Scozia, un viaggio non ancora terminato

Quel mercoledì pomeriggio a casa di Elena c’erano proprio tutti. Si erano messi d’accordo di nascosto….chi aveva comprato le bibite, chi portato le torte, alcuni avevano preparato le pizze, gli altri procurato piatti di plastica, bicchieri, candeline, coriandoli e stelle filanti. Non era carnevale e neppure un compleanno. Di li a poche...
Scritto da: Steve
scozia, un viaggio non ancora terminato
Quel mercoledì pomeriggio a casa di Elena c’erano proprio tutti. Si erano messi d’accordo di nascosto…Chi aveva comprato le bibite, chi portato le torte, alcuni avevano preparato le pizze, gli altri procurato piatti di plastica, bicchieri, candeline, coriandoli e stelle filanti. Non era carnevale e neppure un compleanno. Di li a poche ore sarei partito e, detto tra noi, tutto mi sarei aspettato tranne che i miei amici mi organizzassero una festa d’addio. Anzi un “SEE-U-SOON PARTY”, come recitava lo striscione appeso in cucina, sottotitolo “Non addio che porta sfiga”, scritto proprio così.

La sorpresa era stata enorme, trovarmeli lì tutti di colpo aveva dato un’ulteriore centrifugata ai miei pensieri già confusi da quel misto di malinconia ed eccitazione che mi tormentava da qualche giorno. Ragazzi, partivo per un anno!!… Sarebbe stata un’esperienza favolosa ne ero convinto, però lasciavo un bel po’ di cose belle a casa, troppe forse! E loro, appunto, erano una di queste! La conoscevo già, la Scozia. Mi ero innamorato del fascino senza tempo di Edimburgo, del rosso d’autunno dei boschi delle Highlands, del vento freddo delle scogliere dell’isola di Skye, dei panorami delle Shetland con il loro niente di niente che ti riempie gli occhi, la mente ed il cuore. Ero rimasto affascinato dall’atmosfera fiabesca di certi castelli avvolti dalla nebbia, dove nessuno si sarebbe stupito di udire da un momento all’altro il rumore della spada di un cavaliere venuto dal nulla per liberare la principessa prigioniera nella torre più alta.

E poi, soprattutto, avevo imparato ad amare gli scozzesi, orgogliosi, tenaci, indipendenti, e custodi di un’ospitalità che raramente avevo incontrato altrove.

La conoscevo già, la Scozia e, anzi, era entrata in me e non ne era uscita più…Per questo dovevo tornare, restarci, provare a viverla fino in fondo! Così, nell’atrio della mia facoltà, fissando il tabellone delle borse di studio, lo sguardo era caduto proprio lì. Non a caso ma fortemente voluto. Tutti puntavano ad università più note, città più grandi, ambienti più accoglienti, festosi, promettenti…(già, la Spagna, avevo rifiutato con decisione quella possibilità…A volte la vita fa dei giri strani), io no…Volevo, dovevo, finire lassù ed in nessun altro posto! E così fu! Mentre ci ingozzavamo ben bene trangugiando ettolitri di coca-cola (avevo davanti una notte e 1200Km di guida e la cosa non andava sottovalutata quindi niente alcolici e più caffeina possibile) e inventandoci i brindisi più strampalati, li osservavo ad uno ad uno cercando di memorizzare i loro tratti più salienti. Mi stavo creando una banca dati a cui, pensavo tra me e me, avrei attinto diverse volte nei lunghi mesi che sarebbero seguiti.

Poi, arrivata l’ora del congedo, il silenzio quasi “mistico” che improvvisamente era sceso su quell’appartamento aveva accompagnato una strana processione. Ciascuno, a modo suo, aveva deciso di farsi ricordare: molti libri tra cui spiccava il profetico “Alcool? Puoi uscirne!”, le marmellate di Sammy, cuoca eccezionale, un barattolone di Nutella da Giorgia, golosa quasi quanto me, una foto incorniciata con la squadra di basket al gran completo in posa sotto ad un cartello “Allenati duro…Trom** anche per noi!”, una T-shirt con le firme di tutti ed un’infinità di altri pacchettini, biglietti e lettere. Ventisei amici che mi salutavano a modo loro, ventisei nodi in gola faticosamente ricacciati giù…Aufff, il distacco si stava rivelando molto ma molto meno facile del previsto.

L’auto era carica all’inverosimile! Avevo di tutto, ma proprio di tutto: Kg e Kg e Kg di pasta lunga e corta, tonnellate di lattine di pomodoro a pezzettoni, una treccia d’aglio chilometrica, un vaso d’origano speciale, spezie varie, una damigiana d’olio da 8 litri, pentole, pentoline e pentolone, lenzuola, coperte, un cuscino (!), il sacco a pelo oltre a libri, appunti, il dizionario, medicine, cianfrusaglie d’ogni tipo, scarpe per ogni occasione, vestiti per tutte le stagioni. Tutto calcolato tranne i soldi, che erano quelli che erano.

Vedendomi, chiunque avrebbe potuto pensare al solito italiano che anche all’estero senza gli spaghetti di mamma non vive, ma io avevo fatto un ragionamento diverso. Ci dovevo stare un bel po’ lassù, avrei sicuramente avuto a disposizione una cucina, viaggiando in auto non avevo (quasi) problemi di bagaglio e visto l’infelice cambio Lira-Sterlina, era una forma di risparmio, non potete negarlo! Se poi mi avesse anche evitato di slalomeggiare per tutto l’anno tra fish-‘n-chips, jacked potatoes e soprattutto haggis, tanto meglio…! Per farmi compagnia e tenermi sveglio durante il viaggio – diceva lui – e farsi una settimana di vacanza a scrocco – dicevo io – mi accompagnava Seba, uno degli amici di sempre.

Incastrati nell’abitacolo straboccante di valigie e scatoloni stavamo talmente stretti da sembrare due esuli curdi gay, in fuga con tutti i loro averi da un regime intollerante per coronare il loro sogno d’amore!!! Al Brennero l’infame già dormiva alla grossa ma, visto il russare, a modo suo teneva fede al proposito di tenermi sveglio.

