Mallorca y Menorca mas

MALLORCA y MENORCA mas - prima parte 18 luglio - 2 agosto 2004 un viaggio di Mauro e Alessandra Stavolta partiamo prenotati. Contrariamente al solito, stavolta abbiamo prenotato quasi tutto prima di partire. Abbiamo fatto tutto via Internet, con una/due settimane di anticipo rispetto alla partenza: il volo Volareweb (in due circa 295 euro...
Scritto da: mauale86
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MALLORCA y MENORCA mas – prima parte 18 luglio – 2 agosto 2004 un viaggio di Mauro e Alessandra Stavolta partiamo prenotati.

Contrariamente al solito, stavolta abbiamo prenotato quasi tutto prima di partire. Abbiamo fatto tutto via Internet, con una/due settimane di anticipo rispetto alla partenza: il volo Volareweb (in due circa 295 euro andata e ritorno), tre notti all’Hostal Apuntadores di Palma (35 euro a notte), tre giorni di noleggio auto a Palma (www.Amigoautos.Com, per circa 80 euro complessivi), otto notti a Menorca all’Hotel Alfonso III (circa 48 euro a notte), sette giorni di noleggio auto a Menorca (sempre amigoautos, per circa 133 euro complessivi).

Rimangono scoperte solo un paio di notti a Mallorca per le quali cercheremo sul posto.

18 luglio ITALIA: Sesto S.G. – Milano Centrale – Aeroporto Malpensa Ci accompagnano alla stazione centrale di Milano Paolo e Tiziana; con la nostra macchina, che Paolo custodirà nel periodo della nostra assenza a scanso di multe per pulizia strade. Dalla stazione prendiamo lo Shuttle per Malpensa (4,5 euro) avvertendo l’autista che andiamo al terminal 2.

La partenza dell’aereo, prevista per le 22.50, è ritardata. L’arrivo era previsto per le 00.20, e adesso arriveremo più tardi. Speriamo che all’Apuntadores ci aspettino con fiducia (non abbiamo pagato un centesimo di anticipo).

Compriamo la Settimana Enigmistica, leggiamo. Abbiamo “Che ve ne sembra dell’America?” di Saroyan, un paio di romanzi della giallista spagnola Alicia Giménez-Bartlett (che tocco di classe!) e in più “Marianna Ucria” della Maraini. In vacanza la propensione alla lettura tra me e Alessandra si inverte e lei diventa una divoratrice di libri, mentre io divento un lettore pigro e svogliato.

19 luglio ITALIA/MALLORCA: Aeroporto Malpensa – Aeroporto di Palma de Mallorca – Palma Il volo no frill (e non ho nemmeno il posto al finestrino) ci porta in circa un’ora e mezza da Malpensa all’aeroporto di Palma: una struttura gigantesca, dagli spazi enormi e ariosi, lungo la quale cominciamo a muoverci in lunghi rettilinei facilitati da tapis roulant alla fine dei quali recuperiamo senza problemi i nostri due trolley medio-piccoli trascinando i quali usciamo finalmente all’aria aperta. Chiediamo al primo signore che vediamo, un addetto alle pulizie, dove si prende il bus per il centro. Lui ci indica con prontezza e precisione una pensilina nelle vicinanze. E’ bello essere in un paese straniero dove ti capiscono quando chiedi e capisci quando ti rispondono.

Vista l’ora la frequenza dei bus non è alta e ci disponiamo ad aspettare un po’. Cerchiamo di capire con le cattive cartine a nostra disposizione qual è il percorso dell’autobus e dove ci conviene scendere ma capendoci poco o nulla. Parlo a voce alta e mimo incertezza, a beneficio di una ragazza che aspetta l’autobus e dalla quale mi aspetto qualche aiuto spontaneo, che però tarda a venire.

Alla fine arriva l’autobus, saliamo, facciamo il biglietto (1,8), e chiediamo al conducente, che ci consiglia di scendere un paio di fermate dopo placa d’Espanya. La ragazza a questo punto cede e ci dice che anche scende alla stessa fermata e che ci avviserà lei quando siamo arrivati. La cosa ci tranquillizza. Il bus arriva in pochi minuti a Palma, ne attraversa la periferia sud, oltrepassa la grande placa d’Espanya e dopo un po’ la ragazza ci fa segno che è ora di scendere. Ne approfittiamo e le chiediamo se sa dov’è calle Apuntadores ma lei non sa. Dovrebbe essere vicino alla cattedrale, le suggeriamo, ottenendo almeno l’indicazione di una direzione approssimativa. Lei si allontana nella notte dalla sua parte e noi dalla nostra. Siamo in riva ad una specie di canale, che ci lasciamo alle spalle per imboccare l’avenida Jaime III. Non è che a Palma in avenida Jaime III (una via commerciale, sulla quale si affacciano grandi magazzini come El Corte Ingles e numerosi negozi, tutti ovviamente chiusi) ci sia molta gente in giro alle due di notte o quelle che sono. Chiediamo a tutti quelli che incontriamo, sistematicamente. Apuntadores non la conosce nessuno e collezioniamo una serie di “lo siento”. Potremmo arrenderci e chiamare un taxi, ma mi secca perché penso che la nostra meta sia vicinissima. Alla fine troviamo un paio di giovani figliole che sembrano più determinate delle altre. Una delle due, di colore, tira fuori una cartina di Palma, scritta purtroppo a caratteri di colore chiaro e microscopici; si consultano, ci indicano viuzze non molto incoraggianti e alla fine decidono di mandarci dritti per Jaime III fino alla piazza con la fontana; di qui giriamo a destra e troviamo Apuntadores. Ringraziamo, proseguiamo con i nostri trolley che rumoreggiano sul pavimento a piastrelline sotto i portici degli edifici moderni, svoltiamo sul Passeig de Born e di nuovo non sappiamo cosa fare. Le traverse non si chiamano Apuntadores; chiediamo di nuovo indicazioni. Io mi sto impegolando in un inglese reso ancora più mediocre del normale dall’ora tarda con due ragazze che non parlano spagnolo, ma Alessandra trova l’imbeccata giusta. Dopo qualche decina di metri troviamo la calle Apuntadores, poco più che un vicolo, vicinissimo alla cattedrale. L’hostal è in una vecchia casa tra vecchie case, nella reception c’è un vecchio signore e una televisione accesa. La nostra stanza c’è (la prenotazione è segnata a nome “Mauro”); diamo i documenti, obiettiamo alla richiesta di pagare le tre notti in anticipo (la carta di credito non la prendono), ne paghiamo una, scopriamo inaspettatamente e felicemente che il vecchio edificio è dotato di ascensore e saliamo al quarto piano. Nel frattempo a me è venuto un vago timore; avevo letto su un racconto di viaggio sul sito di “Turisti per caso” di un hostal, gestito da un olandese, con i letti privi di lenzuola (“perché si usa così”); non saremo capitati nello stesso posto? No. La camera è a posto, una discreta camera d’albergo, senza bagno, con un piccolo balconcino affacciato su Apuntadores dal quale si scorgono al di sopra del tetto di fronte la sommità illuminata della facciata della cattedrale.

E’ ora di dormire. Ci addormentiamo subito.

Ci svegliano la luce che filtra tra le imposte e i rumori che provengono dai lavori stradali in corso proprio all’imboccatura di Apuntadores.

Dedichiamo la prima giornata, senza macchina, all’orizzontamento e alla visita di Palma. Scopriremo nell’arco della giornata che Apuntadores è in una posizione strategica, arteria minuscola ma vitalissima (non al mattino, a dire il vero), della città vecchia, piena di ristoranti e locali , a due passi dal mare, dal palazzo reale, dalla cattedrale, dalla passeggiata ombreggiata del Passeig de Born (aperto e chiuso da un quartetto di sfingi), dall’arteria commerciale di Jaime III, come anche dalla Carter de la Uniò che porta in breve a Placa Major, e perfino con un supermercatino fornito di tutto proprio alle spalle e l’ufficio delle informazioni turistiche proprio di fronte… Di più non si potrebbe pretendere.

All’ufficio turistico ci facciamo dare un po’ di materiale, tra cui la mappa della città e dell’isola, gli orari di tutti gli autobus di Mallorca e la mappa di tutte le spiagge, censite con criterio quasi maniacale, con l’indicazione per ciascuna delle caratteristiche, del tipo di urbanizzazione presente, del tipo di terreno, del diametro medio dei granelli di sabbia (sic!), del dislivello in mare, dei servizi offerti, e (in maiuscolo e sottolineato) se si tratta di una spiaggia per nudisti.

