 100 ristoranti della Baia. Quanto al granchio e ai gamberetti, eccoci al punto: 2) Una tappa obbligata è alle bancarelle di Fisherman’s Wharf per mangiare un Clam Chowder in sourdough bread (vedi foto http://www.Boudinbakery.Com/index.Cfm?fuseaction=order&action=product_detail&product_group_id=75&product_id=333&product_sub_id=1538), cioè una zuppa di granchio servita in una pagnotta di pane svuotata della mollica. Ottimo! Bisogna dire che mangiare questa cosa profumatissima che in realtà sa di gamberi è un po’ difficile stando in piedi: ti piazzano in mano un piattino di carta con la pagnotta fumante di zuppa, un cucchiaio di plastica e, su un lato, il cappello della pagnotta e la mollica estratta. Io ho buttato sia l’uno che l’altra, poi ho visto i veri intenditori che ci facevano la zuppetta, ma in realtà non sapevo dove appoggiarmi, alla fine ho scelto una macchina, perché il circondario era tutto sporco di guano dei gabbiani. Nonostante la scomodità, non ho comunque invidiato tutti coloro che aspettavano di mangiare seduti ai tavolini di ristoranti con menu turistico. Unico neo: mi sono resa conto, mentre mi leccavo i baffi, che i granchi usati per questa delizia sono presi, vivi, da una vasca, e gettati senza complimenti nel calderone. Mi sono sentita un’assassina.

11° GIORNO – 14 AGOSTO (San Francisco) cena: HOUSE OF NAKING (17,32 dollari a testa – cibo eccezionale) indirizzo: 919 Kearny St (Cross Street: Jackson Street) telefono: 001-415-421-1429 internet: Trascorriamo parte della giornata seguendo in macchina le orme del gabbiano che per 49 miglia ci guida, con i suoi cartelli (la sagoma di un gabbiano bianco in campo azzurro), in tutti i luoghi più significativi della città. In questo modo vogliamo darne ai ragazzi una visione d’insieme suggestiva ed esauriente. Logicamente è bene sapere cosa si sta guardando e che zone si stanno attraversando, proprio per comprendere meglio; in questo caso, una buona guida (per noi, la fidata Lonely Planet) e spiegazioni e curiosità raccolte e memorizzate a casa sono sempre utili. Il pennuto non è sempre accurato, a volte perdiamo di vista i suoi cartelli, torniamo indietro, prendiamo iniziative autonome, ma alla fine lo ritroviamo sempre, anche se metaforicamente abbiamo voglia di tirargli il collo. Tanti bei parchi, lungomare frequentatissimi da gente con i cani, con le bici, con i pattini, che fa jogging, campi da golf di tutto rispetto, il Golden Gate, ovviamente, che noi abbiamo fotografato da tutte le prospettive immaginabili. E poi tanti bei panorami, sopra le decine di colline di questa splendida città, il più deludente dei quali, a nostro avviso, è a Coit Tower: c’è la fila per parcheggiare, un piccolo piazzale tondo panoramico con la statua di Cristoforo Colombo, un carrettino tipo quelli che vendono porchetta fuori gli stadi e poi la torre, che era un tempo torre di avvistamento. Abbiamo visto di meglio.

Gironzolando nel quartiere finanziario, molto vivace nelle ore di ufficio dei giorni feriali, al 50 Post Street incrocio Montgomery Street (noi siamo entrati da Sutter Street) ci imbattiamo in una bellissima galleria, CROCKER GALLERIA, http://www.Shopatgalleria.Com/, con un’architettura leggera e trasparente fino al tetto, scale mobili, piante, decine e decine di negozi e ottimi ristoranti di tutti i tipi e le etnie. Davvero una gradita sorpresa.

Castro, il quartiere gay, ci accoglie nel corso di questo nostro peregrinare. E’ allegro, vivace, sicuro, pieno di gente. Troviamo da parcheggiare e passeggiamo crogiolandoci al sole pomeridiano e, per dolorosa associazione di idee, ci ripromettiamo di andare a visitare l’indomani la GRACE CATHEDRAL, dove c’è una cappella interreligiosa dedicata ai morti di Aids, con un trittico realizzato da Keith Haring. Arriviamo così all’ora di cena. Io so già dove andare… Non si può assolutamente lasciare San Francisco senza aver cenato alla HOUSE OF NANKING, a Chinatown, su una strada di grande scorrimento nei pressi della zona finanziaria. E’ un locale con due sale, tavoli senza tovaglia, camerieri indaffarati (qualcuno dice che a volte possono essere un po’ troppo sbrigativi), e una lunga, lunga fila di avventori fuori, di ogni genere e ceto sociale disposti ad aspettare pur di entrare.

Quando ci sistemiamo, i ragazzi guardano smarriti il menu: non c’è traccia di involtini primavera o ravioli al vapore! Arriva mr. Fang, il proprietario di cui ho letto su diverse guide e racconti di viaggio. E’ un bel cinese sulla sessantina, capelli a spazzola brizzolati, abbronzato, bei lineamenti. Una volta certo che per noi fosse la prima volta ci dice: “ci penso io”. Porta via i menu e dà il via a una successione di piatti fantastici, alta cucina cinese. Tra un boccone estasiato e l’altro notiamo sulle pareti le foto firmate con dedica di numerosi chef internazionali (anche italiani) che testimoniano la qualità di questo piccolo locale. Spendiamo anche poco!! Quando usciamo, vediamo che il ristorante vicino è drammaticamente vuoto.

La zona di Chinatown per il resto è molto turistica. Ha sicuramente dei vicoli pittoreschi, stretti e solitari, come suggerisce la nostra Lonely Planet. Ma dopo cena, di sera con due ragazzini, non sappiamo se può essere un azzardo. Decidiamo per il no.

12° GIORNO – 15 AGOSTO (San Francisco-Sequoia National Park) 446 km motel: Sequoia Motel (28,60 dollari a testa) indirizzo: 43000 Sierra Drive Hwy 198, Three Rivers telefono: 001-559-561-4453 internet: http://www.Sequoiamotel.Com/ cena: Riverview Restaurant (17,18 dollari a testa) indirizzo: 42323 Sierra Drive Hwy 198, Three Rivers telefono: 001-559-561-2211 Oggi è di nuovo giorno di bucato. La receptionist ci sconsiglia di utilizzare una laundromat in zona: è troppo a ridosso della parte più povera, e può capitare che qualcuno rubi il bucato in lavatrice. Non mi stupisce. Questa città è piena di homeless, di cui l’amministrazione si prende cura. Bisogna dire che hanno una grande dignità anche quando sono sporchi e laceri e mantengono una certa educazione. Sotto gli stracci si indovinano uomini (a volte anche donne, sebbene in numero minore) non vecchi, e ti chiedi quale percorso di vita li ha portati dove sono ora. Magari un lavoro perduto che ha reso impossibile continuare a pagare un mutuo e l’assicurazione sanitaria, e poi l’alcol, chissà. E li ritrovi a chiedere gentilmente l’elemosina, sempre allo stesso angolo. Il bucato, si diceva. Con la macchina si va verso Nob Hill. Ci fermiamo in quella che adesso è la zona abitata dai polacchi. Un po’ di spesa, troviamo anche i giornali italiani e aspettiamo che sia tutto lavato e asciugato prima di andare alla Grace Cathedral (http://www.Gracecathedral.Org/).