Il viaggio, apparentemente pianificato alla cacchio, era stato in realtà studiato alla perfezione. Dato per assodato che in Scozia dall’Italia non ci si arriva (via terra) in giornata, le varie possibilità erano state minuziosamente analizzate e alla fine ridotte alle due più logiche: a) via Francia fino a Calais, notte da qualche parte, poi traghetto, indi da Dover su su per gli 888Km che mi separavano dalla meta, oppure b) via Germania fino ad Ijmuiden (Olanda), traghetto notturno per Newcastle e restanti 260Km circa per giungere a destinazione.

Calcolatrice alla mano la scelta era caduta sull’opzione b): in Germania l’autostrada era gratis mentre in Francia si pagava a peso d’oro, il traghetto notturno olandese costava come quello sulla manica (incredibile ma vero: cabina doppia e 15 ore di viaggio allo stesso prezzo di un passaggio ponte per 50 minuti), dormendo a bordo si evitava di dover pagare una stanza d’albergo e si riducevano drasticamente i Km alla guida (ovvero il risparmio in benzina era evidente). In più la traversata avrebbe messo a dura prova i nostri stomaci facendoci risparmiare anche sui pasti…Eravamo proprio due disperati! Quando quasi due giorni dopo parcheggiammo davanti all’University Information Office, era un venerdì pomeriggio di fine settembre, piovoso com’era logico che fosse.

Io, d’istinto, odio la pioggia! Ho bisogno di luce, colori, di un sole che mi rallegri, eppure quello che a prima vista fu un incontro shockante (“Oh cazzo… Non sarà mica sempre così?”) si trasformò ben presto in una familiare compagna di vita. Ti svegli e piove, esci e piove, torni a casa e piove, vai a dormire e piove… tutto sommato una coerenza rassicurante. E di tanto in tanto quando esce fuori il sole, non lo fa timidamente ma si prende una sonora rivincita con arcobaleni da favola! Sempre, senza eccezioni La settimana successiva, quando vidi Seba sparire oltre il metal detector dell’aeroporto mi resi conto che per la prima volta ero solo, in una città nuova dove non conoscevo nessuno, ma questo, invece che preoccuparmi generò in me una strana sensazione di tranquillità. Mi era stata data l’opportunità di vivere un’esperienza unica e per certi versi irripetibile, stava a me sfruttarne al meglio le potenzialità ed era proprio quello che avevo intenzione di fare.

Settimana dopo settimana, mese dopo mese l’anno volò letteralmente, quasi che lassù il tempo avesse una valenza diversa, e d’improvviso arrivò l’estate. Estate per modo di dire, ma pur sempre la fine dell’anno accademico.

Una mattina d’inizio luglio, di colpo come se fossi appena ripiombato sulla terra da un’altra dimensione, mi trovai di fronte alla stessa macchina stracarica con la stessa forte sensazione di malinconia di quella sera a casa di Elena. Pur avendo vissuto al 200% ogni minuto, avevo l’impressione che fossero passati solo pochi giorni invece di quei 10 mesi ma mi convinsi che era normale…Le cose belle in fondo passano sempre in fretta. Sulla via del ritorno, man mano che mi allontanavo, mi rendevo conto però che un bel po’ di foto, una marea di ricordi ed un’agenda zeppa di pagine fitte di aneddoti, nomi ed indirizzi non sarebbero stati sufficienti a rendere meno doloroso quel distacco.

Tantomeno avrebbero potuto aiutarmi a superare la nostalgia che di sicuro mi avrebbe attanagliato lo stomaco una volta ritornato al tran tran di sempre.

Avevo indovinato, mi conoscevo troppo bene, e fu anche per questa ragione che ciò che doveva essere un addio divenne solo un arrivederci: ancora non lo sapevo ma dei tre anni successivi ne avrei passati due di nuovo lassù, di nuovo in Scozia! Rompendo i maroni come pochi e prendendo per sfinimento interi dipartimenti dell’università, infatti, ero riuscito a farmi assegnare un’altra specie di borsa di studio stavolta per la tesi all’estero, seguita a ruota – stessa tattica stessi risultati – da un altro anno da dottorando come visiting researcher.

In quei due anni di “bonus” che testardamente mi ero conquistato successe moltissimo. Tante persone entrarono nella mia vita, alcune senza lasciare quasi traccia, altre segnandola per sempre. Avevo conosciuto Susana e Nacho per caso all’Università. Erano appena arrivati dalla Spagna ed erano un po’ spaesati così io, ormai un “veterano”, ero stato assegnato loro come tutor. Dai consigli su come muoversi al dividere l’appartamento il passo era stato molto breve e assolutamente naturale. Ci si trovava a meraviglia, si avevano gusti simili ed era abbastanza facile, quando l’inglese faceva cilecca, capirsi lo stesso parlando ciascuno la propria lingua.

La colonia spagnola era molto numerosa in città ed io, praticamente unico italiano nei paraggi, ero stato da subito adottato, ibericizzato e battezzato con ripetute abluzioni in una vasca da bagno di sangria! Casa nostra era diventata il punto di ritrovo obbligato di tutti, forte del fatto che pur essendo vicino al campus era l’ultima di una strada senza uscita, un po’ isolata dalle altre, e questo riduceva drasticamente il numero delle volte che avremmo dovuto implorare il poliziotto di ronda, avvisato dai vicini, di non farci l’ennesima multa per schiamazzi notturni e disturbo della quiete! Il venerdì sera non occorreva più neanche il passaparola, il programma veniva dato per scontato: cena italiana più specialità spagnole, sangria e alcolici come se piovesse, musica a palla. Un sacrosanto casino!! Il sabato pomeriggio lentamente si usciva dal coma, si rassettava casa alla benemeglio e si cominciava a pianificare la domenica. La domenica era, per abitudine, dedicata alla “presa di coscienza del mondo che ci circonda” come diceva sempre Nacho: visite delle città vicine o di qualche monumento, uscite in battello coi pescatori o spedizioni a questo e quel castello, escursioni in montagna o semplici passeggiate fino alla spiaggia. Sempre gli stessi cinque, sempre in sintonia.

