Coast to coast, oversize

(by Luca, Sabrina e Federico) Domenica 29 Luglio: Dopo la “solita” travagliatissima settimana pre-vacanze, con Federico ammalato e quindi a correre a destra e a manca, fra dottori, prontosoccorso e farmacie, dopo le inevitabili pratiche lavorative da chiudere ed il provvidenziale recupero in extremis del piccolo e poi dopo un interminabile...
Scritto da: LucaGiramondo
Partenza il: 29/07/2007
Ritorno il: 20/08/2007
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
(by Luca, Sabrina e Federico) Domenica 29 Luglio: Dopo la “solita” travagliatissima settimana pre-vacanze, con Federico ammalato e quindi a correre a destra e a manca, fra dottori, prontosoccorso e farmacie, dopo le inevitabili pratiche lavorative da chiudere ed il provvidenziale recupero in extremis del piccolo e poi dopo un interminabile matrimonio che ieri ci ha impegnati fino a notte fonda … dopo tutto questo, seppur leggermente provati, siamo pronti a partire per un nuovo viaggio, estremamente intrigante ma tutt’altro che riposante … Non saremo soli in questa imminente avventura, ma in compagnia dei nonni, così da ripetere la felice esperienza di tre anni fa, e anche oggi come allora andremo negli States per fare, questa volta, un incredibile “coast to coast”: in sole tre settimane una piccola pazzia … Da Washington (la capitale di questo smisurato stato, grande come un continente), sull’Oceano Atlantico, a Los Angeles, sull’Oceano Pacifico, attraverso quindici stati, sfiorando a nord il Canada e a sud il Messico: qualcosa che, con l’aiuto della buona sorte, possa restare un indelebile segno nella nostra vita di appassionati viaggiatori.

Tre ore di sonno scarse e suona la sveglia, così assonnato ma carico di adrenalina mi alzo da letto e alle 5:15 sono, in auto, dai nonni … Li accompagno alla stazione e poi torno a casa … Nel frattempo si sono preparati anche Sabrina e Federico, così alle 6:00 ripartiamo, accompagnati dall’altro nonno (abbiamo coinvolto proprio tutti i parenti!) e raggiungiamo in stazione i nostri compagni di viaggio.

Il treno arriva puntuale al binario 1 e alle 6:30 prendiamo a correre sulle rotaie per giungere, meno di un’ora più tardi, altrettanto puntuali alla stazione di Bologna … Da lì, dopo esserci trascinati a fatica tutti i bagagli su e giù per le scale (viva la modernità!), saliamo sulla navetta che, poco prima delle 8:00, ci fa scendere di fronte all’ingresso dell’aeroporto Marconi.

Imbarchiamo le valigie direttamente per Boston, facciamo una veloce colazione poi oltrepassiamo il metal-detector e ci mettiamo in attesa alla porta numero 21.

Tutto procede secondo programmi e non dobbiamo aspettare oltre l’orario previsto, così, saliti sul volo AF 1229, un Airbus A318 dell’Air France, venti minuti dopo le 10:00 stacchiamo da terra diretti a Parigi … Prendiamo quota e attraversiamo la Pianura Padana, dopodiché sorvoliamo le Alpi ancora innevate (probabilmente la Valle d’Aosta con le imponenti vette del Cervino e del Monte Bianco ben visibili), quindi sulla Francia ci aspetta una sola grande distesa di nuvole.

Atterriamo all’aeroporto Charles de Gaulle alle 11:39, in pieno autunno, mentre piove con insistenza ed il grigiore domina incontrastato, ma non ci curiamo troppo delle condizioni meteorologiche e ci diamo subito da fare per non perdere il prossimo volo, visto che il tempo a nostra disposizione di certo non abbonda.

Ci spostiamo dal Terminal D al Terminal A e dopo un mini-interrogatorio, per motivi di sicurezza, al banco American Airlines oltrepassiamo di nuovo il metal-detector e attraverso al porta 48A saliamo sul Boeing 767 che, identificato come volo AA 147, quasi in perfetto orario, rulla sulla pista parigina e sale di quota per affrontare la trasvolata atlantica che ci porterà ancora una volta negli States.

Intravediamo per un attimo l’inconfondibile sagoma della Torre Eiffel e poi ci tuffiamo fra le nuvole, così lo spettacolo oltre il finestrino diventa un’unica immensa estensione di candido, accecante vapore acqueo … Mai visto tante nubi in vita mia: la vecchia Europa ne è completamente ricoperta, almeno la parte che sorvoliamo, e anche un buon tratto dell’Oceano Atlantico. Ne approfitto allora per sistemare le lancette dell’orologio sul fuso orario di arrivo (sei ore in meno) … e in un batter d’occhio è di nuovo mattina.

Saltuariamente si scorge qualche sprazzo d’oceano poi, una manciata di minuti prima delle 15:00, cominciamo a scendere, avvistiamo terra e poco più tardi, alle 15:12, le ruote del nostro aereo si posano delicatamente sul suolo americano … e per tutti noi comincia una nuova avventura a stelle e strisce … Affrontiamo senza problemi la sempre ostica dogana statunitense, ma il tempo stringe perché ci aspetta un ulteriore volo … Ritiriamo sane e salve le valige e subito le imbarchiamo per Washington, poi cerchiamo e troviamo la navetta per trasferirci dal Terminal E al Terminal B … Manca ormai solo mezzora alla partenza, così ci fanno passare per una corsia preferenziale al metal-detector e arriviamo alla porta giusto in tempo per sapere che … il volo è in ritardo … anzi, di lì a poco annunciano addirittura che, come tanti altri, è stato cancellato causa il maltempo che imperversa sulla costa est.

E’ una disdetta: comincia un’estenuante attesa e solo dopo diverse ore ci consegnano i biglietti di un nuovo volo, per domani alle 13:15 … ma i problemi non finiscono qui! … Ci trovano sì, a spese dell’American Eagle, un hotel dove alloggiare, ma noi dovevamo ritirare l’auto a noleggio questa sera a Washington, così usciti dall’aeroporto ci rechiamo alla National di Boston, spieghiamo il problema e loro ci modificano con un piccolo sovrapprezzo la prenotazione, quindi torniamo al punto di partenza e da lì, con un taxi ed un voucher della compagnia aerea, raggiungiamo, alla periferia di Boston, l’Homewood Suites, che ci ospiterà per questa notte fuori programma … La gentile signora della réception telefona anche a Washington, al Days Inn che ci doveva ospitare, e dice che arriveremo domani sera, poi ci consegna le chiavi delle nostre camere e finalmente possiamo andare a riposare: negli States sono le 21:30, ma sono passate ormai ventiquattrore dalla nostra partenza e siamo talmente stanchi da non avere neanche più la forza di arrabbiarci per la scomoda situazione venutasi a creare.

Lunedì 30 Luglio: Ci svegliamo a Boston, nel Massachusset, laddove mai avremmo pensato di riaprire gli occhi in questo viaggio … e oltre la finestra della nostra stanza piove a dirotto, così la preoccupazione corre subito all’aereo che ci aspetta e alla sua partenza, che potrebbe essere messa nuovamente in discussione.

A causa del fuso orario ci alziamo tutti piuttosto presto e dopo aver saltato la cena di ieri questa mattina ci concediamo una corposa colazione, prima di metterci in paziente attesa del taxi che ci riporterà all’aeroporto.

Alle 10:00 in punto si ripresenta lo stesso tassista di ieri sera, al quale avevo chiesto di tornare, e mezzora dopo siamo di nuovo al Terminal B del Boston Logan Airport, al banco dell’American Eagle, dove però ci fanno notare che il nostro volo sostitutivo è uno U.S. Airways …Cambiamo così padiglione e ci prepariamo ad affrontare una lunghissima coda per il check-in al termine della quale, sembra, prenderemo finalmente quota … Dopo due ore arriviamo al cospetto del metal-detector e veniamo sorteggiati per un controllo più approfondito (che cu …!) … sopportiamo anche questa e subito dopo guadagniamo la porta numero 18, dalla quale, se Dio vuole, c’imbarcheremo, alle 13:45, sul volo U.S. Airways 2037 … Sui videoterminali appare però che è in ritardo: prima alle 14:11, poi alle 14:30, infine, dopo essere saliti a bordo, alle 15:16, finalmente l’Airbus A319 stacca da terra diretto a Washington! Saliamo sopra a quelle maledette nuvole che tanti disagi ci hanno procurato e trascorsa un’oretta, alle 16:27, tocchiamo il suolo del Washington Reagan Airport … Miracolo: c’è anche un timido sole! … Ritiriamo sani e salvi tutti i bagagli, usciamo all’aria aperta e con l’apposita navetta raggiungiamo la National, dove ci consegnano finalmente la nostra auto: una bellissima Toyota Sienna (targata Florida X84 ECD), e con quella, dopo tutto felici, partiamo per il nostro viaggio “on the road” negli States.

Non è facile dedicarsi subito, anima e corpo, alle visite in programma, ma non abbiamo scelta: avevamo a disposizione un’intera giornata per scoprire tutte le bellezze della capitale americana e invece, purtroppo, sono quasi le 18:00 e ci restano non più di due ore di luce.

Andiamo subito verso il centro del District of Columbia, dove si trova appunto Washington, una sorta di città-stato creata ad oc, ovvero una porzione limitata di territorio che assieme agli altri cinquanta veri stati della federazione forma di Stati Uniti d’America.

Oltrepassato il Potomac River imbocchiamo il Mall, una striscia di verde lunga oltre tre chilometri intorno alla quale si trovano quasi tutti i monumenti più interessanti della capitale.

Siamo inizialmente un po’ spaesati e, trascurato per il momento il Lincoln Memorial, la prima cosa che ci salta agli occhi è l’imponente sagoma del Washington Monument che, realizzato nel 1885 a forma di obelisco per commemorare il primo presidente degli Stati Uniti, è la più alta struttura al mondo in semplice muratura (quasi 170 metri di altezza). Proprio di fronte si trova uno degli edifici più noti sulla faccia della Terra: la White House … è una vera emozione riuscire ad intravederla fra la vegetazione che la circonda, anche se, purtroppo, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per le misure di sicurezza post 11 settembre non riusciamo ad avvicinarla più di tanto.

Proseguiamo allora lungo il Mall, fiancheggiato da storici edifici, con in fondo la scenografica visione del bianchissimo Campidoglio … Il Capitol è la sede del Congresso e, apparso in numerose pellicole, è famoso quasi quanto la Casa Bianca, con la quale condivide il ruolo di edificio politico più importante del paese.

Scattate le foto di rito riprendiamo immediatamente strada e, passati dalla monumentale Union Station prima e di fronte al palazzo dell’FBI poi, giungiamo a parcheggiare nei pressi della parte più occidentale del Mall … A piedi raggiungiamo così il Veteran Memorial, agghiacciante monumento realizzato per ricordare i soldati americani caduti nella guerra del Vietnam: 58.022 nomi incisi in un’immensa V di granito nero.

Nelle vicinanze si trova anche il colossale Lincoln Memorial, che ospita l’imponente statua, alta sei metri, dell’omonimo presidente, seduto sulla sua poltrona. Il luogo è molto suggestivo e lo è ancor di più con il sole che tramonta, inesorabile ma spettacolare, infiammando il cielo alle spalle del monumento.

Tornati a fare uso dell’auto, ormai nella semi-oscurità, passiamo accanto all’Arlington Cemetery, nel quale riposano 175.000 soldati americani, oltre all’ex presidente John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963.

Transitiamo anche nei pressi del famosissimo Pentagono (l’edificio più grande del mondo, nonché la sede del Dipartimento della Difesa americano) e giungiamo in terra di Virginia al Days Inn Arlington Pentagon, che ci ospiterà per questa notte (a dir la verità anche ieri sera dovevamo essere qui).

Lasciamo i bagagli in camera e corriamo a cenare visto che sono già passate le 21:00, poi rientriamo e andiamo subito a dormire perché domani ci aspetta la tappa, di solo trasferimento, più lunga di tutto il viaggio.

Martedì 31 Luglio: La sveglia suona alle 6:00, ma favoriti dal fuso orario non fatichiamo più di tanto a lasciare le coperte … Consumiamo la colazione compresa nel prezzo della camera e poi ci avviamo nell’impresa di attraversare in auto gli States, da est a ovest.

Osserviamo ancora una volta in lontananza la cupola del Campidoglio, idealmente la salutiamo e andiamo spediti verso la periferia di una capitale che ci ripromettiamo, un giorno, di visitare come merita, poi, più facile da dire che da fare, lasciamo lo stato della Virginia … passiamo, valicando colline, per quello del Maryland … una collina dopo l’altra tagliamo anche un pezzo di Pennsylvania … e divorando colline e ancora colline arriviamo in Ohio, dove ci fermiamo a pranzare in un’area di servizio fra enormi e colorati camion tipicamente americani.

Quando riprendiamo strada il paesaggio si fa più pianeggiante e caratterizzato da immense piantagioni di mais. Passiamo nei pressi di Cleveland e del Lake Erie, sulle cui sponde si affaccia anche la regione dell’Ontario e quindi il Canada.

Siamo praticamente a metà della tappa e l’Ohio sembra non finire mai, poi, nel tardo pomeriggio, entriamo nello stato dell’Indiana, lo attraversiamo completamente da est a ovest e arriviamo nell’Illinois, ormai vicinissimi alla meta, cioè Chicago.

Attraversiamo, nella periferia meridionale della metropoli, lo Skyway Bridge, impressionante struttura in ferro costruita nel 1958 per scavalcare il Calumet River, e dalla sua sommità intravediamo lo skyline di Downtown, con i suoi grattacieli il riva al Lago Michigan. Intavoliamo così una gara con il sole, che sta scendendo rapidamente verso la linea dell’orizzonte, e arriviamo in tempo utile al Navy Pier per immortalare il grandioso profilo di Chicago con i magnifici colori del tramonto.

Stanchissimi ma estremamente soddisfatti per lo spettacolo di fine giornata andiamo a cercare il nostro hotel che sono già da tempo passate le 20:00 (e lungo la strada abbiamo anche recuperato un’ora di fuso orario!) … Per fortuna non dista molto e in breve ci troviamo di fronte all’Howard Johnson Inn che ci ospiterà per questa notte.