Dopo una deviazione iniziale che ci porta alla Llotja, un bell’edificio gotico ora adibito a sala d’esposizioni, saliamo il breve pendio che porta al Palau de la Almudaina e della Seu, cioè il palazzo reale (ex-alcazar araba) e la cattedrale gotica, fermandoci a fotografare dei pittoreschi calessi con l’intelaiatura rossa e un ulivo secolare e contorto. La cattedrale è molto bella (una delle cinque più belle chiese di Spagna, dice la guida), con una facciata imponente ma un po’ soffocata dalla prossimità delle mura del palazzo reale, bei portali e bei rosoni (tra cui uno di tredici metri di diametro che viene ritenuto il più grande del mondo), e soprattutto splendide fiancate a torri e arcate rampanti, dalle quali si affacciano gargoyle e di cui quella destra si offre panoramicamente verso il mare con un effetto scenografico incomparabile. In assenza di messe paghiamo il biglietto per la visita (3,5). Né il piccolo museo né l’interno della chiesa offrono cose memorabili (almeno per quanto ci riguarda). La cosa più curiosa è il baldacchino aereo che sovrasta l’altare realizzato da Gaudì e coerentemente abbastanza bizzarro. Facciamo qualche foto, ci affacciamo sul Parc de la Mar, il bacino d’acqua sottostante che la divide dall’Autopista de Levante e subito dopo dal mare Mediterraneo, rinunciamo ad entrare nel palazzo reale e ci inoltriamo nel quartiere antico dietro la cattedrale (per un po’ seguiamo le indicazioni per i bagni arabi, poi le abbandoniamo), pieno di bei palazzi antichi e di cortili ombrosi. Giriamo tutto intorno al Parc de la Mar e cerchiamo un posto dove andare a mangiare. Ci fermiamo in un bar all’aperto su Carrer Palau Reial, di fronte al palazzo reale (e agli scavi archeologici in corso lì sotto). Ordiniamo e cogliamo l’occasione per rinfrescarci la memoria sulle dimensioni dei bocadillos, uno dei quali sarebbe sufficiente per sfamare due persone. La moda dei bar all’aperto sul Carter sono cannucce colorate lunghissime che fuoriescono dai bicchieri di sangria o dai boccali di birra e descrivono lunghi archi prima di infilarsi nelle bocche degli avventori. Dopo la sosta ci rimettiamo in moto. Visitiamo S. Francesc (stavolta il biglietto è di 1,5) con relativo chiostro (settecentesco, niente di che), davanti alla quale si erge la statua del missionario Junipero Serra, mano sulla spalla di un giovanissimi indio californiano seminudo, passiamo davanti all’Ayuntament (nella piazza antistante un ulivo monumentale, splendido e mostruosamente attorcigliato, pieno di dignità e di sofferenza), un negozio di complementi d’arredo fatti con objects trouvees naturali (tronchi, legni, sassi, conchiglie, sabbie) che suscita la mia voglia di emulazione. E’ una bella giornata, dura e calda; proseguiamo mangiando un ghiacciolo e risaliamo vecchie strade e stradine fino ad arrivare al Carter del Sindicat, una via commerciale popolare, alle spalle della quale si apre l’appartata ed assolata Placa Major, una di quelle piazze regolari nitide e geometriche che si incontrano talvolta in Spagna. Abbiamo sete. Proseguiamo verso placa Weyler, nei cui pressi guardiamo le vetrine del Forn des Teatre, panetteria specializzata in ensaimadas con una celebre insegna in stile floreale, e il Grand Hotel, in stile art nouveau. Percorriamo ancora Carter de la Uniò e poi pieghiamo in Passeig des Born, ormai con la priorità di trovare un negozio che venda qualcosa di fresco da bere (preferiremmo evitarci di fermarci in un bar), ma inutilmente. Alla fine troviamo il piccolo super proprio dietro Apuntadores, dove compriamo da bere e qualcosa da mangiare per l’indomani: cacaolat e merendine per la colazione e tramezzini già pronti e formaggini per il pranzo. In albergo facciamo una bella conoscenza: il tetto di fronte, all’altezza del nostro quarto piano, è abitato da una micina bianca e nera, forse neomamma, che viene a miagolare davanti alla nostra (e alle altre) finestra per chiedere da mangiare. Gli promettiamo qualcosa dal ristorante e intanto, poiché la breve distanza che separa gli edifici di Apuntadores lo permette, gli sparo sul tetto un paio di formaggini che si pappa avidamente.

Prima di uscire saliamo con l’ascensore fino all’ultimo piano; si esce su un terrazzo che domina i tetti della città vecchia e dal quale si vede una buona parte della facciata della cattedrale, la cui pietra dorata è aranciata dalla luce del sole al tramonto. Alcuni giovani seduti a bere birra ci guardano con diffidenza; guardiamo il panorama, molto bello, ci scattiamo a vicenda un paio di foto con la macchina e la macchinetta e discendiamo.

Usciamo per andare a mangiare e poi al cinema. Tra i materiali che abbiamo recuperato durante il giorno infatti c’è anche il programma delle manifestazioni estive a Palma, tra le quali proiezioni cinematografiche all’aperto al Parc de la Mar.

Scorriamo un po’ di liste dei ristoranti di Apuntadores e traverse, esitiamo tra tapas (6 assortite per 11 euro) e piatti più sostanziosi, entriamo alla fine nel Sazon, dall’aspetto raffinato e dai costi contenuti, ma ne usciamo immediatamente dopo aver scoperto che si tratta anche lì di piccole porzioni tipo tapas. Alla fine decidiamo per La Paloma, e non ce ne pentiamo. Facciamo a metà dei piatti che scegliamo, che sono pollo ripieno con spinaci, funghi e formaggio con patate al cartoccio (pollo campero) e salmone allo spumante (salmon cava), uno più squisito dell’altro. Bevo vino bianco e Ale acqua. Il conto è di 32.69 euro. Ci avviamo quindi al Parc de la Mar e arriviamo quando il film sta iniziando. Le tribune sono piene, le gradinate pure, c’è gente che si è portata la sedia da casa e altra che si è seduta per terra. Ci sediamo per terra anche noi e ci guardiamo “Sotto il sole della Toscana”, ovvero “Under the Tuscany Sun”, ovvero “Bajo el sol de la Tuscania”, una coproduzione Usa-Italia doppiata in spagnolo (in casigliano, per fortuna, e non in catalano). Capiamo tutto quello che c’è da capire e ci divertiamo già per questo; per il resto l’Italia del film è cartolinesca e da noi il film risulterebbe francamente inguardabile.

E’ stata comunque una bella serata. Rientriamo in albergo, guardiamo un po’ dal balcone, a picco sotto di noi, i giovani che salgono e scendono lungo Apuntadores, e andiamo a dormire.

20 luglio MALLORCA: Palma – Soller – Sa Calobra – Fornalutx – Valldemossa – Genova – Palma Abbiamo puntato la sveglia. Alle 9 dovrebbero portarci la macchina che abbiamo prenotato via Internet. Al posto della macchina arriva una telefonata dalla reception: la macchina ce la dobbiamo andare a prendere noi sul Paseig Maritimo (a piedi una quindicina di minuti). Prepariamo la roba per star fuori la giornata e partiamo (non dopo aver pagato le prossime due notti d’albergo). Ci incamminiamo di buon passo lungo la strada che costeggia il mare da una parte e alcuni begli edifici (la Llotja, i bastioni di El Baluard, perfino un gruppo di vecchi mulini rimasti incastrati tra le nuove costruzioni della parte moderna del lungomare di Palma), fino a raggiungere l’agenzia di autonoleggio, Europacar (ne deduciamo che “amigosauto” è un network di cui fanno parte diverse agenzie e catene di agenzie). Come spesso ci è successo, il modello base di macchina da noi ordinato (3 porte, senz’aria condizionata, ecc.) non è disponibile: senza sovrapprezzo ci assegnano quindi una Mercedes A140 plateada (cioè color argento), con air bag, aria condizionata, autoradio, alzacristalli elettrici, ecc. La somma preventivata via Internet non rivela sorprese e comprende tutte le assicurazioni senza alcuna franchigia, la gratuità per il secondo conducente, ecc. Paghiamo un deposito per la benzina, che ci verrà rifuso se restituiamo la macchina con il serbatoio pieno. Recuperiamo la macchina in un vicino parcheggio (dove osserviamo la strana e abbastanza diffusa figura del parcheggiatore volontario, che non fa altro che indicarti – per fortuna non a noi – il posto libero nel parcheggio che vedresti benissimo anche da solo chiedendoti in cambio la mancia) e una stuoia abbandonata in un cestino dei rifiuti, che comincia a sfilacciarsi ma potrebbe tornare utile.

