Scampoli di storia

All’incirca centocinquanta anni prima dell’inizio del regno di Tutankhamen, in Egitto, Ahmose I fondava la diciottesima dinastia. Sarebbero occorsi altri mille e seicento anni circa, prima che Gesù Cristo iniziasse a diffondere la parola di Dio sulla terra.Nello stesso periodo (XVI secolo a.C.), a migliaia di chilometri di distanza, in un...
Scritto da: gabrielepoli
scampoli di storia
Partenza il: 01/07/2006
Ritorno il: 08/08/2006
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
All’incirca centocinquanta anni prima dell’inizio del regno di Tutankhamen, in Egitto, Ahmose I fondava la diciottesima dinastia. Sarebbero occorsi altri mille e seicento anni circa, prima che Gesù Cristo iniziasse a diffondere la parola di Dio sulla terra.

Nello stesso periodo (XVI secolo a.C.), a migliaia di chilometri di distanza, in un luogo del quale nessuna mente umana poteva ipotizzare l’esistenza, fioriva una civiltà non meno splendida di quella faraonica: Chawpín. In una valle non particolarmente fertile, nascosta dalle vette della cordigliera andina, in quel paese che oggi chiamiamo Perù, la civiltà di Chawpín appariva come una gemma preziosa, incastonata fra montagne innevate, orridi profondi e canaloni scoscesi, aggredita, da un lato, da un fiume spesso inquieto e accarezzata, dall’altro, da una rigogliosa campagna che, seppur poco estesa, appariva al momento sufficiente a soddisfare le esigenze della popolazione.

A due o tre giorni di cammino, proseguendo verso oriente, era possibile raggiungere le sponde del verde mare di piante intricate, da dove, forse, proveniva parte della popolazione di Chawpín: l’Amazzonia. Quasi alla stessa distanza, ma in direzione opposta, ondeggiava l’immenso oceano, dalle cui rive fedeli e bisognosi intraprendevano ogni anno il lungo pellegrinaggio verso la città delle Ande. Sì, perché Chawpín –oggi conosciuta con il nome di Chavín de Huántar- era il luogo eletto dalle divinità delle montagne e dal Giaguaro Volante come propria dimora terrena. In quella valle, si concentravano le energie positive della natura e del firmamento e chiunque vi si recasse raccoglieva benefici e leniva le pene. Questo, almeno, sostenevano i saggi sacerdoti che governavano Chawpín. Grandi piazze su vari livelli, collegate fra loro da ampie scalinate, occupavano l’estesa radura che declinava verso il fiume. Lì, nei giorni di festa, si radunavano i funzionari e il popolo per ascoltare la voce dell’oracolo che sembrava giungere in mezzo alle persone da un mondo ultraterreno. Era la voce del Giaguaro che catechizzava i fedeli e i sudditi tutti, dettando le leggi della comunità. Maestosi e bellissimi palazzi, collegati gli uni agli altri, circondavano le piazze racchiudendole da tre lati. Erano edifici costruiti con pietre perfettamente incastrate fra di loro che donavano ai palazzi e ai templi una solidità formidabile. All’interno delle costruzioni, vivevano i sacerdoti, i novizi e le vergini votate al dio. Stanze, cunicoli, canali sotterranei componevano la struttura interna dei templi. Laggiù, nelle viscere della terra, si trovava la stanza dell’oracolo. Probabilmente, il gran sacerdote era colui che prestava la voce al dio giaguaro. Da quella stanza, inaccessibile ai più, la voce del religioso risaliva attraverso complicati condotti d’aerazione e giungeva all’esterno, inondando le piazze gremite di fedeli. Parte dei tetti serviva da osservatorio astronomico e fu da questi terrazzi che i sacerdoti, abili osservatori, riuscirono a catalogare migliaia di stelle, prima fra tutte quella da noi conosciuta con il nome di Sirio e da loro identificata con il Giaguaro Volante o il Giaguaro Dorato: Choquechinchay.

Non esisteva esercito in quella comunità; non ve n’era necessità. Nessuna popolazione, nessuna banda di balordi, nessun pazzo avrebbe osato recare danno al Dio Giaguaro, alla divinità universalmente riconosciuta in quel mondo lontano. Non tutto era perfetto, tuttavia; almeno secondo la nostra logica. Al fine di meglio comunicare col dio, infatti, i sacerdoti usavano inalare il succo di un cactus allucinogeno –achuma (Trichocereus pachanoi)-, di cui si servivano, pure, per annebbiare le menti di fanciulli e fanciulle, indottrinati sin dalla tenera età alle leggi del dio e che avrebbero avuto la funzione di messaggeri. Messaggeri di cosa? Il compito di questi giovani era quello di consegnare al Giaguaro Dorato le suppliche dei fedeli, di renderlo generoso verso i propri sudditi e di onorarlo per l’eternità. Alcune volte l’anno, durante le feste religiose o in caso di gravi calamità, quali inondazioni, terremoti o epidemie, i messaggeri, offuscati dall’allucinogeno, venivano sgozzati nella pubblica piazza circolare, nella convinzione che il loro spirito avrebbe presto raggiunto la residenza celeste della divinità.