Che strana questa cattedrale! Si entra e, se si vuole, si tolgono le scarpe per un percorso su un grande labirinto rotondo, disegnato su una circonferenza di moquette. Serve per riflettere: sulla propria vita, sulle proprie scelte, sulle proprie aspirazioni. Arrivati al centro ci si siede per meditare, poi si ripercorre il labirinto per uscire. Ci sono diverse persone che lo fanno. Il tutto è molto suggestivo, e piuttosto insolito. Invece della via crucis, sulle pareti agli affreschi raccontano la storia della città di San Francisco, dai primi contatti degli esploratori con i nativi, fino all’incendio dei primi del Novecento e ai giorni attuali.

Commovente la cappella dedicata ai morti di Aids. Sarà retorico, ma è bello vedere insieme la croce cristiana, la mezzaluna islamica, il candeliere ebraico e altri simboli di altre religioni. Superbo, nella sua semplicità, il trittico di Keith Haring. E’ tempo di levare le tende per un intermezzo naturale. I ragazzi sono preoccupati, in fondo sono cittadini e stare in mezzo alla gente a loro piace. Ma il Sequoia National Park ) non può essere ignorato, ed è un’ottima tappa lungo il nostro percorso che ci porterà a sud fino a Los Angeles. Arriviamo a Three Rivers dove abbiamo prenotato il motel, ma non ci fermiamo. Tiriamo dritto verso il parco, che sta a 2500 metri di altezza. La strada che va dall’ingresso alle sequoie più famose è lunghissima, tortuosissima e piuttosto noiosa. Io non mi diverto affatto perché ho paura del vuoto anche se devo riconoscere che anche qui, come altrove negli Usa, si viaggia in sicurezza. Non ricordo di aver penato tanto la volta precedente, ma forse entrammo da nord, dall’adiacente King National Park. Non ricordo. In ogni caso è una possibilità da valutare.

Quando vedi una sequoia per la prima volta capisci che in realtà non puoi dire di aver visto un albero prima di allora. Dire che sono alberi alti è come paragonare una portaerei a un pedalò. Dire che sono larghi è un insulto. Dire che sono vivi, caldi, soffici, quasi amici, è qualcosa che si avvicina anche se di poco alla realtà. La loro corteccia rossa un po’ filamentosa, le loro radici tondeggianti più alte di un uomo, le loro chiome che vanno a salutare le nuvole…Che alberi!! Il “generale Sherman” è la sequoia più famosa al mondo essendo l’essere vivente più vecchio del pianeta: esisteva già ai tempi dei greci e dei romani. Il parco è accogliente, ci si sente un po’ Cip e Ciop. C’è un bel percorso da fare, tra quelli segnalati: è il “Congress Trail”. Si tratta di due miglia pavimentate tra questi giganti buoni e colorati, assolutamente sopportabili anche per due ragazzi un po’ pelandroni. Non ci avviciniamo nemmeno, invece, a una roccia di forma monolitica con degli scalini (tantissimi) che portano su in cima. Facemmo l’esperienza nel ’92 e non abbiamo intenzione di ripeterla. Il panorama che si vede non vale lo sforzo.

Qui, come anche nell’adiacente Kings National Park e allo Yosemite, vivono gli orsi. E’ bene non lasciare in macchina cose da mangiare, non siamo in presenza di simpatici Yoghi e Bubu, qualche mese fa un orso proprio a Yosemite ha ucciso una bambina; in ogni caso sono in grado di rompere i finestrini delle auto se avvertono odore di cibo o se lo vedono. Dicono che sia sufficiente anche l’involucro di una merendina. Bisogna dire però che con tanta gente in giro, di solito si tengono alla larga.

Il Sequoia Motel è di una signora di Los Angeles, Chris, che qualche anno fa ha deciso di vendere la sua casa e di trasferirsi qui, anche per avvicinarsi al figlio che si era sposato. Il motel è grazioso, con una minuscola piscina, la stanza piccola ma di dimensioni accettabili in stile Laura Hasley, con un bagno tappezzato da una carta a rose rosa che sembra uscita da un film inglese. Buona cena in un ristorantino su un torrente, dotato di tavolo da biliardo, che merita una segnalazione: è il RIVERVIEW RESTAURANT. Dopo cena i maschi di casa si cimentano in una partita a biliardo, stringendo “amicizia” con alcuni amichevoli signori del posto.

13° GIORNO – 16 AGOSTO (Sequoia National Park-Los Angeles) 348 km 14° GIORNO – 17 AGOSTO (Los Angeles) 15° GIORNO – 18 AGOSTO (Los Angeles) motel: MARINA DEL REY HOTEL (34 dollari a testa per notte) indirizzo: 13534 Bali Way, Marina del Rey, Los Angeles telefono: 001-310-301-1000 internet: http://www.Marinadelreyhotel.Com/location.Asp cena: Sunset Bar & Grill (19,67 dollari a testa) – mediocre indirizzo: 1240 3rd street promenade telefono: 001-310-395-7012 cena: California Pizza Kitchen (16,95 dollari a testa) – ottimo indirizzo: Marina Waterside Center, Marina del Rey telefono: 001-310-301-1563 internet: http://www.Cpk.Com/ Colazione da WE THREE. E’ un locale gestito da tre ragazze che si trova appena un paio di curve dopo il nostro motel. Decidiamo di farci del male e di ordinare uova e bacon, così potremo arrivare senza problemi alla cena di stasera, a Los Angeles.

Prendiamo la Hwy 198, la Hwy 99, la Interstate 5, la Interstate 405, la Hwy 90. Strade dritte, sempre dritte, e molto trafficate. Attraversiamo di nuovo le montagne, che poi diventano colline, che poi si frantumano in un ventaglio di autostrade accavallate, sovrapposte, moltiplicate: siamo a Los Angeles.

E’ fondamentale non perdersi in una città come questa. Quindi, è essenziale possedere una mappa come si deve. Noi casualmente ne abbiamo acquistato una che si è rivelata ottima: CITY IN YOUR POCKET DETAILED STREET MAP OF LOS ANGELES AND HOLLYWOOD della Global Graphics (3,99 dollari più tasse).