Partiamo sul serio, ma nel frattempo il tempo si è annuvolato; stiamo per prendere la direzione della famosa spiaggia di Es Trenc, ma all’ultimissimo momento cambiamo idea e deviamo verso il nord: se il tempo non è bello è inutile sprecare una giornata in spiaggia. Seguiamo a questo punto le indicazioni per Soller ma non abbiamo un piano preciso. Ci troviamo di fronte ad un tunnel a pedaggio (3,5) e prendiamo la strada alternativa, che si rivela ben presto essere una strada che sale impavidamente con curve e tornanti sulla Serra, tra montagne alte mille metri. Arriviamo a Soller già affaticati e con la sensazione di esserci cacciati in un vicolo cieco. Parcheggiamo in periferia; nel frattempo è uscito un sole spietato e camminiamo accaldati verso il centro, dove troviamo una piazza, una chiesa e un edificio modernisti progettati da qualche amico di Gaudì, e il trenino che collega la città a Palma. La visita si esaurisce in pochi minuti; torniamo alla macchina e ripartiamo, scegliendo di non scendere a Port de Soller ma puntando invece verso Sa Calobra, spiaggia famosa e già adocchiata il giorno precedente sulle cartoline. La strada si snoda tortuosa in mezzo ai monti, tra le pinete, ma il bello deve ancora venire e sono i dieci chilometri di tornanti che portano dalla strada in quota a Sa Calobra. Alessandra guida con la consueta abilità e perizia. Lasciamo la macchina in un parcheggio a pagamento (dopo aver esitato un paio di minuti per vedere se si liberava qualche posto non a pagamento, guatati con malevolenza da un odioso poliziotto) e scendiamo verso il mare lungo una strada affollata in modo sospetto di autobus della Trans Union, dove ci aspetta, addossati alle scogliere, una sfilza imprevista di ristoranti, chioschi, negozi e negozietti. Proseguiamo lungo l’affollato vialetto in costa e dopo una serie di piccoli tunnel scavati nella roccia usciamo alla spiaggia, dove la nostra crescente delusione arriva al culmine: la spiaggia è piccola, strozzata tra due scogliere e occupata a tappeto da una gran folla. Ci guadagniamo a stento il nostro metro quadro sul quale stendere gli asciugamani e andiamo a farci un bagno. Usciti dall’acqua abbiamo il dubbio di essere perseguitati da una specie di nuvola di Fantozzi, che torna a velare il cielo. Questo fa sì, almeno, che un po’ di gente cominci a sfollare alleviando un po’ il congestionamento della spiaggetta. In realtà il posto deve la sua fama anche o soprattutto perché è situata allo sbocco di un canyon, percorribile a piedi, lungo il quale scorre il Torrent de Pareis. Dopo una merenda a base di panini al patè e frutta, lascio quindi Alessandra e mi incammino verso l’interno. Nel giro di un minuto si entra in un altro mondo, tra alte pareti rocciose sforacchiate da grandi e piccole grotte, lungo il letto del torrente tra la vegetazione e pozze d’acqua, dove gli unici rumori sono il canto e i frulli d’ali degli uccelli. Incontro rare persone; arrivo fino ad un punto in cui la valle sembra apparentemente sbarrata da una barriera di massi e torno indietro. Il cielo ormai si è fatto pesante; raggiungo Alessandra e rifacendo il percorso inverso torniamo alla macchina e ripartiamo con l’impressione di avere sbagliato programma. Scartate diverse ipotesi, facciamo una sosta a Fornalutx, che ci viene descritto come una paese assai carino che ha vinto due volte il premio spagnolo per il villaggio d’atmosfera. Non capiamo il perché. Lasciata la macchina in un parcheggio a pagamento (ma per poche monete) raggiungiamo in breve il centro. C’è una chiesetta, case di pietra gialla, viottoli che sfuggono in salita o in discesa dalla via principale, ma niente di che. Compriamo gelato e acqua da una signora dall’aria simpatica che gestisce un negozietto sulla piazza e mangiamo e beviamo su una panchina della piazza. Ripartiamo, con il cielo sempre annuvolato. Saltiamo Dejà, che invece molto probabilmente meritava una sosta, non riusciamo a scorgere le deviazioni né per Cala Dejà né per la Punta de Sa Foradada (dove dovrebbe esserci una famosa roccia bucata) e tiriamo dritti fino a Valldemossa. Qui ci fermiamo di nuovo; c’è una celebre Certosa e i ricordi romantici di Chopin e Georges Sand. Anche qui il parcheggio è a pagamento ma una signora ci viene incontro con aria decisa e seccata e ci regala il suo biglietto senza parlare. A questo punto è uscito un sole tardivo e un po’ irrisorio. La via per la Cartuja è carina, ma la certosa è chiusa e il nostro tentativo di infilarci in un portone ancora aperto viene immediatamente respinto. Facciamo un giretto intorno, nel giardino con roseto, sotto il campanile coperto da una cuspide bombata verde. Valldemosa è famosa per le preparazioni con le mandorle e per la coca de patatas, che a dispetto del nome bizzarro è un dolciume. Non assaggiamo nulla e riprendiamo il viaggio verso Palma, su una strada decisamente più tranquilla che all’andata. Rientrati a Palma, decidiamo di seguire il consiglio della guida (“Baleari” di Malinverni-Tarallo, ed. Ulysse-Moizzi) e di andare a mangiare a Genova, un sobborgo sulle colline dietro Palma. Seguiamo la strada lungomare e poi le indicazioni per Genova. Cerco di lanciare qualche occhiata al castello di Bellver, una bella costruzione circolare (con torri nelle mura e un torrione esterno, e cortile centrale circolare) che da Palma si vede biancheggiare su una collina. Mi piacerebbe andarci, anche per il panorama. Per il momento però arriviamo a Genova e posteggiamo nel parcheggio dei Can Pedro, due ristoranti con lo stesso nome entrambi consigliati dalla guida, che dice che qui si mangia genuino e a prezzi contenuti. Decidiamo per il ristorante più in basso, e sulla soglia mi trovo tra i piedi un cellulare perduto che consegno al primo cameriere che incontro. Questi fa un paio di svogliati tentativi, probabilmente con gli ultimi arrivati, e poi desiste. Non dovrebbe essere difficile rintracciare il proprietario del telefonino; noi però pensiamo a mangiare. Cerchiamo di andare sulle cose tipiche e ordiniamo frito mallorquino, sopa mallorquina, pinchos morunos, bacalao al horno e poi, soddisfatti da tutto, due dolci inessenziali (tarta marzapan e tarta merengue con limon); io non ce la faccio a finire il mio e lo mettiamo via per la colazione di domani, insieme a un po’ di carne e pesce per la gatta sul tetto. Il frito è una fricassea di verdure e fegatini, molto buona e la sopa è quasi asciutta, anche questa con verdure e pane raffermo bagnato. Tutto molto gustoso. Il conto è sui 38 euro.

A Palma lasciamo la macchina ad un grande parcheggio affacciato sul mare, non lontano da noi; di giorno è a pagamento ma dopo le 20 non più. Torniamo all’Apuntadores e prepariamo le valigie per la partenza di domani.

La micina si presenta sul tetto miagolando e io le lancio le buone cose che le abbiamo portato dal ristorante. Afferrato in bocca il pezzo più grosso, lei sembra rifletterci un attimo e poi parte lungo il tetto e sparisce. Poiché tutto il resto se l’è divorato famelicamente sul posto, pensiamo che stavolta abbia portato il ghiotto boccone per condividerlo con i micini che supponiamo abbia nascosto da qualche parte.

Ci affacciamo a guardare i passanti e le passanti di Apuntadores, e gli inservienti dei ristoranti che portano i bidoni della spazzatura fino all’angolo della strada, poi andiamo a dormire.

In giornata ha telefonato Mirko, che cercandoci sul cellulare ci trova spesso in località inaspettate.

21 luglio MALLORCA: Palma – Es Trenc – saline – Cala Nau – Cala Ratjada Carichiamo i bagagli in macchina e partiamo, previa sosta nei pressi di Apuntadores, durante la quale io rimango a fare la guardia alla macchina provvisoriamente parcheggiata ai margini dei lavori stradali mentre Alessandra fa un salto al negozietto a comprare da bere.

Stavolta puntiamo decisi su Es Trenc, anche se il cielo non è dei migliori. Le indicazioni stradali sono abbastanza chiare, ma una volta arrivati (parcheggiamo liberamente lungo la strada fiancheggiata dai pini) ci troviamo di fronte un anonimo gruppo di case sul mare e quando cerchiamo di raggiungere la riva ci troviamo su degli scogli spalleggiati dal pessimo e scoraggiante panorama di costruzioni abbandonate e non completate. Torniamo indietro e troviamo infine la strada per la spiaggia. E’ una bella spiaggia di sabbia, con le dune alle spalle e un bel mare davanti, lungo la quale si alternano tratti attrezzati con ombrelloni e lettini e altri liberi. Camminiamo un po’ fino a raggiungere la zona frequentata dai nudisti. Sistemiamo gli asciugamani, ci spogliamo e ci disponiamo ad una giornata di mare e sole, visto che il cielo si è abbastanza rimesso al bello.

La spiaggia è bella e lunga; ricorda un po’ quelle di Naxos viste l’anno scorso, che però erano ancora più belle, con un entroterra più bello e per giunta praticamente deserte (nello stesso periodo dell’estate). Tra i vicini di spiaggia c’è una coppia di italiani, anch’essi insolitamente nudi (il nudismo sembra non essere un’abitudine italiana) e una coppia di spagnoli che ci intrattiene con pirotecniche esibizioni ludico-erotiche, tipo lui che si stende nudo sulla schiena di lei nuda, lui che le morde giocosamente il culo nudo, lui che le succhia le dita dei piedi nudi e così via. Un tipo decisamente focoso e appassionato, concordiamo; un rompiballe che non si sopporterebbe più di qualche ora, concordiamo anche. Lei comunque per il momento sembra gradire; in acqua fanno anche i delfini con salti incrociati e sincronizzati del materassino.

