DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .1

Il racconto di questo viaggio si divide in 8 capitoli geografici: 1) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 1. Sezione PERÚ 2) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 2. Sezione BOLIVIA 3) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 3. Sezione PARAGUAY 4) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 4. Sezione BRASILE 5) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 5. Sezione BOLIVIA 6) DA LIMA A IGUAZÚ e...
Scritto da: davovad
da lima a iguazÚ e ritorno .1
Partenza il: 31/12/1998
Ritorno il: 16/04/1999
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Il racconto di questo viaggio si divide in 8 capitoli geografici: 1) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 1. Sezione PERÚ 2) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 2. Sezione BOLIVIA 3) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 3. Sezione PARAGUAY 4) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 4. Sezione BRASILE 5) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 5. Sezione BOLIVIA 6) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 6. Sezione CILE 7) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 7. Sezione BOLIVIA 8) DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno 8. Sezione PERÚ Per leggere il racconto completo bisogna seguire quest’ordine.

Il personaggio che ha scritto questi appunti è morto quando è tornato a posare i piedi sulla terra d’Argentina, e colui che li riordina e li ripulisce, “io”, non sono più io; per lo meno, non si tratta dello stesso io interiore. Quel vagare senza meta per la nostra “Maiuscola America” mi ha cambiato più di quanto credessi. Ernesto Guevara – Latinoamericana

CAPODANNO Il Boeing 747 decollò da Bogotá e, dopo aver valicato la Cordillera Oriental colombiana, puntò dritto verso sud. Quando superammo la linea dell’equatore mi sentii finalmente in Sudamerica, nell’emisfero australe, dove le stagioni sono invertite e l’acqua defluisce dai lavandini in un vortice antiorario. Il sogno si stava realizzando. Dal finestrino di coda contemplavo commosso il compatto tappeto verde dell’Amazzonia solcato da una miriade di fiumi. Alcuni erano enormi, larghi anche chilometri, e ansa dopo ansa si perdevano nell’orizzonte convesso, dove la foschia rendeva difficile stabilire il punto esatto in cui finiva la terra e cominciava il cielo. Atterrai all’aeroporto internazionale Jorge Chavéz di Lima la sera del 31 dicembre del 1998. A quell’ora in Italia avevano già festeggiato il nuovo anno. Era buffo pensare che lì era buio ormai da dieci ore e che faceva un freddo cane. Il corridoio che conduceva alla dogana era tappezzato di manifesti illustrati. Mettevano in guardia i signori viaggiatori sulle conseguenze in cui sarebbero incorsi se fossero stati trovati in possesso di droga, leggi cocaina. Le immagini non erano per nulla allettanti. Mi avvicinai all’ufficio immigrazione, convinto che un soggiorno nelle prigioni peruviane non sarebbe stato esattamente il mio ideale di viaggio. Per stemperare l’angoscia suscitata da quelle scene raccapriccianti i manifesti erano intervallati da bacheche di vetro, che contenevano squisite riproduzioni di oggetti d’arte precolombiana custoditi nei bellissimi musei della capitale. Siccome alla migración danno per scontato che il turista si fermi al massimo per un mese, mi affrettai a specificare che avevo intenzione di trattenermi per un periodo più lungo. L’ufficiale mi squadrò, fece un sorrisetto del tipo “Farai la fine dei tipi dei manifesti” e scrisse 90 días sul passaporto e sulla carta turistica. Ritirai lo zaino e cambiai un travellers’ cheque, ignaro che il tasso praticato dalla Casa de Cambio dell’aeroporto fosse vergognoso, un’autentico furto. Uscii fuori e respirai la prima vera aria sudamericana. Era indubbiamente più leggera di quella che in realtà mi circondava, era aria d’avventura. I facchini piombavano sui passeggeri ancora mezzi scombussolati, strappavano quasi a forza i loro bagagli e li trasportavano per non più di cinque metri fino ai costosissimi taxi degli amici, pretendendo compensi esorbitanti tra le proteste dei clienti che si trovavano a pagare un