Ecoturismo comunitario

“Il turismo è come il fuoco: può cucinare la tua minestra, ma anche bruciarti la casa” (proverbio africano) Finalmente ci siamo. Quest’anno le vacanze di Natale le trascorreremo in modo insolito, lontano dalla neve, dall’abete addobbato a festa e il canonico panettone, nella terra dei baobab e dell’ospitalità africana, la...
Scritto da: therealtraveler
ecoturismo comunitario
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 2000 €
“Il turismo è come il fuoco: può cucinare la tua minestra, ma anche bruciarti la casa” (proverbio africano) Finalmente ci siamo. Quest’anno le vacanze di Natale le trascorreremo in modo insolito, lontano dalla neve, dall’abete addobbato a festa e il canonico panettone, nella terra dei baobab e dell’ospitalità africana, la cosiddetta “teranga”.

E mentre parenti ed amici impazzano in cerca dell’ultimo regalo, ci apprestiamo a mettere in valigia occhiali da sole e passaporti, insieme a incertezze e aspettative che accompagnano la scelta di una vacanza “alternativa”, un viaggio responsabile. Stavolta, infatti, soggiorneremo presso le stesse famiglie che andremo a visitare, condividendo con loro la casa, i pasti, la quotidianità. Nella seconda parte del viaggio, invece, staremo in una struttura ricettiva gestita da alcune tribù di etnia diversa, immersa in una riserva naturale. Il nostro obiettivo e quello di Viaggi Solidali (la cooperativa organizzatrice, ndr.), oltre allo scambio e alla conoscenza di una realtà affascinante, così distante della nostra, è di far beneficiare del nostro passaggio anche la popolazione locale, dal punto di vista economico e culturale. Ad attenderci è il Senegal (letteralmente “la nostra piroga” in lingua wolof), che ci accoglie col proprio clima avvolgente e i colori caldi tipici dell’area subsahariana. Sfuggiamo subito al traffico di Dakar e attraversiamo il Paese fino ad arrivare a Nord. Un’unica grande strada asfaltata, costeggiata dalla savana, è l’unico elemento a donare un pizzico di modernità ad un luogo così selvaggio e isolato. Su questa viaggiano veicoli di varie dimensioni, spesso scarti dell’Occidente, carichi di sacchi di riso, capre e passeggeri oltre ogni immaginazione. Di tanto in tanto qualche pulmino giallo e blu si ferma, ma inspiegabilmente nessuno se ne preoccupa e in poco tempo si riesce a ripartire. Passiamo davanti ad alcuni villaggi diroccati: gli adulti seduti all’ombra dietro a un banchetto ci sorridono, mentre i bambini salutano con la mano gridando al “toubab” (uomo bianco, ndr.). Sembra che qui il tempo si sia fermato, e che tutti trascorrano ore intere nel piazzale del villaggio che dà sulla strada, unico punto di contatto con il mondo esterno, nell’attesa del passaggio di un turista o di qualcuno che renda la loro giornata diversa.