Noi ci mettiamo creme protettive, prendiamo il sole, facciamo i bagni, leggiamo, mangiamo una colazione da spiaggia (l’acqua l’avevamo sistemata dove la duna e la vegetazione spinosa facevano un minimo d’ombra). Io faccio una passeggiata più avanti e mi addentro brevemente per raggiungere una duna più alta, da cui si domina la spiaggia, la costa e le dune all’interno.

Nell’ora più calda, costruiamo un riparo che dia un po’ d’ombra ad Alessandra, piazzando qualche ramo, sfruttando un basso cespuglio e utilizzando un pareo come tendina. Una signora tedesca, che gentilmente ci ha offerto qualche legno per la costruzione, al momento di andarsene ci approccia in inglese e ci spiega che poiché loro stanno partendo, e hanno acquistato un ombrellone in albergo, e adesso non gli serve più, e magari a noi può servire, e loro l’hanno pagato 12 euro, insomma a noi lo venderebbe a 6. Decliniamo cortesemente l’offerta, anche perché non vogliamo un ulteriore impiccio durante il trasferimento a Menorca, casomai l’ombrellone lo compreremo là. Alessandra è un po’ stupita dall’offerta mercantile: lei al suo posto l’ombrellone l’avrebbe regalato; a me sembrava una proposta sensata in quanto di reciproco vantaggio. Ma, per la cronaca, nei giorni successivi guardando i prezzi degli ombrelloni a Menorca (più cara in generale rispetto a Mallorca), non troveremo mai un ombrellone venduto a 12 euro: al massimo il prezzo si aggira sugli 8,5… Purtroppo niente foto ad Es Trenc! Ho dimenticato tutte e due le macchine fotografiche – la Konica 130 per le diapositive e una piccola Fuji digitale – nel cruscotto della macchina.

Nel pomeriggio riprendiamo la macchina e la strada. Ci fermiamo a dare un’occhiata alle saline (che non sono belle come quelle viste a Janubio a Lanzarote pochi mesi fa) e a scattare un paio di foto con le macchinette recuperate. Ci dirigiamo verso Cala Ratjada, dove abbiamo prenotato una camera per la notte (telefoniamo con una carta telefonica Fuego, costo 5 euro, che ci basterà per tutte le telefonate nazionali e internazionali che facciamo nel corso della vacanza); sulla strada ci fermiamo però a Cala Nau, spiaggia forestal che si trova lungo il percorso. E’ una caletta molto bella, circondata da scogli rocciosi e spalleggiata dalla pineta. Facciamo un altro bagno, ci asciughiamo al sole del pomeriggio e proseguiamo lungo la strada costiera fino a Cala Ratjada. L’hostal ha lo stesso nome del paese e si trova in centrissimo, proprio in faccia al porto. Alla reception mi accoglie una giovane signora con i capelli corti e l’aria decisamente simpatica; Alessandra mi raggiunge dopo aver parcheggiato la macchina e saliamo alla camera al primo piano. La camera è bella, pulita, con un bel bagno e un balcone con tavolo e sedie affacciato sul porto. Usciamo a fare la spesa in uno Spar vicinissimo e torniamo sul balcone a farci un aperitivo a base di patatine a qualche gusto saporito, di taralli pugliesi, di avanzi di tramezzini del mezzogiorno e di Bacardi Freezer, guardando la gente che esce per la cena. Usciamo anche noi e giriamo per il paese, sostanzialmente una strada interna e una passeggiata a mare, cercando un posto dove mangiare. Guardiamo le vetrine di un ufficio turistico chiuso e ragioniamo sul da farsi per il trasferimento a Menorca. Il piano è spostarsi domani ad Alcudia, lasciare i bagagli nell’albergo che nel frattempo abbiamo prenotato, riportare in serata la macchina a Palma e da lì tornare in bus ad Alcudia, per prendere il traghetto la mattina dopo. Non è il massimo della comodità, ma le alternative sono meno convenienti: sia lasciare la macchina ad Alcudia (che ci costerebbe 30 euro di supplemento), sia fermarci a Cala Ratjada e prendere il traghetto che parte anche da qui.

Nel frattempo abbiamo scoperto che l’antipasto sul balcone ci ha fatto passare la fame anziché farcela venire; non abbiamo quindi molte pretese per la cena e ci fermiamo ad un ristorante qualunque, Casa Tomas, che offre delle schnitzel a 5 euro. Io le ordino, Alessandra prende invece del jamon serrano. Nulla si può definire buono: il prosciutto è un po’ legnoso, le cotolette secche e poco gustose. In compenso i piatti sono abbondantissimi: nel mio ci sono tre grandi cotolette impanate, una delle quali finisce incartata nello zainetto di Alessandra per la merenda di domani. Inoltre, Alessandra inventa il tormentone “pörino” (poverino) riferito al cameriere, che io voglio pagare con carta di credito malgrado la cifra sia abbastanza esigua. Un po’ per il modo con cui Alessandra lo dice, un po’ per la stanchezza della giornata, l’espressione suona comicissima.

Torniamo all’hostal per recuperare il patè avanzato da ieri e lo portiamo ad una colonia di gatti carini sulla passeggiata a mare, che favoriscono senza mostrare particolare entusiasmo, ma in compenso si attirano l’attenzione simpatica di molte passanti.

Torniamo nel nostro hostal, guardiamo il movimento dal balcone e poi andiamo a spararci una dormita.

22 luglio MALLORCA: Cala Ratjada – Cala Agulla – Port d’Alcudia – Alcudia – mirador d’es Colmer – Cap Formentor – Port Pollenca – Palma – Port d’Alcudia Paghiamo il conto dell’albergo: alla reception c’è una signora diversa da quella simpatica di ieri, che sta più sulle sue almeno fino a quando le faccio i complimenti per l’hostal – il conto è di 35 euro e si può pagare con la Visa. Lei ne è compiaciuta e si ammorbidisce; ci dà il biglietto da visita, la cartolina, e ci segna sul retro il numero della camera da chiedere la prossima volta, la 210, al secondo piano, dove i bagni sono appena stati rifatti e le camere sono ancora più belle.

Carichiamo i bagagli – tenendo a portata di mano la roba per il mare – e ripartiamo spostandoci di poche centinaia di metri, affacciandoci su una bella spiaggia ai margini dell’abitato. Decidiamo di spostarci comunque un po’ più in là, su una spiaggia meno urbanizzata, e proseguiamo per un brevissimo tratto fino ad incontrare le indicazioni per il parco naturale all’interno del quale si trova la spiaggia di Cala Agulla. Entriamo nella pineta in auto e la parcheggiamo in uno spiazzo attrezzato con tendine per tenere le macchine all’ombra e pagando 3 euro. Camminiamo nella pineta spostandoci sulla sinistra e alla fine ci affacciamo su una spiaggia molto bella, di sabbia, con una bella pineta alle spalle. Sistemiamo la roba e poi ci facciamo quattro risate quando guardando sulla destra scopro che la spiaggia è la stessa che abbiamo visto poco prima dall’abitato, dove avremmo potuto parcheggiare qualche minuto prima gratis. Il posto comunque merita. Ci facciamo qualche bel bagno; le attrazioni in questo caso sono comitive di adolescenti tipo boy-scout o colonia che passano cantando diretti non si capisce dove e – in acqua – le lezioni di salvataggio impartite ad un gruppo di giovanissimi.

Facciamo una merenda e poi ripartiamo, seguendo la costa verso Alcudia, o meglio verso Port d’Alcudia, dove abbiamo prenotato l’Hotel Piscis (45 euro). La costa ora è bassa, bordata da spiagge ed estese urbanizzazioni. Sulla sinistra lasciamo la riserva naturale umida dell’Albufera e alla fine nell’ininterrotta linea delle urbanizzazioni costiere raggiungiamo Port d’Alcudia. Cerchiamo di individuare l’insegna del nostro hotel, ma inutilmente; in centro la strada finisce davanti ad una zona pedonale fronte mare. C’è il sole, fa caldo, e sono le ore centrali della giornata. C’è l’indicazione di un ufficio turistico, che però a tutta prima non riusciamo ad individuare. Chiediamo informazioni ad una postina che ci risponde di non sapere nulla con aria diffidente quasi ancora prima che riusciamo a formulare la domanda e alla fine scendo dall’auto alla ricerca dell’ufficio turistico. Io mi faccio dare cartina ed indicazioni da una giovane signora simpatica e materna che mi spiega dove siamo, dov’è l’hotel, dove si prende il traghetto, che strada è meglio fare per andarci ecc. Ecc.; Alessandra da parte sua ha recuperato la direzione dell’hotel da un taxista. E’ vicinissimo a dove siamo, sulla seconda linea di isolati rispetto al mare. E’ un albergo grande, stile mare, a molti piani, una grande hall, la piscina dove sguazzano i bambini, ecc. La camera ha tutto quello che deve avere, e l’aria condizionata in più. Scarichiamo la nostra roba – c’è un parcheggio comodissimo proprio di fronte- e ripartiamo verso Cap Formentor, ma ci fermiamo quasi subito, perché scopriamo passandoci che Alcudia è una cittadina molto carina circondata da mura trecentesche. Scendiamo a fare qualche foto ma poi non resistiamo alla tentazione di farci un giro all’interno, tra le strade graziose della città vecchia. Il sole risplende a picco nel cielo sereno, e le strade sono ingentilite da festoni frangiati candidi fittamente disposti tra casa e casa che movendosi nella brezza danno una piacevolissima sensazione di fresco movimento. Fotografiamo una bella chiesa inserita nelle mura, anch’essa infestonata, e la casa concistorial, davanti alla quale vigilano due grandi pupazzi con abiti tipici maiorchini. Mangiamo un gelato e degusto un liquore tipico maiorchino dal colore verde brillante, che però ha gusto di anice e perciò non mi piace.