Quella volta, però, avevamo deciso di fare le cose in grande. C’erano le vacanze di primavera, la facoltà chiudeva e con essa tutti i laboratori, e avevamo davanti quasi un mese da riempire.

I più erano tornati a casa, ma noi eravamo decisi a rimanere ed allargare il raggio d’azione delle nostre escursioni. Restava da vedere dove e come e, stavolta, mettere d’accordo una decina di persone non era poi così semplice. Ci pensavamo già da un po’ e ci eravamo riuniti per raccogliere le idee. Accampati nella nostra living room chiacchieravamo animatamente: chi proponeva un’isola, chi azzardava Londra, chi sognava Dublino, chi ancora buttava li un generico punto cardinale…

Poi Carmen, che fino ad allora era rimasta ai margini della discussione, entrò nella stanza, spalancò gli occhi e sorridendo se ne uscì con un: ”Ya lo tengo!…Alquilamos una furgoneta y vamonos de ruta” ( Trovato!…Noleggiamo un minivan e facciamoci un tour!).

Era l’uovo di Colombo, la cosa più logica che metteva d’accordo tutti, l’idea più semplice che però non era venuta a nessun altro. Io non mi stupivo affatto che l’avesse avuta lei e seduto sul divano la osservavo compiaciuto mentre, appoggiata alla finestra della cucina, cercava di legarsi i lunghi capelli castani con un fermaglio. Un forte riflesso di luce le illuminava le lentiggini sul viso e lei mordicchiandosi il labbro inferiore – lo faceva sempre quando era concentrata –aveva nel frattempo preso la teiera fumante e stava versando il tè per tutti.

La pensata del noleggio aveva messo tutti d’accordo ed io, che per ovvi motivi conoscevo il paese meglio degli altri, venni incaricato di studiare il percorso.

Ci pensai un po’ poi la sera dopo a cena, mappa alla mano, lo illustrai agli altri. Avevo pensato ad una sequenza di “punti chiave” tipo quelli dall’1 al 52 della Settimana Enigmistica, per una volta però unibili tra loro in maniera del tutto libera seguendo il tempo, il caso, l’umore del momento. Linee rette o improbabili curve, percorsi logici od illogici non avrebbe fatto assolutamente nessuna differenza: sapevamo dove volevamo arrivare…Il quando non era poi così importante! E comunque ce n’era per tutti i gusti: città, monumenti, musei, castelli, foreste, montagne, coste, isole…Una full immersion totale, una presa di coscienza assoluta delle potenzialità di ciò che ci circondava, un’esperienza diretta, a tu per tu con quelle terre meravigliose! Se il tempo fosse stato clemente avremmo sfruttato appieno la possibilità di libero accampamento permesso dalla legislazione scozzese montando le tende qua o la, altrimenti avremmo ripiegato su uno degli ostelli, bunkhouses o B&B presenti un po’ ovunque.

L’entusiasmo con cui venne accolta la mia proposta mi riempì di soddisfazione facendomi dimenticare che la responsabilità, in caso in seguito la vacanza li avesse delusi, sarebbe ricaduta per gran parte sulle mie spalle. Però, se poco poco avevo imparato a conoscerli, l’idea di non vederli soddisfatti mi avrebbe sorpreso molto.

Il Nostro D-Day era stato fissato il sabato successivo ed io quella mattina, mezz’ora dopo l’orario di apertura degli uffici, ero già seduto al posto di guida del minivan con l’incaricato del rent-a-car al mio fianco intento a spiegarmi la posizione dei vari comandi. Eravamo in undici ma, considerati i bagagli, avevamo optato per un Leyland da 14 posti che il sottoscritto, ostentando incosciente sicurezza, aveva garantito di non aver nessun problema a condurre. In realtà non era la guida a destra che mi preoccupava quanto piuttosto le dimensioni, perché era pur vero che da militare avevo preso la patente C, ma il tutto senza mai uscire dallo sconfinato (e assolutamente privo di ostacoli) piazzale della caserma! I miei sospetti erano fondati… Da vicino il minibus era immenso, praticamente una corriera e da dentro era anche peggio, lungo e soprattutto largo all’inverosimile. Contrattando come il più esperto dei venditori di un bazaar arabo, poi, ero anche riuscito a farmi aggiungere senza sovrapprezzo un enorme portapacchi sul tetto ed un portabici posteriore il che aumentava a dismisura l’ingombro togliendomi anche quei pochi punti fermi di riferimento sicuri. Sudando varcai il cancello del parcheggio…La distanza che mi separava da casa diventava un lungo, snervante, pericoloso percorso ad ostacoli ma, non potendo far altro, m’avviai. Strada facendo avevo la netta convinzione che ognuna delle persone che incrociavo si fosse messa d’accordo per venirmi addosso però, al tempo stesso, guadagnavo pian piano fiducia e mi sembrava di prendere sempre più confidenza col mezzo.

Tanta confidenza che, giunto a casa azzardai un parcheggio un po’ troppo pretenzioso con il risultato di dare una vigorosa potata fuori stagione all’amata siepe di Miss Dorrigan, la nostra vicina! Alle 10 in punto era stata fissata l’adunata generale. Alle 12 meno un quarto il miracolo… c’eravamo tutti!! Nel frattempo Nacho ed Aitor avevano provveduto a smontare l’ultima inutile fila di sedili aumentando lo spazio per i bagagli. E meno male, perché chiunque fosse passato in quel momento da quelle parti avrebbe potuto vedere questo: undici cialtroni – dieci spagnoli ed un italiano – radunati nel giardinetto di una casa con undici mega-zaini, undici sacchi a pelo, quattro tende, quattro fornelletti da campeggio, un tavolino pieghevole (nessuna sedia), quattro scatoloni di generi alimentari, tre casse di birra, una di bibite ed alcolici vari, due chitarre, un aquilone (!), libri, guide turistiche, un atlante stradale, uno stereo, infiniti CD. In più, per non lasciare nulla al caso…9 biciclette ed un tandem!!!!!! Con un abilità degna d’un intarsiatore ci riuscì di incastrare tutto per bene, incluse le bici: cinque sul portabici posteriore (da tre posti!), quattro più il tandem sul tetto…Il peggio era passato, si partiva! Nell’ingranare euforico la retromarcia uno sfrusccccc anomalo m’insospettì subito. Azzz…La siepe!!…Era il colpo di grazia, ma stavolta, a parziale indennizzo (!), avevo lasciato sul prato di Miss Dorrigan un bellissimo fanalino di bicicletta e nella sua aiuola un’artistica impronta di pneumatico! Scappammo puntando verso nord.