La struttura ricettiva è piuttosto spartana e un po’ retrò, ma va benone, con una magnifica vista sui grattacieli e persino il parcheggio interno.

Prendiamo possesso dell’unica camera che avevamo prenotato e poi, a piedi, ci rechiamo a cena da Gino’s Pizza, a qualche isolato di distanza. Degustiamo cibo vagamente italiano e subito dopo andiamo a riposare, perché i ritmi di questo viaggio sono davvero frenetici! Mercoledì 1 Agosto: Dopo il tour super veloce di Washington e dopo il lunghissimo trasferimento di ieri finalmente ci svegliamo a Chicago pronti per effettuare la prima visita come da programma.

Cerchiamo di partire al più presto: già prima delle 8:00 facciamo colazione in un caratteristico locale attiguo all’hotel, poi, lasciate le valigie in deposito alla réception, prendiamo il via, utilizzando gli abbonamenti ai mezzi pubblici acquistati tempo fa in internet, che ci avevano addirittura spedito a casa.

In autobus procediamo verso il centro di Chicago, capitale dell’Illinois e una delle più vaste metropoli americane, con i suoi tre milioni di abitanti (otto, considerata la periferia), e seconda solo a New York in quanto a grattacieli e ad ardite soluzioni architettoniche … La fortuna della città la fece, in qualche modo, un incendio di proporzioni bibliche che nel 1871 distrusse due edifici su tre, così, visti i risultati, si pensò bene di ricostruirli adottando strutture metalliche anziché di legno, e da allora cominciò lo sviluppo in senso verticale di Downtown … Percorso un bel tratto di La Salle Street scendiamo dall’autobus appena oltrepassato il Chicago River e prima di tutto osserviamo, sulle sue rive, il gigantesco Merchandise Mart, che ospita il negozio con il magazzino più grande del mondo e attualmente è di proprietà della famiglia Kennedy, poi a piedi c’inoltriamo nel centro cittadino.

Passiamo sotto alla El, abbreviazione di Elevated: la metropolitana sopraelevata, traballante e arrugginita che è un po’ il simbolo di Chicago … e dire che alcuni anni fa è stata salvata in extremis dalla demolizione, e sarebbe stato un peccato perché è un vero e proprio pezzo di storia di questa città. Costruita nel 1893 è apparsa anche in diverse pellicole di successo come “Il fuggitivo”, con Harrison Ford, e più di recente in “Spiderman 2”, come scena della battaglia fra l’Uomo Ragno ed il malvagio Dottor Octopus … Nei pressi raggiungiamo il colossale Thompson Center, una delle più recenti costruzioni del Loop, quella porzione di Downtown delimitata dalla El, eretta nel 1984 e caratterizzata da un enorme atrio a tutta altezza, quindi ci dirigiamo, contornati da vertiginosi grattacieli, al Daley Center, gigantesca costruzione sulla cui piazza, dominata da una grande scultura di Pablo Picasso, prospettano interessanti edifici.

Continuando nella nostra passeggiata ci rechiamo nuovamente sulle sponde del Chicago River a vedere le Marina Towers, due torri gemelle dalla curiosa architettura, che per le loro fattezze sono state soprannominate anche “Pannocchie di grano turco”… Godiamo di ottimi scorci panoramici, caratterizzati dal verde di alcuni giardini ben curati lungo il fiume e poi torniamo verso il centro per salire sulla El e fare il giro del Loop da un punto di osservazione tutto particolare … Scorrono così ai lati della via sopraelevata i grattacieli di Chicago e sferragliando finiamo per terminare la nostra corsa proprio nei pressi di “sua maestà”, la Sears Tower.

L’edificio più alto di Chicago e degli Stati Uniti, con i suoi 442 metri, 110 piani e 100 ascensori, è stato terminato nell’ormai lontano 1974 e per un lungo periodo è risultato anche al vertice della graduatoria mondiale … In progetto ce ne è un altro, che dovrà sorgere nei dintorni entro il 2009, ma i 610 metri dell’avveniristico Chicago Spire non basteranno a riprendersi il record, che resterà probabilmente all’Asia.

Nel nostro personalissimo Guinnes la Sears Tower invece ci entra a pieno merito, così ne approfittiamo per salire in ascensore alla terrazza panoramica del 103° piano, dalla quale la vista è davvero mozzafiato, peccato solo per la densa foschia odierna.

Rimessi i piedi a terra, con i mezzi pubblici raggiungiamo, quasi sulle rive del Lago Michigan, il Millenium Park, inaugurato nel 2004 e collocato al centro di una magnifica quinta di grattacieli, che si specchiano sulla strabiliante Cluod Gate Sculture, enorme opera di Anish Kapoor, artista contemporaneo al quale bisogna dare il grande merito di averla inserita in un contesto davvero eccezionale … Come di grande effetto è anche il vicino ed eccentrico teatro.

Trascorsi attimi indimenticabili nel futuristico Millenium Park, quasi a mezzogiorno, ci avviamo a piedi lungo il cosiddetto Magnificient Mile, alias North Michigan Avenue, una delle più interessanti passeggiate dal punto di vista architettonico della città … Scavalcato ancora una volta il Chicago River, infatti, si parano davanti ai nostri occhi le belle vedute sul bianchissimo Wringley Building, innalzato nel 1921, e sulla gotica Tribune Tower, di quattro anni più giovane e sede della prima testata giornalistica dell’Illinois.

La strada, che corre parallela al lago, è lunghissima, così approfittiamo ancora una volta del nostro abbonamento e in breve ci troviamo, alcuni isolati più a nord, ai piedi dell’impressionante Hancock Tower … Il secondo fabbricato più elevato di Chicago, dall’alto dei suoi 96 piani (344 metri più le antenne) domina questa zona della città, compresa la strana Water Tower, che non è un grattacielo, bensì uno dei pochi edifici sopravvissuti all’incendio del 1871 e, costruito tutto in pietra chiara, in stile gotico rococò, serviva a suo tempo a distribuire l’acqua potabile.

Completata in pratica la visita del centro di Chicago, sempre in autobus, torniamo all’Howard Johnson Inn, dove troviamo ad attenderci le nostre valigie, e caricato tutto in macchina partiamo subito verso la periferia.

Semaforo dopo semaforo, isolato dopo isolato arriviamo nel quartiere di Oak Park, dove si trova il Frank Lloyd Wright Historic District … Il noto architetto, che qui aveva il suo studio, fece erigere nella zona, all’inizio del Novecento, diversi fabbricati tuttora in bella mostra assieme a tanti altri, caratteristici dell’epoca, fra i quali la casa natale del famoso scrittore Ernest Emingway.

Scattiamo alcune foto e pranziamo, come al solito velocemente, parcheggiati nei viali alberati di Oak Park, prima di lasciarci definitivamente alle spalle, intorno alle 15:00, la bellissima Chicago, che mai dimenticheremo.

Seguiamo le Interstate numero 88 e 80 verso ovest, scavalchiamo il fiume Mississippi (il più lungo del nord-america) ed entriamo nello stato dell’Iowa. Percorriamo infinite lande coltivate a girasoli ed arachidi e ormai al tramonto giungiamo a Des Moines, la capitale di questo stato profondamente continentale e pianeggiante. Ci andiamo così a fermare al Quality Inn, nella periferia settentrionale della città, dove, dopo una cena a base di pasta italo-americana, ci apprestiamo a passare un’altra notte, confortati dal cielo stellato di questo infinito paese.

Giovedì 2 Agosto: Ci aspetta un’altra lunghissima tappa di avvicinamento al mitico West, per cui la sveglia che suona di buon ora è d’obbligo.

Durante la notte il cielo è diventato, purtroppo, nuvoloso e le previsioni non escludono la pioggia … peccato, perché in programma c’è la visita alla vicina contea di Madison, con i suoi ponti coperti, resi celebri dal film “I ponti di Madison County”, con Clint Eastwood e Meryl Streep.

Facciamo colazione e poi una veloce ma indispensabile spesa, quindi imbocchiamo la Interstate numero 35 verso sud per uscire quasi subito, dopo una manciata di miglia, mentre, come per incanto, il cielo si apre ed esce fuori il sole.

Poco fuori l’autostrada, già entro i confini della contea, incontriamo il primo ponte: l’Imes Bridge che, eretto nel 1870, risulta essere il più vecchio fra quelli tuttora esistenti. La costruzione, interamente dipinta di rosso, è molto caratteristica, anche se oggi la si può percorrere solo a piedi e a giusta ragione, vista l’importanza storica. Al suo cospetto viene però da chiedersi quali fossero, a quei tempi, le ragioni non certo estetiche di coprire un ponte e la risposta sta nel fatto che il legname usato per la pavimentazione era molto più costoso di quello utilizzato per la copertura ed i fianchi, tanto da rendere conveniente proteggerlo dalle intemperie.

Ripresa la strada per Winterset, capoluogo della contea, seguiamo un polveroso sterrato lungo il quale incontriamo l’Hollywell Bridge, il più lungo della serie (meno di quaranta metri), quindi, ormai alla periferia dell’abitato, il Cutler-Danahoe Bridge, immerso nel verde di un piccolo parco pubblico.

Per le vie di Winterset furono girate diverse scene del film che ha reso celebre la regione, ma la cittadina ha un altro solido legame con il mondo della celluloide. In una modesta casetta in legno, tinteggiata di bianco, a breve distanza dal centro, il 26 maggio del 1907 nacque infatti il mitico John Wayne, vero e proprio mostro sacro del cinema a stelle e strisce: nella sua lunga carriera non per niente interpretò oltre 250 film, in massima parte western.

Reso omaggio al più famoso abitante della contea andiamo ad ovest dell’abitato, lungo un’altra polverosa strada, fino a raggiungere il Roseman Bridge, forse il ponte più noto e scenografico, apparso in diversi spezzoni del film, poi, avvistato un grazioso capriolo, torniamo in direzione del capoluogo e continuando il nostro itinerario seguiamo verso nord l’ennesimo sterrato. Giungiamo così in vista dell’Hogback Bridge, l’ultimo ponte della serie, che spicca, come al solito, tutto dipinto di rosso nel bucolico paesaggio circostante.

Estremamente soddisfatti dell’originale tour appena concluso torniamo sulla strada asfaltata, con l’auto che ha praticamente cambiato colore tanto è impolverata, quindi proseguiamo fino a riguadagnare anche la Interstate (questa volta la numero 80), e seguendola prendiamo ad andare spediti verso ovest, visto che la mattinata è quasi completamente passata e dobbiamo percorrere ancora una infinità di miglia.

Ormai al confine occidentale dell’Iowa ci fermiamo a pranzare in un’area di sosta molto ben attrezzata e quando riprendiamo, nel primo pomeriggio, viaggiando lungo la numero 29, entriamo nello stato del South Dakota.

Raggiunta la città di Sioux Falls ci fermiamo a vedere, più che altro per spezzare la monotonia dell’autostrada, il Falls Park: niente di eccezionale, solo cascatelle che scendono fra alcune rocce rossastre … del resto siamo praticamente in pianura e non ci si poteva aspettare nulla di più spettacolare.

Ripreso quasi subito il nostro tragitto imbocchiamo la Interstate numero 90 verso ponente e poco più tardi usciamo nella località di Mitchell per vedere una curiosità: il Corn Palace, che si può considerare una vera e propria americanata! E’ una vasta costruzione, architettonicamente un po’ pacchiana, con tanto di minareti e cupole a bulbo, che ogni anno viene rinnovata con murales e decorazioni interamente fatte con parti di cereali, in particolare mais, e l’effetto che ne deriva è veramente unico e piacevole. Il tutto nacque alla fine dell’Ottocento per pubblicizzare i prodotti delle terre circostanti e col passare degl’anni è diventata un’occasione di festa ormai radicata nelle tradizioni locali.

Restiamo a Mitchell giusto il tempo per scattare qualche foto e poi torniamo a macinare chilometri sulla numero 90. Scavalchiamo il fiume Missouri e portiamo le lancette dell’orologio indietro di un’altra ora (adesso sono otto rispetto all’Italia) … Continuiamo ad andare costantemente verso ovest, mentre muta il paesaggio e le praterie prendono il sopravvento sulle coltivazioni, conferendo all’ambiente un aspetto più consono al grande West.

Ormai in serata giungiamo a Kadoka, un remoto villaggio con qualche motel, fra cui il Best Western H e H El Centro, nel quale prendiamo alloggio … Facciamo una doccia e poi andiamo a cena mentre i pochi locali nei paraggi stanno già chiudendo i battenti … Ne troviamo uno ancora aperto, piuttosto spartano, ma dobbiamo accontentarci, poi andiamo a concederci il meritato riposo, dopo gli oltre novecento chilometri percorsi anche oggi nel cuore degli Stati Uniti.

Venerdì 3 Agosto: Quando scosto le tende della nostra stanza mi esce una piccola imprecazione: il cielo è cupo e scende una leggera pioggerellina … e pensare che ci aspettava una giornata intensa, con tante belle cose da vedere, ma non disperiamo e confidiamo in un rapido miglioramento.

Andiamo a far colazione in un locale attiguo all’hotel che sembra uscito da una puntata di “Happy Days” e Federico ha un piccolo incidente con una caraffa di sciroppo d’acero … «Oh … Mamma!» … esclama … si stacca il manico e tutto il contenuto gli finisce addosso e sul pavimento … è l’apoteosi dell’appiccicoso e non resta altro da fare che andare in camera a cambiarlo dalla testa ai piedi, ma dobbiamo farlo mentre si scatena anche il “diluvio universale” … e se il buongiorno si vede dal mattino non credo proprio che questa possa essere una giornata eccezionale.

In strepitoso ritardo alla fine partiamo e poco dopo ci presentiamo di fronte al “gate” del Badland National Park, mentre smette di piovere ma il grigio domina ancora incontrastato. Acquistiamo la Golden Eagle Card, che ci permetterà di entrare in tutte le aree nazionali protette degli States e poi varchiamo l’ingresso del primo parco di questo viaggio.

Il Badland National Park, istituito come Monumento Nazionale nel 1939 ed elevato a Parco nel 1978, ricopre una vasta area di grande interesse geologico e naturalistico, in particolare offre scenari composti da fantasiosi pinnacoli corrosi dagli agenti atmosferici, con sfumature di mille colori, e vaste praterie nelle quali sono state girate alcune scene del film “Balla coi lupi”, con Kevin Costner.