Riprendiamo la strada lungo le urbanizzazioni oltre Alcudia, fino a Port de Pollenca, da dove la strada sale a curve verso il Cap Formentor. Ad un bivio – l’unico – vediamo l’indicazione di un mirador e ci fermiamo. Per fortuna. Una scalinata sale al mirador d’es Colmer, uno splendido punto d’osservazione su altissime scogliere a picco sul mare, baie e promontorie, rocce e boschi. Nelle giornate migliori dicono si veda anche Menorca, ma oggi c’è un po’ di foschia. Spariamo un po’ di foto e poi risaliamo in macchina diretti al faro di Cap Formentor, alla fine di una strada che non finisce mai, una quindicina di chilometri tutta curve, alta sul mare, tra pinete e costa più esposta, e che alla fine conduce al finis terrae maiorchino. Parcheggiamo accanto al faro e scendiamo, ma è una delusione; la vista è incomparabilmente meno bella che dal mirador e non ci sono altri motivi d’interesse. Non ci sembra che valesse la pena di farsi 30 km di curve (con quelli del ritorno) per arrivare fin qui. E cominciata una fase negativa: al ritorno vorremmo fermarci a Cala Murta, di cui abbiamo visto le indicazioni all’andata, e che viene indicata sulla nostra guida come forestal; oltrepassiamo una caletta che vediamo dall’alto, pure bella, ma anche le indicazioni per Cala Murta, che non vediamo; facciamo inversione e torniamo indietro, parcheggiamo e ci incamminiamo sul sentiero che dovrebbe portare alla cala, ma ormai si è fatto tardi e abbiamo dei dubbi che faremo in tempo, anche perché abbiamo una dead line insuperabile che è l’orario di partenza dell’ultimo autobus serale che parte da Palma (alle 21) per riportarci ad Alcudia. Se perdiamo quello addio Alcudia e addio traghetto domani e addio soldi per l’albergo già occupato con i nostri bagagli… Scendiamo per una decina di minuti tra i boschi, passando accanto ad un villaggio di bungalow in tronchi di legno dall’aspetto spartanissimo (probabilmente un centro di villeggiatura per giovani); ma non si vede né mare né punti di riferimento e alla fine decidiamo di risalire e rimetterci in marcia. Il poco tempo a disposizione lo impieghiamo per un ultimo bagno alla spiaggia di Port Pollenca, che però non è niente di speciale, né come spiaggia né come acqua. Ci ricomponiamo alla bell’e meglio e puntiamo il muso della A140 verso Palma. La strada corre al centro dell’isola, tranquilla, tra campi, lasciando la serra sulla destra (tra le cose intraviste lungo le strade, alla rinfusa: le mura turrite di Capdepera vicino a Cala Ratjada; bellissimi ulivi centenari contorti in modo mostruoso; la montagna a forma di fungo; gli uccelli bianchi che orlano il bordo di una cisterna come degli elementi decorativi; ecc.); da Inca parte poi un’autostrada gratuita e in breve siamo a Palma. Guadagniamo il centro, facciamo un paio di giri a vuoto prima di riuscire a trovare un benzinaio dove rifare il pieno (la benzina, chissà come mai, costa meno che in Italia, intorno ai 90 centesimi quando da noi va dall’euro e 30 all’euro e 80) e raggiungiamo il Passeig Maritimo, dove parcheggiamo la macchina nello stesso punto dove l’avevamo prelevata, e infiliamo la chiave nella buca nella porta dell’agenzia. A questo punto siamo appiedati e dobbiamo raggiungere la stazione degli autobus, che è dalle parti di Placa d’Espanya. Cominciamo una maratona (forse sarebbe meglio prendere un taxi) che ci porta all’interno alla ricerca di un bus urbano che vada in quella direzione. Alla fine ne troviamo uno, saliamo, scendiamo nella piazza, chiediamo dov’è la stazione, marciamo di nuovo zainetti in spalla mentre il tempo a nostra disposizione diminuisce e la mia preoccupazione aumenta. Tutto bene però: arriviamo con una ventina di minuti d’anticipo, i biglietti si fanno a bordo e Alessandra fa in tempo ad andare in bagno e a comprare una Coca e a verificare che in stazione non c’è deposito bagagli (che potrebbe eventualmente servirci il giorno della partenza per il ritorno).

Quando arriva l’autobus saliamo e facciamo il biglietto (4,10). Salgono belle ragazze di tutte le nazionalità, da bionde svedesi fino a negre dagli abiti succinti. Il giovane autista cerca di fare il galletto con tutte; un po’ di confidenza in più se la può permettere con le belle africane, che, fa capire, vanno a lavorare, e fa capire pure quale lavoro vanno a fare.

Ripercorriamo tutta la strada fatta subito prima, in senso inverso. Ad Alcudia ci fermiamo un attimo perché una bella negra risale per verificare di non avere perso le chiavi; la seguo con lo sguardo mentre si allontana piena di sensuale dignità lungo la strada. Seguiamo anche il colloquio di tre ragazze zainute che scendono dall’autobus ad un incrocio ma poi sembrano essersene pentite e ricevono in cambio dei loro dubbi ampi cenni direzionali, prima contraddittori, poi sempre più coerenti. Intanto che mi diverto alle loro spalle però non ci accorgiamo che quella è anche la nostra fermata; per fortuna però vedo subito che stiamo prendendo la direzione contraria e scendiamo. Cerchiamo un posto dove mangiare. Anche stasera non abbiamo particolari pretese, vista l’ora, la stanchezza, e un po’ di scoraggiamento per la seconda parte della giornata, che invece era iniziata molto bene.

Ci fermiamo al Maristany, tavoli all’aperto e insopportabile piano-bar con stucchevoli evergreen, per fortuna dalla parte opposta del locale. Alessandra ordina una paella (molti ristoranti la offrono solo per due persone) e io qualcos’altro; non è malaccio. Poi andiamo a dormire, domani mattina ci si sveglia presto.

23 luglio MALLORCA: Port d’Alcudia / MENORCA: Ciutadella Il traghetto dell’Iscomar parte alle 8.30 di mattina; ci hanno consigliato di presentarci un’oretta prima della partenza e quindi la sveglia è puntata prima delle 7. Dopo la solita colazione veloce e standard con cacaolat e merendina, prendiamo trolley e zainetti e partiamo. Il conto dell’albergo, 45 euro, non si può pagare con la carta di credito (pazzesco) e sborsiamo i contanti.

Seguiamo per un bel tratto la passeggiata a mare deserta a quell’ora di mattina fino ad arrivare al molo commerciale dove ci si imbarca. Il trasbordo non è propriamente economico: in due costa, andata e ritorno, 129,60 euro, con la Iscomar che è più economica della Balearia e molto più economica della nave veloce che ci mette 1 ora anziché 3. Per giunta gli orari che abbiamo noi sui depliant non coincidono con quelli esposti qui. In particolare ci accorgiamo che la domenica, unico giorno della settimana, non c’è da Menorca il traghetto mattutino che avevamo pensato di prendere al ritorno, per sfruttare l’ultima giornata dell’1 come giornata di trasferimento (il nostro aereo parte dopo mezzanotte). Dobbiamo quindi anticipare il rientro a sabato 31, il che vorrà dire tra l’altro cercare un altro albergo a Palma per quella notte.

Dopo aver fatto tutti i nostri calcoli rischiamo un micidiale equivoco con l’impiegata che ci sta emettendo i biglietti: noi le abbiamo chiesto il ritorno per sabato ma oggi è venerdì e lei intende domani anziché la prossima settimana. Per fortuna Alessandra ha un tempestivo lampo di genio e riusciamo a fare la correzione in corsa.

Ci imbarchiamo sulla grande nave blu e gialla dell’Iscomar (dai nomi precedenti ancora visibili sugli scafi le navi devono essere state prodotte da un armatore sardo). Non c’è molta gente. Alessandra sceglie l’interno della nave, nei saloni ombrosi e condizionati; io preferisco il ponte superiore al sole e all’aria aperta. C’è un po’ di foschia, e la traversata non offre particolari degni di nota.

Dopo circa tre ore di navigazione entriamo nel porto di Ciutadella, situato in fondo ad un fiordo profondo annunciato sulla costa da un faro da una parte ed un fortino dall’altra. Il fiordo è bello, fiancheggiato da basse scogliere costellate da candide ville lussuose; alla fine la prospettiva del porto si apre sui palazzi della città vecchia di Ciutadella, i bastioni, la cattedrale, l’ayuntament.

