Da lima al nord

Ciudad de Los Reyes, Città dei Re. La capitale del Perù ci accoglie con l’umida cappa grigia, la garúa, che l’opprime per quasi nove mesi l’anno. Fondata da Francisco Pizarro il 18 gennaio 1535, mutò in seguito il nome in Lima, una storpiatura di Rimac, “parlante”, appellativo con il quale è ancora oggi conosciuta la valle che...
Scritto da: gabrielepoli
da lima al nord
Partenza il: 05/03/2008
Ritorno il: 15/03/2008
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Ciudad de Los Reyes, Città dei Re. La capitale del Perù ci accoglie con l’umida cappa grigia, la garúa, che l’opprime per quasi nove mesi l’anno. Fondata da Francisco Pizarro il 18 gennaio 1535, mutò in seguito il nome in Lima, una storpiatura di Rimac, “parlante”, appellativo con il quale è ancora oggi conosciuta la valle che ospita la metropoli, bagnata dall’omonimo fiume. Non lontano dalla città, visitiamo il centro archeologico di Puruchuco, incuriositi dalla recente scoperta di un grande cimitero inca. I sovrani e i nobili defunti del Tahuantinsuyu subivano il processo di mummificazione e i corpi erano custoditi dalle panaca, le famiglie reali. Durante le cerimonie più importanti, le mummie partecipavano alle processioni per ricevere onori da parte della popolazione. I resti terreni delle persone meno importanti, invece, venivano sepolti secondo il ceto sociale e non mummificati, come nel caso di Puruchuco. La zona archeologica è conosciuta sin dal 1956, ma solo fra il 1999 e il 2000 l’archeologo peruviano Guillermo Cock, assieme alla sua équipe, realizzò i primi scavi, culminati con la scoperta di oltre 2.200 mummie, tutte appartenute ad artigiani tessili, artisti fra i più considerati. Le lunghe trecce dai capelli corvini, gli abiti intessuti e la posizione eretta contraddistinguono una delle mummie più famose, La Señorita, sepolta assieme a due bimbi, probabilmente i suoi figli. La giovane donna, non più di vent’anni d’età, morì dopo la conquista spagnola, fra il 1540 e il 1550. Fra gli inca, i morti venivano seppelliti in posizione fetale; la señorita, in cambio, si presenta distesa. Pare che la ragazza fosse stata battezzata e, alla morte, sepolta in un camposanto cattolico. In seguito, la famiglia di lei avrebbe trafugato la salma per collocarla fra i suoi antenati, ma la rigidità cadaverica non avrebbe permesso di farle assumere la classica posizione accucciata. Altra mummia che desta curiosità è quella del Re del Cotone, così chiamata perché ricoperta da varie cappe del tessuto grezzo. In tutti i sepolcri, le mummie furono sepolte con ricchi abiti, arnesi da lavoro atti alla tessitura, ceramiche e cibi, affinché i morti potessero continuare il proprio mestiere nell’aldilà. Puruchuco, tuttavia, non era solo un’estesa necropoli, ma un centro cerimoniale con palazzi e templi, fra i quali si distingue il Palazzo Inca, probabilmente una casa signorile costruita in adobe con un grande cortile che poteva servire per lo scambio, la distribuzione e il controllo dei prodotti. Imbocchiamo la Panamericana Nord e, dopo aver visitato Caral, la città più antica delle Americhe, proseguiamo alla volta del Callejón de Huaylas. Lasciata la costa, la strada sale fra valli e alte montagne fino a giungere a Catac e ancora su, per inoltrarci nel Parco Nazionale di Huascarán dove, alle falde dei nevai Pucaraju (5.346 m.) e Yanamarey (5.237 m.), si estende placida la bella laguna Querococha. Una breve sosta e poi di nuovo avanti; ci inerpichiamo lungo una pista tortuosa, sino alla lunga galleria che funge da spartiacque fra il versante dell’oceano Pacifico, dal quale proveniamo, e quello dell’Atlantico. Siamo ad oltre 4.500 metri, ma non abbiamo il tempo di soffrire il soroche, il mal di altitudine sempre in agguato a queste quote, forse perché aiutati dall’infuso di foglie della coca che ci portiamo nel thermos. Oltre il tunnel, il panorama è magnifico; il Callejón de Conchucos, la bella valle dove fiorì una delle più importanti e misteriose civiltà dell’America Latina, Chavín de Huántar (1500-150 a.C.), si apre sotto di noi, quasi a strapiombo. In breve tempo, scendiamo sino ai 3.180 metri, dove le acque del fiume Mosna accarezzano rovine antiche 4.000 anni. Lascio correre la fantasia ed entro nella città santa di Chavín quasi in punta di piedi. Non sono turisti quelli che si muovono fra i templi e le piazze, ma dignitari che si radunano nel grande spazio quadrangolare perché fra poco la voce di Choquechinchay (“Giaguaro Dorato”) si farà udire per bocca dell’oracolo. Guai a non prestare attenzione alle direttive che il Giaguaro Dorato detterà, pena la morte. Ed ecco, dalle viscere della terra, salire al cielo la parola dell’oracolo; i funzionari s’inginocchiano, piegano il capo. Rabbrividisco e torno a guardare la realtà; la voce misteriosa è solo il sibilo del vento, ma forse, chissà… Quella di Chavín de Huántar era una società retta da sacerdoti astronomi, scienziati studiosi dei cieli, della terra e della natura, deputati alla compilazione di calendari agricoli. Da ogni parte dell’antico Perù e oltre, giungevano pellegrini recando offerte in cambio di previsioni per la semina e il raccolto e predizioni per il futuro. In Perù, i cicli stagionali sono irregolari, a causa del Fenomeno del Niño, originato dall’incontro della fredda corrente di Humboldt con la calda del Niño, al largo della costa, e le conseguenze possono essere catastrofiche. Fra i compiti dei religiosi vi era quello di prevedere, con la massima sicurezza possibile, l’insorgenza del fenomeno. Uno degli strumenti a loro disposizione era il mullu (Spondylus princeps), una conchiglia dei mari caldi del nord che i pellegrini recavano in offerta a Chavín, prima dell’inizio delle attività agricole. Le informazioni sulle località di raccolta del mollusco erano indispensabili per misurare le condizioni di riscaldamento dell’oceano, infatti, se la conchiglia veniva pescata al di fuori del proprio habitat naturale –a sud-, significava che si era verificato un aumento di temperatura delle acque e la conseguenza era un maggior rischio di siccità o di pioggia. In relazione a questi studi, i sacerdoti fissavano le date per l’inizio dell’attività agricola. Chavín non aveva necessità di esercito; era la Città Santa e nessuno avrebbe mai osato profanarla. I sacerdoti, uomini e donne, studiavano i movimenti degli astri, registravano gli spostamenti del sole e le fasi lunari; erano governanti pacifici, ma il terribile Giaguaro Dorato, il Felino Volante, che osservava da lassù –la stella Sirio, appartenente alla costellazione del Cane Maggiore- esigeva onori e tributi. Una o più volte l’anno, i sacerdoti sceglievano gli eletti, solitamente fanciulle e fanciulli, incaricati di raggiungere il dio per recargli le suppliche del popolo. Essere scelti significava onore, gloria e gioia eterna e i ragazzi facevano a gara per fungere da messaggeri. I prescelti venivano preparati per lunghi mesi, purificati nei sotterranei sacri, drogati con il Sanpedro, un cactus allucinogeno, e sacrificati nella piazza circolare. La loro essenza s’involava verso la dimora celeste e la vita eterna. Ci avviciniamo alla prima importante struttura del sito archeologico, il Tempio Antico. Al centro di una piattaforma quadrangolare, in una depressione profonda 2,10 metri, si apre la piazza circolare, lo spazio sacro dove, presumibilmente, venivano sacrificati i “messaggeri”. Incise sul muro occidentale, immagini di felini e vari personaggi paiono sfilare in processione, recando in mano il cactus allucinogeno e suonando il pututu, la grande conchiglia marina usata, in seguito, anche dagli Inca come strumento musicale o tromba per gli eserciti. Dalla piazza circolare salgono due scalinate in direzione est e ovest; da quest’ultima si accedeva ad una piattaforma e ancora più su, fino alla sommità del tempio da dove i sacerdoti studiavano i cieli. L’altro grande edificio è il Tempio Nuovo, circondato in gran parte da una cornice scolpita con immagini di felini, uccelli e serpenti al di sotto della quale –e a dodici metri dal suolo- sono