Arriviamo a Louga, capoluogo dell’omonima regione, il cuore di una delle aree rurali più povere del Senegal. L’economia del Paese si basa infatti essenzialmente sulla pesca e sul turismo, che prevale tuttavia sulla Petite Cote, a Sud, dove fare il bagno – ci dicono – è meno pericoloso. In questa zona, invece, l’agricoltura è in declino anche a causa della mancanza d’acqua, e sempre più giovani si spostano verso Dakar o emigrano in Italia inseguendo il sogno di condizioni di vita e di lavoro più dignitose. Nessuno “muore di fame” a Louga, tuttavia la situazione non è di certo rosea: il confine tra città e discarica è inesistente, i bambini giocano accanto agli stessi rifiuti tra cui brucano le caprette, e nell’intero centro urbano non è possibile scorgere alcun cassonetto per la raccolta di questi ultimi. Stupefacente il contrasto tra la povertà, il degrado del territorio e la ricchezza interiore di questa gente, sempre serena, disponibile, ospitale e di buon umore, caratterizzata da una filosofia di vita che si riassume in una sola parola: “Inshallah” (se Dio lo vorrà). Immersi nel cuore dell’Africa nera musulmana, ci soffermiamo ad ammirare l’eleganza delle donne in costumi tradizionali, con acconciature elaborate e scarpe e turbanti dai colori vivaci: un abbigliamento poco casual indossato con maestria persino quando si svolgono lavori domestici. Gli uomini portano invece lunghe tuniche o indumenti in lino bianco, ma è sempre più frequente che preferiscano vestire all’occidentale, con t-shirt delle squadre di calcio europee. La globalizzazione è arrivata anche qui. Dopo il benvenuto e una breve presentazione da parte dell’associazione ADKSL, che si occupa dello sviluppo del quartiere di Keur Serigne (che significa “casa del Marabou”), ci trasferiscono nelle rispettive famiglie ospitanti. Il concetto di famiglia in Senegal è decisamente più esteso di quanto lo sia in Italia: inizialmente disorientati dalla ventina di bambini che ci vengono incontro per stringerci la mano, ci ambientiamo facilmente e raggiungiamo la nonna, un’imponente signora di 80 anni, che ci invita ad accomodarci su una stuoia. Le chiedo in francese se è necessario toglierci le scarpe, mi risponde che non è importante: saprò un paio di giorni dopo dal nipote che sarebbe stato preferibile, dato che è la stuoia che si utilizza per la preghiera. Qui ci servono la cena, un coloratissimo piatto di Yassa, la pietanza nazionale: carne o pesce accompagnato da riso e verdure…Saporito, piccante, delizioso. Decidono di battezzarci con i nomi di Mbargou e Yacine, mentre mi incanto ad osservare la pazienza del ragazzo che prepara il the su un fornellino, come se si stesse dedicando a un rito magico: fa bollire le foglie insieme ad un’ingente quantità di zucchero, poi versa ripetutamente la bevanda da un bicchiere all’altro in modo che diventi densa e schiumosa e che acquisti un sapore forte. Intanto conosciamo il resto della famiglia, composta da ben trenta persone: i due uomini di casa con la madre e le rispettive mogli – due a testa, figli di ogni età e qualche fratello che di tanto in tanto viene a trovarli. Abitano tutti in un edificio di quattro stanze, che si affaccia su un cortile, che dà sulla cucina e sulla nostra camera. Si tratta di una capanna di paglia costruita secondo lo stile tradizionale, appositamente per i turisti, con attiguo un bagno in muratura. Una soluzione semplice ma confortevole. Vivendo a stretto contatto con la natura, saremo svegliati ogni mattina dal canto del gallo e da quello dell’Imam, proveniente dalla Moschea.

Il nostro viaggio cade infatti in un momento particolare, quello della morte del capo spirituale supremo delle “confrerie” islamiche senegalesi, il Marabou dei Marabou, e nell’intero Paese per giorni non si parla d’altro. I fedeli riuniti in preghiera vegliano tutta la notte e si recano in pellegrinaggio a Touba, città sacra. Nei giorni seguenti, tra un laboratorio di pittura batik ed uno di danze e percussioni, ci portano a incontrare il Marabou di un villaggio dei dintorni, Sagatta Gueth. Si presenta seduto sotto un albero, in mezzo ad altri due uomini, che poi scopriremo essere rispettivamente il figlio e il nipote. I tre sono vestiti di tutto punto, con ampi abiti dai tessuti pregiati. Rispondono in modo vago alle nostre domande, e sostengono di essere “figli di Dio”. Tale status permette loro di vivere negli agi, senza lavorare, serviti e venerati dalla popolazione ignorante che coltiva gratuitamente i loro campi, offre doni e invia i propri figli in età prescolare presso la scuola coranica, cosciente del fatto che i bambini finiranno sulla strada a chiedere l’elemosina per rimborsare al Marabou le spese relative al pasto serale. La mendicità è uno dei più grandi problemi nella regione di Louga: in ogni mercato così come a qualsiasi punto di sosta e ristoro sul nostro cammino è facile imbattersi in ragazzini scalzi e sporchi, con abiti strappati e un contenitore in mano in cui raccogliere i proventi dell’accattonaggio. Alcuni cercano di venderci datteri e arachidi, altri si intrufolano sul pulmino o ci seguono estorcendoci un sorriso o un regalino. Tra i più richiesti, le penne per la scuola, che talvolta rivenderanno in cambio di qualche caramella. Gli sguardi penetranti di quei fanciulli fermi sulla soglia di casa sono ancora ben impressi nella nostra memoria. In particolare quelli di Lompoul, paesino di pescatori, che vivono giornate intere sulla spiaggia – in alcuni casi portandosi dietro i fratellini più piccoli – ma nessuno ha mai insegnato loro a fare collane con le conchiglie, e quelli di Louga che conservano a distanza di giorni le nostre barchette di carta. Gli stessi così ingegnosi che pur di guadagnare pochi spiccioli provano persino a venderci un cagnolino ammalato. Dopo aver visitato dei villaggi dell’etnia nomade Peul, e alcune casse di risparmio femminili della zona, torniamo in famiglia per cena, dove ci attendono gli uomini di casa attorno a un unico grande piatto che le donne hanno preparato per noi. Si mangia per terra, senza posate, secondo i costumi locali. Le mogli e i bambini cenano separatamente. Per quanto il Nord del Senegal sia un’area a prevalenza musulmana, la condizione della donna non è paragonabile a quella di altri Paesi islamici. Queste infatti spesso mostrano i capelli, possono uscire di casa, lavorare e persino scegliere il marito e divorziare. L’uomo, se la coniuge lo consente, può prendere fino a quattro mogli, che si dedicheranno a turno alla casa e ai figli. Ogni donna avrà quindi quattro giorni di riposo per dedicarsi a se stessa – grazie al proprio stipendio che non è tenuta a mettere in comune – e al marito, il cui compito è quello di mantenere l’intera famiglia. La sera ci attende il Fesfop, il celebre Festival del Folclore e delle Percussioni di Louga, un evento di fama internazionale che ospita artisti e musicisti provenienti da tutto il mondo. Ci lasciamo trascinare dai ritmi tribali dei tamburi sul palco, dalle voci profonde e possenti dell’Africa nera, dalla coreografia delle danze scatenate, finché cala la notte. E’ ormai passata una settimana dal nostro arrivo a Louga, e ci mettiamo in viaggio per Saint Louis, antica capitale coloniale francese, prima di proseguire verso la riserva naturale del Djoudj. Il paesaggio cambia radicalmente: situata sulla Langue de Barbarie, una penisola che corre parallela alla costa lungo l’Oceano Atlantico, la città presenta palazzi dai muri dipinti di giallo e di rosso e balconi in ferro battuto. Troviamo belle fanciulle che si offrono ai francesi per una cena al ristorante e un cellulare nuovo, giovani che ci inseguono in tutte le viuzze pur di rifilarci un souvenir in legno, e bambini dall’innocenza ormai perduta che vendono la loro immagine a fotografi improvvisati in cambio di denaro. Ci addentriamo nel mercato, tra banchetti che espongono frutti di tamarindo e di baobab, noccioline, spezie e foglie di the, ci lasciamo trascinare dall’odore delle frittelle dolci, fino ad immetterci nel vicolo in cui i sarti – sulla soglia delle loro botteghe, – realizzano abiti per signora con tessuti cangianti. Usciamo infine sulla strada che dà sul lungomare, ben diverso dalla passeggiata romantica che ci si potrebbe aspettare: davanti ai nostri occhi, si apre un inferno dantesco di baracche e fumo. Qui si raccoglie e si affumica artigianalmente il pesce che i pescatori portano a riva dopo settimane trascorse in mare aperto, destinato spesso ad esser venduto in Europa. La nostra guida, Daniel, ci spiega che di tanto in tanto, durante la pesca, ci si sveglia la mattina accanto ad una balena che sovrasta l’esile piroga in legno: “Ma non è un problema – aggiunge – abbiamo le nostre protezioni” e ci mostra un amuleto di culto animista che ogni senegalese porta legato in vita sin dalla nascita. Non riusciamo a trattenere un sorriso.