Il nostro albergo, l’Alfonso III, si trova dalla parte opposto della cittadina, più o meno in linea retta, ma le distanze non sembrano essere grandi e ci avviamo fiduciosi sotto il sole trascinando i nostri trolley. Facciamo quindi una rampa di gradini fiancheggiati da negozi (vendono soprattutto scarpe, nota Alessandra: scopriremo che sono le albarcas, produzione tipica dell’isola, che Alessandra deciderà però di non comperare perché non le sembrano molto comode), poi una strada curva che ci porta ad una grande piazza: da qui imbocchiamo una bella strada pedonale, fiancheggiata da bei palazzi e negozi; passiamo accanto alla cattedrale, dopo la quale la strada diventa una stretta via fiancheggiata da portici antichi; ancora una piazza e poi fuori dalla città vecchia comincia il Camì de Maò, sul quale si trova il nostro albergo. Siamo scoraggiati dal non vedere nessuna insegna, ma dopo qualche altro centinaio di metri troviamo l’albergo, una costruzione moderna, non molto alta, dalla facciata giallina. La nostra prenotazione – dopo un attimo d’incertezza – c’è (ci eravamo rimpallati un po’ di mail sulla necessità di un acconto e sui modi per versarlo, senza alla fine farne nulla) e saliamo al primo piano: la nostra camera, la 102, è alla fine di un lungo corridoio ed è una buona stanza, affacciata con un balcone sulla stradina retrostante l’albergo, con un bel bagno, aria condizionata, televisione, pulita e ben arredata. Il tempo di riprenderci e rinfrescarci e poi usciamo alla scoperta di Ciutadella. La strada che abbiamo percorso con i bagagli è effettivamente la strada principale, Calle Mayor, che poi diventa la stratta e porticata calle Quadraro (detta Ses voltes) sulla quale si affacciano negozi e molti degli edifici principali della città. Pranziamo a gelato in una piazzetta, a El Arc, serviti da una cameriera sbrigativa, forse timido-scontrosa, magari lesbica. Il gusto ron con pasas (malaga) che ho richiesto non c’è; Alessandra che ha ordinato una macedonia con gelato viene informata che non c’è il melocoton, la pesca, che però si può sostituire con la naranja, l’arancia. In effetti, oltre a qualche spicchio d’arancio, altra frutta nella macedonia non c’è. Il gelato non è buono, cioè non è come il gelato italiano. Visitiamo l’ufficio turistico, accanto alla cattedrale, anche qui gentile competente e ben fornito di materiale: cartina, mappa delle spiagge, guia de l’oci, trasporti, ecc.

Ci rendiamo conto qui più che a Mallorca che la lingua più usata è il catalano, anche nelle conversazioni quotidiane e anche dai giovani; scopriremo mano a mano che ci sono radio, televisioni, giornali in catalano; che vengono doppiati in catalano anche i film dati in tv; che a scuola si studia e si parla il catalano, mentre il castigliano è trattato come una seconda lingua, e assisteremo perfino ad una discussione sull’opportunità di usare il castigliano come seconda lingua nelle indicazioni stradali (un signore accalorandosi dice che si potrebbe usare più convenientemente un’altra lingua, ad esempio l’inglese). Il catalano ha alcuni termini che assomigliano addirittura di più all’italiano rispetto al castigliano; ma la pronuncia è più difficile, con suoni bagnati che ricordano il portoghese o il dialetto genovese (ci chiediamo a quale dei due idiomi sia più strettamente imparentato).

Il centro di Ciutadella è bello, con belle e tranquille viuzze interne, begli edifici in pietra gialla e belle chiese; la cattedrale è in stile gotico-catalano – anche qui la facciata, bella e sobria, è un po’ sacrificata, in diagonale su una rientranza della piazza e con un altro edificio a distanza ravvicinata -ma due ali laterali che escono oblique dalla facciata gli danno un movimento quasi barocco. Nei pressi, all’interno di una chiesa sconsacrata adibita a sala esposizioni, visitiamo una bella mostra dedicata a Torrent, il più importante pittore minorchino (ma la biografia rivela una fama ristretta alle isole con qualche uscita barcelloneta), che imita Van Gogh in grandi tele mosse e colorate ispirate soprattutto ai paesaggi delle isole o ai viaggi di Parigi compiuti negli anni ’50. Anche al piano superiore c’è un’esposizione carina, per lo meno per me, dato che mi piace la grafica e che ho una bella calligrafia, prima spontanea e poi coltivata: i lavori eseguiti per l’VIII Concorso di Calligrafia “Catalunya”: più delle opere di grafica pittorica che dei reali saggi calligrafici, alcuni dei quali molto belli.

I ristoranti sono concentrati in basso, allineati lungo il lato del porto non utilizzato per gli attracchi, sotto la contramurada. Curiosiamo tra i menù in vista della serata. Tornando verso l’albergo cerchiamo anche un negozio dove comprare qualcosa da bere e in edicola mi compro per 5 euro una raccolta che comprende tre numeri di “El vibora”, una rivista a fumetti come ormai da noi non si trovano praticamente più. Visitiamo ancora una piccola galleria d’arte nei pressi del nostro albergo: espongono due pittori dai nomi rispettivamente giapponese e scandinavo, cuori rossi su fondo bianco e ritratti iperrealistici di pesci d’acqua dolce e mucche. Non male.

Rientriamo in albergo e usciamo per l’ora di cena, che qui è abbastanza tarda; seguendo il corso naturale della giornata anche noi non ci siederemo mai a tavola prima delle 22 (uno degli scontrini porta addirittura la data del giorno successivo, essendo stato emesso dopo mezzanotte). Nella piazza della cattedrale però ci fermiamo, perché sta per iniziare il Concert d’estiu della Banda municipale di Ciutadella. Alessandra prende posto sulle sedie, visto che c’è ancora qualche posto libero, mentre io approfitto dell’attesa dell’inizio del concerto per andare a telefonare ai miei da un telefono pubblico, che trovo nella piazza des Born, nella quale assito divertito al passaggio di torme di ragazzini e ragazzine che affluiscono ad una discoteca apposta per loro, probabilmente organizzata dall’oratorio o dal Comune o da qualche altra associazione.

La banda è composta da giovani e da giovanissimi, diretti da un giovane direttore, che, in un comprensibile catalano, spiega la scelta di un programma meno classico di quelli cui sono abituati, più estivo e perciò più fresco e moderno. Seduti tra un pubblico in larga prevalenza anziano, ci gustiamo il concerto che ha in programma charleston e musica giamaicana, celebri bolero e un medley dedicato a Glenn Miller. Le sonorità sono da big band jazz più che da banda paesana; Alessandra si estasia poi alle performance dei più giovani, tra cui un sassofonista ragazzino cui vengono riservati anche un paio di impegnativi a solo.

Ci decidiamo alla fine ad andare a mangiare. Ma i menù a 12 euro che avevamo adocchiato in diversi ristoranti nel pomeriggio non ci sono più; l’unico che non l’ha ritirato, forse per dimenticanza, è El Bribon: la scelta è buona e ci sediamo ad un tavolo, ma nella carta il menù a 12 effettivamente non c’è. Decidiamo di provarci lo stesso e lo chiediamo alla cameriera, che ce lo porta subito. Nelle serate successive ci divertiremo vedendo che è definitivamente scomparso anche da El Bribon: abbiamo approfittato sagacemente di una falla del sistema, o meglio di una dimenticanza. Ci auguriamo che la cameriera non sia stata licenziata per averci portato il menù proibito. Mangiamo bene, inoltre, e abbondantemente; senza vino e con l’Iva (qui spesso non è compresa nei prezzi indicati, cui bisogna aggiungere il 7%) il conto risulta inferiore ai 28 euro.

24 luglio MENORCA: Ciutadella – Cala en Blanes – Binimenl-là – Cala Pregonda – Fornells – Ciutadella Ieri mentre ci riposavamo in albergo ho fatto un lavoro scientifico, incrociando raccomandazioni e suggerimenti sulle spiagge più belle tratti dai materiali a nostra disposizione: la guida Moizzi, l’opuscolo su Menorca dell’Ufficio turistico, un numero monografico di Traveller dedicato alle Baleari e il diario di viaggi di “turisti per caso”, compilando una sorta di classifica dove appunto anche la possibilità di praticare il nudismo. Ne risulta un elenco di una decina abbondante di spiagge super-raccomandate che ci daremo da fare per visitare nei prossimi giorni.

Facciamo colazione in camera e ci prepariamo perché alle 9 dovrebbero consegnarci la macchina. Infatti puntualissimi ci chiamano dalla reception; scendiamo e un’addetta ci preleva e ci porta in qualche minuto di auto all’agenzia della HyperCar di Cala en Blanes, un’urbanizzazione subito fuori Ciutadella. Anche qui niente modello base da noi prenotato; l’auto è una Volkswagen Golf 1.9 TDI, anche questa color argento. Le condizioni, ottime, sono analoghe a quelle già sperimentate a Mallorca. L’assicurazione esclude solo danni ai pneumatici e ai cerchioni e il prezzo, avendo prenotato per 7 giorni, è ancora più favorevole: 133 euro tutto compreso, cioè 19 euro al giorno. I prezzi che casualmente vediamo in giro, sono quasi il doppio, e al porto un grande cartello pubblicizza il noleggio di uno scooter a 25 euro al giorno.