Sappiamo che le zone malfamate si trovano a est; quelle più tranquille sono al mare. Non a Venice, però, che dopo il tramonto è impraticabile e pericolosa, e nemmeno a Santa Monica, che è molto carina ma piuttosto cara. Andiamo dunque alla vicina Marina del Rey dove si trova il porticciolo turistico privato più grande del mondo. Il nostro albergo, e la nostra stanza in particolare, si affaccia proprio su yacht a vela e a motore placidamente ormeggiati al riparo dalle onde del Pacifico. Stanza grande, piscina, dolcetti la sera nella hall quando si rientra, palme, un bel parcheggio, prezzo assolutamente abbordabile. Per gli spostamenti interni a questa enorme città è stato bravo mio marito, il quale ha insistito per evitare le autostrade che l’attraversano, e per prendere invece le strade normali: questo trucco ci ha permesso di scoprire e apprezzare una Los Angeles che nel viaggio precedente avevamo del tutto ignorato. Los Angeles infatti è una metropoli dai mille volti, è come se fossero 80 città messe insieme, quindi si capisce che a prima vista possa apparire appaia di difficile comprensione, dispersiva, disumana, auto-dipendente. Eppure… – abbiamo scoperto che Hollywood non è quel quartieraccio da evitare come noi pensavamo: la valanga di dollari investiti per il suo risanamento ha dato i suoi frutti e ora Hollywood è un quartiere vitale e divertente, con il Chinese Theatre e le impronte dei grandi attori di ieri e di oggi, con le stelle impresse sul marciapiedi, gli improbabili sosia di Elvis che si aggirano tra la gente che passeggia, che si fotografa, che entra ed esce dal miglior negozio della Virgin che abbia visto negli Usa (e dire che ne abbiamo girati, in questo viaggio, con i ragazzi che ci hanno trascinato città per città a visitarli tutti, in una sorta di via crucis musicale).

– abbiamo girovagato e pranzato a West Hollywood (ristorante THE ABBEY 692 N. Robertson Blvd, 16,62 dollari a testa; telefono 001-310-289-8410. Internet: http://www.Abbeyfoodandbar.Com/tour.Php. E’ un tranquillo e affascinante locale gay aperto all’etero che gode di un bellissimo patio arabo e di un menu che mixa sapori messicani, asiatici e italiani. Assolutamente praticabile anche con i ragazzi, almeno di giorno. Da provare. Evitare la Ceasar Salad, non è un granchè e il parmigiano non lega con gli altri gusti).

– abbiamo scoperto la zona degli antiquari – abbiamo lanciato sguardi furtivi alle ville di Beverly Hills e fatto l’orribile passeggiata d’obbligo per Rodeo Drive e Via Rodeo.

Se proprio vi sentite obbligati a calcare le orme di Julia Roberts in “Pretty Woman” quando va a fare acquisti nella famosissima quanto fintissima strada, che comunque al numero 328 vede l’Anderton Court Center, progettato da Frank Lloyd Wright, meglio dirigersi verso una delle traverse e affidare la macchina a un car-valet: per pochi dollari non avrete lo stress del parcheggio e soprattutto quando vi riporteranno l’auto dal garage la troverete fresca.

Altrimenti cercate i parcheggi comunali: meglio ancora, perché sono gratis per le prime due ore. L’indicazione è: Brighton Way, oppure all’angolo tra Rodeo Drive e Santa Monica Boulevard. Noi però non li abbiamo trovati e, a dire la verità, avevamo poca voglia di girare, i ragazzi protestavano perché non avevano ancora fatto colazione. Attenzione: non so come, arrivando in zona ci siamo imbattuti in un’altra Rodeo Drive, ma non abbiamo abboccato. Era infatti in una zona residenziale, e noi sapevamo che invece sulla strada “vera” ci sono i negozi delle maggiori firme del mondo e un sacco di gente (vestita malissimo) che guarda le vetrine. Poco divertente, ma per non fuorviarvi devo confessare che a me proprio non piace andare per vetrine, quindi il mio è un giudizio prevenuto.

Avevo letto da qualche parte, suscitando l’interesse dei ragazzi, che avremmo potuto trovare la ‘Star Home Map’, una piantina dove sarebbero segnalate le case degli attori che vivono a Beverly Hills. In realtà non l’abbiamo trovata. D’altra parte, sottolineava il rappresentante del Visitor’s Center, riconoscibile per strada perché vestito come un incrocio tra un maggiordomo, il Grillo Parlante e Babbo Natale, sarebbe stato strano trovarla: quale garanzia per la privacy e la sicurezza dei proprietari avrebbe offerto una mappa del genere? A Los Angeles, bisogna dire, abbiamo fatto i turisti nel senso più tradizionale, scontato, banale, bieco del termine. Ma alla fine ci siamo divertiti non prendendoci sul serio. Proseguendo… abbiamo dato la caccia alla strada da cui si vede, proprio dritto davanti a sé, l’Hollywood Sign, cioè la famosa scritta HOLLYWOOD.

Arrivare sotto alla scritta non è possibile: l’accesso è interdetto, la collina è recintata e sorvegliata con telecamere. Ma niente paura: individuate Beachwood Drive, all’altezza di Hollywood, e percorretela verso nord. Sarà la scritta a trovare voi.

E ancora: – abbiamo fatto una puntata agli UNIVERSAL STUDIOS (http://themeparks.Universalstudios.Com/hollywood/website/); non mancate assolutamente il giro sul Trenino e “Ritorno al Futuro”.

Una volta arrivati ai parcheggi degli Studios, un addetto all’ingresso tenterà di dirigervi verso quello con la tariffa più alta, avvertendo che il parcheggio meno caro è “molto lontano” dall’ingresso del parco a tema. Noi non ci siamo fidati e abbiamo fatto bene; in realtà abbiamo impiegato tre o quattro minuti per entrare.

Quando fate la fila al botteghino per acquistare il biglietto di ingresso, guardatevi intorno e drizzate le orecchie. Ci sono aziende che di volta in volta sponsorizzano il parco e offrono coupon che danno diritto a sconti. Noi, per esempio, invece di pagare in quattro 236 dollari, ne abbiamo spesi esattamente la metà, perché i ragazzi sono entrati gratis. Portatevi acqua e panini. Dentro costano una cifra indecente, specialmente le bottigliette di acqua.

Il giro sul trenino fatelo per primo. C’è meno fila su quello con guida in lingua spagnola rispetto a quello con guida in lingua inglese. Ma NON SCEGLIETE lo spagnolo perché in alcuni momenti si sovrappongono frasi in inglese con la traduzione spagnola, e specialmente in punti concitati (con musica adeguata) come quello dell’incontro ravvicinato con King Kong il risultato è assolutamente di grande confusione. Meglio fare un po’ di fila in più e prendere il trenino inglese.

– abbiamo saltato il parco di Disneyland perché lo avevamo già visitato a Parigi. – abbiamo fatto un giro nella decadente VENICE da cui siamo andati via con la sensazione di aver perso metà del nostro pomeriggio. E’ nettamente peggiorata negli anni. Non abbiamo trovato nemmeno l’ombra dell’atmosfera non dico dei tempi dei Doors, ma di 14 anni fa. L’unico aspetto che ci ha colpito positivamente è stato la grande cura dell’amministrazione che ha dotato questa zona di campi da basket, da tennis, pallavolo, squash-a-mano (si dice così?), area attrezzi, docce, spogliatoi, piste ciclabili. Tutto gratuito. Si trova fra l’Ocean Front Walk e l’immensa spiaggia lambita dal Pacifico.