Una strada panoramica si sviluppa attraverso la zona dei pinnacoli ed è quella che ci apprestiamo a percorrere. A piedi ci avventuriamo lungo le passerelle di legno del Window e del Door Trail, ci fermiamo anche ai numerosi overlook lungo il tracciato, ma purtroppo non riusciamo a gustarci appieno le bellezze di Badland, che con la presenza del sole ad esaltarne i colori, avrebbe potuto offrire uno spettacolo davvero di prim’ordine.

Usciamo dal parco quando sono già passate le 11:00 e utilizzando nuovamente la Interstate numero 90 ci dirigiamo verso Rapid City, ad ovest del South Dakota, mentre, dispettoso, esce fuori il sole, e poi scompare ancora sotto a grossi nuvoloni carichi di pioggia … acc … e doppio acc … Stiamo andando in direzione del famosissimo Monte Rushmore e il cielo non sembra dare scampo … Invece ci fermiamo ad un supermercato per una veloce spesa e quando usciamo sulla nostra testa ci sono ampi squarci di azzurro.

Nonostante sia ormai ora di pranzo corriamo verso il Monte Rushmore e quando ci arriviamo c’è un sole splendido (che tempo pazzoide!) … Parcheggiamo l’auto e pochi minuti più tardi siamo di fronte ai quattro presidenti scolpiti nella roccia delle Black Hills: che emozione, sembrano finti e invece sono proprio loro! I lavori per la realizzazione del Mount Rushmore National Memorial iniziarono nel 1927, con quattrocento operai agl’ordini dello scultore Gutzon Borglum e si protrassero per quattordici anni, fino alla morte dell’artista nel 1941, alla fine però i volti di George Washington, primo presidente e padre degli Stati Uniti, di Thomas Jefferson, terzo presidente e autore della dichiarazione d’indipendenza, di Theodore Roosvelt, ventiseiesimo presidente e fautore dello sviluppo economico americano all’inizio del XX secolo, e Abraham Lincoln, sedicesimo presidente e sostenitore della libertà e dell’uguaglianza durante la durissima parentesi della guerra civile, erano impressi sulle rocce del South Dakota fino a che (parole di Borglum) «… vento e pioggia non li porteranno via » … Percorriamo il viale con tutte le bandiere dei cinquanta stati dell’unione e arriviamo alla terrazza panoramica sull’enorme monumento. Restiamo per un po’ ad ammirare ciò che fino ad oggi avevamo visto solo in fotografia e poi, lasciandoci alle spalle una vera e propria icona degli States, torniamo all’auto e pranziamo velocemente con i nostri sandwich.

Viste le buone condizioni meteorologiche non perdiamo tempo e al più presto riprendiamo strada, così non possiamo fare a meno di notare l’enorme quantitativo di moto (soprattutto Harley Davidson) che circolano … evidentemente la zona è un cult per gli appassionati di questo genere.

Ci avviamo verso il cuore delle Black Hills, fra sterminate praterie, non a caso la regione è stata il set di una serie televisiva molto nota alla nostra generazione, perché “La casa nella prateria” ha fatto decisamente parte della nostra infanzia.

Saliamo a suggestivi tornanti fra le montagne ed entriamo nel Custer State Park, una riserva di quasi trecento chilometri quadrati nella quale pare sia molto facile incontrare fauna selvatica. Infatti percorrendo il Wildlife Loop incontriamo cervi e antilopi, l’immensa mandria di bisonti per cui il parco va famoso e i simpaticissimi cani della prateria, così possiamo lasciare le Black Hills davvero appagati … e scendiamo ancora a stretti tornanti, lungo la Needles Highway, fra anguste gallerie, incredibili strettoie e le suggestive creste granitiche delle Cathedral Spires.

Ormai è sera e, mentre il cielo s’incupisce nuovamente, ci accontentiamo di vedere solo da lontano il Crazy Horse Memorial, un’altra grande scultura che sta prendendo forma fra queste montagne. Ideata da Korczak Ziolkowski, assistente di Gutzon Borglum nei lavori di Monte Rushmore, per onorare il capo indiano Cavallo Pazzo, è stata iniziata nel 1948 e la sua realizzazione è sempre andata avanti con estrema lentezza e fra mille problemi, soprattutto dopo la morte dello scultore nel 1982, ma quando sarà completata sarà la più grande scultura al mondo, larga 195 metri e alta 172 (i quattro presidenti sono alti “appena” 18 metri!). Per il momento, però, si distingue solo il viso del suo fiero protagonista … Scattata qualche foto andiamo spediti verso il termine della tappa, perché il sole, che appare e scompare fra le nuvole, sta rapidamente tramontando.

Lungo l’ultimo tratto di strada ci lasciamo alle spalle il South Dakota ed entriamo nel Wyoming, quindi, poco dopo le 20:00, arriviamo nella cittadina di Sundance, dove ci fermiamo per la notte al Best Western Inn. Andiamo subito a cena in quello che sembra essere l’unico ristorante del paese e poi ci ritiriamo nei nostri appartamenti: è stata proprio una bella giornata, intensa e ricca di emozioni, peccato solo per il cattivo tempo al Badland National Park.

Sabato 4 Agosto: Il sole filtra, all’alba, dalla finestra della nostra camera, e nel contempo suona la sveglia, perché anche oggi dovremo percorrere oltre settecento chilometri, completando così la marcia di avvicinamento alle Montagne Rocciose.

Nella zona geografica della Black Hills c’è però ancora da fare un’importante visita, quindi, sbrigate le faccende mattutine e caricati in auto i bagagli, andiamo poche miglia a nord-ovest di Sundance per vedere la sorprendente Devils Tower.

Sei ragazze Sioux stavano raccogliendo fiori quando furono aggredite da alcuni orsi … Il grande spirito, per aiutarle, sollevò allora il terreno sotto di loro e gli orsi provando ad arrampicarsi lasciarono il segno degli artigli sulla roccia, ma dovettero desistere … Così nacque, secondo una leggenda indiana, la Devils Tower … In realtà, uno dei più grandi monoliti di basalto al mondo, si è venuto a creare grazie ad un fenomeno vulcanico e si erge, impetuoso, con i suoi 263 metri, fra le dolci colline del Wyoming orientale.

Osserviamo la “Torre dei diavoli” un po’ da tutte le angolazioni … non c’è che dire, è fotogenica, del resto è apparsa anche nella famosa pellicola cinematografica “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, per la regia di Steven Spilberg, nell’ormai lontano 1977 … e poi ci facciamo conquistare dalla simpatia dei numerosissimi cani della prateria, che brulicano nei prati circostanti e al nostro passaggio si ergono sulle zampette posteriori.

Già prima delle 10:00 riguadagniamo la Interstate 90, che seguiamo spediti verso ovest, fra le immense praterie e i numerosissimi cervidi a brucare l’erba sui bordi della strada … la cui presenza ormai non fa più notizia.

Superata la cittadina di Sheridan usciamo dall’autostrada e c’inoltriamo, tramite la Highway numero 14, fra le alte montagne della Bighorn National Forest. Sfioriamo i tremila metri di quota e dopo una sosta per pranzare al fresco effettuiamo una piccola deviazione, lungo uno sterrato, per andare a vedere il Bighorn Medicine Wheel, un enigmatico circolo di pietre utilizzato dagl’indiani per motivi rituali da oltre settecento anni, ma dal parcheggio al termine della carrareccia ci sono da percorrere ancora tre miglia a piedi e, nonostante la cosa possa apparire interessante, dobbiamo rinunciare perché, soprattutto, non c’è tempo sufficiente a disposizione.

Riconquistato il nastro d’asfalto scendiamo rapidamente dalle montagne e tornati, quasi duemila metri più in basso, alle praterie, la temperatura risale nuovamente di oltre dieci gradi. Raggiunta in questo modo la località di Lowell deviamo sulla destra, poco prima dell’abitato, per andare a visitare la Bighorn Canyon National Recreation Area, una zona protetta nata nel 1966 attorno ad un lago artificiale e lungo il corso del Bighorn River. Appena imboccata la strada del parco il sole, purtroppo, sparisce dietro a grossi nuvoloni grigi, ma noi non ci perdiamo d’animo e ci rechiamo nel luogo detto Horseshoe Bend, dove il fiume forma un laghetto contornato da rocce rossastre … Nel frattempo si alzano dal nulla fortissime folate di vento, che ripuliscono il cielo in pochi minuti, e come per magia si accendono tutti i colori del paesaggio … incredibile: siamo nel nord degli States, neanche troppo distanti dal Canada, e qui l’ambiente è di tipo desertico tanto che pare di essere in Arizona, invece ci spostiamo poco più a nord ed entriamo addirittura per alcune miglia nello stato del Montana.

Raggiungiamo così lo straordinario Devil’s Canyon Overlook, vertiginoso punto panoramico che ci permette di osservare dall’alto la smisurata voragine nella quale scorre il Bighorn River … bello, molto bello, ma naturalmente non possiamo soffermarci più di tanto perché si sta facendo tardi.

Ritornati a Lowell e nel Wyoming riprendiamo la strada verso occidente, una strada disseminata, ai suoi lati, di caratteristiche pompe per l’estrazione del petrolio, in un affascinante paesaggio, ed è così che, trasportati dallo scattar fotografie, anziché andare in direzione della città di Cody (fondata dal mitico Buffalo Bill, alias William Cody), ci troviamo molto più a nord, nel Montana, e invece di tornare indietro improvvisiamo un percorso alternativo.

L’errore commesso ci è costato non più di una ventina di miglia e poi, forse, non tutti i mali vengono per nuocere, perché ci troviamo a dover percorrere per intero la Beartooth Scenic Byway, ardita strada aperta nel 1936 e, a quanto si dice, una delle più spettacolari del nord-america.

Cominciamo infatti a salire fra altissime montagne, che superano i quattromila metri di quota, sulle quali qua e là c’è ancora qualche sprazzo di neve e dopo un’infinità di curve, fra stupendi panorami, tocchiamo quello che quasi sicuramente sarà il tetto del viaggio: il Beartooth Pass, che si eleva a 10974 piedi (3345 metri!) sul livello del mare … con la temperatura esterna di pochi gradi al di sopra dello zero e con la nonna, che non lo dà a vedere, ma è un tantino preoccupata per la sua pressione alta … Per fortuna poi in poche decine di miglia dimezziamo la quota e, sfiorando anche un incidente con un bambi, apparso all’improvviso in mezzo alla carreggiata, giungiamo per la sera nella remota cittadina di Cooke City, ormai alle porte del celeberrimo Yellowstone National Park.

Ci sistemiamo in un motel della catena Super 8 e subito dopo usciamo per cena in un locale molto western, con vecchi attrezzi e trofei di caccia alle pareti, concludendo in questo modo una bella giornata, considerando che doveva essere a carattere, più che altro, di solo trasferimento.

Domenica 5 Agosto: A una settimana esatta dalla partenza splende il sole oltre il vetro della finestra e in cuor nostro sentiamo di aver completato ormai la parte più difficile del viaggio, con la conquista delle Montagne Rocciose, magnifica dorsale nord-americana che adesso seguiremo da nord verso sud … non prima però di aver visitato uno dei simboli a stelle e strisce per eccellenza: lo Yellowstone National Park.

Fa decisamente freddo nelle prime ore del mattino quando ci lasciamo alle spalle Cooke City, ma il cielo è terso e confidiamo in un veloce innalzamento della temperatura. Percorriamo poche miglia e ci troviamo di fronte alla porta d’ingresso di Yellowstone, che oltrepassiamo rapidamente grazie alla Golden Eagle Card, così è una grande emozione trovarsi entro i confini del più famoso parco naturale al mondo.

Frutto di un apocalittico fenomeno vulcanico verificatosi circa seicentomila anni fa e vasto novemila chilometri quadrati (poco più dell’Umbria!), lo Yellowstone National Park è stato fondato nel 1872 ed è il più antico Parco Nazionale degli Stati Uniti e dell’intero pianeta, dichiarato “Patrimonio dell’umanità” dall’Unesco nel 1978.

Subito ci vengono in mente Yogi, Bubu e il Ranger Smith, celebri personaggi dei cartoon che qui sono idealmente collocati … ma degl’orsi, per ora, neanche l’ombra. In compenso, percorrendo la strada che segue la Lamar Valley, incontriamo numerose mandrie di imperiosi bisonti, che pascolano tranquillamente nei vastissimi prati ai margini della carreggiata.

Viaggiando spensieratamente, immersi nella natura, in questo verdissimo altopiano ad oltre duemila metri di quota, giungiamo così al primo luogo di un certo interesse: il curioso Petrified Tree. E’ il tronco pietrificato di un albero vecchio di cinquanta milioni di anni … niente di speciale se paragonato al Petrified Forest National Park in Arizona, ma questo ha la particolarità di essere ancora bello dritto e radicato al suolo.

Imboccando la strada che va a sud del parco ci fermiamo a vedere il punto panoramico sullo Yellowstone River detto Calcite Spring, e le vicine Tower Falls, il salto di 40 metri che fanno le acque del Tower Creek per gettarsi nell’alveo del fiume che da il nome al parco.

Risaliti in auto sfioriamo il Mount Washburn e arriviamo a Canyon Village per visitare tutti i punti panoramici sullo straordinario Grand Canyon of the Yellowstone, perché in questa zona il fiume scorre in una voragine profonda fra i 250 e i 400 metri, fra pareti dalle incredibili sfumature di giallo … il motivo per cui il corso d’acqua si chiama, appunto, Yellowstone.

Ci fermiamo a Inspiration Point e poi a Grand View, da dove si vedono le spettacolari Lower Falls, mentre purtroppo le condizioni del tempo mutano rapidamente ed il cielo si copre di grossi nuvoloni … Tutto è nell’ombra quando ci rechiamo all’Upper Falls View e subito dopo dobbiamo addirittura rinunciare a percorrere l’Uncle Tom’s Trail, fino alla base delle cascate, perché minaccia seriamente di piovere.