Facciamo una fermata ad un supermercato Eroski dove compriamo provviste per il pranzo. Alessandra vorrebbe comprare un ombrellone, ma i prezzi al supermercato sono più alti che nei negozi del centro. Partiamo quindi diretti a Pregonda, una spiaggia della costa nord. La strada è il proseguimento del Camì de Maò, la direttrice (una carreggiata per senso di marcia) che congiunge ai due capi opposti dell’isola Ciutadella e Maò e che rappresenta la dorsale viabilistica di Menorca, da cui si dipartono le strade secondarie. Praticamente non esistono strade costiere e molte delle deviazioni che portano alle spiagge sono strade rurali, in genere strettissime e talvolta, nei tartti finali, non asfaltate.

Il paesaggio è rurale, con campi divisi da un’infinità di muretti a secco e boschetti di querce o lecci.

La cartina che abbiamo a disposizione è gigantesca, ma la scala è 1:75.000 e rappresenta le strade chilometro per chilometro e disegna quasi casa per casa il territorio: l’isola è lunga al massimo una cinquantina di chilometri. A Ferreries dovremmo trovare la deviazione ma ci disorientiamo e ci fermiamo a chiedere. Un signore ci informa chiaramente e ci dice di seguire le indicazioni per il Camì de Tramuntana. A questo punto andiamo tranquilli seguendo chiare indicazioni stradali e arriviamo a Binimenl-là, dove parcheggiamo la macchina a poca distanza dalla spiaggia. Alla bella spiaggia arriva il Torrent de Salairò, sul cui tratto finale staziona tranquilla una colina di anatre. Non ci fermiamo qui e seguiamo un sentiero che si spinge prima all’interno e poi all’esterno, tra rocce e terre rosse, piante grasse e ciuffi di gigli selvatici, prima di arrivare a Pregonda. La spiaggia è bella e lunga, divisa in due tratti da un largo promontorio roccioso al ridosso del quale ci sistemiamo presumendo che prima o poi farà un po’ d’ombra nella quale ripararsi visto che non c’è vegetazione abbastanza alta allo scopo.

Passiamo la giornata in spiaggia, tra bagni di mare e di sole e letture. Di fronte alla spiaggia c’è un grande scoglio raggiungibile a nuoto sul quale si può camminare e prendere il sole.

Dopo la merenda lascio Alessandra all’ombra della scogliera e visito la spiaggia al di là del promontorio, bella, davanti al quale sta uno scoglio con una base allungata e uno scoglio fallico eretto al centro. Scopro che due donne, che sembravano due delle persone più abbronzate che avessi mai visto, si stanno in realtà ricoprendo i corpi nudi con un’argilla rossastra che prelevano da un secchiello: chiedo loro per curiosità dove l’hanno presa e mi indicano una scogliera rossa sulla destra.

La scelta di venire oggi sulla costa è stata determinata anche dal fatto che ieri ho visto su una locandina appesa a Ciutadella che stasera a Fornells ci sarà lo jaleo, una festa popolare che ha il suo prototipo e l’edizione più eclatante a Ciutadella il 24 giugno per San Giovanni ma che viene replicata in forma minore in ricorrenze diverse in diversi centri dell’isola. Così, rifatta la passeggiata fino a Binimenl-là, per stradine rurali ci portiamo sulla strada per Fornells, che sorge all’imboccatura di una baia che si spinge profondamente all’interno. Troviamo qualche problema per parcheggiare la macchina; ogni buco sembra occupato, ma alla fine troviamo posto in un campo di sterpaglie al margine nord del paese. Le vie sono infestonate con lo stesso metodo di Alcudia, e rientrati sulla strada principale dopo un breve tratto sul lungo-baia, non tardiamo ad imbatterci nei primi cavalieri. Sono uomini e donne in eleganti costumi cavallerizzi, camicie candide, cappelli, giubbe e pantaloni neri, che sfilano per le vie montando splendidi destrieri minorchini di discendenza arabo-andalusa, neri come il carbone e pomellati grigi addobbati a festa con finimenti ricamati e variopinti. Seguiamo il flusso della gente e dei cavalieri verso la piazza principale, fermandoci a comprare qualche bibita in un negozio. In uno slargo, alle incitazioni di un gruppo di giovani, i cavalieri impennano i cavalli. Perché di questo alla fine si tratta: il clou della festa si svolge nella piazza principale, il cui pavimento è stato ricoperto di sabbia per trasformarlo in un’arena da equitazione senza nessun tipo di recinzione, in cui i cavalieri entrano a coppie tra la folla, e si esibiscono in impennate acrobatiche in mezzo alla gente. E mentre gli splendidi e giganteschi destrieri vengono mantenuti in precario e virtuosistico equilibrio sulle zampe posteriori, la folla accorre intorno in aiuto: chi per sostenere la schiena del cavaliere, che durante l’impennata è praticamente orizzontale, parallela al terreno, sia per sostenere la pancia del cavallo, infilandosi tra gli zoccoli scalpitanti. Osserviamo lo spettacolo, prima da lontano; è bizzarro. Quasi subito dobbiamo farci da parte, molto velocemente, perché arrivano di corsa dei lettighieri che trasportano in barella una giovane donna, collare ortopedico al collo, viso e abitino nero inzaccherati di sabbia, e in volto un’espressione di dolore e di terrore. Ci addossiamo ad un muro e seguiamo affascinati e perplessi, sorseggiando le nostre bibite, cercando di sentirci personaggi hemingwayani; dalla parte opposta della piazza una banda musicale suona incessantemente, un anello musicale ripetuto all’infinito grazie all’alternanza dei musicisti che si fermano a turno in modo che la musica non finisca mai. Il tutto poi non sarebbe completo senza i bottiglioni di pomada che la gente si porta a tracolla: bottiglie di plastica da un litro e mezzo o due riempite con la bevanda minorchina, gin e succo di limone, e provviste di tracolle casalinghe in modo da lasciare le mani libere. Abbiamo letto che il gin si è cominciato a produrre qui durante la dominazione inglese, quando una legge britannica ne vietava la produzione nella madrepatria.

Musica ipnotica, da trance; alcol a fiumi; fiere animali; uomini coraggioso che le piegano al proprio volere; e ognuno che deve dimostrare il proprio coraggio. Tra le corride e la feria di San Fermin lo jaleo si inserisce in uno schema tutto iberico dove la trasgressione e l’esaltazione si conquistano a scapito dei cattolici sensi di colpa solo al prezzo di una rischiosa esibizione di coraggio e di abilità dimostrati contro una natura selvaggia e pericolosa.

Dopo un po’ trovo lo spazio per avvicinarmi, tra ragazzi e ragazze eccitati, arrossati, talvolta sporchi di sabbia e con gli abiti a brandelli; ogni tanto la folla ha uno sbandamento quando qualche cavallo ricade o scarta su un lato imprevisto; un’altra volta tutti si devono scostare rapidamente e passano di nuovo i barellieri con un ragazzo in collare.

Lo spettacolo dopo un po’ da affascinante si fa ripetitivo. Ci muoviamo e cerchiamo un posto dove mangiare; durante la ricerca mi bevo un bicchiere di pomada comprato alla bancarella per sete e spirito di emulazione. Sulla banchina ci sono bancarelle dove vendono perritos calientes e cose simili, alcuni ristoranti sono chiusi, altri cari (Fornells è tra l’altro la capitale della famosa caldereta de langosta, un brodo d’aragosta – con aragosta – che a Ciutadella abbiamo visto in lista intorno ai 60 euro).

Scegliamo un ristorantino che ci sembra più abbordabile. La cameriera è piuttosto sgarbata; secondo Alessandra è stanca per la confusione, secondo me è antipatica di natura. Mentre Alessandra è in bagno assisto alle rimostranze di una signora che in inglese fa una tirata terribile al cameriere, lamentandosi che il servizio è stato “terribile”. Il cameriere (che esibisce sopra il taschino della camicia una volta bianca gli sbafi della biro estratta e rinfilata chissà quante volte) subisce imperterrito; la signora versa il vino rimasto in un bicchiere e infila a mo’ di spregio la bottiglia a testa in giù nel secchiello del ghiaccio. Il marito osserva perplesso, intasca il resto e vanno via. Racconto la scena ad Alessandra. La cameriera continua ad essere sgarbata e brusca per il resto del tempo, ma non ci facciamo caso più di tanto. Mangiamo così così, paghiamo un conto di 27,6 euro e lasciamo il posto.

In piazza lo jaleo continua, esasperante. Oltre quaranta cavalli e cavalieri si esibiscono per ore tra l’esaltazione della folla che non viene mai meno. Ad un certo punto i cavalieri sfilano per una parata finale, presentandosi al palco delle autorità e poi uscendo per l’ultima volta dalla piazza; uno di loro ha una fascia di traverso sul petto, forse segno di un’avvenuta premiazione. La fiesta non è finita, tutt’altro, a questo punto la banda abbandona il loop che sta ripetendo da ore e comincia a suonare all’impazzata, mentre la gente balla e salta sulla piazza.