incastrate le Cabezas Clavas, le “teste chiodo” raffiguranti spaventosi volti umani. Le cabezas servivano, forse, da forche per punire i dignitari colpevoli di gravi mancanze. La nostra attenzione è attratta dai misteriosi sotterranei, un labirinto buio e tetro che si snoda sotto al tempio con camminamenti, piccole stanze e canali di scolo che giungono sino al rio Mosna. All’incrocio di quattro sentieri sotterranei, si erge una possente stele a forma di lancia, conficcata nel terreno; è il Lanzón, forse il monumento più famoso di Chavín, raffigurante una divinità dalle caratteristiche antropomorfe, la bocca a due zanne, mani e piedi muniti di artigli rapaci, capelli e sopracciglia in forma di serpenti. Dall’interno del sotterraneo, il sacerdote principale dettava al popolo le direttive del dio; la sua voce, grazie a sofisticati condotti di aerazione, si espandeva all’esterno, nella grande piazza dove i dignitari erano chiamati a raccolta. Chavín de Huántar era il luogo dove si concentravano le forze della natura e per tale motivo fu eletto a centro sacro. Passeggiamo ancora qualche minuto attraverso l’ampia area archeologica, ammirando il Portico dei Falchi, l’Architrave dei Giaguari, l’Altare di Choquechinchay e, lanciando un ultimo saluto alla Città Santa, riprendiamo il cammino lungo il Callejón de Conchucos. Ricominciamo a sobbalzare per la strada in cattive condizioni verso Pomachaca e quindi Huari, il capoluogo provinciale, fondato dal viceré di Spagna Toledo nel 1572. Lungo la valle di Conchucos transitava il Capac Ñan, il cammino inca che collegava Quito, Cajamarca e Cusco. Huari è un bel villaggio che conserva ancora l’architettura coloniale; i suoi abitanti sono chiamati “Mangia gatti”, forse anche perché la fontana della piazza principale è adornata da piccoli felini di bronzo. Altre tre ore ed entriamo a Chacas, dove il padre salesiano Ugo de Censi, assieme ai volontari dell’Organizzazione Mato Grosso, ha operato un piccolo miracolo. I balconi delle case affacciate sulla piazza principale, la porta della chiesa, il suo coro e l’altare sono opere d’arte di legno intagliato dagli artigiani della Scuola Laboratorio Don Bosco, dalla quale escono mobili pregiati, esportati anche in Italia. L’ospedale è un vero gioiello provvisto delle migliori apparecchiature mediche di tutto il dipartimento di Ancash; qui operano anche medici e infermieri italiani. L’opera salesiana rappresenta una benedizione per i villaggi della zona e per la popolazione tutta, non più costretta ad emigrare per sopravvivere. Il nostro viaggio prosegue, allietato dal volo di condor e anatre silvestri, intanto che mandrie di alpaca ci osservano al passaggio. Davanti a noi si staglia la maestosa figura dello Huascarán, la montagna assassina; la strada sale ancora una volta fra pareti di neve e s’inerpica sino a Punta Olimpica, ad oltre 5.000 metri di altitudine. Siamo circondati dalle vette superbe della Cordigliera Blanca, mentre lasciamo il Callejón de Conchucos per rientrare nella Valle di Huaylas, fra neve e ginestre dal colore giallo intenso. Di qui passava la via secondaria del Gran Cammino Inca, percorsa da Francisco Pizarro durante il suo viaggio da Cajamarca a Cusco e qui vicino si verificò anche un terribile cataclisma, l’orribile terremoto che, nel 1970, distrusse la città di Yungay, seppellendo case e palazzi e uccidendo più di 20.000 persone. Attraverso il Cañon del Pato, bello e pericoloso, ci dirigiamo verso la costa del Pacifico e il centro archeologico di Sechín. La temperatura sale, mentre entriamo nel deserto costiero. Tutto il litorale peruviano è un’immensa distesa desertica, solo inframmezzata, di tanto in tanto, da piccole oasi formate dai pochi e brevi fiumi che scendono dal versante occidentale delle Ande. Lungo la pianura arida, incontriamo le rovine di una delle più antiche civiltà, Sechín, di epoca forse antecedente quella di Chavín de Huántar. La zona archeologica si estende su di un’area di 50.000 metri quadrati, a soli dieci chilometri dall’oceano Pacifico. Il