La giornata potrebbe anche essere irrimediabilmente rovinata … è questo il pensiero che ci passa per la testa mentre andiamo ad ovest, verso Norris, e scende un piccolo diluvio, ma il temporale passa in fretta e, dopo aver avvistato in lontananza un bel gruppo di cervidi, ci fermiamo a pranzare in un’area attrezzata per pic-nic (chissà se Yogi è già in agguato, pronto a mettere le mani, cioè le zampe sul nostro cestino della merenda?).

Quando ripartiamo, nel primo pomeriggio (senza aver ricevuto la visita di Yogi), grossi nuvoloni vengono ancora all’arrembaggio e scappiamo da Norris verso nord, dove il cielo sembra offrire qualche sprazzo d’azzurro in più.

Lungo la strada ci fermiamo a fotografare un bellissimo cervo dalle enormi corna e poi osserviamo l’interessante Roaring Mountain, uno scosceso dirupo disseminato di fumarole, e la Sheepeater Cliff, una cresta rocciosa formata da curiose colonne di basalto dalla forma incredibilmente regolare, infine, mentre il cielo si va rapidamente incupendo, giungiamo a Mammoth Hot Spring: a quanto si dice una delle zone più spettacolari del parco.

Sull’intero fianco di una montagna si verifica uno dei più sbalorditivi fenomeni geotermici di Yellowstone: dalle profondità del terreno scaturiscono numerose sorgenti di acqua calda che scendendo a valle formano una serie di bacini a scala, impilati uno sull’altro e fatti di bianchissimo travertino, una roccia calcarea che a volte si combina con microrganismi, batteri e alghe di ogni genere assumendo stupefacenti sfumature di colore, dal verde all’arancio, passando per il giallo, il rosa e il marrone … una vera meraviglia, insomma! … ma i nuvoloni grigi che stazionano costantemente sulla nostra testa non ci danno tregua, così decidiamo di attendere nel parcheggio del sito tempi migliori per la visita.

Aspettiamo oltre un’ora, poi le nuvole cominciamo lentamente a diradarsi lasciando filtrare qualche timido raggio di sole, allora c’inoltriamo a piedi lungo le passerelle di legno e possiamo osservare le terrazze calcaree di Mammoth Hot Spring in tutta la loro straordinaria bellezza: candide cascate di roccia sulle quali un distratto pittore sembra essersi lasciato sfuggire di mano bidoni di vernici delle più svariate tonlità. In particolare ci lasciano esterrefatti le zone denominate Canary Spring e Palette Spring nella Lower Terrace Area e l’Orange Spring Mound nell’Upper Terrace Area, che si visita comodamente seduti in auto.

Seppur condizionati dall’estrema variabilità del tempo, armati di santa pazienza, siamo riusciti a completare positivamente l’esplorazione di Mammoth Hot Spring e ripreso il nostro itinerario, che abbiamo cercato di adattare agli eventi, torniamo verso sud per andare a vedere il Norris Geyser Basin, che avevamo tralasciato qualche ora prima.

Quando si parla di Yellowstone per prima cosa viene in mente la fauna selvatica e per seconda, sicuramente, i geyser … nel parco ce ne sono oltre trecento (la più alta concentrazione al mondo!) e nel Bacino di Norris se ne possono già vedere alcuni (la maggior parte li vedremo domani), assieme a tanti altri fenomeni geotermici, come le fumarole, le sorgenti d’acqua calda (Hot Spring) e gli stagni di fango bollente.

Percorrendo così il sentiero del Black Basin di Norris c’immergiamo in un paesaggio dantesco, al limite del mondo reale, tra sbuffi di vapore e pozze gorgoglianti, alimentate dal calore del magma, che in questo punto è particolarmente vicino alla superficie.

Assediati dal solito temporale, che incalza da sud, completiamo appena in tempo l’intrigante trail nel Norris Geyser Basin e subito dopo partiamo in direzione di West Yellowstone, cittadina del Montana appena fuori i confini occidentali del parco, sotto ad un violento acquazzone.

Smette di piovere solo quando ormai siamo giunti a destinazione e veniamo accolti da uno stupendo arcobaleno, che sembra essere l’ideale porta di uscita da Yellowstone.

Prendiamo possesso della nostra stanza al Comfort Inn e poi usciamo per cena in un locale tipicamente western, mettendo la parola fine su questa prima giornata di visite a Yellowstone, che effettivamente è un luogo straordinario, forse unico al mondo … peccato solo per i chiaroscuri dettati dalle condizioni del tempo, che a quanto pare domani non saranno migliori, anzi … Lunedì 6 Agosto: Quando ci svegliamo e guardiamo fuori dalla finestra abbiamo la sensazione di essere nel bel mezzo della Pianura Padana in pieno novembre, con una densa nebbia che avvolge ogni cosa … Un po’ rattristati facciamo colazione e mestamente lasciamo in Comfort Inn tornando in direzione di Yellowstone.

Seguiamo la strada che pian piano sale verso il centro del parco costeggiando il Madison River, le cui acque devono essere molto calde perché fumano abbondantemente dando l’impressione di generare l’odiosa bruma che ci circonda … Non disperiamo però, perché sulla nostra verticale ogni tanto s’intravede la sagoma di un pallidissimo sole.

Giunti all’incrocio di Madison andiamo verso sud, percorriamo in un ambiente ovattato la Firehole Canyon Drive e poi, poco più avanti, imbocchiamo anche la Firehole Lake Drive, che s’inoltra nel cosiddetto Lower Geyser Basin, mentre sono quasi le 10:00 e sopra di noi appare qualche beneaugurante sprazzo d’azzurro. Ci fermiamo così nei pressi dell’intrigante White Dome Geyser e lì ci mettiamo in attesa del sole … Aspettiamo una buona mezzora, ma alla fine veniamo premiati da un bellissimo cielo terso e da una spettacolare eruzione del geyser.

Ripresa finalmente strada accompagnati da buone condizioni meteorologiche, avvistiamo nella boscaglia ai lati della carreggiata due stupendi coyote che vagano probabilmente alla ricerca di cibo … Riusciamo in qualche modo ad immortalarli e poi, completata la deviazione, torniamo sul percorso principale del parco che riprendiamo a seguire verso l’uscita più meridionale di Yellowstone.

Tralasciamo la parte del Lower Geyser Basin sulla nostra destra per giungere, poche miglia più avanti, al ben più interessante Midway Geyser Basin, dove si trova la Grand Prismatic Spring, la più grande sorgente di acqua calda del parco, con quasi cento metri di diametro, nonché la seconda al mondo.

A piedi ci avviamo lungo le passerelle di legno e possiamo osservarla da vicino, con le sue meravigliose sfumature di colore … ma non ci accontentiamo. Saliamo in auto, percorriamo un altro brevissimo tratto di strada e, oltrepassato il ponte pedonale sul Firehole River, c’incamminiamo lungo il sentiero che conduce a Fairy Falls.

Dopo 15 minuti di passeggiata eccoci di nuovo al Midway Geyser Basin, ma dall’altra parte del fiume, e in prossimità della Grand Prismatic Spring saliamo, non senza fatica, sulla collina di fronte per vedere il luogo dall’alto … un incanto, con tutta la vallata ai nostri piedi e la sorgente che pare quasi un elemento astratto, con la sua forma circolare quasi perfetta ed i bordi evanescenti, di mille colori, dal verde, al rosso, al giallo, che spiccano fra enormi stuzzicadenti carbonizzati (il frutto di un incendio che parecchi anni fa ha devastato il parco) … una scena emozionante … forse la più bella veduta di Yellowstone! E’ quasi mezzogiorno quando, riguadagnata l’auto, proseguiamo entusiasti ancora verso sud e ci andiamo a fermare prima al Biscuit Basin, un’altra zona ricca di fenomeni geotermici interessanti, che si sviluppa intorno all’azzurrissima Sapphire Pool, e poi nel grande parcheggio dell’Upper Geyser Basin, il luogo più famoso di Yellowstone per quanto riguarda le sorgenti termali, con i loro più svariati brontolii e zampilli d’acqua bollente provenienti dal sottosuolo.

Pranziamo in un’area attrezzata per pic-nic e poi nel primo pomeriggio partiamo a piedi per esplorare la zona con la più alta concentrazione di geyser al mondo: 75 in un’area di circa sei chilometri quadrati (un quarto di quelli esistenti sul pianeta), oltre a 600 sorgenti di acqua calda.

Prima di tutto ci fermiamo di fronte a “Sua Maestà”, l’Old Faithful, probabilmente il geyser più famoso sulla faccia della Terra, la cui eruzione è prevista fra meno di mezzora, alle 14:55 … Il “Vecchio Fedele” (questa è la traduzione letteraria del suo nome) è rinomato per la sua puntualità, e scaglia il suo getto di acqua calda e vapore fino a 55 metri di altezza, a intervalli compresi fra i 45 e i 110 minuti, con un errore di previsione di circa il 10% … Infatti poco dopo le 15:00, di fronte ad un folto pubblico, si esibisce nel suo proverbiale soffio … forse non una delle sue migliori performance (poteva fare molto di più), ma sicuramente emozionante! Dopo lo spettacolo dell’Old Faithful continuiamo nell’esplorazione dell’Upper Geyser Basin scavalcando una prima volta il Firehole River per vagare tra i gorgoglii e gli sbuffi di vapore di Geyser Hill e una seconda volta per giungere nei pressi dello stupefacente Castle Geyser, uno dei più antichi e scenografici del parco.

Il tempo vola e siamo costretti, nostro malgrado, a lasciarci alle spalle anche l’Upper Geyser Basin per riprendere il tragitto, che è ancora molto, molto lungo per giungere alla fine della tappa … non prima però di aver dato un’occhiata anche al vicino Black Sand Basin, nel quale spicca il bellissimo Sunset Lake, dai riflessi cristallini.

La strada principale dopo Old Faithful sale dolcemente verso il Craig Pass, a circa 2500 metri di quota, e lì oltrepassiamo, nel giro di poche miglia, per ben due volte la Continental Divide, quell’ideale linea spartiacque fra Oceano Atlantico e Pacifico, e subito dopo arriviamo a West Thumb, sulle rive del Lago Yellowstone, che occupa un antico cratere vulcanico ed è il più grande specchio d’acqua di montagna di tutta l’America settentrionale. A West Thumb andiamo a vedere un altro Geyser Basin, ma, forse complice il fatto di essere ormai ubriachi di fumarole e pozze gorgoglianti, ci delude un tantino … Non ci ha affatto deluso, invece, lo Yellowstone National Park, che probabilmente da solo vale il viaggio e che poco più tardi ci lasciamo alle spalle uscendo dalla sua porta più meridionale … In mezzo a un bel temporale attraversiamo un altro Parco Nazionale, quello di Grand Teton, quasi la naturale continuazione di Yellowstone, istituito nel 1929 allo scopo di preservare una zona ricca di fauna selvatica, tempestata di laghi e disseminata di altissime vette (i Tetons, appunto), che sfilano sulla nostra destra, ma sono controsole e avvolti dalle nuvole, quindi infotografabili. Condizioni meteo permettendo, forse, torneremo domani mattina … intanto per la notte arriviamo nella bella cittadina di Jackson Hole, prendiamo alloggio nel locale Super 8, ceniamo da Pizza Hut (una catena particolarmente cara a Federico) e in questo modo concludiamo una strepitosa giornata, che mai dimenticheremo! Martedì 7 Agosto: Dopo un piccolo allagamento in bagno durante la notte, ci alziamo che fuori splende il sole, così faremo un po’ di chilometri a ritroso per vedere i Tetons con la giusta luce.

Già prima delle 9:00 siamo in viaggio verso il Parco Nazionale e poco più tardi in riva al placido Jenny Lake a fotografare la magnifica quinta naturale di rocce che supera abbondantemente i quattromila metri di altezza.

Nella quiete del mattino torniamo quindi verso Jackson Hole e avvistiamo una bella mandria di cervidi … poi, in lontananza, un orso che corre verso la boscaglia … bingo! Proprio l’animale che tenevamo più di tutti incontrare … Purtroppo però sparisce rapidamente fra la vegetazione e non lo vediamo più: sono stati solo pochi istanti ma fantastici! Arrivati nuovamente in città ci dedichiamo alla visita del centro storico, sorto alla fine dell’Ottocento laddove un tempo si teneva una fiera di cacciatori di pellicce, e tutto fatto di caratteristici edifici in legno stile western, eretti lungo le strade a scacchiera che si sviluppano intorno a Town Square, la piazza principale, caratterizzata ai quattro angoli da monumentali archi fatti di corna di daini e wapiti.

Ci lasciamo irretire dai numerosi negozi di souvenir e affascinare da un enorme teschio di bisonte da appendere al muro, ma ci chiedono 600 dollari per la sola spedizione in Italia, oltre al costo effettivo dell’oggetto, e seppur contrariati abbandoniamo l’idea … e in tarda mattinata anche Jackson Hole, che ci lasciamo alle spalle diretti a sud lungo la Highway numero 89.

Ci sono oltre cinquecento chilometri da percorrere ancora quest’oggi e poco più tardi, quando imbocchiamo la valle del Green River, nonché Highway numero 189, il paesaggio si fa improvvisamente arido, quasi di tipo desertico. Siamo praticamente in mezzo al nulla, mentre l’ora si fa tarda e cresce l’appetito, ma lungo il percorso non c’è neanche un albero per ripararsi dal sole e le località segnate sulla cartina sono insignificanti, così giungiamo ben oltre le 14:00 nella cittadina di Green River.

Parcheggiati nei pressi di un piccolo parco pubblico possiamo finalmente pranzare, mentre ci accorgiamo che il sasso scagliato dalla ruota di un camion lungo l’autostrada ci ha scheggiato il vetro dell’auto … speriamo il crepo non si allunghi e che il danno sia compreso nell’assicurazione.

Intorno alle 15:00 ripartiamo e poco più a sud dell’abitato entriamo nella Flaming Gorge National Recreation Area, nata nel 1968 lungo le rive di un tratto particolarmente interessante del Green River. Lasciamo il Wyoming ed entriamo anche nello Utah (stato che avevamo già toccato nel viaggio del 2004), contornati da bellissimi scorci sul fiume e sulle rocce rosse che lo fiancheggiano. Saliamo quindi a Red Canyon, uno spettacolare punto panoramico sul Green River che qui scorre, fra alte pareti, oltre trecento metri più in basso in una quiete primordiale, perché il luogo non è molto conosciuto e siamo, in pratica, gli unici turisti presenti.