La prima tappa prevista era il Glamis Castle, casa natale della Regina Madre nonché per i patiti di Shakespeare ambientazione del Macbeth, ma soprattutto splendido maniero adagiato nel mezzo di un parco secolare immenso dove avremmo anche potuto, vista l’ora ed il tempo incredibilmente bello, organizzare un pic-nic, il primo di molti, e dar fondo alla scorta di sandwich, i primi di troppi! Poco prima di arrivare al parcheggio, a pagamento, Manolo che sedeva dietro di me mi mise una mano sulla spalla come a rassicurarmi uscendosene con un “lascia fare a me”! Manolo era sivigliano di madre gitana, con una carnagione talmente scura che al suo fianco un marocchino passava per svedese. Era anche il più grande intrallazzone che avessi mai conosciuto, più napoletano dei napoletani (è un complimento!), sempre alla ricerca della via più breve e meno faticosa per raggiungere il proprio obiettivo. Con il suo inglese fortemente andaluso pieno di lettere aspirate e parole lasciate a metà, intortava chiunque con panegirici incredibili raggiungendo assolutamente sempre il suo scopo. E questo valeva indistintamente con le ragazze o coi professori, con il barista del pub o con la commessa di un negozio.

Vedendolo ritornare sorridente dalla biglietteria capimmo che anche stavolta aveva dato il meglio di se. Si assommò al finestrino e, premurandosi che tutti lo sentissero “Siamo l’Associazione Italo-Iberica per lo Sviluppo del Turismo Giovane in Scozia” – o giù di lì disse facendo l’occhiolino – “ e abbiamo quindi diritto al biglietto ridotto”. La stessa scena si sarebbe ripetuta per tutte le settimane successive, in castelli, musei, perfino traghetti e a noi, che gli chiedevamo ammirati come ci riuscisse aveva anche il coraggio di rispondere “Si, ma non c’è neanche gusto…Qui ci credono subito, in Spagna invece…”. Un genio! Dopo poco più di due d’ore eravamo di nuovo in marcia risalendo la valle del Glen Shee nel cuore delle Grampian Mountains, la più grande catena montuosa di Scozia, tra foreste verdissime che velocemente andavano diradandosi per lasciare il posto alla tipica vegetazione d’alta (per modo di dire) quota scozzese, ovvero il niente. Mentre scendevamo verso Braemar lasciandoci alle spalle la regione di Angus cominciò il toto-pernottamento ovvero la discussione su dove passare la notte.

Unica regola universale concordata prima della partenza era la democratica “la maggioranza vince e gli altri si adeguano”, così molti spinti anche dal cielo inusualmente azzurro proposero di montare le tende non appena avessimo trovato un posto adeguato.

Raggiunto il Balmoral Castle, residenza estiva della famiglia reale si optò per una nuova sosta. Mentre passeggiavamo tra le splendide aiuole del parco ammirando il monumentale castello che si ergeva nel mezzo di una radura dall’erba falciata millimetricamente a qualcuno sembrò di sentire una goccia ma poiché il cielo continuava ad essere più limpido che mai la cosa venne liquidata in fretta. Il River Dee, che nasce nel cuore delle Cairngorn Mountains, propaggine settentrionale delle Grampian, scende lungo la vallata, attraversa il parco del castello e, facendosi strada tra fittissime foreste di querce, incrocia numerosi torrenti che lo ingrossano prima di finire il suo viaggio nel mare del nord in corrispondenza di Aberdeen. Uno di questi mille affluenti proviene dal Loch Kinord, piccola e a prima vista insignificante macchiolina celeste in una mappa dove di laghi e laghetti c’è solo l’imbarazzo della scelta, tutti apparentemente più interessanti di quello, ma a noi che vi arrivammo all’imbrunire, quella radura che si specchiava nelle acque rosse di un tramonto da love story sembrò fosse stata messa lì apposta ad aspettarci. Non ci fu bisogno di dire niente, la nostra casa, quella notte non sarebbe stata in nessun altro posto.

Montammo le tende e, seduti attorno al fuoco diligentemente acceso in un cerchio di pietre, scoprimmo subito che, chitarra alla mano, tutto il mondo è paese: se loro ignoravano Battisti ed io non ero preparato sui Mecano era sufficiente il primo accordo di “Yesterday” o “Let it be” per stonare tutti assieme, in stereo! Finite le salsicce e le pannocchie abbrustolite, di gran lunga più gustose se insaporite dall’ingenua convinzione di essere i primi pionieri alla scoperta di terre ai confini del mondo, spegnemmo il fuoco trovandoci di colpo immersi nella totale oscurità. Eravamo tutti col naso all’insù per godere appieno di quella miriade di stelle che fino a poco prima ci aveva fatto da soffitto ma la sensazione fu quella di stare osservando l’interno della cappa di un camino o, se volete, un barile di pece…Il cielo era nero che più nero non si poteva! Non ci fu neanche il tempo di dire un “oh, no!” che una goccia da un litro e mezzo affogò Isabel dando il via ad un fuggi fuggi generale verso le tende.