tempio di Cerro Sechín è particolare; presenta una lunga facciata costituita da pietre sulle quali sono riprodotte figure di guerrieri che sembrano procedere in processione con la testa di profilo e il corpo di fronte. Ciò che è rappresentato desta raccapriccio: i personaggi, dalla testa rapata e coronata da copricapo trapezoidali, sostengono un’arma o uno scettro; le loro bocche sono socchiuse, gli occhi minacciosi che escono dalle orbite, simili alle cabezas clavas di Chavín. Ai loro piedi, o di fianco, resti umani sezionati; braccia, teste, gambe, vertebre e viscere che fanno pensare a cruenti sacrifici umani o a duelli rituali. Il problema più importante da risolvere per la popolazione era quello dell’approvvigionamento idrico, infatti, la divinità principale era lo spirito dell’acqua dai lineamenti felini, il dio che donava speranza e garantiva la sopravvivenza. La nostra prossima meta è una bella città coloniale, fondata dagli spagnoli, il cui nome rende omaggio al comandante Francisco Pizarro, nativo dell’ispanica Trujillo, in Estremadura. Giungiamo a Trujillo che è già sera, ma la città ci accoglie con l’allegria della sua gente, i locali che invitano alla festa e al ballo; ne approfittiamo e trascorriamo la notte fra danze e brindisi, integrandoci facilmente con la gente del luogo. Il centro è grazioso, pur se brulicante di taxi e motori assordanti; Trujillo sorge a pochi chilometri di distanza dal mare, in una località che ospitò due fra le più importanti culture preispaniche del Perù, la Moche e la Chimú. Il regno di Chimor, o Chimú, conobbe il maggior splendore attorno all’800 d.C. Ed estese la propria influenza fino al confine con l’odierno Ecuador, a nord, a Lima, verso sud e a Cajamarca e Huamachuco, sulle Ande. Nel 1425, il principe Tupac Yupanqui, futuro imperatore inca, la conquistò quasi senza colpo ferire, semplicemente ostruendo l’ammirevole acquedotto –ancora oggi in parte funzionante- che dalle montagne della Sierra riforniva d’acqua la capitale Chan Chan. Una breve corsa in automobile, verso il mare, è sufficiente per giungere alle rovine di quella che è probabilmente la più grande città d’argilla dell’antichità, Chan Chan, che comprende un centro amministrativo di sei chilometri quadrati; alla periferia e in un’area di 19 chilometri quadrati, abitavano gli artigiani e i commercianti. Il recinto principale comprendeva dieci complessi e poteva ospitare sino a 200.000 abitanti. Ogni complesso corrispondeva alla residenza di un re ed era composto da sale, depositi, cisterne per l’acqua, terrazze, vie e tombe. Fintanto che erano in vita, i sovrani occupavano il proprio palazzo e, alla loro morte, i corpi erano sepolti sotto una piattaforma piramidale che fungeva da santuario, impreziosito da oggetti d’oro e d’argento finemente lavorati, ceramiche, tessuti, mantelli, armi. Con ogni probabilità, il regno di Chimor nacque dalla sintesi evolutiva delle antecedenti civiltà Tiahuanaco-Wari e Moche. I Chimú costruirono un complesso sistema di fortezze e strade, estraevano oro, argento e rame ed erano abili artigiani cesellatori, tanto che, dopo la conquista inca, molti di questi artisti furono trasferiti a Cusco per contribuire alla costruzione del Tempio del Sole e, in particolare, a creare le statue d’oro che abbellivano il recinto sacro, o Coricancha. Il sistema sociale era rigorosamente gerarchico, con un potente gruppo dirigente, una casta sacerdotale esperta nell’osservazione dei corpi celesti e le classi artigiane e contadine. Nonostante le costruzioni di Chan Chan siano tutte d’argilla, il complesso archeologico esiste ancora, grazie al clima arido e alle scarsissime precipitazioni. Ancora pochi chilometri e l’oceano Pacifico si apre ai nostri occhi, solcato da abili pescatori che, su barchette di giunco (caballitos de tortora), sfidano le onde. E’ l’occasione per goderci il panorama e la brezza dolce che asciuga il sudore, seduti sulla veranda di uno dei tanti piccoli ristoranti di Huanchaco. Una scorpacciata di ottimo pesce e di favolosi granchi, innaffiati da un eccellente Tacama Blanco, e siamo pronti ad inoltrarci nella campagna trujillana, per il primo approccio con la misteriosa civiltà Mochica (100 a.C.