aiuto non richiesto quanto inutile. Riuscii a stento a schivare facchini polipeschi e taxisti sorridenti, attraversai il parcheggio ed uscii su un vialone trafficatissimo. Fermai un taxi. Costava un quarto del prezzo praticato all’interno dell’aeroporto. Era un taxi ufficiale, con autorizzazione, timbri, numero di targa e foto in bianco e nero del taxista ben esposti sul parabrezza. Era indicato anche un numero di telefono per segnalare alle autorità qualsiasi inconveniente. L’amministrazione metropolitana cercava in tutti i modi di arginare il dilagante fenomeno dei taxi abusivi, responsabili non tanto di evadere il fisco quanto di commettere rapine ai danni dei turisti. Il coinvolgimento di stranieri in episodi di criminalità aveva avuto come conseguenza l’adozione di contromisure in perfetto stile europeo, che stonavano non poco in quel contesto di indicibile marasma. Mototaxi a tre ruote, smisurate automobili statunitensi, maggiolini brasiliani, utilitarie giapponesi e camion carichi di merci e di persone gremivano le strade. I pedoni attraversavano da tutte le parti. Gli autobus si fermavano per raccogliere i passeggeri ovunque facessero cenno, dopo che avevano letto sui parabrezza o sulle fiancate il percorso che seguivano. A beneficio degli analfabeti, ragazzini in precario equilibrio sulle portiere tenute costantemente aperte urlavano la destinazione e fungevano da bigliettai. O meglio, dal momento che di biglietti non ne ho mai visto uno, ritiravano i soldi. C’erano autobus di ogni tipo e colore. Andavano dal vecchio scuolabus americano col muso allungato al pulmino da dodici posti col portello laterale, il micro. Siccome la voce dei bigliettai non sempre riusciva a superare il trambusto della strada, gli autisti li aiutavano con frequenti colpi di clacson. I più ingegnosi avevano montato il pulsante sulla leva del cambio per poterlo adoperare più facilmente. I taxi strombazzavano per vincere la concorrenza. Tutti gli altri mezzi provvisti di un motore suonavano per abitudine. Sembra incredibile, ma non ho mai visto né ingorghi né incidenti, nemmeno quando, di tanto in tanto, qualche catorcio si piantava in mezzo al traffico. I semafori erano luoghi nevralgici dove fervevano mille attività. Nell’attesa del verde si poteva acquistare di tutto: giornali, iguane, mollette per il bucato, mappamondi, sigarette sfuse, filtri dell’aria. Sui marciapiedi sfilavano esposizioni di pneumatici, di marmitte cromate e di accessori per auto. Splendidi ficus beniamino si ergevano rigogliosi tra spazzatura e gas di scarico. Li contemplavo invidioso, ripensando alla fatica che facevano invece per crescere in casa mia, dove li curavo con tanto amore. Ingrati. Il taxi arrivò dopo un’ora in Plaza San Martín e mi scaricò davanti ad un hostal situato lì vicino. La prima cosa che notai salendo lo scalone barocco furono dei cartelli verdi con la scritta zona segura en caso de sismo posizionati su alcune pareti del vecchio edificio coloniale. Il proprietario, un omino secco con un paio di baffetti grigi, approfittò del mio sguardo preoccupato per informarmi: “Se viene un terremoto, corri a ripararti qui sotto.” Adesso sì che ero tranquillo. Quei cartelli avevano tutta l’aria di essere stati messi lì a casaccio, solo per rispettare le imposizioni di legge. Lima, l’antica residenza dei viceré spagnoli, fu quasi rasa al suolo dal terremoto del 1746. Molti edifici storici risalgono pertanto all’epoca della ricostruzione. E sono stati a loro volta danneggiati da altri terremoti che si sono abbattuti, purtroppo, con frequente regolarità. L’armonia della città coloniale, inoltre, viene minacciata dalla preoccupante crescita demografica, che ha visto la sua popolazione quadruplicarsi nell’arco di trent’anni, passando dai due milioni e mezzo del 1970 ai quasi dieci milioni di oggi. Huayco in quechua significa frana: con questo nome i peruviani chiamano la valanga umana che si riversa giù dalle Ande, portando alla nascita dei pueblos jóvenes o barriadas, villaggi satellite ai margini della città privi di tutto tranne che di miseria. Il proprietario dell’hostal mi diede una cartina della cosiddetta Lima cuadrada e mi augurò buona passeggiata, raccomandandomi prudenza e attenzione. Mi