Sembrava che il cielo, limpidissimo per gran parte della giornata, volesse recuperare il tempo perduto scaricandoci addosso tutta la quantità d’acqua in una volta sola…! La notte fu epica. Non solo sembrava di essersi accampati direttamente sotto le cascate del Niagara ma fortissime raffiche di vento scuotevano le tenda a destra e sinistra penetrando dappertutto con spifferi micidiali e facendoci temere il peggio. Verso mattina quando cercando il mio swatch a casaccio sul pavimento lo trovai che galleggiava, capii che era ora di alzarci. Fortunatamente i materassini erano risultati sufficientemente spessi da permetterci di rimanere asciutti ma tutto ciò che era per terra – leggi vestiti, scarpe, la torcia… – era fradicio.

Lentamente undici zombie stavano smontando il campo senza dire una parola eccetto qualche grugnito mentre una papera e due paperotti assolutamente incuranti di quello che accadeva loro intorno banchettavano con i resti di una confezione di pane dimenticata fuori la sera prima che il temporale aveva trasformato in un pastone informe.

Poco dopo nell’unico bar del lillipuziano villaggio di Dinnet ventidue occhi piccoli piccoli appoggiati su ventidue occhiaie grandi grandi si scrutavano assenti mentre altrettante mani intirizzite stringevano delle tazzone bollenti di caffè che la compassionevole cameriera aveva preparato – al solo guardarci in faccia – extra-strong.

Il martedì mattina di buon ora stavamo facendo un’abbondante colazione nell’ostello di Inverness decidendo come proseguire. La notte del diluvio era ormai un lontano ricordo. Il nostro viaggio era proseguito zigzagando per tutto l’Aberdeenshire tra magnifici castelli, tenebrose cattedrali (su tutte “the Lantern of the North” ad Elgin), spiagge ventose e pittoreschi paesini, prima di tuffarsi appieno nello Strath Spey, la valle dell’omonimo fiume, le cui acque si dice celino il segreto che rende gli Whisky distillati qui tra i più buoni e famosi del mondo. Le distillerie, si sa, si assomigliano tutte ma noi ovviamente non ne avevamo mancata una “provandole” coscienziosamente fino all’ultima e solo una saggia sosta alla fabbrica degli arcinoti Walker’s, burrosi, buonissimi e fortunatamente molto assorbenti biscotti da tè, aveva impedito che anche la seconda nottata assumesse contorni leggendari. Era bastata poi una doccia calda ed una sonora ronfata in una bunkhouse vicino ad Archiestown per restituirci il consueto smalto.

Dopo essere risaliti verso la costa avevamo raggiunto, nel pomeriggio successivo, Inverness dove un altro violento acquazzone ci aveva convinto a riabbandonare l’idea del campeggio per ripiegare sul confortevole ostello che comodamente si affacciava sul corso principale della città.

Tra una fetta di pane-burro-e-marmellata e l’altra avevo aperto l’atlante stradale sistemandolo al cento del tavolo perchè fosse ben visibile a tutti. Il Lago di Loch Ness era li a due passi e la tentazione di andarci immediatamente era molto forte ma dopo le prime titubanze anche i più restii si convinsero che non c’era fretta. Avevamo molto tempo e valeva la pena puntare in un’altra direzione.

Prendendo la A9 verso nord ed imboccando il Kessock Bridge si attraversa la Black Isle (in realtà una grande penisola) delimitata dal Moray Firth e dal Cromarty Firth, due bracci di mare che nascondono alcuni scorci sorprendenti intervallati da altri sorprendentemente insignificanti. Una puntata al bel villaggio di Strathpeffer che conservava ancora i segni del suo glorioso passato vittoriano e poi la “furgoneta” aveva ripreso ad arrancare risalendo le Highlands lungo la costa est.

Da Inverness a Thurso, nostra meta finale giornaliera, c’erano circa 175Km ma noi impiegammo due giorni ad arrivarci il che, vista la monotona alternanza di anonimi villaggi di pescatori, avrebbe dell’incredibile se non fosse per quella che per tutti divenne “The wonderful night of the eightsome reel”.

Era successo che, tanto per cambiare, aveva cominciato a piovere mandando all’aria una volta di più i nostri propositi di accamparci da qualche parte per la notte così, raggiunto il villaggio di Helmsdale a metà circa della nostra tappa, avevamo deciso di fermarci all’ostello che ricordavo discreto e neppure troppo caro. Quello che avevo dimenticato però era che apriva solo l’estate e quindi, dopo aver incassato un paio di vaffa, mi ero trovato con l’allegra comitiva seduto nel pulmino per decidere il da farsi.

Quando stavamo ormai per ripartire sperando che il tempo decidesse di migliorare c’eravamo accorti che all’appello mancava Ana. Ana, studentessa di oceanografia di Vigo, in Galizia, era una ragazza di una cordialità sorprendente il che si traduceva nell’abilità di attaccare bottone con chiunque le capitasse a tiro, fosse anche sordomuto. Entrata nel pub di fronte al parcheggio per fare una telefonata ne era uscita, per non smentirsi neppure stavolta, con due nuove amiche che aveva portato fino a lì per presentarci.

Parlando del più e del meno e chiedendo consigli per la notte, era venuto fuori che una di loro aveva una zia proprietaria di un B&B poco distante, abbastanza grande da contenerci tutti e che sicuramente ci avrebbe fatto un prezzo di favore visto che eravamo tanti e la stagione non molto turistica.

La proposta piacque e fatte salire le due ragazze ci recammo sul posto. Il B&B non era niente male, il prezzo buono e anche la zia sembrava molto simpatica tanto che c’invitò, a cena.

Non avevamo ovviamente programmi per la serata se non quello di andare a dormire ma lei, dopo un rapido scambio di occhiate con il marito, ebbe l’idea fulminante: portarci al loro circolo ricreativo dove proprio quella sera si teneva un tradizionale ceilidh (pronuncia kèilih con l’acca leggermente aspirata).

Eravamo in pochi a sapere di cosa si trattasse ma dopo una breve spiegazione tutti vennero contagiati dall’entusiasmo.

Il ceilidh è una tipica serata di balli e canti scozzesi dove la parte del gigante la fa una coreografia formata da quattro coppie – un “eightsome reel” appunto – che ballano in sincronia. Non lo potevamo neppure lontanamente immaginare ma quella sarebbe stata in assoluto la notte più divertente di tutta la vacanza.