Ripreso il nostro itinerario valichiamo un passo a 2800 metri di quota e poi scendiamo, fra belle viste, alla città di Vernal, dove ci fermeremo al calar della sera, ma non ora … e proseguiamo oltre, per la sezione più occidentale del vicino Dinosaur National Monument.

Il Monumento Nazionale, istituito nel 1915 per tutelare il più vasto giacimento al mondo di ossa di dinosauro, si è successivamente ampliato inglobando ampie aree d’interesse puramente paesaggistico. La zona più famosa del parco, il Dinosaur Qarry, dove si possono osservare diversi resti fossili ancora incastonati nell’arenaria, è però chiusa per restauri, e lo sapevamo fin da casa, così ci dedichiamo alle bellezze naturali e raggiungiamo la cosiddetta Split Mountain, una scenografica roccia a picco (manco a dirlo) sul Green River.

Parcheggiata l’auto ci avviamo a piedi verso il fiume, dove alcuni appassionati di rafting stanno riportando in secca i loro gommoni, avvistiamo un serpentello e pochi istanti più tardi accade un piccolo incidente … A scheggiarsi questa volta è la testa di Federico, contro la sporgenza di un cassonetto metallico … un taglio non profondo a prima vista, ma sufficiente a farci rientrare precauzionalmente a Vernal e all’Econo Lodge che ci ospiterà per la notte.

Prestiamo qualche cura al piccolo e poi usciamo per cena ancora da Pizza Hut, per consolarlo, quindi trascorriamo un’ora abbondante dentro ad un enorme supermercato, prima di trascinarci stanchissimi in camera per il meritato riposo.

Mercoledì 8 Agosto: Praticamente a metà del viaggio, ma già oltre la metà del percorso, ci svegliamo nello Utah, la nazione per antonomasia dei mormoni, anche se questa zona dello stato va soprattutto famosa per i ritrovamenti dei resti fossili appartenuti ai grandi rettili del Giurassico, così, chiuso il Dinosaur Quarry, ci consoliamo dedicandoci all’interessante Museo di Storia Naturale di Vernal.

In meno di un’ora ripercorriamo, con l’ausilio di belle ricostruzioni, la storia geologica e paleontologica della regione, quindi partiamo in auto per vedere la sezione centrale del Dinosaur National Monument.

Seguendo la Highway numero 40 verso est entriamo nello stato del Colorado e giunti nel piccolo agglomerato di Dinosaur (dove le poche vie portano i nomi dei rettili preistorici) ci avventuriamo nel parco lungo la Harpers Corner Drive … Percorriamo quasi trenta miglia, fino all’Island Park Overlook, ma potevamo risparmiarci il tragitto, perché qualsiasi altra escursione nella zona ci avrebbe offerto gli stessi panorami … non brutti, ma neanche entusiasmanti.

Tornati a Dinosaur prendiamo quindi a seguire le strade numero 64 e 139 verso sud. Oltrepassiamo un valico a quasi tremila metri di quota e arrivati a Grand Junction scavalchiamo il fiume Colorado, che tanti bei ricordi ci porta alla mente, per giungere quasi alle 14:00 all’ingresso est del Colorado National Monument.

Pranziamo in un’area per pic-nic e nel primo pomeriggio prendiamo il via per visitare il parco, nato come Monumento Nazionale già nel 1911 allo scopo di conservare uno dei più classici paesaggi del West americano.

Saliamo con gli spettacolari tornanti della Rim Rock Drive su di un altopiano (il Colorado Plateau) e cominciamo poi a seguirne il bordo, fatto di rocce erose dagli agenti atmosferici e dagli straordinari colori (rosso, viola, arancio e marrone) dovuti all’abbondante presenza di ferro e altri minerali. Ci fermiamo ai vari punti panoramici segnalati lungo il percorso, immersi in un sublime paesaggio, a partire dal Red Canyon Overlook per arrivare allo stupendo Artist Point e al Coke Ovens Overlook, caratterizzato da una curiosa sfilata di rocce, mentre un sole dispettoso gioca a nascondino fra nuvole che sembrano tanti batuffoli di ovatta … Proseguendo senza fretta arriviamo poi agli eccezionali Monument Canyon View, Grand View e Indipendence Monument View, tutti meravigliosi scorci sulla sottostante vallata e sulla più alta guglia del parco.

Oltrepassato il Visitor Center effettuiamo anche la piccola deviazione che porta a Book Cliff View e al brevissimo Window Rock Trail, percorso il quale possiamo assaporare la magnifica vista d’insieme su quasi tutte le formazioni rocciose del Colorado National Monument.

Scendendo a stretti tornanti verso l’ampia vallata del Colorado River, osserviamo infine il precario equilibrio della Balanced Rock e subito dopo lasciamo il parco, che ci ha veramente deliziati, con i suoi vasti panorami, e soddisfatti oltremisura, sotto tutti i punti di vista.

Passate ormai le 18:00 riprendiamo a macinar chilometri verso sud (ormai è questo il segno cardinale prevalente) e seguendo la strada numero 50 arriviamo per la sera al Super 8 di Montrose. Usciamo per cena da Denny’s (un’altra buona catena di fast food) e come al solito ci ritiriamo in camera a meditare sulla bella giornata appena trascorsa e sul viaggio … fin qui faticoso, ma al tempo stesso ricco di soddisfazioni.

Giovedì 9 Agosto: C’è un bellissimo sole quest’oggi in Colorado, e possiamo ritenersi fortunati perché la scorsa settimana è piovuto tantissimo.

Consumiamo la colazione in hotel e ci lasciamo alle spalle Montrose per andare nel vicino Black Canyon of the Gunnison National Park … Creato nel 1933 come National Monument per proteggere le 12 miglia più spettacolari del canyon formato dal fiume Gunnison prima di gettarsi, a Grand Junction, nelle acque del Colorado, è stato elevato a Parco Nazionale nel 1999 e forse a giusta ragione viste le impressionanti dimensioni della voragine, fra le più sbalorditive a livello mondiale.

Entriamo nel parco seguendo la strada che s’inerpica su di un sistema montuoso tagliato in due dal fiume e giunti nel South Rim prendiamo a fermarci ai vari overlook, a cominciare dallo straordinario Gunnison Point e poi il Cross Fissures View … La luce non è sempre ottimale ed il fondo del canyon spesso nell’ombra, uno dei motivi per cui si chiama Black, oltre al colore scuro delle rocce che lo formano … E’ da brividi però il Painted Wall View, la vista sulla parete più impressionante del parco, striata di magnifiche venature e praticamente verticale: un salto unico di oltre 700 metri dal bordo fino alla sottostante ansa del Gunnison River! Dopo aver percorso anche il breve ma suggestivo trail che porta a Dragon Point torniamo senza fretta verso l’ingresso del parco e credendo di abbreviare il percorso scendiamo lungo la ripidissima East Portal Road, fino all’alveo del fiume, per renderci poi conto che la strada era senza uscita, ma comunque spettacolare … quindi non una perdita di tempo.

Imboccata la via giusta torniamo, appagati, sulla Highway numero 50 e andando verso est dopo poche miglia entriamo nella Curecanti National Recreation Area: qui il Gunnison River, sbarrato da una diga, crea un bellissimo lago, contornato da altrettanto belle alture, fra le quali spiccano gli scenografici Dillon Pinnacles, che si stagliano sull’azzurro di un cielo oggi più terso che mai.

Pranziamo in un’area di sosta sulle rive del lago, che poi percorriamo tutto da ovest ad est, quindi giriamo a destra lungo la strada numero 149, che va a sud inerpicandosi sulle montagne.

Superata la cittadina di Lake City, a 2700 metri di quota, il nastro d’asfalto sale ancora, un tornante dopo l’altro, e poi ancora … fino a toccare gli 11530 piedi (3514 metri!) del Slumgullion Pass … credevamo nei pressi di Yellowstone di essere saliti sul tetto del viaggio e invece ecco battuto il record! Lungo la discesa scorgiamo, ai bordi della carreggiata, alcune simpatiche marmotte e poi ci fermiamo a vedere le intriganti Clear Creek Falls, un salto di cento piedi che l’acqua di un torrente esegue in un magnifico contesto di verdissime vette sulle quali c’è ancora, qua e là, qualche chiazza di neve.

Scendendo ancora imbocchiamo la vallata del Rio Grande, storico fiume del West, assieme al Colorado, che termina la sua corsa nel lontano Golfo del Messico, e arriviamo in un vastissimo altopiano nel quale si trova il Great Sand Dunes National Park, che ci avviamo a visitare, mentre notiamo sul vetro dell’auto un secondo crepo dovuto ad un sasso e ci lasciamo uscire di bocca qualche imprecazione … Trasformato da Monumento a Parco Nazionale nel 2000, il Great Sand Dunes abbraccia un’area che si estende ai piedi delle Sangre de Cristo Mountains nella quale, per una strana combinazione di venti, si sono venute a creare le più impressionanti dune di sabbia di tutti gli States, che raggiungono un’altezza di quasi duecento metri … Infatti appaiono all’orizzonte quando sono lontane ancora diversi chilometri e una volta raggiunte guadiamo a piedi un fiumiciattolo e proviamo a scalarle … Quanta fatica, ma ne è valsa la pena: anche se non è stata raggiunta la sommità, per la quale servono diverse ore di cammino, ci siamo immersi completamente nell’ambiente e abbiamo goduto di bellissimi panorami.

Ormai con le prime luci del tramonto ci lasciamo alle spalle il Great Sand Dunes National Park, un pezzetto di Sahara fra le Montagne Rocciose, e per la notte raggiungiamo il Days Inn di Alamosa, città del sud del Colorado. Ceniamo in una pizzeria con tanti cimeli italiani alle pareti, ma di italiano non c’è altro, a parte una remota discendenza della ragazza che serve ai tavoli, e poi ci trasciniamo in camera, mettendo la parola fine su di un’altra bella giornata.

Venerdì 10 Agosto: E’ un vero piacere alzarsi al mattino mentre il sole splende alto nel cielo del Colorado, così partiamo, carichi di nuova energia, ancora verso sud, lungo la Highway numero 285.

Nei pressi della località di Antonito notiamo una vecchia locomotiva che sbuffa vapore, pronta a partire per il giro turistico sulla storica Cumbres and Toltec Scenic Railroad e poco più tardi lasciamo il Colorado per entrare nel New Mexico.

Viaggiando sulla numero 64 attraversiamo il Rio Grande sullo spettacolare Gorge Bridge, imponente struttura metallica realizzata nel 1966, a quasi duecento metri di altezza sul corso del fiume, che scorre entro le ripide pareti rocciose di un profondo canyon … Lì ci fermiamo per qualche istante così da raggiungere a piedi il centro del ponte da quale c’è una bella veduta e poi per curiosare fra alcune bancarelle indiane, che sono il preludio alla prossima, imminente, visita.

Ancora una manciata di miglia e arriviamo a Taos, avamposto spagnolo in epoca coloniale, nonché patria di una delle più antiche comunità di nativi americani degli Stati Uniti. Poco più a nord dell’abitato si trova infatti il Taos Pueblo, dove ci apprestiamo ad andare e dove la popolazione di lingua Tiwa ha vissuto per almeno mille anni e tuttora continua a vivere.

Ci registriamo all’ingresso del villaggio e subito dopo cominciamo ad esplorarlo … per quanto possibile, visto che non tutte le zone sono accessibili. Ci avviamo verso il centro e quando giungiamo sulla Plaza, risalente al XVIII secolo, restiamo ammaliati: fantasiosi edifici in adobe (una tecnica costruttiva che prevede l’utilizzo di erba e fango essiccati) ci circondano, a partire dalla caratteristica chiesa di San Geronimo, per passare alle abitazioni, anche a più piani, che si stagliano mirabilmente sull’azzurro cielo del New Mexico.

Ci perdiamo volutamente fra i vicoli, alla ricerca di suggestivi scorci, e nei negozietti di souvenir indiani, così passiamo due ore abbondanti a Taos Pueblo, completamente immersi in un’atmosfera surreale, nella quale prevalgono le calde tonalità della terra e i forti contrasti legati alle tradizioni di questo antico popolo.

Lasciato il Pueblo, ormai in tarda mattinata, ci dirigiamo verso il centro della Taos coloniale, fondata dagli spagnoli nel 1630, che si sviluppa intorno alla scenografica piazza sulla quale prospettano fabbricati, anche moderni, in stile rigorosamente adobe … Non mancano, inoltre, alcuni edifici di interesse storico, come la casa di Kit Carlson, sull’omonima street: noto personaggio del west americano, apparso più di una volta anche nei fumetti di Tex Willer.

Mezzogiorno è già passato da un po’, ma non ci fermiamo, perché incalzano alcune nuvole da ovest e vogliamo completare la visita della zona con la presenza del sole.

Passiamo a vedere, solo dall’esterno, la Hacienda Martinez, residenza di una famiglia ispanica del 1800 … niente di entusiasmante … poi ci rechiamo nella vicina Ranchos de Taos per visitare la splendida chiesa di San Francisco de Asis.

Costruito intorno al 1776 in adobe (rigorosamente originale!), l’edificio religioso è, a detta della guida, una delle opere architettonicamente più belle del Nuovo Messico coloniale, con le sue pareti sfuggenti e arrotondate … e a giusta ragione! … perché, davvero, è incantevole e incredibilmente fotogenico, tanto che lo immortaliamo dalle più svariate angolazioni, prima di lasciarcelo alle spalle e proseguire il nostro viaggio verso sud lungo la numero 68.

Si è fatto veramente tardi causa le bellezze di Taos e pranziamo, già nel primo pomeriggio, in un centro visitatori sulle rive del Rio Grande, poi riprendiamo la strada e andiamo, incontro a grossi nuvoloni, in direzione di Los Alamos, cittadina famosa come base dell’esercito americano dove furono assemblate le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki … vengono un po’ i brividi a pensarci! Arriviamo così, sulle alture nei dintorni, al Bandelier National Monument, dove si trovano i resti di un insediamento indiano risalenti al XII-XIII secolo, motivo per cui è stato fondato il Parco nel 1916.

