Da amalia rodrigues a ricky martin

Se l’impulso che mi ha portato a scrivere “Madrid me mata” è stato un istinto basico -la passione- dovrò fare appello ora a quel sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, di intenso desiderio di qualcosa di assente perché queste poche righe trasudino lo stato d’animo che...
Scritto da: Francesco P 1
da amalia rodrigues a ricky martin
Se l’impulso che mi ha portato a scrivere “Madrid me mata” è stato un istinto basico -la passione- dovrò fare appello ora a quel sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, di intenso desiderio di qualcosa di assente perché queste poche righe trasudino lo stato d’animo che Lisbona trasmette a chi ne sa ascoltare i silenzi.

Fernando Pessoa iniziava la sua guida della città così: “E’ disteso su sette colli, altrettanti luoghi da cui godere esaltanti panorami, il vasto, irregolare e multicolore insieme di case che costituisce Lisbona”.

Senza dubbio vero.

Ma non è questo ciò che di Lisbona entra prepotentemente dentro e sopravvive al lavacro del tempo. Una volta eliminate le scorie delle emozioni turistiche emergono i grigi.

Emergono i colori pastello.

Emergono gli sfumati.

Ma emergono prepotentemente anche il bianco e il nero dei contrasti che di questa città sono la linfa vitale.

Uno spettro vario ma anche un vortice che porta all’ unità cromatica scandita dalle note di un fado triste.

E a proposito di spettri, avvertirete la presenza di Alvaro de Campos, di Alberto Caeiro, di Riccardo Reis ad ogni angolo della città, fantasmi antichi e moderne chimere di ognuno di noi. Perché fare un viaggio a Lisbona è anche fare un viaggio dentro se stessi, ritrovare la propria infanzia, la propria adolescenza e la propria maturità contemporaneamente, come in uno di quegli strani giochi della mente. O forse come in uno degli anaglifi tanto cari ai poeti surrealisti spagnoli. O in quello che Tabucchi chiama il gioco del rovescio.

Comunque sia lo stagliarsi davanti ai vostri occhi di gente, gente, gente di tutte le razze, mescolate, assieme, senza alcun codice, gente di tutte le età, di tutte le classi sociali, senza distinzioni, e poi turisti, mori, neri, ariani, tutti assieme, sull’ elèctricos n° 28 magari, il tram che fa il giro della città vecchia, sarà come un allucinante deja-vù. O come il film della vostra vita che dicono scorra davanti agli occhi una frazione di secondo prima di morire. E poi vedrete la stessa piazza che al mattino sarà invasa da mendicanti rattrappiti e storti e di notte ugualmente invasa da giovani alla moda, “avanti” direbbe qualcuno. Molto più “avanti” di tanti altri europei. Ma pur sempre mediterranei.

D’altronde è il destino del Portogallo quello di essere una nazione di frontiera, da sempre protesa verso l’Altantico ma da sempre conglobato nella storia europea. Proteso oggi verso gli spasmi di modernità newyorkesi. Ma che ha sempre saputo conservare una propria ben precisa identità culturale sgomitando contro un fagocitatore impero spagnolo. E non si allibisca a pensare che il piccolo Portogallo, per tanti anni cenerentola d’Europa, proprio con la Spagna divise il nuovo mondo con il trattato di Tordesillas.

Di questi dicotomici contrasti vive e si nutre ancor’ oggi Lisbona. Mai manichea, riesce a coniugare modernità baluginanti con crepitanti rovine, atavici topoi con realtà futuristiche.

Un esempio? Dopo aver preso un caffè e un pastel de nata nel caffè “A Brasileira” in rua Garret, -ritrovo fin de siècle amato da Pessoa- entrate nella metropolitana nella stazione che vi è di fronte (Baixa-Chiado, se la memoria mi aiuta) ed uscitene alla stazione “Oriente”.

Avrete percorso pochi chilometri ma al tempo stesso molti anni luce. Vi ritroverete nella stazione del quartire dell’Expo, progettata da Santiago Calatrava, l’architetto valenciano che dalle forme della biologia trae ispirazione per i suoi ponti. In questo caso sarete sotto una volta di travi d’acciaio e cristalli, una giungla postmoderna che vi farà capire come una stazione della metro può diventare un’opera d’arte.

Anche un ipermercato lo può diventare: attraversate il ponte (sono due, paralleli) che dalla stazione d’ oriente porta alla zona fieristica con i suoi Pavilhaos dedicati agli oceani ed entrate in quella struttura con il soffitto trasparente diviso a metà da una doppia cascata che dal centro si divide verso i lati. Sublime.

Ma tornate in centro. In poco meno di mezz’ora sarete nel castello di Sao Jorge ad ammirare un tramonto da capogiro. Il sole scomparirà in un’ indefinito delta del Tejo e avrete di fronte a voi un magma indistinto di mare, fiume e terraferma. Forse sarà ancora lì la vecchietta avvolta nei suoi drappi neri che d’un tratto, alzandosi dalla panchina su cui è seduta, intonerà un fado all’astro calante.

Contrasti.

Come nel Barrio Alto, il quartiere che di giorno espone le sue lenzuola bianche appese ai balconi, degni della più autentica Vucciria palermitana e di notte si trasforma in un via vai di giovani che da un locale all’ altro trascorrono la notte tuffati nella “movida lusitana” degno epigono del nuovo millennio di quella madrileña degli anni ottanta. E’ qui che accanto ad osterie che emanano una baraonda di odori e puzza di fritto sorgono negozi di design e show room di emergenti stilisti, come quello di Fatima Lopes in avenida de Roma. Autodidatta dell’ isola di Madeira, espone le sue collezioni in tutta Europa, negli Stati Uniti ed in Asia.

Cinque minuti di passeggiata ed eccoci tornati indietro di un secolo: in rua Dom Pedro V l’incredibile bar “Pavilhao Chines” è un vero e proprio museo delle antichità, kitsch come solo un museo art-deco e art-noveau sa essere. Straboccante di soldatini di piombo, bambole di ceramica, antiche mappe, modellini di aereo che ricoprono le pareti, riempiono le vetrine, fuoriescono dagli armadi a muro, pendono dai soffitti… Un’esperienza allucinante anche questa.

Provate ora a seguire le orme della presenza della compianta Amalia Rodrigues ed avventuratevi alla scoperta delle emozioni e della nostalgia che solo il fado sa provocare: una cultura popolare molto sentita che inneggia al passato, al mare, all’amore e soprattutto a Lisbona. Trasposizione sul pentagramma della saudade, nacque nelle taverne di Mouraria nel XIX secolo e risuona ancora oggi nei quartieri dell’ Alfama, di Mouraria e di Graca. Ed è una tradizione che non si perderà, perché le nuove generazioni sono legate a questo canto nostalgico quanto le vecchie. Le stesse persone poi che le notti del sabato invadono gli ex magazzini dell’area portuale, i docks, oggi trasformati in discoteche d’avanguardia. Dimenticherete la saudade e sarete trasportati dall’ euforia di chi ha da poco imparato a divertirsi. Da Amalia Rodrigues a Ricky Martin. Senza vergogna.

Perché Lisbona è anche questo. E molto di più.



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