In una specie di aula magna dal pavimento di linoleum verdino nel retro della chiesa, arzilli settantenni in kilt facevano volteggiare spaesate (ma euforiche) ragazze spagnole mentre goffi ragazzi spagnoli – e un manico di scopa italiano – tenevano per mano scatenate nonnette scozzesi che li sbatacchiavano a destra e sinistra.

Tra risate, pestoni sui piedi, incroci pericolosi e qualche giramento di testa faticavamo a prendere il ritmo ma proprio quando stavamo ormai dandoci per vinti, come per incanto le direttive del “caller” – il capo cerimonia che guida le coppie chiamando i passi – non ci erano sembrate più così impossibili e avevamo cominciato a sentirci come se quel ballo lo praticassimo da tutta la vita.

A fine serata tutti avevano ballato con tutti e la comunità, radunata in un angolo, al suono delle cornamuse che ci avevano accompagnato per tutta la serata ci aveva fatto un solenne inchino battendoci le mani come a ringraziarci.

Loro ringraziavano noi!… Semplicemente incredibile, come incredibile fu il seguito a base di scotch pies, pancakes e pudding, bicchieri di whisky e pinte di Tennent’s che, complice anche la stanchezza, ci diedero il colpo di grazia.

Arrivammo a Scrabster, estrema propaggine settentrionale delle Highlands nel primo pomeriggio del giorno successivo con un discreto mal di testa, giusto in tempo per prendere il traghetto per Stromness, principale porto delle Orkney Islands.

Eravamo un po’ indecisi mallo stesso tempo molto incuriositi da queste isole, affascinati dalla possibilità di percorrere in bici lunghe strade su scogliere altissime a picco sul mare, scoprire i numerosissimi siti archeologici (perfettamente conservati perché da sempre, vista la scarsità di legname, tutto è costruito in pietra), curiosare in un luogo dove la natura aveva sempre l’ultima parola.

A dar retta alle nostre guide nonché alla signorina dell’ufficio turistico di Thurso, avevamo scelto il periodo ideale perché aprile e maggio qui sono notoriamente i mesi meno piovosi dell’anno e la corrente del golfo garantisce un clima estremamente mite.

Ci eravamo convinti ed in effetti sul traghetto la gran quantità di passeggeri armati di telecamere sofisticate e attrezzature fotografiche ipertecnologiche faceva ben sperare: erano appassionati di birdwatching provenienti da mezzo mondo, certi di trovare a queste latitudini una delle maggiori varietà di specie di uccelli migratori d’Europa. Di sicuro non sarebbero venuti fin quassù se la stagione non fosse stata adatta.

Ora, io non so chi portò sfiga a chi, se noi a loro o viceversa, sta di fatto che i nostri tre giorni alle Orcadi sono tutti riassunti in una foto che campeggia a metà di uno dei miei album e che suscita sempre, in chiunque se la trovi davanti, una gran di voglia di ridere e un irrefrenabile desiderio di prendermi per il culo. Si vedono undici ombre colorate oblique e sfumate su uno sfondo di tonalità grigio-lapide punteggiato di macchioline chiare…Siamo noi (immortalati dall’unico passante incontrato, probabilmente Caronte) nel bel mezzo di una “splendida giornata di aprile mitigata dalla corrente del golfo” quando una nebbia densa come il cotone idrofilo, misteriosamente immobile nonostante le raffiche di vento gelato a 100Km/h, avvolgeva qualsiasi cosa accompagnata da una pioggerellina bastarda che per non passare inosservata cadeva orizzontalmente entrandoti anche nel naso. Di fatto era impossibile anche solo camminare diritti, figuriamoci esplorare l’isola in bici! La tentazione di tornare dalla signorina del Tourist Office e torturarla sadicamente su un rogo alimentato dalle pagine delle nostre guide era forte ma poi aveva prevalso lo spirito “don’t worry, be happy” e ci eravamo convinti che in fondo le Orcadi erano belle anche così, viste attraverso i vetri a scacchi delle finestre dell’ostello.

Il sabato mattina però, mentre c’imbarcavamo sul traghetto di ritorno, una luce accecante faceva brillare i telai delle nostre bici appese al minibus accecandoci. Poco lontano sotto un caldissimo sole primaverile numerosi pescatori in maniche corte riparavano le reti cantando chissà che antiche canzoni di mare. Contagiati da tale quadretto idilliaco e probabilmente stimolati da quei raggi di sole, i primi – ricordiamolo – dopo giorni da aldilà, anche a noi venne voglia di lasciare un contributo etnico-popolare ma, nel dubbio che qualcuno potesse capire i vaffa in rima baciata bilingue che ci venivano dal profondo del cuore, lasciammo perdere.

I giorni che seguirono ci videro attraversare quella che, senza ombra di dubbio è uno dei più belli se non il più bell’angolo di tutta la Scozia. Non è facile descrivere la meraviglia di ciò che s’incontra percorrendo l’unica strada che, da Thurso segue il profilo frastagliato della costa nord prima, scendendo poi a ovest fino all’incantevole Ullapool, ma una cosa è certa: se soffrite la solitudine, se gli spazi aperti apparentemente senza fine, il susseguirsi di insenature profonde, le spiagge isolate protette da rocce altissime, le colline verdi delimitate solo da bassi muretti di pietre dove centinaia di pecore pascolano sparpagliate vi mettono a disagio, non venite mai quassù, non fa per voi. A noi sembrò di essere arrivati in paradiso e, per una volta anche il tempo, forse per scusarsi dello scherzo fattoci alle Orcadi, ci fu amico regalandoci tre giorni di sole ininterrotti.