Il simbolo della religione Chawpín è ancora scolpito nel celebre “Lanzón”, una grossa “lancia” di pietra incastrata in un crocevia, all’interno di uno dei templi; rappresenta il Dio Giaguaro con la bocca felina e gli artigli aguzzi. Questa figura, in seguito, apparirà in ogni altra cultura successiva, fino a quella inca. Non sono ancora state stabilite le cause del tramonto di Chawpín. Solo si sa che, attorno al 150 a.C., la città fu abbandonata, forse a causa di una grave epidemia, più probabilmente perché un sisma violento e la conseguente invasione delle acque del fiume distrusse gran parte della vallata e le sue coltivazioni.

A parecchie centinaia di chilometri di distanza, in direzione sud, quando ancora la civiltà Chawpín non si era spenta, prendeva forza la cultura Cahuachi, nella grande prateria dove oggi sorge il paese di Nazca. Cahuachi era una grande città, anch’essa bella e pacifica. Pure qui, sorgevano palazzi e templi, simili a grandi piramidi tronche. Uno dei misteri, ancora oggi insoluti, che circondano questa civiltà riguarda le famose linee che percorrono, per decine di chilometri, la prateria. Figure geometriche e zoomorfe (ragno, uccelli, scimmia, pesci…) di dimensioni gigantesche e ottenute scavando solchi nel terreno, sono oggetto continuo di studio da parte di archeologi e scienziati di tutto il mondo.

In qualche modo collegata alla civiltà di Nazca, la cultura Paracas sorse all’incirca nello stesso periodo della precedente e a pochi chilometri di distanza. Di Paracas vale la pena ricordare l’arte medico-religiosa della trapanazione del cranio. Questa pratica poteva essere applicata sia in vita, sia dopo la morte. Nel secondo caso, si trattava di un rito a scopo magico religioso per permettere allo spirito di liberarsi dell’involucro cranico e raggiungere il dio. Interessante la pratica sul soggetto vivo a scopo terapeutico. Molti pazienti morivano, ma molti altri venivano salvati dai medici che, praticando l’incisione della cute e, di seguito, la trapanazione della volta ossea, riuscivano a togliere un tassello di tessuto, ad eliminare, ad esempio, l’ematoma e a ottenere la guarigione. Il cranio veniva poi richiuso per mezzo di una lamina metallica. Solo gli Egizi avevano osato tanto.

L’antica religione del Giaguaro Dorato si sviluppò in tutto il territorio dell’odierno Perù. Al nord fiorì la cultura Moche o Mochica (100 a.C. – 800 d.C.) che occupò un’area semi desertica nei pressi della costa del Pacifico. Furono abili ingegneri che riuscirono a rendere fertile quell’arido territorio, grazie ad un’efficiente rete di canali d’irrigazione.

Molto più a sud, nei pressi del grande Lago Titicaca (Roccia del Puma), si sviluppò un’altra civiltà: Tiahuanaco (600 d.C. – 1000 d.C.), oggi in territorio boliviano. Come nel caso di Chawpín, anche qui la società era governata da sacerdoti. Tiahuanaco, che dominò su gran parte del territorio peruviano, rappresenta l’ultimo caso di egemonia basata sul credo religioso (la divinità principale assomiglia in maniera impressionante al Giaguaro Dorato di Chawpín), senza la necessità di ricorrere all’uso della forza. L’immagine del dio di Tiahuanaco è ancora ben visibile, scolpita nella famosa “Porta del Sole”.

Si susseguirono altre civiltà e dominazioni, come nel caso del potente impero Wari, sorto sulle Ande centrali del Perù, che assoggettò tutte le città del centro sud peruviano, avvalendosi di un invincibile esercito.

Alla fine, giunsero gli Incas.

Quella inca è una civiltà relativamente “giovane”, essendosi sviluppata attorno al 1200 d.C. Una delle leggende sull’origine degli incas narra che Manqo Kapaq, nato dal Lago Titicaca, intraprese, assieme ad altri tre fratelli e quattro sorelle, un viaggio verso nord, guidato dalla volontà del dio Wirakocha (“Spuma del Lago”). Dopo diverse vicissitudini, gli otto fratelli giunsero nella valle di Cusco, dove Manqo Kapaq provò a conficcare nel terreno il bastone d’oro donatogli dal dio suo padre. L’asta penetrò con facilità fra le zolle e questo fu il segno divino che il giovane principe attendeva: in quel luogo sarebbe sorta la sua capitale, Cusco, l’ombelico del mondo.