-700 d.C.). La strada attraversa campi di mais e frutteti che parlano di una terra fertile, ma è solo illusione perché sempre più spesso gli agricoltori svendono le proprie terre, a causa della grave crisi economica, a fabbricanti di mattoni e agli imprenditori edili che speculano sulla crescente necessità abitativa dei cittadini di Trujillo. Mezza diroccata, si erge a lato della via la Huaca del Sol; dell’imponente edificio mochica rimane in piedi solo la terza parte. Alcuni anni dopo la fondazione della città spagnola, gli invasori deviarono il corso del fiume Moche per scavare il basamento della piramide e profanare le ricche tombe dei nobili moche. Il saccheggio fu di enorme portata e ancora decine d’anni più tardi la zona continuava ad essere invasa da cercatori d’oro e tombaroli. La Huaca del Sol si estendeva per oltre 55.000 metri quadrati ed era alta 30 metri. Assieme alla Huaca della Luna, costituiva l’epicentro della cultura mochica, della quale quasi nulla si seppe sino al 1987, quando la scoperta della ricca tomba del Señor de Sipán, a Lambayeque, dei murali del complesso archeologico di Huaca Prieta, con El Brujo e Cao Viejo, nella valle di Chicama e gli studi sulla Huaca della Luna fornirono importanti indicazioni per ricostruire la storia di una delle più misteriose e interessanti culture del mondo antico. Superata la Huaca del Sol, che non è possibile visitare, entriamo nel vasto recinto ai piedi della Huaca della Luna, alle falde del Cerro Blanco, che occupa un’area lunga 290 e larga 210 metri. Le piramidi del Sol e della Luna sono disposte l’una di fronte all’altra e rappresentano, la prima il centro amministrativo e la seconda quello cerimoniale. La Huaca della Luna è composta di tre piattaforme successive, con ampi spiazzi cerimoniali, collegate da rampe e abbellite da muri affrescati e decorati con fregi. Nella prima piattaforma, al livello inferiore, interessanti bassorilievi a forma di rombo raffigurano la divinità principale, il Degollador, decapitatore, dai tratti felini e arricchito di serpenti rappresentanti l’acqua che irriga la campagna. La piramide, infatti, fu il tempio principale dei Moche, centro del potere religioso, luogo di culto propiziatorio della fertilità agricola. Le ceramiche e i bassorilievi moche sono libri dai quali è possibile apprendere buona parte delle tradizioni e dei costumi di questo antico popolo. Nei vasi e nelle bottiglie panciute, i moche rappresentavano la quotidianità, i mestieri e la sessualità, mentre dai bassorilievi, ma pure dalle ceramiche, siamo in grado di comprendere come si svolgevano i riti più terribili, i sacrifici umani. In uno dei recinti superiori della Huaca della Luna furono disseppelliti i corpi di 42 giovani sacrificati, forse un’esecuzione di massa, in relazione al Fenomeno del Niño. Esistevano, infatti, sacrifici propiziatori ai fini della fertilità agricola e di esorcismo delle calamità naturali, ma anche in onore di qualche principe o per la morte di un dignitario. I Moche erano divisi in signorie, ognuna delle quali era retta da un principe e, sebbene gli abitanti di questa sorta di feudi fossero fratelli di sangue, periodicamente venivano organizzati scontri armati fra i campioni dei vari principati. I combattimenti avvenivano in un clima di festa, con il popolo assiepato attorno ai due contendenti, con suoni, grida e incitamenti. I campioni, esaltati dagli allucinogeni, si confrontavano l’un l’altro con ardore, combattendo fintanto che uno dei due non subiva una ferita sufficientemente grave da impedirgli di proseguire il singolar tenzone. A quel punto, i sacerdoti infliggevano al malcapitato una bastonata sulla narice per provocare una copiosa emorragia. Il sangue del vinto fecondava la terra e, in parte, era bevuto dal vincitore e dai religiosi. Spogliato del tutto, lo sconfitto era trascinato, legato per il