Una sessantina di chilometri più a Nord, il campement gestito dalle tribù del Parco del Djoudj ci riceve offrendoci un’appetitosa cenetta mauritana. La sistemazione è in bungalow in muratura, da cui è facile osservare i facoceri che attraversano distese sterminate, sullo sfondo di uno splendido tramonto. Spegniamo le candele e andiamo a dormire, in attesa dell’escursione ornitologica del mattino seguente. Nel silenzio della notte riecheggia soltanto il verso impertinente delle iene.

Ancora un paio di giorni e ci spostiamo su Dakar, la capitale del Paese e dei contrasti. L’aria è irrespirabile a causa dell’inquinamento, e a chi non ha nulla – vediamo donne vestite di stracci che muoiono letteralmente di fame lamentandosi del fatto che nessuno si preoccupi per loro – si contrappone chi dalla vita ha avuto tutto e ci tiene a mantenere ben saldi i propri privilegi. La polizia fa largo alla lussuosa auto della moglie del Presidente, che si dirige verso la periferia ricca della città. Qui a poca distanza convivono la baraccopoli degli ultimi e ville con palme e sorveglianza privata da far invidia a Beverly Hills. Ultima tappa del nostro viaggio è l’isola di Gorée, poco distante dalla costa, tragicamente famosa per esser stata il punto di raccolta nella tratta degli schiavi. Con le sua vegetazione rigogliosa, le costruzioni rosa, bancarelle e ristoranti, Gorée sembra aver ristabilito una certa serenità nonostante l’ingombrante passato, mantenendo tuttavia una certa dipendenza economica nei confronti del turismo occidentale tradizionale. L’esperienza senegalese è giunta ormai al termine: dei 16 giorni trascorsi in questa magica terra, conserveremo di certo il ricordo dei luoghi incantevoli, ma soprattutto quello del calore della gente che è riuscita a farci sentire realmente a casa. Per maggiori informazioni visitare il sito www.Viaggisolidali.It .



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