lasciai sedurre dalla notte tropicale, bombardato dalle luci e stordito dagli effluvi e dai rumori del centro. Jirón de la Unión, la via pedonale che collega Plaza San Martín a Plaza de Armas, era piena all’inverosimile di una folla festante che aspettava con trepidazione il nuovo anno. Le bancarelle vendevano di tutto, ma per l’occasione gli articoli maggiormente esposti erano i capi di biancheria intima di un benaugurante color giallo. Stretto in una folla oceanica, dove per la prima volta in vita mia provavo l’ebbrezza di essere alto, sentii un improvviso strappo al polso. Mi voltai intorno, ma nessuno mi stava toccando, almeno non con intenzione. Con tutta la gente che c’era non capivo neanche chi potesse essere stato. Una mano rapace aveva tentato di strapparmi l’orologio. Mi trovavo a Lima soltanto da due ore… “Cominciamo bene” pensai. Allungai le maniche della camicia e proseguii, più guardingo e sospettoso che mai. Riuscii ad arrivare incolume in Plaza de Armas e andai a sedermi sui gradini della Catedral. La Catedral di Lima è un edificio importante dal punto di vista storico, perché ospita le spoglie di Francisco Pizarro, l’artefice e responsabile del Sudamerica come oggi lo conosciamo. Mi stavo godendo il fresco della sera perso in inutili considerazioni, quando sperimentai una delle più grandi passioni dei sudamericani: intortare gli stranieri. Alejandro fu il primo di una lunga serie. Statura media, zazzera di capelli corvini, pelle ambrata e completamente glabra. Era un perfetto esempio di mestizo, il meticcio di sangue misto spagnolo e amerindio che costituisce un terzo della popolazione peruviana. Aveva ventidue anni e l’hobby dei turisti. Per i giovani come lui non c’erano molte prospettive di lavoro. Non potendo permettersi una scuola, cercava di imparare l’inglese e gli usi e i costumi degli stranieri, per riuscire magari ad inserirsi nel mercato del turismo. “Hai dei programmi per stasera?” mi chiese alla fine della lunga chiacchierata. “No, veramente… Non saprei.” “Vuoi venire a casa mia? Non abito molto lontano.” Accettai di buon grado, dopo aver valutato l’alternativa di passare da solo quella notte di San Silvestro dalla temperatura così inusuale. Gli autobus circolavano nel consueto traffico stipati di gente allegra e già ben carburata. Ci volle più di un’ora per raggiungere il vicino sobborgo di San Borja. La casa di Alejandro era un cubo di cemento dipinto di bianco coi tondini di ferro che spuntavano dal tetto. Le piccole stanze non riuscivano a contenere l’enorme guazzabuglio di vestiti sparsi in giro, di mobili mal assortiti e di cianfrusaglie varie. Il mio ospite scomparve dietro una tenda, lasciandomi solo e a disagio, ancora memore del tentativo di scippo. Ero già pentito della fiducia riposta così ingenuamente in uno sconosciuto. Cercai di indovinare quale potesse essere la mia sorte e nervosamente rovistai in giro per trovare qualcosa di contundente con cui difendermi dall’imminente agguato. Alejandro tornò invece tutto cerimonioso con una bottiglia di vino rosso argentino. Senza farmi vedere mi sbarazzai dell’attaccapanni che tenevo dietro la schiena e lo aiutai a sturarla. Questa operazione banale, semplice, sempre gratificante, può diventare una faccenda maledettamente complicata se non si dispone di un cavatappi. Dopo aver tentato inutilmente di estrarre il turacciolo con un coltello, alla fine lo cacciammo dentro la bottiglia. Fuori la guerra di botti, di razzi e di fuochi artificiali stava aumentando d’intensità. Ci accomodammo all’aperto a sorseggiare il vino, coi piedi appoggiati sul corrimano della piccola rampa di scale esterna. Anche qui è tradizione bruciare pupazzi che rappresentano l’anno che sta per finire. Numerosi falò illuminavano le facciate dei palazzoni e i malinconici pilastri di una ferrovia sopraelevata incompiuta che correva in mezzo all’Avenida. La mezzanotte esatta era un concetto trascurabile, che neanche il mio orologio sincronizzato sull’ora dell’aeroporto poteva stabilire con certezza. Ci furono comunque dieci minuti di delirio pirotecnico, sufficienti a mettere tutti d’accordo su quel momento fatidico. Quando la situazione tornò al caos normale, insieme alla madre, che avrà avuto al