Per parecchi anni, il popolo inca dovette combattere contro le popolazioni locali, al fine di stabilire la propria egemonia, fino all’avvento del grande condottiero Pachakutec che riuscì a sconfiggere le orde sanguinarie dei guerrieri Chanka e ad intraprendere la conquista della regione, espandendo, a poco a poco, il domino inca su tutto il Perù, gran parte dell’odierno Ecuador, della Colombia, del Cile e dell’Argentina.

Erroneamente, molti occidentali identificano le antiche civiltà andine con quella inca, ma gli incas si comportarono semplicemente come gli antichi greci e romani nel nostro mondo. Assimilarono gli usi, i costumi e le conoscenze delle civiltà che li avevano preceduti, organizzarono in un unico grande apparato statale i popoli delle montagne e della costa, elaborando leggi precise, costruendo strade e ponti che collegavano tutto l’impero e, soprattutto, garantendo alla popolazione i mezzi di sussistenza, attraverso un efficace sistema di terrazzamenti – ricavati scavando le reni dei rilievi – atto alle coltivazioni, depositi di alimenti per far fronte ai periodi di carestia e “scuole di specializzazione”, mediante le quali ogni centro era in grado di produrre mano d’opera qualificata.

Dopo la morte dell’ultimo grande inca, Wayna Kapaq (~ 1527 d.C.), si scatenò la lotta per la successione fra l’erede al trono di Cusco, Wáskar e il fratellastro, governatore di Quito, Atawallpa. Ebbe la meglio quest’ultimo, ma non trovò il tempo per assaporare la vittoria. Gli spagnoli erano sbarcati in Perù e, nel 1532, giunsero a Cajamarca, dove l’Inca vincitore si stava riposando dalle fatiche della guerra. Francisco Pizarro, comandante di quella masnada di avventurieri, riuscì a catturare il sovrano con l’inganno e a trucidare migliaia di indios inermi.

L’anno successivo, Atawallpa – che aveva fatto riempire un’intera stanza di oggetti d’oro e due d’argento per pagare il riscatto richiesto dagli spagnoli – dopo un rapido quanto iniquo processo, venne assassinato. Un elogio funebre, di autore anonimo, canta la morte di Atawallpa. “Il sole si smorza, viene notte, mistero; ricopre di un sudario Atawallpa, il suo corpo, il nome; la morte del re accorcia il tempo, breve quanto un battito di ciglia (…) Ricolmi dell’oro del riscatto, gli spagnoli, la depravata anima distrutta dal potere, spingendosi l’un l’altro, ansiosi e sospettosi animali infuriati. Hai dato ciò che ti hanno chiesto, ma ugualmente ti hanno assassinato (…)”. DA: ApuInca Atawallpaman. Traduzione dal quechua allo spagnolo di José María Arguedas e dallo spagnolo all’italiano di Gabriele Poli. Quando gli spagnoli giunsero in Perù, si preoccuparono unicamente di saccheggiare, rubare, stuprare, uccidere e distruggere ogni retaggio culturale di quel paese. Sono giunti a noi centinaia di libri e manoscritti, tutti, peraltro, scritti dai violentatori iberici. Scrittori improvvisati ed ignoranti, preti premurosi solo di dar bella mostra di sé eliminando idoli, cultura e tradizioni indigene, sostituendo le divinità andine con i santi cattolici, ottenendo solo confusione ed alimentando il genocidio. Troppo pochi sanno che al momento dell’invasione spagnola del 1531, in Perù la popolazione ammontava a circa nove milioni di abitanti e che dopo pochi anni, solo tre milioni abitavano ancora le Ande.

Perché? Sì, le malattie, sì, i lavori forzati nelle miniere; sì, la fame e la carestia, ma, soprattutto, l’autoannullamento. In migliaia preferirono il suicidio in nome della propria cultura e della propria religione.

Troppo pochi sono stati i discendenti del popolo delle Ande ad aver documentato qualcosa dell’antica civiltà e anche questi preoccupati di farsi benvolere dagli europei per ottenere privilegi. E’ il caso di Garcilazo de la Vega, figlio di una principessa inca e di un ufficiale spagnolo, che, a distanza di molti anni, scrisse un migliaio di pagine, spesso inventando situazioni e personaggi, al solo scopo di ottenere terre e denaro. E’ il caso di Guamàn Poma de Ayala, lui sì andino purosangue, che descrisse la vita del fiero popolo della Cordigliera, ma anch’egli frustrato e catechizzato dai “nobili europei”. Quasi tutto ciò che giunse a noi, pertanto, è la cronaca inventata dai “vincitori”, faziosa, sleale, vigliacca. Le foto in:



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