Costeggiavamo il mare mentre tutt’intorno nei prati decine e decine di agnellini appena nati – era la stagione – muovevano i primi passi tremolanti controllati a vista da madri premurose. Ogni volta che qualcuno vedeva un qualcosa, qualsiasi cosa, di anche solo apparentemente interessante accostavamo a lato della strada e curiosi come bambini in gita andavamo tutti a dare un’occhiata. Così miglio dopo miglio a passo di lumaca eravamo arrivati a Sheigra, un posto che a fatica si trova anche sulle cartine più dettagliate. Parcheggiato il furgone avevamo scaricato gli zaini e, dopo esserci ripartiti i viveri e l’acqua, ci eravamo incamminati sotto gli occhi incuriositi degli 8 (!) abitanti del villaggio.

Un’ora dopo, eravamo a Sandwood Bay forse la più bella e probabilmente più isolata spiaggia dell’intero Regno Unito, protetta dall’ Am Buachaille un incredibile pinnacolo di roccia. Avremmo passato la notte lì montando le tende tra le rovine della spettrale Sandwood House, unica costruzione nel raggio di miglia, abitata si diceva dal fantasma di un marinaio morto tragicamente in un naufragio nelle pericolose acque antistanti la baia. Era perfetto! La sera, seduti uno a fianco all’altro davanti al fuoco ad osservare la luna che si specchiava in mare ci eravamo trovati più amici che mai, consapevoli che per quante altre infinite volte avremmo potuto assistere ad uno spettacolo così, non sarebbe mai stata la stessa cosa. Magari migliore, ma uguale mai. Fu una notte speciale, di risate, canti, lunghe chiacchierate, segreti condivisi e anche tanto altro, una notte che lasciò in ognuno di noi una sensazione particolare, molto intima e personale.

La mattina dopo la voglia di andarsene era ai minimi storici però partimmo lo stesso, non prima di esserci premurati di aver lasciato tutto come lo avevamo trovato, portandoci via le immondizie e addirittura rimettendo alcune pietre usate come sedili nel punto esatto in cui le avevamo trovate il giorno prima. Cancellando ogni traccia del nostro passaggio era come se volessimo mantenere l’incanto di quel luogo meraviglioso per riconsegnarlo identico ai suoi abitanti di sempre, gli uccelli marini che nidificavano sulle ripide pareti delle scogliere circostanti.

Attraversando un loch dopo l’altro scegliendo sempre la strada più lunga, tortuosa ed isolata possibile come a ritardare all’infinito il distacco da quella natura ammaliante raggiungemmo nel tardo pomeriggio Ullapool. Quella notte dormimmo sparpagliati in tre piccoli B&B affacciati sul suo tranquillo porticciolo godendo di un altro meraviglioso tramonto che colorava tutto il Loch Broom rendendolo, se possibile, ancora più incantevole.

Il lunedì di buon ora quando uscimmo in strada accompagnati dai simpaticissimi gestori dei B&B, ci accolse un’aria frizzante col suo forte profumo di mare mentre un enorme traghetto diretto all’Isola di Lewis suonava la sirena come a salutarci. Ci allontanavamo dal paese percorrendo la strada che sale pian piano offrendo un bellissimo scorcio di tutto il fiordo ma non c’era tempo per i rimpianti, quello sarebbe stato il giorno del mitico Loch Ness! Seguendo la A835 ancora una volta tra boschi verdissimi, eravamo arrivati in un battibaleno di nuovo ad Inverness e senza fermarci avevamo puntato subito al Loch sostando alle rovine dell’Urquarth Castle. Ben distribuiti sulla riva ci eravamo messi d’impegno, sforzandoci al massimo, ma niente da fare, dalle acque nere perennemente increspate nessun segnale, di Nessie nessuna traccia. Mah…Peccato! La maggior parte di noi stava visitando un posto nuovo sognato da tempo ma, forse perché avevamo ancora negli occhi i paesaggi dei giorni precedenti o forse perché quei pullman di turisti entusiasti per aver acquistato la monster-mug al gift shop faceva molto “Italia in miniatura”, nessuno obiettò quando, dopo poco meno di un’ora ripartimmo.

Scendendo lungo il lago gli scorci che si susseguivano contribuivano a ridare un po’ di autenticità al luogo ma bastò entrare a Fort Augustus per sentirsi di nuovo pervasi da quella sensazione di turisti tuttocompreso che neppure la maestosa cattedrale (al tempo ancora visitabile interamente) aiutò a scacciare.

Poco sopra Fort Augustus, prima della fine del lago per chi viene da nord, parte la A887 che attraverso il Glen Moriston prima ed il Glen Shiel poi arriva al Loch Duirch sulle cui sponde, anzi su una sua piccolissima penisola, sorge l’affascinante Eilean Donan Castle forse il castello più famoso e fotografato di Scozia. Quando arrivammo era ormai orario di chiusura ma i simpatici custodi ci lasciarono un’ulteriore mezz’ora per le foto ed un giro veloce (esterno, l’interno in realtà è una mezza fregatura ma lo sapevo e lo avremmo evitato in ogni caso) in cambio di una partita di calcio a cinque Spagna (con l’oriundo)-Scozia nel piazzale vuoto del parcheggio. Poi tutti al pub finché uno di loro molto ospitale o forse solo molto sbronzo ci propose di piantare le tende nel giardino sul retro di casa sua non prima di averci concesso l’uso del suo bagno per undici docce calde rigeneranti.

Al risveglio piovigginava. Niente di che, ma sufficiente a farci venire qualche dubbio su come proseguire. Di fronte a noi infatti c’era la splendida Isola di Skye ma il ricordo delle Orcadi era ancora ben fresco. Rapido summit nel minibus poi si decise di rischiare. Smontammo tutto, qualcuno scrisse un biglietto di ringraziamento al custode lasciandolo nella buca delle lettere e partimmo.

Portree il centro abitato più grande dell’Isola di Skye è un grazioso villaggio di pescatori racchiuso tra le colline ed un’insenatura della costa ed ha nel piccolo porticciolo punteggiato di casette dai colori pastello il suo punto più caratteristico e romantico.

Visto che il tempo non prometteva granché si decise di dormire all’ostello aspettando il giorno successivo per decidere il da farsi.