– abbiamo passato qualche ora la sera a SANTA MONICA, dove si passeggia e si cena in una deliziosa zona pedonale proprio di fronte all’oceano e alla pista ciclabile che arriva fino a Marina del Rey e oltre. – abbiamo fatto colazione a MANHATTAN BEACH e letto le cronache della spiaggia. – abbiamo ammirato i surfisti a HUNTINGTON BEACH, soprannominata “Surf City”, dove la zona residenziale è deliziosa e dove sull’enorme spiaggia si ha un’idea del modo di vivere della SoCal (South California): ragazzi e ragazze molto belli, molto abbronzati, molto sportivi, musica, surf, beach-volley (andate a giocare, è free, fatevi prestare una palla) e via così, con un pontile con la rotonda in fondo, sopra le onde. Il bello dell’America è che, man mano che la si vive, nella vostra mente si sovrappongono la realtà con tutti i film e i libri che avete visto e letto.

Purtroppo, per stanchezza e per pigrizia, non siamo andati a fare il picnic la sera a HOLLYWOOD BOWL (http://www.Hollywoodbowl.Com/), sede della Los Angeles Philarmonic Association. E’ una sorta di parco della musica, tipo Auditorium di Roma o meglio ancora, visto che è all’aperto, come quello che si trova a Chicago nei pressi del lago. I losangelini hanno l’abitudine di consumare il picnic nelle zone attrezzate intorno all’auditorium prima di ascoltare la musica, solitamente classica (ma non sempre). E’ un posto molto bello. Noi non l’abbiamo visto, purtroppo. Andateci voi.

Delle nostre tre cene a Los Angeles segnalo: – in negativo, il Sunset Bar & Grill a Santa Monica: servizio lento, pizza orribile, da lasciare. Peccato, perché la zona è deliziosa. Si posteggia per 6 dollari la macchina in un garage vicino l’oceano e si percorre il cuore pedonale di questa gradevolissima zona di Los Angeles, cioè la 3rd Street: bei negozi, atmosfera allegra, ristorantini sicuramente migliori del nostro. Informatevi, perché in estate al Santa Monica Pier, (incrocio Colorado e Ocean drive) servito dal Big Blue Bus, (http://www.Bigbluebus.Com/busroutes/index.Asp), spesso c’è musica e ballo gratis.

– in positivo, il California Pizza Kitchen, a Marina del Rey. Un posto talmente carino, con un servizio così attento e una pizza così buona, che siamo tornati anche la seconda sera. Non ho mancato di fare i complimenti al manager del ristorante per la bravura del pizzaiolo. All’entrata, come in ogni ristorante negli Usa, i camerieri ti indirizzano al tuo tavolo; in questo locale, se c’è da attendere, viene consegnato un aggeggio con una suoneria che avverte quando è il proprio turno. In questo modo si è liberi di curiosare nei negozi dei dintorni (per lo più di nautica) durante l’attesa.

16° GIORNO – 19 AGOSTO (Los Angeles-Las Vegas). 464 km.

motel: NEW FRONTIER (17 dollari a testa per notte) indirizzo: 3120 Las Vegas Blvd. South telefono: 001-702-794-8200 oppure 1-800-634-6966 internet: http://www.Frontierlv.Com/ cena: DENNY’S (12,41 dollari a testa) indirizzo: 3397 Las Vegas Blvd. telefono: 1-800-733-6697 internet: http://www.Dennys.Com/en/ cena: RIALTO DELI IN VENETIAN indirizzo: 3355 Las Vegas Blvd.

telefono: 001-702-414-3646 Cominciamo ad accusare i limiti di un dieta disastrosa, cui non possiamo sfuggire più di tanto. Lo capiamo dal fatto che, in viaggio verso Las Vegas, sulla Interstate 405, i ragazzi evocano pasta con il pesto, mozzarella e pomodori, addirittura pasta e lenticchie. Matteo, che già a Roma faceva i conti con i primi brufoli dell’adolescenza, assiste con orrore all’espandersi del fenomeno; a Claudia, sebbene più piccola, è spuntato sulla fronte quello che abbiamo subito soprannominato “il terzo occhio”. A Las Vegas facciamo in modo di arrivare di sera, quando il contrasto fra il buio del deserto e le luci di questa pazza città è al massimo. Siamo un po’ troppo veloci, arriviamo in vista già al tramonto, ma che roba! I colori sono straordinari, dal giallo al violetto, il cielo sembra fatto a strisce orizzontali, in cuffia sull’Mp3 i ragazzi stanno ascoltando Zucchero (“Diamante”) e ci passano gli auricolari a turno per condividere con noi la magia del vedere e dell’ascoltare. Bene.

Avete mai visto Las Vegas? Solo nei film? Come se non l’aveste vista.

Ci siete già stati anni fa? Non la riconoscerete.

Noi, che pure eravamo rimasti allibiti tanti anni fa, ora dobbiamo sfregarci gli occhi.

A Las Vegas o non ci si va, oppure ci si va dimenticando però di essere europei, di avere un senso della misura, un senso del ridicolo, un senso del limite. Bisogna andarci con lo spirito di un ragazzino che non si stupisce di niente, anche se, di fronte a tanto kitsch, è inevitabile restare perplessi..

Inoltre: Las Vegas per Las Vegas, tanto vale prenotare un albergo sulla Strip, che è la strada dei grandi casinò. Se riuscite a capitarci durante la settimana sappiate che troverete prezzi stracciati. La logica è: tanto li spenniamo ai tavoli da gioco! Comunque cercate un albergo con piscina perché con il caldo che fa potreste sentirne il bisogno, a meno che non siate giocatori incalliti, che stazionano ai tavoli da gioco tutto il giorno. Non appesantite la vostra valigia con teli di spugna: ve li forniscono direttamente in albergo. Non potendoci permettere, in quattro, un albergo tra i più lussuosi, optiamo per il New Frontier: sta sulla Strip a un passo dal Treasure’s Island, dal Venetian e dal Mirage, quindi è proprio al centro dello struscio cittadino. Tuttavia, pur essendo stato ristrutturato da cima a fondo recentemente, un po’ età la dimostra essendo stato costruito nel 1956. Insomma, non è scintillante e dotato di diavolerie come i suoi fratelli più nuovi. Ma ha la piscina, ristoranti, un piccolo casinò. La nostra stanza e il nostro bagno sono davvero grandi e comodi, la parete tutta vetrate dà sulla Strip. Ci fanno anche uno sconto di oltre 65 dollari, non abbiamo ben capito perché.