Lasciamo l’auto e a piedi ci avviamo all’imbocco del Frijoles Canyon, dove possiamo vedere, coadiuvati anche da qualche raggio di sole, le rovine di Long House e delle suggestive Taulus Houses, abitazioni trogloditiche scavate nella morbida roccia vulcanica della gola, in un accattivante scenario naturale.

Seppur breve, ma interessante, la visita al Bandelier National Monument ci ha impegnati per più di un’ora e sono quasi le 17:00 quando ripartiamo in direzione di Santa Fe, capitale del New Mexico e storica città di epoca coloniale … Vorremmo superare l’abitato e andare a vedere il Pecos National Monument (un altro bell’insediamento indiano), prima di tornare a Santa Fe per la notte, ma giunti proprio nella capitale ci rendiamo conto che si sarebbe fatto veramente troppo tardi … peccato! Ci fermiamo subito all’Econo Lodge e una volta tanto facciamo le cose con calma: accontento Federico portandolo in piscina, riordiniamo le nostre cose, ci rassettiamo a dovere e poi per cena andiamo da Hiop (una buona catena di fast food che avevamo già avuto modo di provare in Florida), concludendo degnamente una giornata dedicata, in massima parte, al fiero popolo indiano del Nuovo Messico.

Sabato 11 Agosto: Malgrado le previsioni annuncino nuvole su Santa Fe splende un bel sole.

Facciamo colazione e poi andiamo a visitare il centro storico della città, fondata dagli spagnoli nel 1604 e quasi subito eletta capitale del New Mexico … Nonostante questo appellativo, però, Santa Fe non è mai diventata una metropoli e tutt’oggi conta poco più di sessantamila abitanti … La sua Plaza così è rimasta intatta e contornata da caratteristici edifici, fra i quali il Palazzo del Governatore, che riempie completamente il lato settentrionale e che, pur apparendo meno degl’altri esteticamente, risulta essere il più antico edificio degli Stati Uniti (eretto nel 1610).

Anche alla vicina chiesa di San Francis di Asis spetta un primato: quello di essere stata la prima cattedrale edificata ad ovest del Mississippi, ma ogni angolo di Santa Fe è interessante, perché curato nei minimi particolari (anche i parcheggi multipiano sono costruiti rispettando lo stile architettonico), così è piacevole passeggiare per i porticati in legno e sbirciare dentro i numerosissimi atelier e negozi di artigianato, seppur inavvicinabili per i prezzi che espongono … Non a caso ci troviamo in una delle città più alla moda degli States.

A metà mattinata lasciamo la capitale e, incrociando per un attimo la storica Route 66, andiamo a sud lungo la strada numero 14, nota anche come Turquaise Trail. Nella zona, infatti, si trovavano diverse miniere di turchese, ma l’attività estrattiva non è più quella di un tempo e un certo degrado è l’inevitabile conseguenza, così desta particolare curiosità la cittadina di Madrid, rimasta nell’aspetto alla metà del secolo scorso … in pratica un piccolo spaccato di un’altra epoca.

Riguadagnata la Interstate arriviamo ad Albuquerque, la metropoli del New Mexico, e nella sua periferia andiamo a visitare l’interessante Petroglyph National Monument, nato nel 1990 per preservare una zona ricca di incisioni rupestri eseguite dagli indiani fra il 1300 ed il 1650.

Nella parte del parco chiamata Boca Negra Canyon c’inoltriamo a piedi, lungo il Mesa Trail, in una collina disseminata di nerissimi macigni di roccia vulcanica sui quali si trovano impressi alcuni semplici ma suggestivi disegni … nulla di trascendentale, ma un bell’intermezzo sulla lunga strada che ci porterà al termine della tappa odierna.

Pranziamo entro i confini del Petroglyph e poi ripartiamo, con sollecitudine, in direzione sud, seguendo la Interstate numero 25, che corre fra lande desolate, così come corre il road runner che all’improvviso ci attraversa la strada … forse inseguito da Willy il coyote.

A San Antonio imbocchiamo la strada numero 380 verso est e, scavalcato un piccolo sistema montuoso, passiamo per la Valley of Fires Recreation Area, balcone panoramico su di un impressionante e nera colata di lava lunga oltre 45 miglia, fuoriuscita circa 1500 anni fa da chissà dove, visto che coni vulcanici non se ne vedono all’orizzonte.

Strada facendo arriviamo nell’abitato di Carrizozo, dove prendiamo a seguire la numero 54 verso sud, mentre scoppia un brevissimo quanto improvviso acquazzone e nel contempo si accende una spia di manutenzione dell’auto … Proseguiamo col cuore in gola, sperando che sia solo quella del normalissimo tagliando … e dopo il vetro, il cui crepo sta crescendo ogni giorno di più, dobbiamo sorbirci anche questa, a circa 1600 miglia dal traguardo.

Ci lasciamo sulla sinistra la deviazione per Roswell, piccolo centro rinomato come il luogo in cui una nave spaziale aliena sarebbe caduta la notte del 4 luglio 1947, e arriviamo ad Alamogordo, che lega il suo nome al primo (triste) test nucleare della storia dell’umanità.

Seguendo la Highway numero 70 ci approssimiamo quindi, ormai nel tardo pomeriggio, al White Sands National Monument, una vasta area di bianchissime dune di gesso, riconosciuta Monumento Nazionale fin dal 1933.

Oltrepassata la porta d’ingresso c’inoltriamo lungo la Dunes Drive, con i candidi cumuli di sabbia inizialmente ricoperti da parecchia vegetazione e poi completamente spogli … anche la strada diventa bianca e il paesaggio si fa altamente suggestivo … La sensazione è straordinaria: pare abbia appena nevicato e invece fuori ci sono 37 gradi … sopra lo zero! Scendiamo dall’auto e andiamo a camminare in quello scenario quasi irreale, con le accecanti colline che si stagliano sull’azzurro del cielo e le creste modellate dal vento … Si dipanano così davanti ai nostri occhi scene bellissime, che non dimenticheremo mai, in un silenzio ancestrale, fin quasi al tramonto, quando riprendiamo la strada e percorriamo l’ultimo tratto della tappa, fino alla città di Las Crucis e al Super 8 dove alloggeremo.

Poco prima delle 20:00 prendiamo possesso della nostra stanza e dopo una cena da Pizza Hut ce ne andiamo a riposare, con la mente ancora alle sublimi vedute del White Sands National Monument.

Domenica 12 Agosto: All’alba della terza settimana di viaggio cerchiamo di prendere il via con sollecitudine, visto che abbiamo una prenotazione per visitare una miniera a mezzogiorno e per arrivarci ci sono quasi 400 chilometri … Naturalmente, però, partiamo in ritardo e la tappa mattutina diventa una corsa contro il tempo, sempre sul filo dei severi limiti di velocità statunitensi.

Andando ad ovest sulla Interstate numero 10, dopo quasi due ore usciamo dall’autostrada e prendiamo a seguire la Highway numero 80 verso sud. Lasciamo il New Mexico ed entriamo in Arizona prima di giungere nella cittadina di Douglas, a pochissimi chilometri dal confine con il Messico, le cui alture si vedono in lontananza.

Toccato il punto più meridionale dell’intero viaggio proseguiamo e arriviamo a Bisbee, la sospirata meta, mentre sono le 11:45 e ci mettiamo alla ricerca della Qeen Mine Tour. La troviamo nella periferia dell’abitato: parcheggiamo l’auto, indossiamo abiti più pesanti per entrare nell’ex miniera di rame, ci presentiamo all’ingresso e scopriamo che il tour di mezzogiorno partirà fra un’ora, questo perché sono solo le 11:00 e ci eravamo completamente dimenticati del cambio di fuso orario fra New Mexico e Arizona! … Come non detto: con molta più calma acquistiamo i biglietti e poi, nell’attesa, ci rechiamo a vedere, nei dintorni, la Lavander Open Pit Mine, che si trova proprio in fregio alla strada numero 80 ed è una delle più grandi miniere di rame a cielo aperto del mondo, chiusa nel 1975 … un buco davvero impressionante! Poco prima di mezzogiorno (quello vero) torniamo alla Queen Mine. Ci fanno indossare casco da minatore e cerata, poi, con l’ausilio di uno sferragliante trenino, raggiungiamo il cuore della montagna, dove ci sono meno di dieci gradi centigradi e dove, fino agli anni settanta, vennero scavate decine di chilometri di gallerie per estrarre più di 3,6 milioni di tonnellate di rame, oltre ad oro, argento, piombo e zinco, in quella che fu una delle più ricche miniere degli States … Un ex minatore ci accompagna e ci spiega in quasi un’ora tutti i segreti del mestiere, con grande entusiasmo … peccato, però, che riusciamo a capire solo una parola su cento, così, seppur interessante, la visita si rivela (per colpa nostra) anche un po’ noiosa.

Usciti di nuovo agli oltre trenta gradi dell’aria aperta cerchiamo un po’ d’ombra per pranzare, quindi passiamo per le vie della vecchia Bisbee, rimaste come aspetto all’epoca in cui le miniere rivestivano un ruolo di primaria importanza e la città, con oltre ventimila abitanti, era la più popolosa dell’Arizona … ora tutto è decadente, ma affascinante.

Ripresa la strada numero 80 percorriamo una manciata di miglia e arriviamo nella vicina cittadina di Tombstone, il cui nome (Pietra Tombale) è tutto un programma. Troviamo l’Holiday Inn Express che ci ospiterà per la notte e visto che siamo un po’ «stanchini» (come disse Forrest Gump in un famoso film), dopo oltre due settimane di viaggio a ritmi frenetici, ci concediamo un paio d’ore di relax in piscina, poi ci rassettiamo e andiamo a visitare il villaggio.

Tombstone è sicuramente la più rappresentativa e genuina espressione del selvaggio west. Fondata del 1878 nei pressi di una miniera d’argento, irrimediabilmente persa per un allagamento dopo qualche anno, è praticamente rimasta immutata nel tempo e le sue storie di fuorilegge e regolamenti di conti sono ormai diventati leggenda … non a caso uno dei luoghi più emblematici è il Boothill Graveyard, il piccolo cimitero, chiuso nel 1884, che ci apprestiamo a visitare nella periferia nord dell’abitato: quasi nessuno dei suoi 276 silenziosi ospiti è morto di morte naturale, almeno stando agli epitaffi riportati su parecchie delle lapidi … tipo “Ucciso da un indiano” o “Impiccato per sbaglio”. Ma Tombstone va soprattutto famosa per un’epica sparatoria: la cosiddetta “Sfida all’Ok Corral”, da cui anche una nota pellicola, con Kirk Douglas e Burt Lancaster, e nel cimitero, fra gli altri, ci sono anche gli sfortunati protagonisti dell’evento … Dopo il suggestivo Boothill Graveyard andiamo a vedere il centro cittadino, che si sviluppa soprattutto lungo la polverosa Allen Street, fiancheggiata da caratteristici e storici edifici … davvero eccitante: sembra di essere nel bel mezzo di un set cinematografico e invece è tutto incredibilmente originale! Peccato solo si sia fatto tardi (se si può dire tardi le sei del pomeriggio) e parecchi locali siano ormai chiusi: in particolare il Bird Cage Theater, che doveva essere proprio interessante, ed il Rose Tree Inn Museum, con il roseto più grande del mondo.

Possiamo comunque consolarci con il bel Crystal Palace (tipicamente western), con l’americanissimo Big Nose Kate Saloon e soprattutto con il luogo nel quale si tenne la vera “Sfida all’Ok Corral” … il tutto in una meravigliosa ambientazione, con la calda luce del tramonto e le ombre lunghe della sera sull’arida terra dell’Arizona.

Pian piano si fa buio e le stelle si accendono nel cielo di Tombstone … allora quale modo migliore di terminare la giornata se non in una Steak House, all’angolo fra Allen Street e la quinta strada, davanti ad una succulenta bistecca e ad una grossa patata al cartoccio! … Lunedì 13 Agosto: Dopo una faraonica colazione abbandoniamo l’Holiday Inn salutati, sulla porta dell’hotel, da un grosso ragno peloso (probabilmente una tarantola!), che spaventa terribilmente Federico. Ci lasciamo così alle spalle l’incredibile Tombstone e riguadagnata la Interstate numero 10 torniamo, poco più tardi, al “mondo reale”.

Giunti quasi a Tucson, seconda città dell’Arizona, usciamo dall’autostrada seguendo le indicazioni per il Saguaro National Park, ovvero la sua sezione più orientale, già Monumento Nazionale nel 1933 ed elevato a Parco nel 1994 assieme a quella più occidentale, distante una trentina di miglia.

Il parco, come si può intuire dal nome, preserva una zona ricca di monumentali cactus saguaro, che sono un po’ il simbolo del far west, con i loro tronchi verde carnoso e colonnari e con le classiche ramificazioni che a volte ricordano due braccia alzate nell’intento di salutare … Subito ne incontriamo alcuni esemplari lungo la strada … Quando poi varchiamo i confini dell’area protetta i grandi monumenti della natura, che possono superare i dieci metri di altezza, si fanno più fitti e conferiscono al luogo un aspetto davvero intrigante.

Ci avventuriamo lungo la Cactus Forest Drive, che s’inerpica fra le colline completamente ricoperte di piante grasse (non solo saguaro), alcune delle quali fiorite, ed è un vero spettacolo. Facciamo numerose soste e anche il breve Desert Ecology Trail … avvistiamo diversi road runner e anche una lepre dalle enormi orecchie chiamata Jack Rabbit, quindi, completato l’anello stradale, usciamo da questa sezione del parco davvero entusiasti.

Continuando nella visita della regione tralasciamo il centro di Tucson e ci rechiamo nella sua periferia meridionale, dove si trova la Mission San Xavier: chiesa cristiana fondata da un gesuita spagnolo nel 1692. L’attuale edificio religioso risale però al 1783 e a quanto pare è uno dei meglio conservati e più affascinanti di tutti gli Stati Uniti.

Quando s’intravede in lontananza il suo bianco accecante spicca sul paesaggio circostante, ma spiccano anche alcune vistose impalcature che preannunciano un copioso restauro … per fortuna però la facciata turrita è coperta solo per metà e ci lascia immaginare come possa essere per intero … molto bella, in stile barocco, con dettagli moreschi. Splendidi sono anche gl’interni, riccamente decorati … non paragonabili a quelli di una chiesa europea, ma comunque estremamente caratteristici.