Mercoledì al risveglio splendeva un sole deciso e dopo un’abbondante colazione, senza pensarci troppo caricammo gli zaini sulle bici puntando decisi verso nord. Avevamo scordato (o ingenuamente ignorato) il detto popolare che vuole Skye come l’isola delle “four seasons in a day”, una volta tanto pienamente azzeccato. In tre ore passammo – giuro – dal caldo sole primaverile, ad una pioggerellina rompipalle per finire ibernati sotto una nevicata tanto intensa quanto per fortuna abbastanza breve.

Si stava ripetendo l’Orkney-nightmare però stavolta, quasi avessimo superato una chissà quale prova d’iniziazione, di colpo com’era sparito, tornò il sole (con un arcobaleno spettacolare ) e non ci abbandonò quasi più per i tre giorni successivi.

In bici girammo praticamente tutta l’isola arrivando fino al Neist Point estrema propaggine nord-ovest sormontata da un incantevole faro guardato a vista da una colonia di foche che “soggiorna” su una roccia poco distante, dormendo nei posti più svariati e contrattando (sarebbe più indicato dire mendicando anche se ci offrivamo sempre di pagare qualcosa) l’uso della doccia in B&B o case di privati nessuno dei quali ci sbatté mai la porta in faccia dimostrando una volta di più che significato potesse davvero avere la parola ospitalità per uno scozzese.

Ritornati infine a Portree, dopo l’ultima notte passata all’ostello a recuperare le forze eravamo ripartiti il sabato alla volta della terra ferma per gli ultimi giorni di quell’incredibile tour.

Ripercorrendo il Glen Shiel bypassando questa volta il lago di Loch Ness avevamo raggiunto Fort Williams, quindi attraverso la lunare valle di Glen Coe su cui svetta il Ben Nevis la più alta vetta di tutto l’UK (“addirittura” 1343m!!!) puntato ad est costeggiando il Loch Tay per finire a Pitlochry curioso paesino troppo turistico nelle cui vicinanze avevamo pernottato in un B&B ricavato in una casetta di legno nel mezzo bosco che faceva tanto Hansel&Gretel.

Da domenica al giovedì successivo toccammo Perth, Stirling, Glasgow ed Edimburgo, ciascuna delle quali meriterebbe una storia ed un viaggio a se, ma che io (forse un po’ sbrigativamente, lo riconosco) liquido in poche righe perché il sentimento che pervadeva ognuno di noi, in quei giorni, era più di spenta rassegnazione che di gioia per star visitando alcune (Edimburgo su tutte) città splendide.

Da una parte il nostro viaggio era agli sgoccioli, dall’altra ritrovarsi dopo oltre due settimane di nuovo su autostrade a tre corsie ricominciando ad usare lo specchietto retrovisore e le frecce direzionali, di nuovo in fila ai musei ed ai castelli insieme a centinaia di altri turisti qualunque, di nuovo a passeggiare tra insegne di Mc Donald’s e Pubs finto-autentici in un formicaio di persone, auto, taxi e bus, non ci andava proprio giù.

Era come se inconsciamente rifiutassimo l’idea che la Scozia potesse essere anche così, un qualcosa di diverso da panorami incontaminati, silenzio e tranquillità; come se fosse un delitto camminare tra altre persone invece che passare giorni interi senza incontrare nessuno, come se qualcuno ci avesse fatto un torto personale a costruire agglomerati più grandi di un semplice villaggio di pescatori. O forse volevamo solo che quella sensazione di pace interiore che ci aveva accompagnato per un po’ tempo facendoci dimenticare laboratori, tesi, professori, stress, affitti da pagare e abitudini di tutti i giorni cementando la nostra amicizia, durasse il più a lungo possibile.

Il giovedì, l’ultimo giorno, per tornare a casa optammo ancora una volta per la strada più lunga, quella che risaliva la regione del Fife lungo la costa, speranzosi di ritrovare quello che avevamo lasciato, ma l’attraversamento del Tay Bridge con i suoi due Km gli ultimi (dopo oltre 3000 percorsi!!) che ci separavano dalla nostra città, ci tolse ogni illusione mettendo definitivamente la parola the end a quell’aprile meraviglioso.

Non ci fu più occasione di fare un viaggio così tutti assieme, ma quei venti giorni magici rivissero mille e mille altre volte nei racconti di chi c’era stato e voleva in un modo o nell’altro provare a condividerli con chi invece se li era persi. Ognuno ricordava e di conseguenza raccontava quell’esperienza in maniera diversa perché diverso era stato il modo in cui l’aveva vissuta, ma tutti eravamo concordi nel ritenerla un qualcosa di davvero unico e probabilmente irripetibile. Poi anche quel periodo finì portandosi dietro persone, voci, immagini e tutte le storie che li avevano avuti come protagonisti, spingendomi pian piano, stavolta per sempre e senza appello, verso casa. Ci avevo messo tre anni a scrivere quel capitolo della mia vita, riempiendo pagine su pagine da solo, altre a 4 mani, alcune addirittura a 22 come in quella primavera, ma non ero neppure all’inizio. La mia “storia” con la Scozia non sarebbe finita certo così, davanti ne avevo ancora moltissime da riempire.

Da allora sono passati abbastanza anni e diversi altri capitoli ma se oggi mi volto e guardo indietro mi accorgo che davvero il tempo ha un significato relativo.

Lo dimostrano i miei ricordi vivi e perfettamente nitidi come si trattasse di cose accadute ieri, le note delle cornamuse che ancor oggi di tanto in tanto riecheggiano nel mio stereo catapultandomi in quel ceilidh meraviglioso o i biglietti di Natale che ancora ricevo da Miss Dorrigan con le foto dei suoi nipoti immortalati sempre nella stessa posizione, nel giardino di casa a fianco di una siepe che nonostante il mio “aiuto” non ne ha mai voluto saperne di morire. E lo dimostrano soprattutto i molti amici che ho lasciato lassù e che appena posso torno a trovare. Per vedere come stanno, certo, ma più ancora forse per potermi di nuovo sedere in un’auto e, guidando tra pecore, foreste, scogliere e manieri dimenticati, continuare idealmente quel viaggio che dentro di me non si è mai concluso.

Steve



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