Pur avendo minori al seguito potrete entrare nei casinò, non fosse altro perché fanno parte integrante dell’albergo e non potrete evitarli (in teoria siete lì per farvi spennare). L’importante è che i ragazzi non sostino nelle zone dove si gioca. Vale a dire: possono transitare, passeggiare, ma mai fermarsi. I nostri lo hanno fatto per un attimo, me presente, e subito si è materializzato un inserviente che ci ha pregato di non sostare. (efficiente quanto ipocrita, così come lo sono parecchie cose in questo Paese. Tipo: non puoi bere alcolici sotto i 18 anni ma puoi andare in guerra giovanissimo. Se hai una birra per strada la devi nascondere in un sacchetto di carta anche quando bevi, ma puoi acquistare armi senza troppi problemi…) Las Vegas è la patria del “all you can eat”, cioè paghi una cifra fissa e mangi tutto, ma proprio tutto ciò che vuoi servendoti ai grandi buffet dei casinò. Ma qui dipende da quanti siete e soprattutto per quanti pagate. In genere la cifra fissa è intorno ai 15-18 dollari. Che per una cena, per una singola persona, non è male. Se devi però moltiplicare per quattro diventa più conveniente un qualsiasi Denny’s o altro che si trova lungo la strada o nei bar degli alberghi.

Il capitolo macchina a Las Vegas richiede una riflessione. Bisogna accettare il fatto che un pedone stanco cammina più velocemente delle auto sulla strip. Quindi è del tutto inutile mettersi al volante. Alcuni alberghi sono collegati da tapis roulant; un paio hanno una navetta. Morale: si deve camminare. Tutt’al più se si viene da un motel al di fuori della Strip e si usa necessariamente l’auto, una buona idea è parcheggiare nel garage di un albergo, visitarlo, poi spostarsi a un altro parcheggio e così via. Tanto nessuno verrà mai a controllare se soggiornate lì o se state giocando.

Non mancate per niente al mondo il Venetian (http://www.Venetian.Com/shoppe/index.Cfm). Ci ha lasciato senza fiato. E’ lì che abbiamo mormorato “questi americani sono proprio fuori di testa”. All’interno, al primo piano, ci sono i canali con le gondole (fatte costruire appositamente a Venezia) con la gente che fa il romantico giro testa contro testa, mentre a poppa il gondoliere rema e canta canzoni italiane; ci sono le calli e le corti, i negozi di cristalli di Murano e Venini, i ristorantini sull’acqua dove si può cenare, e i bar. Ma soprattutto…C’è il cielo! Celeste, con sbuffi di nuvolette bianche primaverili…Mentre fuori è notte. E’ finto, insomma, dipinto, ma sembra proprio vero, abbiamo dovuto fotografare dei piccoli bottoncini sul cielo per testimoniare l’inganno. Come “Truman Show”. Per gente che magari in Italia e a Venezia non verrà mai, farsi fotografare con Rialto sullo sfondo dà evidentemente una qualche soddisfazione…E questo per noi è stato fonte di numerose riflessioni.

Abbiamo mangiato velocemente al Deli che si trova al piano di sotto, vicino il casinò. Pochi dollari, ma si può fare. Volendo spendere di più, i ristoranti disseminati lungo i (finti) canali non offrono che l’imbarazzo della scelta.

17° GIORNO – 20 AGOSTO (Las Vegas) Con tutta calma andiamo a restituire la macchina che ci ha scarrozzato per migliaia di chilometri. Informandomi su Internet, a Roma, avevo trovato un posto comodo, a due passi dal nostro albergo: il garage del Treasure’s Island. Lasciata la macchina io e i ragazzi ce ne andiamo a rinfrescarci in camera, a sonnecchiare e a guardare la tv mentre mio marito tenta la sorte al casinò (con fortuna!!); poi, quando il sole abbandona la piscina scendiamo a nuotare e sguazzare, prima di tornare su per preparare i bagagli: dobbiamo fare attenzione, perché ormai ci sono misure rigidissime. Tutto ciò che riguarda l’igiene personale, la barba, il trucco, le medicine, deve finire in valigia. Non solo: vanno messi dentro anche i souvenir della collezione di palle di neve di mio figlio, e senza che si rompa niente. Morale, riempiamo una sacca (che andrà come bagaglio a mano) di magliette e biancheria sporca, che a quel punto in valigia non sarebbero entrate. Tanto a New York dovremo fare una lavatrice. 18° GIORNO – 21 AGOSTO (Las Vegas-New York) motel: Park Savoy Hotel (38,75 dollari a testa per notte) indirizzo: 158 W. 58th Street telefono: 001-212-245-5755 internet: cena: DIM SUM GO GO indirizzo: 5 East Broadway, tra Catherine Str. E Chatman Sq.

telefono: 001-212-732-0797 internet: Sveglia alle 5:00. L’aereo è alle 8:00. Lascio nel beauty un minuscolo dentifricio, nel caso volessimo lavarci i denti dopo la colazione in aeroporto: in albergo infatti la breakfast room apre solo alle 6:00, quindi ci indirizziamo allo Starbucks Coffee all’interno del McCarran International Airport. Un cioccolato caldo e un muffin a persona per 5,69 dollari, 22,76 in tutto. Un po’ eccessivo per una colazione veloce, no? Fatto sta che poi mi dimentico di riporre altrove o eliminare questo benedetto dentifricio, e ciò fa scoppiare una sorta di “allarme rosso”.

Chiedono di chi è il bagaglio smascherato dai raggi X, aspettano che io raccatti la mia roba dal nastro, mi esortano a rimettere velocemente le scarpe e allacciarle più tardi, poi di fronte a me, con i guanti di lattice, aprono. Quando trovano l’oggetto dimenticato e potenzialmente pericoloso la sensazione che si prova è di sentirsi un deficiente (ma come, non lo sai che devi togliere tutto?). Noi comunque ci scusiamo e ringraziamo, visto che, esagerati o meno, questi signori lavorano per rendere più sicuri (almeno si spera) i nostri voli.

Quattro ore e mezza dopo il decollo, ci posiamo sul suolo di New York, al JFK International Airport. Per noi del Nevada sarebbe mezzogiorno e mezza, in realtà a causa del fuso sono le 15:30. Prendiamo un taxi per Manhattan. Avevamo ragionato sull’opportunità di andare con la navetta, con la metro, con il bus (http://www.Panynj.Gov/aviation/jfkframe.HTM). Ma calcolando che siamo quattro e il portafoglio è unico, ci conviene il taxi. Meno male, è anche più comodo.

L’albergo è proprio di fronte a Central Park, all’incrocio fra la 58ma e la 7ma. Una posizione migliore non si poteva desiderare, e questo ci compensa di tutto il resto. Sì, perché la stanza è minuscola ed è occupata quasi per intero dai due letti matrimoniali, l’affaccio delle due finestre è sul muro del palazzo di fronte, il bagno ha solo il davanzalino interno per poggiare le cose e la doccia si limita a schizzare facendoci rimpiangere quei getti fantastici che abbiamo trovato nei motel nel deserto.

