Un luogo della memoria

Sono partito da Cracovia per Auschiwitz di buon mattino, un freddo pungente ed una pioggerellina intermittente rendeva l'atmosfera ancora più surreale, così come il piccolo e vecchio treno con i sedili in finta pelle rossa e con gli impianti di riscaldamento che sbuffando emettevano rumorosi aliti di calore. Accanto a me uomini di mezza età...
Scritto da: maucav
un luogo della memoria
Partenza il: 30/10/2003
Ritorno il: 02/11/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
Sono partito da Cracovia per Auschiwitz di buon mattino, un freddo pungente ed una pioggerellina intermittente rendeva l’atmosfera ancora più surreale, così come il piccolo e vecchio treno con i sedili in finta pelle rossa e con gli impianti di riscaldamento che sbuffando emettevano rumorosi aliti di calore. Accanto a me uomini di mezza età chiusi in grossi pastrani un pò fuori moda, giovani polacchi avvinti in calde giubbe di pelle e, qua e là, nella stipata carrozza, qualche turista, perlopiù giapponese.

Dopo quasi due ore sono arrivato nella piccola e desolata stazione di Oswiecin, un minuscolo paese di povere case sul quale sembra gravare per sempre la pesantezza della storia.

Auschiwitz dista alcuni chilometri dal paese di Oswiecin, che ho percorso su un brontolante autobus guidato da uno zelante ed ammutolito autista. Dopo alcuni minuti sono arivato al campo di sterminio e davanti a me un lugubre cancello sormontato da una delle più ciniche frasi che abbia mai letto: Arbeit macht frei.

Varcando quella soglia, in origine era una caserma polacca, si entra nel limbo della memoria e non appena mi trovo all’interno del campo la pioggia diventa più intensa, come fosse un monito per chiunque entri. Lunghe fila di tetri edifici, le vecchie camerate dei prigionieri del campo, sono oggi gli occhi della memoria. Dentro, negli stessi posti dove si sommavano i lamenti dei deportati, sono documentati attraverso immagini, oggetti, testimonianze, l’orrore perpetrato in quei luoghi. Scarpe, vecchie valigie, vestiti, barattoli del famigerato Zyclov, il gas mortale, spazzole, capelli, tutto ammassato in forme anonime dietro spessi vetri, cumoli di memoria di ha varvcato quella soglia senza più uscirne.

L’angoscia è totale. Prima di lasciare il campo mi soffermo davanti all’unico forno crematorio ancpora esistente. E’ un momento nel quale le emozioni si aggrovigliano in un insieme senza forma. Davanti a quel forno, dove i corpi venivano bruciati, ti senti inerme, inutile, tutta l’umanità dovrebbe almeno una volta prostrarsi davanti al più grande monumento dell’odio.

Lascio Auschiwitz per dirigermi a Birkenau, chiamato anche Auschiwitz due, il secondo campo di sterminio costruito dai nazisti per assolvere pienamente al delirante progetto dello sterminio di massa. Il tragitto è breve, pochi chilometri, ma sembra non terminare mai. L’impatto è, se possibile, ancora più forte. Davanti agli occhi si estende un campo infinito, tutto delimitato da alti pali, uniti fra loro da cupi e lunghi fili spinati.

L’ingresso è attraverso un arco a fornice unico, sovrastato da una grande torretta di avvistamento. Sotto l’arco scorrono i binari del treno, sui quali correvano i convogli dei deportati. I binari corrono rettilinei per circa un chilometro, terminando in un grande spiazzo dove fino al 1945, prima di essere distrutti dai tedeschi poco prima della liberazione del campo, sorgevano i tre grandi forni crematori dove, oggi, si ergono, a memoria eterna, funebri macerie ed un monumneto in ricordo dei morti.

A destra e sinistra dei binari si ergono come candele spente le grandi baracche in legno e muratura dove erano ammassati “gli ospiti del campo”. Dentro quegli ambienti, camminando sullo sconnesso pavimento in cemento grezzo, fra i letti a castello fatti con rozze tavolacce, mentre l’odore acre di legno bagnato pervade tutta l’aria, sembra di sentire ancora il vociare dei deportati, i loro lamenti. Sembra di vederli ammassati come bestie dentro quei cassoni in legno che di letto non hanno neanche la funzione, con i loro occhi pieni di paura ma dentro i quali è ancora possibile scorgere qualche flebile speranza. Esco fuori ed il sole, come per prodigio, scaccia le grigie e gonfie nuvole. L’odore di erba bagnata ed il tenue calore dei raggi solari rende l’atmosfera meno grave, più sopportabile. Vado a sedermi alla fine dei binari dove i lugubri treni della morte terminavano la loro folle corsa, scaricandoi fanrtasmi di uomini e donne. Guardo davanti a me i binari ora deserti, tutto intorno è deserto, il silenzio mortale è rotto solamente da un incessante gracidare di un nero corvo, unica colonna sonora eseguibile in quel posto.

Per un attimo mi lascio andare ad un sogno.

Sogno un treno che arriva, è lungo, sbuffa nero fumo, scorre lentamente sui dritti binari e, dopo una sferzante frenata, si arresta improvvisamente. I pesanti portelloni si aprono e dai vecchi convogli arruginiti dal tempo e dalle lacrime mai asciugate, scendono centinaia di persone. Sono uomini e donne, vecchi e bambini. Corrono per gli ampi prati per una corsa senza fine, sono felici di una felicità eterna. Intorno a loro niente lugubri baracche ma solo candidi gigli.

Ad una giovane donna, dalla sensibilità unica, senza il cui amore questo viaggio della memoria non sarebbe stato possibile.



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