Il caldo comincia a farsi sentire in questa zona del paese e i gradi sono già 37, in tarda mattinata, quando giungiamo nei sobborghi occidentali di Tucson agli Old Tucson Studios. Il più famoso set cinematografico del vecchio west è stato costruito nel 1939 e fra le sue polverose strade sono stati girati oltre sessanta film (quattro solo quelli con il mitico John Wayne) … Il ricordo di quei giorni è però ormai piuttosto lontano nel tempo ed il luogo, seppur suggestivo, è un po’ decadente, nonostante la ricostruzione di quasi la metà degli edifici, andati distrutti in seguito ad un incendio nel 1995.

Passiamo agli Old Tucson Studios un paio d’ore roventi durante le quali pranziamo con un enorme gelato e assistiamo alla più classica delle sparatorie western in Main Street, poi ci spostiamo di qualche miglio al vicino Sonora Desert Museum.

Fra giganteschi saguaro è stato allestito un bel museo sul deserto e su tutto ciò che madre natura può offrire in Arizona, così seguendo un percorso, che parte dai minerali, passiamo in rassegna un’esauriente carrellata di magnifiche piante e tristi animali in gabbia, tornando al punto di partenza in circa due ore, arricchiti di un’esperienza tutto sommato positiva.

Trascorse all’aria aperta le ore più calde della giornata, e quindi piuttosto provati, risaliamo in auto per visitare la sezione più occidentale del Saguaro National Park.

Percorrendo la sterrata Hohokam Road passiamo in una foresta di meravigliose ed imponenti piante grasse, poi, mentre monta da sud un temporale, lasciamo la zona di Tucson, che ci è piaciuta tantissimo, e ripresa la Interstate numero 10 prima e la 8 poi andiamo spediti ad ovest, con la temperatura che sale vertiginosamente fino a +43! Nel tardo pomeriggio arriviamo a Gila Bend, una cittadina in mezzo al nulla, che sarebbe niente senza motel e distributori di carburante, ma lì abbiamo deciso di passare la notte, nel locale Travelodge.

Ceniamo con un piatto di buona pasta a Little Italy, un ristorante gestito da una coppia di siciliani … C’è solo la moglie che ci chiede come mai siamo finiti proprio a Gila Bend … ma più che altro ci verrebbe da chiedere a lei come siano finiti in quel posto, visto che noi siamo solo di passaggio … E con questo interrogativo ce ne andiamo a dormire, mentre la temperatura è ancora, saldamente, a +37! Martedì 14 Agosto: Per fortuna esiste l’aria condizionata: quando usciamo dalla nostra stanza, poco dopo le 7:00, a Gila Bend ci sono già 33 gradi! Fatta colazione prendiamo a seguire la Highway numero 85 verso sud, seguendo le indicazioni per il Messico. Scorriamo così lande desolate, battute dalle Border Patrol, la polizia di frontiera americana che sorveglia il confine onde evitare l’ingresso di clandestini, e lungo la strada osserviamo anche qualche avvoltoio, sinistramente appollaiato sui pali della luce.

Attraversiamo la caratteristica cittadina di Ajo, con le sue bianche chiese dal sapore già ispanico, ed arriviamo, oramai a metà mattinata, nell’Organ Pipe Cactus National Monument … Situato nel cuore del Deserto di Sonora il Monumento Nazionale, istituito nel 1937, si concentra in particolar modo, come si può dedurre dal nome, sui cactus a canne d’organo, che non si trovano in nessun altro luogo degli Stati Uniti.

I primi a darci il benvenuto lungo la strada principale del parco sono però numerosi saguaro, poi, giunti al visitor center, imbocchiamo la Ajo Mountain Drive, un percorso sterrato di 21 miglia che s’inerpica sulle vicine alture, nel regno delle piante grasse. Il tracciato è piuttosto accidentato e la nostra Toyota Sienna è tutto tranne che un fuoristrada, ma non disperiamo e con estrema cautela continuiamo nell’esplorazione, del resto i paesaggi sono splendidi e non si può certo rinunciare … Impieghiamo così oltre due fantastiche ore, in completa solitudine, fra monumentali saguaro e bellissimi organ pipe, oltre a terribili cholla cactus, che ho avuto anche il piacere di toccare: un dolore atroce, per qualche istante! Pochissimi turisti si spingono fin quaggiù (il Messico è a sole cinque miglia), ma ne vale assolutamente la pena. Certo, mi ha sfiorato per qualche istante il pensiero che se si fosse fermata l’auto … con quel caldo, in mezzo al deserto … ma alla fine torniamo sani, salvi e felici al visitor center e alla strada asfaltata, quindi, invertita la rotta, riprendiamo subito a macinar chilometri, perché la tappa è ancora lunghissima.

Sulla via del ritorno a Gila Bend ci fermiamo a pranzare ad Ajo, superiamo il posto di blocco della Border Patrol e proseguiamo spediti verso nord.

La temperatura aumenta fin oltre i quaranta gradi, mentre osserviamo in lontananza i grattacieli di Phoenix, capitale dell’Arizona, poi cominciamo a salire sulle montagne, a più di mille metri di quota, ma il caldo non accenna a diminuire. Andiamo incontro a grossi nuvoloni e comincia a piovere, allora sì che il termometro scende, di oltre dieci gradi, anzi venti! … in pochi istanti! … Poi smette e risale a +30, ma non oltre.

Arriviamo così al Montezuma Castle National Monument dove, sopra ad un’ansa del Beaver Creek, si trovano i suggestivi resti di un insediamento indiano Sinagua, risalenti al 1400 … L’edificio principale, molto ben conservato, si trova incastonato fra le rocce a diverse decine di metri d’altezza, ma non è accessibile al pubblico per cui, seppur interessante, la visita del sito ci impegna per non più di mezzora.

Ripresa la Interstate numero 17 prima e la Highway numero 179 poi in breve giungiamo a Sedona, fra i magnifici picchi rossi che la incorniciano e che l’hanno resa celebre, ma è nuvoloso e la mancanza del sole li sminuisce un po’ … Speriamo non sia così domani quando andremo alla loro scoperta … Intanto arriviamo al Days Inn che ci ospiterà per ben due notti e visto che è abbastanza presto mi concedo, con Federico, un bagno in piscina, poi usciamo per cena in un locale per il quale avevamo trovato una pubblicità con il 20% di sconto alla réception: il Red Planet Dinner. Mangiamo decentemente e poi, come al solito, ci ritiriamo in camera anche perché, nonostante Sedona sia un luogo molto turistico, alla sera tutti i negozi sono rigorosamente chiusi.

Mercoledì 15 Agosto: E’ un meraviglioso Ferragosto il potere aprire gli occhi fra i rossi picchi di Sedona ed un cielo più limpido che mai … in più, per la prima ed ultima volta in questa vacanza, lo facciamo con calma perché dovremo passare nella zona l’intera giornata.

A noi dunque Sedona, capitale della “new age”, disseminata di “vortex”: presunti punti, sparsi nel territorio, dove si concentrerebbero energie psichiche ed elettromagnetiche e dove si può trovare, dicono alcuni, l’armonia personale e planetaria … Ma soprattutto, a noi Sedona, cittadina immersa nel più tipico paesaggio del far west americano.

Prima di tutto imbocchiamo la Dry Creek Road per vedere le conformazioni a nord-ovest dell’abitato, poi seguendo le indicazioni per l’aeroporto saliamo, appunto, ad Airport Mesa, da dove si gode di una strepitosa vista sulla verde vallata sottostante, dalla quale emergono i caldi colori delle rocce che si fondono con l’azzurro intenso del cielo … un quadro perfetto, ancor più bello se osservato dal vicino “vortex”, un picco raggiungibile in soli cinque minuti a piedi.

Scesi da Airport Mesa ci avventuriamo in Schnebly Hill Road: un’infernale strada sterrata che s’inerpica, fra eccezionali scorci panoramici, sulle alture ad est di Sedona … Per coprire otto interminabili miglia impieghiamo quasi due ore, ma è un’esperienza alla quale non si può certo mancare! A mezzogiorno, riguadagnata la strada asfaltata, andiamo a nord, lungo la Highway numero 89A, allo Slide Rock State Park, mentre purtroppo montano rapidamente minacciosi nuvoloni all’orizzonte. Pranziamo nell’area attrezzata di fianco al parcheggio del parco, poi andiamo a vedere il tratto di fiume attorno al quale è stata istituita la zona ricreativa e dove, volendo, si può anche fare il bagno, ma l’acqua dell’Oak Creek è gelida ed il sole assente, così Federico si accontenta di passare un po’ di tempo a costruire una diga con i sassi del torrente.

Le rosse rocce di Slide Rock sono accattivanti, peccato solo per le condizioni meteorologiche non proprio ottimali, che non accennano affatto a migliorare e che finiscono per rovinarci un po’ tutto il pomeriggio … Andiamo a vedere il Red Rock Crossing, famoso guado sull’Oak Creek River, sullo sfondo delle fantastiche formazioni rocciose di Cathedral Rock, che ha rivestito più volte il ruolo di set naturale per diversi film western hollywoodiani. Ci spostiamo quindi, sull’altra sponda del fiume, ai piedi dei Twin Buttes, dove si trova Holy Cross, chiesetta realizzata nel 1956, su progetto di Marguerite Brunswing Staude, allievo di Frank Lloyd Wright, e mirabilmente incastonata fra le rocce. Ci rechiamo a vedere, infine, anche Bell Rock, un picco in cima al quale si trova il più famoso “vortex” di Sedona … ma il sole resta per tutto il tempo dietro ad un odioso strato di nuvole.

Piuttosto delusi dalle cupe visite del pomeriggio ce ne andiamo a passare un po’ di tempo fra i negozietti del centro, prima di tornare in hotel e subito dopo uscire per cena da Oxaca, un delizioso ristorante messicano … E a fine serata tutti a letto perché domani ci aspetta una delle tappe più lunghe e faticose del viaggio, che ci porterà fin sulle rive dell’Oceano Pacifico.

Giovedì 16 Agosto: Il buon giorno questa mattina (molto presto, alle 6:00) ce la dà un virgulto cinghiale, che passa davanti alla finestra della nostra camera.

Facciamo colazione e poco dopo le 7:00 partiamo, con davanti a noi oltre seicento miglia (quasi mille chilometri) per giungere sull’oceano e completare in pratica, fisicamente, il tanto sospirato “coast to coast”.

Splende un bellissimo sole quest’oggi per cui, prima di tutto, passiamo a scattare qualche foto laddove le nuvole ieri avevano in qualche modo fermato il nostro rovente dito indice: a Holy Cross, a Cathedral Rock e a Bell Rock, anche se la luce non è quella giusta (le visite, infatti, non erano previste a caso nel pomeriggio).

Subito dopo prendiamo a seguire la strada numero 89A verso nord, che sale rapidamente di quota e ci fa tornare sopra i duemila metri, con la temperatura a 18 gradi.

A Flagstaff imbocchiamo la Interstate numero 40 in direzione ovest e, lasciandoci sulla destra le indicazione per il Grand Canyon, ci apprestiamo a percorrere l’unico tratto di strada che coincide con il nostro itinerario del 2004.

Scendiamo dal Colorado Plateau e la temperatura torna a salire di nuovo in maniera impressionante verso i +40, quindi, continuando a macinar chilometri, scavalchiamo ancora una volta il Colorado River e lasciamo l’Arizona per la California (quindicesimo ed ultimo stato in ordine cronologico di questo viaggio).

Nel bel mezzo del Mojave Desert usciamo dall’autostrada seguendo verso sud le indicazioni per Amboy … La località si trova scritta sulla cartina stradale, ma in pratica è solo un incrocio con poche case … per lo più disabitate … del resto chi oserebbe viverci? … Lì, infatti, battiamo il record del caldo con +44! Proseguiamo per Twentynine Palms, a cinquanta miglia di distanza, e nel centro abitato ci fermiamo a pranzare: la temperatura è quasi la stessa, ma sembra un altro mondo, con un bel parco pubblico e fresca erbetta verde … la vicinanza di Palm Spring, cittadina del jet-set, si fa sentire.

Nel primo pomeriggio c’inoltriamo sulle colline limitrofe nel Joshua Tree National Park, una vastissima area protetta, già Monumento Nazionale nel 1936 e dichiarata Parco nel 1994. Sempre vissuto all’ombra dei suoi più noti parigrado californiani e quindi un po’ bistrattato, il Joshua Tree National Park crediamo invece possa valere il tempo che abbiamo intenzione di dedicargli.

Appena oltrepassato l’ingresso ecco ai margini della strada i primi stranissimi alberi che danno il nome al parco: si trovano solo in questa zona del pianeta e sono un’insolita specie di yucca, della famiglia delle agavi, oltre ad essere bellissimi ed estremamente caratteristici, con i loro rami contorti e in cima ad ogni ramificazione un verdissimo caspo di foglie che assomiglia vagamente ad un pon-pon.

Ad ogni chilometro i Joshua Tree sono sempre più numerosi e sparsi fra meravigliose rocce granitiche levigate … un vero spettacolo, che raggiunge la sua apoteosi a Hidden Valley, un luogo nel quale, secondo la leggenda, i ladri di bestiame nascondevano le loro prede.

Più avanti la strada per Keys View (punto panoramico) è chiusa per lavori e proseguiamo oltre, mentre gli alberi diminuiscono di numero e di dimensioni, fino a sparire completamente all’imbocco della Pinto Basin Road.

Subito dopo vorremmo vedere il White Tank Arc, un’ardita formazione rocciosa, ma la carrareccia che dà accesso all’area dove si trova è chiusa con una sbarra metallica, senza che vi siano spiegazioni … maledizione! … Allora ci consoliamo con l’impressionante distesa di spini del Cholla Cactus Garden, dove un cartello mette in guardia sulla pericolosità delle piante … grazie, ma già lo sapevo! Attraversata tutta la parte più orientale del parco, dall’aspetto prettamente desertico, ci fermiamo per qualche istante al boschetto di palme di Cottonwood Spring e poi ci lasciamo alle spalle il sorprendente Joshua Tree National Park dal suo ingresso più meridionale.