Se avete capacità e/o volontà di spesa maggiori, concedetevi un soggiorno al Library Hotel: è una delizia ed è assolutamente lontano dalla banalità. Si trova al 299 Madison Avenue e 41ma strada. Telefono 212-983 4500; toll free: 877-793 7323. Internet: www.Libraryhotel.Com. Ogni piano di questo albergo ha biblioteche dedicate a un differente argomento: scienze sociali, linguaggio, scienze, tecnologia, arte, letteratura, storia, conoscenza, filosofia, religione. Nelle stanze di ogni piano si trovano libri appartenenti a una sotto-categoria. Terrazza “Giardino dei poeti”, attrezzata anche come giardino d’inverno, e Terrazza “Writer’s Den”, affacciata sui grattacieli di Midtown. Da non mancare. Il prezzo si aggira attorno ai 150 dollari a testa per notte.

Torniamo a noi. Tra una cosa e l’altra usciamo che sono le 18:00. Andiamo a Chinatown, (molto, ma molto meno turistica di quella di San Francisco) dove facciamo una cena timida al Dim Sum Go Go, consigliato dalla Lonely Planet. In tutto e per tutto non c’è l’atmosfera del cinese di San Francisco, non fosse altro perché manca mr. Fang e i suoi strepitosi piatti; inoltre nostro figlio stasera sta malissimo per un mal di testa. Mangiamo bene, comunque, ma ci teniamo bassi. Ci indirizziamo sui soliti roll (tipo involtini primavera ma più piccoli e gustosi), sui dumpling (ravioli al vapore) e riso bianco. Non osiamo altro.

Usciamo, nostro figlio sta meglio. Decidiamo di rimanere fuori e andare a Brooklyn.

Una sera vale la pena di fermare un taxi e andare a Brooklyn, a Water Street, proprio sotto al ponte e di fronte allo skyline di Manhattan che, sebbene dolorosamente orfano delle torri gemelle (e chi le ha viste in visite precedenti non può che sentire una stretta allo stomaco tornando adesso), è sempre spettacolare. Qualsiasi cosa vogliate fare, cenare o no, venite al crepuscolo.

Una volta a Brooklyn avete due possibilità: 1) cenare; 2) non cenare 1) Se cenate. Prenotate al River Cafè (http://www.Rivercafe.Com/). Se non ci siete mai stati non perdetelo. Si è visto nel film “A family man” con Nicholas Cage, quando lui stupisce la moglie portandola lì a cena per l’anniversario di matrimonio. E’ un barcone piuttosto chic con vetrate fino al pelo dell’acqua che ti catapultano verso Manhattan, pianoforte e luci basse, atmosfera tipo commedia sofisticata di Woody Allen. Il posto è magico, si gode al massimo se si è senza figli. Per l’uomo serve la giacca. Informatevi per la cravatta, ma niente paura: di solito nei locali eleganti ne hanno sempre alcune a disposizione da prestare agli ospiti. Bisogna prenotare. Al River Cafè si può andare anche il pomeriggio per un gelato o un aperitivo, o la domenica mattina per il brunch, ma non fatevi incantare, il pezzo forte è la sera!! E non lasciatevi fuorviare da eventuali tassisti solerti: vicino al River Cafè ci sono anche altri locali, ma nessuno ha lo stesso charme e la stessa vista. Noi ci eravamo già stati quando eravamo solo una coppia e quando ancora esistevano le torri gemelle (uno spettacolo da togliere il fiato, di notte); per questo motivo prima di partire avevamo deciso che stavolta avremmo passato la mano. Oltretutto, con ragazzi al seguito, il romanticismo ne avrebbe comunque risentito.

2) Se non cenate. Sostate sulla piattaforma che si trova a fianco del River Cafè. E’ piena di gente. Lì si guardano gli effetti del trascorrere del tempo sul panorama della città. Più si fa buio, più tutto per contrasto diventa scintillante. Foto finchè è possibile, poi un bel gelato al baretto che si trova lì e passeggiata di ritorno a Manhattan lungo il ponte di Brooklyn.

Il ponte di Brooklyn (http://www.Xplorenewyork.It/davedere.Asp?attrazione=18) rivela una sua anima pedonale inaspettata e molto interessante. Del resto quando è nato, nel 1883, le macchine non erano ancora le protagoniste delle strade. Al di sopra delle carreggiate c’è il ponte dei pedoni, dei ciclisti, dei roller. Un’umanità variegata percorre il ponte anche di sera rendendo la passeggiata assolutamente tranquilla sul fronte della sicurezza. Grazie alla lentezza del pedone, si entra nel “paesaggio” e si può notare come dalla parte di Brooklyn stiano ritornando alla vita palazzi finora abbandonati, e ora riciclati in versione chic sottoforma di loft. E infatti proprio Brooklyn sta attirando da Manhattan un gran numero di artisti e musicisti, cosicché il quartiere è diventato molto vivace e, per ora, più conveniente di downtown. 19° GIORNO – 22 AGOSTO (New York) cena: TIO PEPE (26,82 dollari a testa) indirizzo: 168 West 4th Street, tra la 6th e la 7th Avenue telefono: 001-212-242-6480 internet: http://www.Tiopepenyc.Com/index.Htm Per noi New York è quasi un ritorno a casa, essendoci stati diverse volte negli anni passati, per lavoro o per vacanza. E’ naturale quindi che questo soggiorno sia più tranquillo, libero dall’ansia di vedere cose che già conoscevamo: per esempio, non giriamo per musei; per esempio, non andiamo alla Statua della Libertà; per esempio, non facciamo lo shopping sfrenato e un po’ cafone che a volte distingue gli italiani negli Usa; per esempio, non saliamo sull’Empire State Building.

Le Torri, ahimè, non ci sono più, ma a GROUND ZERO ci andiamo. E ci commuoviamo. Di nefandezze nella mia vita ne ho sentite, ne ho viste e (per lavoro) ne ho raccontate tante, ma la tragedia dell’11 settembre mi ha colpito come niente mai prima di allora. Neanche la strage alla stazione di Bologna del 1980 e l’assassinio di John Kennedy nel 1963, quando ero bambina, mi schiaffeggiarono come le Twin Towers. E proprio nel punto dove io, con la macchina fotografica, per riprendere mia madre e la cima delle due Torri mi dovetti sdraiare (sì: sdraiare) sul marciapiede, ora c’è un grande buco. Non c’è più il ristorante all’ultimo piano dove andai con mio marito prima che diventasse mio marito. Ora al posto delle Torri, al posto delle persone che ci stavano dentro e al posto dei miei ricordi c’è un grande buco. E di fronte al grande buco c’è la stazione dei pompieri. E dentro la stazione dei pompieri c’è una targa che ricorda coloro che morirono quel giorno per tentare di salvare quanta più gente possibile. E ci sono due caschi, recuperati, loro sì: anneriti, distorti, quasi fusi. Ecco le lacrime che affiorano, che premono. Dice il tassista che ci ha portato lì: “non c’è un abitante di New York o dei dintorni che non abbia avuto un parente, un amico, un conoscente che non sia stato lì dentro o che non vi sia morto”. Lui è stato fortunato: suo genero fu tra le ultime dodici persone uscite da una delle due Torri prima del crollo.