Lasciamo la festa; sulla strada incontriamo: i cavalli ricondotti ai loro mezzi di trasporto, l’asino con il tamburino, i finimenti multicolori appoggiati ad uno steccato, la gente che aspetta i feriti e i contusi fuori dal pronto soccorso. Recuperiamo la macchina nel campo buio, mentre risuonano gli zoccoli dei cavalli sulle rampe di metallo mentre entrano nei loro box e più oltre risplende illuminata la vecchia torre di Fornells.

25 luglio MENORCA: Ciutadella – Cala en Turqueta – Son Saura – Poblat de Son Catlar – Ciutadella Il cielo è nuvolo. Pensavamo di andare a Macarella, ma sapendo che si paga l’ingresso e vedendo il tempo così incerto ripieghiamo su un’altra spiaggia altrettanto famosa, ma per quel che ci risulta gratuita, Cala en Turqueta, sulla costa sud.

Prima di puntare alla spiaggia chiediamo indicazioni per trovare un supermercato, nella direzione indicataci il giorno prima da due signore minorchine: chiediamo informazioni ad un anziano, che ci risponde che lui al supermercato non ci va mai, e ci suggerisce in alternativa il Diskont, che raggiungiamo facilmente e che si rivela essere un supermercato in pienissima regola, dotato di tutto, ma non di bibite in fresco (mettiamo qualche bottiglia al freddo dei congelatori mentre facciamo la spesa). Tra l’altro il banco della panetteria offre una ricca scelta di brioche e torte salate con verdure, pesce, carne, salumi, formaggio, di cui faremo ampia prova in questo e nei giorni successivi, in alternativa o in associazione con più tradizionali panini con prosciutto e formaggio. In genere il pranzetto da spiaggia si completa con frutta fresca e prevede un’appendice pomeridiana con budino.

Secondo la Moizzi, presa in prestito dalla biblioteca, che risale al ’98, Cala en Turqueta è poco frequentata dai turisti perché un po’ difficile da raggiungere. Le cose sono cambiate: una strada, l’ultima parte della quale non asfaltata, conduce a ridosso della spiaggia che risulta molto affollata da famiglie con bambini e altri bagnanti assortiti. La spiaggia è bella ma la situazione non ha molto fascino. Rimaniamo comunque, pranzettiamo con le vettovaglie comprate prima di partire al Diskont, Nel pomeriggio decidiamo di provare un’altra spiaggia, la vicina Son Saura. Poiché come ho già detto non ci sono strade costiere, dobbiamo rientrare e poi ripiegare verso il mare per strade rurali, con una sorpresa; un signore (proprietario di uno degli appezzamenti che bisogna attraversare per raggiungere la costa?) ad un certo punto ci ferma ad un cancello di uno degli innumerevoli muretti a secco e ci chiede un pedaggio di 5 euro (per macchina). Esitiamo, ma non abbiamo molte alternative a meno di fare parecchia strada o di tornare in albergo, così paghiamo e proseguiamo. Anche Son Saura è bella, secondo lo schema delle spiagge di questa parte della costa sud, con un arco di sabbia morbida e fine racchiusa tra quinte di roccia e con la pineta alle spalle e un mare limpido e trasparente di fronte. Riguardando le fotografie a casa – io e Alessandra ci fotografiamo a vicenda con l’acqua alle ginocchia – il mare di questa giornata risulta stupendo, forse il più bello tra tutti quelli della vacanza.

Sulla strada del ritorno ci fermiamo a Poblat de Son Catlar, uno dei numerosissimi (e dei più estesi) siti archeologici preistorici di Menorca. Non si paga biglietto e non c’è custodia di nessun genere. Nel sito, racchiusi all’interno di un’ampia muraglia a secco (come quelle che i minorchini continuano ad utilizzare ancora oggi) che incastona qualche elemento megalitico, ci sono resti di abitazioni (talayotes) e di quello che si ritiene fosse un tempio, e qualche taula, coppie di grandi pietre messe una sull’altra a forma di “T”, resti di costruzioni o simboli magici forse dedicati a divinità taurine. Pietre in mezzo alla campagna, insomma, ma il luogo guadagna fascino dall’isolamento, dalla solitudine, dal silenzio, e dalla luce aranciata del tardo pomeriggio. Vorremmo fare una foto stupida davanti ad una taula, ma la presenza di un’altra coppia ci inibisce: mentre ci allontaniamo ci accorgiamo che avevano avuto la nostra stessa idea e si stavano attardando aspettando che ce ne andassimo… Gli uccelli svolazzano intorno, un gregge di pecore attraversa il sito ma poiché io le preoccupo cercando di fotografarle scartano scegliendo un percorso più difficile sulle rocce. Mentre Alessandra va all’auto, io torno indietro un pezzo per vedere una stele scolpita con una figura antropomorfa: linee indecifrabili scalfite su una pietra dalla faccia piana, ancora più vaghe di quelle che schernivamo due anni fa in Corsica (paragonandole alle sublimi e raffinatissime realizzazione precedenti e coeve dell’Egitto, dove eravamo stati qualche settimana prima).

Rientriamo in albergo; Alessandra fa la doccia prima di me e poi si incanta a guardare un programma televisivo dedicato ad un altro passatempo spagnolo: le torri umane. Non capiamo dove si svolga la manifestazione, il cui scopo è realizzare torri umane ardite e belle, dimostrazioni di abilità ginnica e di forza fisica. Le squadre, attorniate da una folla che premendo intorno sostiene e fa da tappeto umano per attutire le cadute, mettono alla base i più forzuti, sulle spalle dei quali salgono altri forzuti più leggeri e poi via così sempre più in su, chiedendo ai nuovi elementi sempre più agilità nell’arrampicarsi sui corpi dei compagni, meno forza e più leggerezza. Ad un certo punto si passa alle ragazze, poi ai ragazzini, poi ai bambini. L’ultimo dei quali, in cima ad una torre alta generalmente sette piani umani, fa da guglia e alzando in alto un braccino segna che la torre è compiuta; dopodiché bisogna ridiscendere. Questa è la fase più delicata, quella in cui è più facile che la resistenza venga meno e che la torre crolli sotto le mani e i piedi di chi sta discendendo: tutti franano e cadono sulla testa e sulle spalle della folla sottostante; ma a quanto capiamo l’impassibile telecronista non fa mai cenno a feriti. Anche questa manifestazione partecipa del pericoloso e del primitivo; la modernità nella telecronaca è rappresentata dalla simulazione in computer graphic della struttura della torre che si andrà a realizzare.

Usciamo per cenare ma stavolta ci fermiamo a metà strada, prima della cattedrale, deviando in una traversa dove occhieggia l’insegna dell’Hogar del pollo. E’ un bar di tapas, squallido all’interno come una latteria di una volta, con arredi in formica e luci al neon, ma con qualche tavolo di legno all’aperto sulla viuzza. La lista delle tapas è infinità e rimaniamo ad aspettare che si liberi un tavolo. Cosa che succede abbastanza presto. E’ un grande tavolo rotondo, di cui noi occupiamo solo un terzo. Così quando dopo di noi arrivano tre ragazze spagnole che si guardano in giro constatando che non c’è posto le invitiamo a sedersi al nostro tavolo. Loro accettano e naturalmente cominciamo a chiacchierare. Sono tre amiche, ma di età, di provenienza e di motivi diversi. Una è di Salamanca, una di Lleira, un’altra di un paese nei dintorni di Barcelona; una è qui in vacanza, le altre due per lavoro o per lavoro-vacanza; la più giovane è vestita come una suffragetta degli anni ’30, le altre due hanno abbigliamento e pettinature che vanno dal casual allo scarmigliato. Mangiamo tapas – una squisita insalata di mare, delle polpette al sugo e varie altre cose – beviamo vino o acqua, scambiamo battute con il giovane e simpatico cameriere e chiacchieriamo di viaggi, città, spiagge, lingue, catalano, ecc. Con le ragazze. Da loro riceviamo una nuova lista di spiagge, con Macarella-Macarrelleta in testa, altre in cui siamo già stati, altre che avevamo già sentito nominare e qualche new entry. Alla fine della cena ordiniamo il dolce: per me una tarta de Santiago alle mandorle, imbevuta sul posto dal vino dolce “Mes amores”, squisita.

Facciamo un giretto prima di rientrare e al ritorno vediamo due ragazze che stanno facendo degli strani movimenti per strada, tipo una ginnastica urbana notturna: sono ancora loro, che appena ci riconoscono ci avvisano che abbiamo dimenticato un libretto al ristorante. E’ vero: nella tasca posteriore dei pantaloni, che stranamente risulta ancora chiusa col velcro, non ho più la mia agendina. Torniamo all’Hogar del Pollo ed entriamo a chiedere. Recuperiamo l’agendina, auguriamo buon appetito al cameriere Mateo che finalmente mangia anche lui e andiamo in albergo.



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