collo, sino alla sommità del tempio dove immediatamente, o a distanza di giorni, veniva sgozzato. In una parete della piramide, recentemente sono stati scoperti alcuni bassorilievi raffiguranti ragni e ragnatele che rappresentano le corde con le quali i guerrieri vinti erano trascinati verso la meta finale. Visitare Huaca Prieta non è impresa da poco; pur se a soli sessanta chilometri da Trujillo, la strada è priva di indicazioni e solo con l’aiuto di una guida locale riusciamo a giungere a destinazione. Attraversiamo infinite distese di canna da zucchero, ottima per la preparazione del famoso Rum Cartavio, mangiamo polvere e grondiamo sudore per il gran caldo che imperversa nella regione, ma alla fine, in vista del mare, ammiriamo le imponenti antiche costruzioni piramidali. Huaca Prieta, Huaca Cao Viejo e Huaca El Brujo (brujo significa stregone) sono tutti templi poco conosciuti. Quest’ultimo, fino a pochi anni orsono, era molto temuto dagli abitanti della zona perché qui gli sciamani di magia nera operavano i propri sortilegi. Ora, tuttavia, gli archeologi hanno allontanato gli stregoni e in questa piramide stanno tornando alla luce preziosi alto e bassorilievi che raccontano la storia di un popolo antico di 5.000 anni, antecedente i moche. Il Brujo fu un centro cerimoniale molto importante e, dopo l’occupazione mochica, divenne la capitale della valle di Chicama. Vicine l’una all’altra, Cao Viejo e El Brujo furono due templi dedicati a Aiapaec e a Chicopaec, le due principali divinità. Simile al Decapitatore, Aiapaec rappresentava la riproduzione, mentre Chicopaec era il dio dedito alla tutela delle tradizioni e delle origini. Anche qui i sacrifici umani e i duelli erano parte integrante dei riti religiosi. Visitare questi luoghi significa immergersi nella magia di un mondo sconosciuto e ammirare disegni che pochi occhi umani hanno visto sinora, anche se gli scavi sono tuttora in corso e gli archeologi, giustamente gelosi, non permettono al visitatore di girare a proprio piacimento fra le rovine. Non si conosce il motivo della decadenza dei templi e di questa civiltà, ma gli studiosi hanno accertato che El Brujo fu abbandonato in tutta fretta, forse a causa di un violento Fenomeno del Niño. Poche ore di bella strada asfaltata e giungiamo a Chiclayo, città moderna e poco interessante, se si eccettua il mercato degli “stregoni” dove bancarelle colme di ogni tipo di amuleti, pozioni, misture e preparazioni varie destano curiosità. A breve distanza, tuttavia, sorge la cittadina di Lambayeque, nei pressi della quale fu scoperta, nel 1987, la tomba più famosa d’America, paragonabile per ricchezza a quella di Tutankamon, in Egitto, il Señor de Sipán. Grazie alla segnalazione della polizia che aveva recuperato alcuni oggetti d’oro trafugati, l’archeologo Walter Alva scoprì la tomba ancora intatta di un nobile mochica. I primi reperti incontrati dagli archeologi furono oltre 1.000 ceramiche, resti di alimenti, quattro corone di rame, ossi di lama e lo scheletro di un uomo, forse un guerriero a guardia del sepolcro. Continuando a scavare, gli studiosi incontrarono l’oggetto più bello della tomba, una placca-orecchino circolare in oro e turchesi, oggetto fra i più raffinati della cultura moche. Si tratta di un disco di soli 92 millimetri, bordato di piccole sfere d’oro, al centro del quale vi è una piccola scultura tridimensionale che rappresenta un guerriero moche, vestito con una tunica tempestata di turchesi e adornato di corona, copri narice e una collana lavorata con fili d’oro, probabilmente lo stesso personaggio della tomba, morto ad un’età compresa fra i 35 e i 40 anni. La mummia e gli oggetti ritrovati nel sepolcro sono oggi conservati nel nuovo e splendido museo “Tumbas Reales de Sipán”, a Lambayeque. Il tesoro è di valore inestimabile, ma ancora di più lo sono le informazioni che tale scoperta ha permesso di svelare su una delle più eccezionali e meno conosciute civiltà del nostro mondo.

Gabriele Poli



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