Nei giardinetti lì intorno, dove gli impiegati si siedono a mangiare uno spuntino all’ora di pranzo, ce n’è uno speciale. Anche lui seduto sul gradino di un’aiuola, anche lui con la 24 ore ai piedi, aperta, dentro la quale si intravedono incartamenti, il telefonino, le penne, anche lui in giacca e cravatta. Solo che è di bronzo. Lui non si muove. E’ un commovente monumento a tutti gli impiegati che quel mattino andarono a lavorare e non tornarono più a casa.

Che delusione tornare a Wall Street (ma se per voi è la prima volta, andateci)! Sapevamo già che per motivi di sicurezza non si può più entrare al New York Stock Exchange e che quindi non avremmo potuto portare i ragazzi dentro, ad assistere alle contrattazioni di Borsa come facemmo noi tanti anni fa con sorprendente eccitazione. Ma non eravamo preparati al senso di claustrofobia che ci ha sorpreso, a causa delle transenne e della polizia presente in forze. Inutile dire: la ferita di questa città non è ancora lontanamente rimarginata. Ma forse noi siamo delusi perché non abbiamo ritrovato l’eccitazione provata tanti anni fa in questo posto, lo stesso dove fino al 1792 le transazioni commerciali si svolgevano all’aperto, all’ombra di un albero, e dove ancora oggi si muovono miliardi nel giro di un bip.

Non voglio però lasciarmi prendere la mano. Non mi azzardo a indicare itinerari, luoghi o percorsi a New York. Ognuno la deve girare o rigirare a seconda delle proprie esigenze. Del resto sono troppi i posti degni di nota, meglio affidarsi ai propri gusti, alla fortuna e a una buona guida. Io posso solo continuare a segnalare ciò che abbiamo o non abbiamo fatto (per esempio, rimpiangiamo di non essere andati a visitare Ellis Island – http://it.Wikipedia.Org/wiki/Ellis_Island).

Da diversi viaggi a questa parte, per avere una prima visione di insieme di una città abbiamo adottato un sistema molto molto turistico ma decisamente efficace: l’uso dei bus HIP ON HIP OFF. Si paga una cifra fissa all’inizio e poi con il bus turistico a due piani (quello sopra scoperto) per 24 o 48 ore consecutive si può girare la città con la guida che attraverso il microfono illustra le cose più interessanti. Si può scendere a qualsiasi fermata e si può risalire quando si vuole. In questo modo si elimina anche il problema dei trasporti cittadini.

Trovate il tempo per fare una visita all’Onu. Al di là di ogni giudizio di merito sull’efficacia o meno del suo ruolo, il luogo trasuda simbolismo. E’ piaciuto a tutti, grandi e piccoli.

Sembra scontato, ma è sempre bene ripeterlo: MAI E POI MAI andare a Central Park di sera.

E’ invece stimolante viverlo durante il giorno. C’è di tutto: gente che fa footing, che prende il sole, che gioca a frisbee, va in bici, fa ginnastica, va sui pattini. C’è il laghetto, punti dove si ascolta musica. C’è un bellissimo ristorante, Tavern on the green ); non è a buon mercato ma ci si può andare per un brunch. A sera ce ne andiamo al Village: la nostra guida all’Onu (figlia di amici, che sta facendo uno stage proprio alle Nazioni Unite) ci aveva consigliato un ristorante ispano-messicano, il TIO PEPE, e suggerito di ordinare la guacamole (purea di avocado), che ci viene preparata lì per lì dal cameriere e servita con deliziose tortillas. Ottima e freschissima la paella alla valenciana. Atmosfera soft e amichevole, vetrate aperte sulla stradina. Usciamo soddisfatti.

20° GIORNO – 23 AGOSTO (New York) cena: 1657 BROADWAY DELI (11,50 dollari a testa) indirizzo: 1657 Broadway Lasciate da parte le visite obbligate, ci godiamo le nostre giornate passeggiando alla scoperta di quartieri come Soho, la borghese Upper West Side e l’elegante Upper East Side; occhieggiamo il Dakota Building ricordando ai ragazzi John Lennon che lì vi abitava e che lì venne assassinato 26 anni fa; ammiriamo lo Strawberry Field, piccolo parco alla memoria di John che prende il nome da una delle canzoni dei Beatles, e che la vedova Yoko Ono si è impegnata a mantenere; scoviamo il famosissimo Flatiron Building con la forma di un ferro da stiro, e così via… Se siete in città tra la domenica e il venerdì, potete andare a dare un’occhiata, dalle 23:00 in poi, al mercato del pesce che si tiene proprio in riva all’acqua. Non ricordo l’indirizzo, comunque è dalle parti di South Street Seaport, Lower Manhattan.

La Statua della Libertà non è praticabile per motivi di sicurezza dopo l’11 settembre; il giro di Manhattan con il traghetto è, a mio parere, troppo lungo e dopo un po’ anche noioso. Oltretutto non ci sono nemmeno più le Torri la cui vista toglieva il respiro quando si incrociavano le acque nella parte meridionale dell’isola; ciò che si può fare, in modo veloce ma appagante (ed economico), è prendere al tramonto il Ferry per Staten Island. Impiega 25 minuti ad andare e 25 minuti a tornare. Non si paga nulla, è gratis! Se vi sedete sul lato destro del battello, che dalle 6:30 alle 24:00 parte ogni mezz’ora, non solo vedrete il sole tramontare in compagnia dello skyline, ma assisterete alla magia delle mille luci della città che si accendono. Cosa chiedere di più? Se e quando passeggerete per West Side, cercate di capitare al 2245 di Broadway e l’80ma Street: c’è Zabar’s. Noi non ci siamo stati, quindi riporto esperienze altrui, tutte estasiate. Dolci a non finire, salumi, formaggi, un pane afgano che dicono sia la fine del mondo, il miglior salmone affumicato di New York City, tea, yogurt, minestre, torte salate. Ottimi i prezzi. Al 2239 c’è H&H Bagels: i suoi bagel, da provare caldi o tostati, vanno su ordinazione in tutto il Paese.

Per quanto ci riguarda, un po’ di shopping non manca, ma è discreto. Una sciocchezza da Tiffany, tanto per raccontare la trama del film ai ragazzi, un pupazzone da F.A.O. Schwarz, scarpe da basket a Niketown, qualche pensierino per gli amici del cuore dei figli, immancabili le cartoline e le palle di neve che andranno ad allargare le nostre collezioni domestiche. Cose così. E se invece voi siete agguerriti shopper? Se siete partiti con un borsone vuoto e l’intenzione di riempirlo prima di rientrare in Italia? E’ bene sapere che New York non è il massimo della convenienza, non fosse altro perché ha l’IVA piuttosto alta. Un giro per gli outlet dovrebbe soddisfare la smania di spendere. Ecco un bel sito che ho trovato al riguardo: http://www.Outletbound.Com/usa50.Html Un’idea per cena, appagante e a buon mercato soprattutto se siete in quattro, è il DELI (abbreviazione di DELICATESSEN), una sorta di drogheria che è anche self-service, ci si può sedere e mangiare bene con poco.