La temperatura è sempre oltre i quaranta quando, percorsa la vallata del Salton Sea, imbocchiamo la strada S22, che sale verso l’Anza Borrego Desert State Park, una zona in teoria anche interessante, ma la densa foschia presente non ci permette di godere appieno degli scorci panoramici che incontriamo lungo il percorso.

Valichiamo una montagna e come per incanto il deserto lascia il posto a verdi vallate … Affrontiamo un’infinità di curve e saliscendi, mentre il sole tramonta inesorabilmente e in lontananza s’intravede l’oceano, ma ci sono ancora diversi chilometri da percorrere in questa interminabile giornata e arriviamo col buio completo alla periferia di una metropoli come San Diego … Per fortuna non perdiamo la bussola e, seppur stanchissimi, rintracciamo anche il Super 8 che ci ospiterà per questa notte … Ceniamo nei paraggi, un po’ provati (ma sotto, sotto soddisfatti anche per la tappa odierna) e poi ci trasciniamo in camera a consumare il meritato riposo.

Venerdì 17 Agosto: E’ l’ultimo giorno intero del viaggio che passeremo negli States e ci svegliamo al Super 8 di San Diego, secondo agglomerato urbano per numero di abitanti della California.

Facciamo colazione, lasciamo le valigie in deposito alla réception e poi partiamo per far visita al famoso Zoo di San Diego, aperto nel 1915 e, per dimensioni, il numero uno al mondo.

Lasciata l’auto nell’immenso parcheggio antistante facciamo i biglietti (piuttosto cari), entriamo e c’immergiamo immediatamente nel mondo animale, ma anche vegetale vista la magnifica ambientazione.

Per tutta la mattinata vaghiamo per i sentieri dello zoo osservando tantissimi degli oltre quattromila animali presenti, alcuni dei quali a noi completamente sconosciuti. Fra i più emozionanti in testa a tutti il panda, e poi il koala, il tapiro, orsi, scimmie, felini, ungulati e via dicendo … Non c’è che dire: bellissimo zoo, fantastici animali, stupenda l’organizzazione e l’ambientazione … ma che tristezza vedere tutti quegli esseri in gabbia … molto meglio vederne anche uno solo, ma in completa libertà, e probabilmente di questo viaggio ricorderemo più volentieri i pochi secondi di avvistamento dell’orso al Grand Teton National Park piuttosto che lo sfavillante Zoo di San Diego.

Consci di questo cerchiamo comunque di goderci la visita e viste le dimensioni dell’area facciamo anche un giro in teleferica, quindi col bus panoramico, infine assistiamo ad un simpatico spettacolo il cui protagonista è un leone marino … Pranziamo all’interno del parco e poi usciamo che sono già passate le 14:00.

Tornati al Super 8 e ritirate le valigie, ce ne andiamo alla scoperta di quel che resta da vedere a San Diego.

Tralasciamo il parco di Sea World, che abbiamo già visto ad Orlando, in Florida, e attraversata tutta la città giungiamo sulle rive della baia nella quale questa s’affaccia. Da lì, per mezzo di uno spettacolare ponte, approdiamo sulla dirimpettaia Isola di Coronado, che chiude la baia alla forza dell’oceano e che riveste un ruolo di primaria importanza nel turismo balneare del paese. Proprio in faccia all’Oceano Pacifico si trova infatti il vittoriano Hotel del Coronado, stravagante edificio considerato monumento storico, giacché dalla inaugurazione, avvenuta nel 1888, ha sempre legato il suo nome ai più svariati intrecci della politica, del denaro e del cinema.

Facciamo una passeggiata lungo la spiaggia, con la scenografica sagoma dell’hotel sulla destra e a sinistra il mare, che ci rechiamo a toccare quasi in maniera rituale quale simbolo della riuscita spedizione attraverso il continente americano, poi torniamo sulle nostre tracce e riaffrontiamo il ponte che ci riporta a San Diego.

Scorriamo in lontananza lo skyline di Downtown, che non è nulla di eccezionale se paragonato ai ricordi di Chicago, e prima di lasciare la città andiamo a dare un’occhiata anche a Old Town, il primo nucleo abitato di San Diego e fra i più vecchi di tutta la California, creato nel 1820 … I sei isolati, tutti di attempati e caratteristici edifici, che si sviluppano intorno alla centralissima Washington Square, sono una vera e propria sorpresa: deliziosi angoli in stile messicano e bei negozietti nei quali ci perdiamo volutamente … col rischio concreto di fare tardi anche questa sera! Quasi alle 18:00 partiamo per Los Angeles … La strada da percorrere non è tanta, ma tanto è il traffico (davvero impressionante vedere sette corsie di auto ferme in coda nella stessa direzione!), così arriviamo al Rodeway Inn di Cottonwood, nei pressi del LAX, da dove spiccheremo il volo domani mattina, col buio, poco dopo le 20:00.

Portiamo in camera i bagagli e andiamo a cenare in un fast food messicano, poi torniamo a sistemare le valigie per la partenza e a riposare un po’, visto che la prossima notte la passeremo sulle scomode poltrone dell’aereo.

Sabato 18 Agosto: Si va a casa: alle 5:00 suona la sveglia, facciamo una risicata colazione in camera e poi lasciamo il Rodeway Inn. Percorriamo la breve distanza che ci divide dalla National e riconsegniamo l’auto con la quale abbiamo percorso, negli Stati Uniti, 6176 miglia (pari a 9881 chilometri) e tutto è andato liscio, nonostante il vetro rotto (compreso nell’assicurazione) e la spia di manutenzione accesa, che ci ha dato qualche preoccupazione.

Alle 6:30 siamo al Terminal 4 del LAX (Los Angeles International Airport) e ci mettiamo subito in coda per il check-in. La fila di persone davanti a noi è impressionante e ci armiamo di tantissima pazienza, ma intanto il tempo passa e il volo è previsto per le 9:00. Chiedo informazioni ad un addetto e questo ci spedisce nella coda dei biglietti elettronici, ma la macchinetta preposta risponde picche … Ci spostano allora in una terza fila … e intanto il tempo passa: sono le 8:00 e comincio ad innervosirmi! … Lo faccio notare e mi dicono di stare al mio posto! … Incredibile, siamo nel paese numero uno al mondo e la disorganizzazione è totale: un’unica fila per tutti i voli, sia per chi è in largo anticipo, sia per chi ha i tempi ormai stretti come noi.

Arriviamo al banco che sono le 8:40 … e ci dicono che non c’è più tempo per imbarcarsi … fantastico! … Grazie American Airlines! … In più la prossima occasione per volare verso casa pare ci sia solo domani alla stessa ora: siamo sconcertati, ma dobbiamo accettare la situazione! Usciamo dall’aeroporto, bagagli alla mano, saliamo sul bus dell’autonoleggio e ci rechiamo alla Alamo. Chiediamo così un’altra auto per un giorno: sono le 10:30 e qualcosa dovremo pur fare, oltre che andare alla ricerca di un hotel per la notte.

Ci consegnano una Chevrolet Uplander bianca (targata California 5VAE 234), con la quale torniamo al Rodeway Inn, visto che il prezzo era buono ed è nelle vicinanze, quindi, preso nuovamente possesso delle nostre stanze, pranziamo con qualche cibaria acquistata nel vicino supermercato.

Nel primo pomeriggio partiamo in auto e andiamo a nord lungo la costa fino alla nota località di Malibu, che non avevamo visto nel viaggio del 2004, e troviamo le classiche case sulla spiaggia, molto ambite e dai prezzi esorbitanti, ma il morale è sotto ai tacchi e non ci entusiasmano affatto.

Mentre si accende anche in questa auto la spia di manutenzione andiamo allora, passando accanto al Pier di Santa Monica, a Venice Beach … la cosa migliore che ci sia capitata in questa infelice giornata … Come tre anni fa il luogo è stupendo, ricco di colori e di gente di ogni tipo, un vero e proprio spaccato di vita made in U.S.A. … Il caso vuole che troviamo anche tutte le targhe automobilistiche degli stati che abbiamo attraversato, delle quali siamo collezionisti, e anche questo è un aspetto positivo … Passiamo tutto il pomeriggio a Venice Beach, riacquistando un pizzico di buon umore, poi torniamo al Rodeway Inn, usciamo per cena ancora una volta da Pizza Hut e torniamo in camera a riposare, visto che domani mattina partiremo molto, ma molto prima per non incappare in una nuova disavventura.

Domenica 19 Agosto: La sveglia suona alle 3:40 … A quest’ora dovevamo già essere a Bologna e invece eccoci ancora a Los Angeles.

In larghissimo anticipo, alle 4:30, scarico tutti al Terminal 4 del LAX, si mettono in coda e io vado a riconsegnare l’auto alla Alamo: con quella abbiamo percorso altre 77 miglia, che sommate alle 6176 precedenti diventano 6253, pari a 10004 chilometri … è vero, volevamo superare i diecimila e abbiamo perso apposta il volo ieri … ma in realtà è molto presto, ho tanto sonno e sto vaneggiando.

Con la navetta raggiungo gli altri in aeroporto, che nel frattempo sono stati fatti spostare al check-in elettronico … La macchinetta risponde anche oggi picche, ma la signora che fa assistenza, a differenza di quella di ieri, va dietro al banco e in un attimo ci sistema (anche in America le persone non sono tutte uguali e spero solo alla sua collega vengano forti dolori al basso ventre …).

Imbarchiamo le valigie (per le quali dobbiamo pagare 25 dollari a causa di un soprappeso di 6,5 chili … tolleranza zero!), oltrepassiamo il metal-detector e, se Dio vuole, ci sediamo in attesa del volo alla porta 49A … Questa mattina in poco più di un’ora siamo riusciti a fare ciò che ieri non è stato possibile fare in oltre due, e adesso dovremo aspettare per tre lunghissime ore la partenza del nostro aereo, intanto però possiamo finalmente distendere i nervi.

Si fa quasi l’ora del decollo e ci accorgiamo che c’è un ritardo di mezzora … e i nervi cominciano di nuovo a contrarsi, visto che dobbiamo prendere un volo per Bologna in coincidenza piuttosto stretta a Bruxelles. Pare ci sia brutto tempo a Chicago, dove faremo uno scalo, e la partenza viene spostata ulteriormente: prima di 45 minuti, poi di un’ora, infine di un’ora e mezza! Alle 11:19 stacchiamo finalmente da terra (volo AA88) e il Boeing 767 dell’American Airlines vira subito verso Chicago, ma prendere la coincidenza per Bologna sarà quasi impossibile … ci vorrebbe un miracolo, visto che c’erano due ore di tempo a disposizione … quasi quanto il ritardo.

Lungo il tragitto perdiamo due ore di fuso orario e tutto va per il meglio, nonostante qualche innocua turbolenza, solo atterriamo nella capitale dell’Illinois alle 16:40, in ritardo mostruoso sulla tabella di marcia, mentre oltre il finestrino il tempo è orribile, di tipo autunnale, e il sole di venti giorni fa durante la nostra visita a Chicago sembra solo un lontano ricordo.

Chissà quando ripartirà l’aereo? …Ci chiediamo mentre stiamo sbarcando, ma senza quasi rendercene conto ci troviamo immediatamente imbarcati, attraverso una porta attigua, su di un altro aereo, con lo stesso numero di volo (un altro Boeing 767), che alle 17:58 rulla sulla pista dell’Ohare Airport e prende quota in direzione dell’Europa … Goodbye America, e a presto … E nello stesso istante si riaccende in noi anche la speranza di prendere la coincidenza per Bologna.

Dopo poche ore di volo, a tutta velocità verso il tramonto, è già notte fonda. Riporto così le lancette dell’orologio sul fuso orario di Bruxelles e dell’Italia e in un batter d’occhio è … … Lunedì 20 Agosto: Questa data non doveva neanche apparire sul diario di viaggio, e invece eccola qua … Procediamo nella notte atlantica lasciandoci il continente americano alle spalle e, passando poco più a sud della Groenlandia, ci affacciamo sull’Europa mentre comincia ad albeggiare.

Fuori dal finestrino ci sono tante nuvole, ma sotto di noi c’è l’Irlanda, poi cominciamo la discesa verso Bruxelles, dove atterriamo, mettendo a segno un buon recupero, alle 8:18 di una mattinata uggiosa.

Usciamo dall’aereo e cominciamo la corsa per l’ultimo volo, ma non siamo negli States e le complicazioni sono minori, così in 35 minuti facciamo dogana, check-in e metal-detector e ci presentiamo alla porta A54 per l’imbarco … ancora qualche problemino con i biglietti e poi saliamo sull’Avro RJ 85 della Brussel Airlines e la smettiamo di litigare con gli aerei! In perfetto orario, finalmente, il volo SN 3123 prende quota diretto in Italia … Saliamo sopra alle nuvole e praticamente rivediamo terra solo a Bologna, dove atterriamo felicemente alle 11:18 … Ora resta da prendere solo il treno.

Ritiriamo tutti i bagagli (e non è poco!), saliamo sulla navetta per la stazione e quando ci arriviamo sentiamo annunciare il treno locale per Rimini in partenza dal binario 8: gran corsa con le valigie in mano e saliamo al volo sul terno delle 12:09, così ci avviamo immediatamente in direzione del traguardo.

Arrivati a Forlì troviamo qualcuno di buon cuore che è venuto a prenderci, in questo modo salutiamo i nonni, che anche questa volta sono stati buoni compagni di viaggio, e alle 13:22, oltre ventiquattrore dopo la sveglia a Los Angeles, siamo di nuovo di fronte al cancello di casa nostra.

E’ stato un viaggio meraviglioso, un’epica cavalcata dall’Atlantico al Pacifico attraverso gl’immensi spazi e i sublimi paesaggi nordamericani, ma è stato anche un viaggio durissimo, perché diecimila chilometri in venti giorni sono davvero tanti e non ci hanno lasciato molto tempo per assaporare e per meditare su quanto ogni giorno scorreva davanti ai nostri occhi, così solo dopo aver riordinato con calma i pensieri e i bellissimi ricordi potremo veramente dire quanto meraviglioso si stato questo “coast to coast” e annoverarlo, come merita, nell’Olimpo delle nostre avventure.

 Dal 29 Luglio al 20 Agosto 2007  Da Washington a Los Angeles km. 10004



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