Noi ci imbattiamo nel 1657 BROADWAY DELI, scendendo dall’animatissima Columbus Circle verso la sfavillante Time Square. Entriamo quasi per caso, ma poi veniamo magneticamente attirati al centro del locale dai colori che ci occhieggiano dal lunghissimo bancone per il self service: il rosso dei pomodorini ma anche delle fragole, il verde di tante insalate, ma anche dei kiwi, il giallo del melone ma anche del mais, l’arancio dei meloni, il bianco delle mozzarelle…No, quelle sono uova sode, le mozzarelle solo in Italia. Non c’è bisogno di consultarci, stasera si cena qui. Ai tavolini tipo rosticceria nostrana siede gente apparentemente del quartiere, poi ci siamo noi e un’altra famiglia europea, francese per l’esattezza, con altrettanta evidente voglia di cibo fresco. A questo punto, se siete in zona, ancora pochi passi verso sud e fate una capatina al Marriot. Noi ci siamo finiti per una pipì improvvisa di Claudia. Il Marriot (http://marriott.Com/property/viewallphotos/nycmq) ha degli ascensori fenomenali, vanno assolutamente provati: sono dei siluri trasparenti che, nell’atrio dell’albergo, schizzano verso l’alto o verso il basso lungo una colonna centrale. Si digita il piano a cui si vuole arrivare (il più alto, è ovvio) e automaticamente viene segnalato il primo ascensore che si renderà disponibile. Escludete l’unico (o gli unici due, non ricordo) che corre all’interno della colonna, e che quindi non è panoramico, e fate su e giù a velocità pazzesca fino a quando il senso del ridicolo non vi richiama all’ordine.

21° GIORNO – 24 AGOSTO (New York-Roma) spuntino: OYSTER BAR (1,79 dollari per un’ostrica) indirizzo: Grand Central Station, Lower Level, Vanderbilt Avenue and 42nd Street telefono: 001-212-490-6650 internet: http://www.Oysterbarny.Com/ Ok, siamo arrivati al giorno del rientro in Italia. Si torna a casa. Quanto sembra lontano, adesso, il Grand Canyon, quanto tempo sembra passato dai deserti rossi, dalle sequoie, da San Francisco! E dire che siamo stati anche a Los Angeles, e allo Yosemite, e prima ancora a Moab. E vi ricordate Las Vegas, e i primi cactus, gli hot dog a Black Canyon City, e la partita a biliardo a Three Rivers? Eh sì, tre settimane sono parecchie, specie se si è girato così tanto. Abbiamo visto e incontrato cose e persone che ci sono piaciute, ci siamo misurati sia con gli aspetti positivi di questo grande Paese (la civile accettazione di regole condivise; la semplificazione di tante procedure; il rispetto dell’ambiente) sia con gli aspetti negativi (il grande, colpevole, spreco di risorse, dal cibo all’energia; il denaro come primo parametro di giudizio; l’ingenua certezza di essere i migliori al mondo). Insomma abbiamo fatto proprio un bel viaggio, ci dispiace finire qui.

Logico, siamo anche contenti di tornare a casa. E oggi ci confessiamo reciprocamente uno dei motivi, forse il più banale, ma sentito da tutti: il cibo. Stamattina per fortuna ci tocca l’ultima terribile colazione. E non è questione di uova e bacon, che peraltro abbiamo mangiato giusto un paio di volte nel corso di queste settimane; il fatto è che qui se chiedi un cappuccino o un cioccolato versione small, ti portano comunque bicchieroni immensi. Non ci sono biscotti, ma dolci giganteschi e troppo carichi di grassi e calorie. Anche il pane tostato può rivelarsi una trappola: bisogna chiarire che lo si vuole semplice, bianco, e non fritto nel burro.

Noi cerchiamo di stare molto attenti; io per esempio la mattina sfodero regolarmente una delle 20 bustine del mio tè preferito portato da casa e chiedo solo “hot water”, acqua bollente, e una fettina di limone. Niente zucchero. Qualche volta prendo un muffin; qui in città capita anche di trovare un sano, leggerissimo ventaglio, ricordo della mia infanzia, altrimenti me la cavo con pane bianco e poca marmellata o un po’ di frutta. A pranzo ce la giochiamo con hot dog o rare pizze. I ragazzi in questo viaggio hanno carta bianca. Tanto al ritorno inizierà la disintossicazione.

Ma io oggi, ultimo giorno, ho un appuntamento preparato da tempo. E’ un appuntamento singolare, con un ristorante che da sempre fa parte del mio immaginario personale: è l’OYSTER BAR. Ospitato dal 1913 al livello inferiore della splendida, e da vedere, GRAND CENTRAL STATION (http://www.Xplorenewyork.It/davedere.Asp?attrazione=9), questo ristorante che serve ostriche e pesce, tutto freschissimo, ha fatto da sfondo a tanti romanzi o film di Hollywood. Neanche so quante volte vi ho ambientato la mia me stessa immaginaria, sola, elegante, sofisticata, appena di passaggio, pronta a incontri affascinanti e ad avventure misteriose, in un periodo imprecisato fra gli anni Venti e i Cinquanta. Beh, neanche a farlo apposta mi ci ritrovo nel 2006, pantaloni di cotone con i tasconi, scarpe da ginnastica, un marito, due ragazzini adolescenti, alle 11:00 del mattino.

Devo comunque entrare, ma qui negli Usa appena varchi la soglia accorre un cameriere solerte che non ti lascia il tempo di annusare l’aria, di verificare se tra quello che hai letto, quello che hai immaginato e quello che vedi è possibile una sovrapposizione. “Can I help you?”, mi chiede. Vabbè che è americano, e come tale è senza dubbio un romanticone, ma io sono europea e ho pudore a raccontare a un perfetto sconosciuto i miei sogni adolescenziali, e a chiedere di fare un giro, che mi sembrerebbe così cafone. Oltretutto è ora di spuntino, nemmeno di pranzo.

Improvviso e invento una scusa, batto in ritirata. Vabbè. E invece, ma guarda! Sul lato del ristorante c’è una vetrina, e questa vetrina ha una specie di finestra che si apre all’interno, e c’è un cameriere cinese che agli avventori frettolosi distribuisce singole ostriche su un letto di ghiaccio tritato. E’ fatta! Ho la mia ostrica. Buona, buonissima. I ragazzi ridono, mio marito mi fa una foto.

Calcolate con grande generosità i tempi per andare all’aeroporto: non solo per il traffico, ma perché le misure aeroportuali di sicurezza portano alla creazione di file così lunghe da ricordare le code davanti ai negozi dell’Unione Sovietica, con il rischio di perdere l’aereo.



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