massimo quarant’anni, prendemmo un taxi e andammo in un localino sconosciuto ai turisti, molto frequentato invece dai peruviani. Il pollo, il riso e le patate fritte di quella sera rimasero la costante di tutto il viaggio. Non così l’Inca-Kola, per fortuna. E’ la bevanda nazionale, concorrente peruviana delle bibite statunitensi. ¡Es nuestra! era lo slogan che si leggeva dappertutto. E’ gialla come una cedrata fosforescente e ha il sapore di una caramella sciolta. Mi limitai ad un assaggio di cortesia. Dopo cena Alejandro insistette perché passassi la notte da loro. Mi fece sistemare sul divano, lui invece andò a prendere un materasso e si stese per terra di fianco a me. Siccome non parlava d’altro che di donne, e pensando di farmi cosa gradita, trasportò il televisore nella stanza e inserì nel videoregistratore una cassetta porno che andò avanti tutta la notte. Feci buon viso a cattivo gioco, un vero uomo non avrebbe mai rifiutato. Ero sveglio da un giorno e mezzo e c’erano trenta gradi in più di quando ero partito. Mi addormentai a fatica tra amplessi e mugolii, l’incessante traffico sulla strada e il fracasso del frigorifero che sembrava funzionare a carbone. LIMA Lo sbalzo di fuso orario e il calore fuori stagione mi sballarono le giornate successive. Mi svegliavo la mattina prestissimo e crollavo altrettanto presto la sera. Mi accorsi che la città prendeva vita molto presto, per poi concedersi una siesta nelle ore più calde. Era uno stile di vita ancora scandito dal ritmo del sole. Non capivo però perché non introducessero l’ora legale, visto che albeggiava alle cinque e mezza e che alle sette di sera faceva già buio. Mi spiegarono che tempo fa il Perú aveva provato ad introdurre l’ora legale per adeguarsi agli altri Paesi. Ma nessuno capiva più a che ora partivano aerei, autobus e treni o cominciavano le partite di calcio. Così erano tornati all’orario unico. A Lima si respirava un clima di palpabile tensione. C’era una massiccia presenza di militari in assetto antisommossa, specialmente nel centro storico e attorno ai palazzi della politica. I muri delle case erano sormontati da cocci di bottiglia, filo spinato e cavi elettrificati. Ville, banche e semplici negozi venivano presidiati da vigilantes con giubbotto antiproiettile e fucile a pompa. In tutti i negozi una macchinetta a raggi ultravioletti rilevava le banconote false, autentico flagello dell’economia. Si era reso necessario ristamparle e ricorrere a tutti i sistemi antifalsificazione conosciuti. Nelle banche e nelle casas de cambio erano affissi dei vistosi cartelli che descrivevano minuziosamente tutte le caratteristiche per riconoscere la genuinità dei dollari e dei nuevos soles. Spesso venivano esposte le banconote contraffatte e di fianco era spiegato come riuscire a riconoscerle. In breve diventai un profondo conoscitore della filigrana e delle marche ad acqua, vero esperto nel distinguere le tracce in rilievo e le zone prismatiche. Analizzai le banconote fin nei minimi dettagli, finché la mia attenzione non venne richiamata da una minuscola dicitura in basso a sinistra: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. Roma. Non so se anche le monete fossero coniate in Italia, ma erano identiche alle nostre cinquecento lire. Ovviamente anche le monete, specialmente quelle da cinque soles, venivano falsificate. La prima volta che provai a pagare con una banconota sostanziosa venni iniziato al gioco sudamericano del “Non ho il resto” e imparai subito la regola fondamentale: quando si cambia esigere sempre banconote di piccolo taglio, anche se il cambista fa orecchie da mercante, e alla prima occasione cercare di rifilare quelle grosse e quelle sciupate, anche se il mercante fa orecchie da cambista. Infatti molte banconote erano spesso simili al fazzoletto di carta di un raffreddato e per sicurezza venivano rifiutate. I commercianti, dopo aver lamentato la mancanza di cambio, uscivano con la preziosa banconota e, grazie ad un sistema di reciproci favori tra colleghi, tornavano con il sudatissimo resto. Il centro storico era tranquillo e pulito ed era piacevole passeggiare per le vie pedonali. Questa situazione di apparente normalità era in realtà il risultato di uno sforzo titanico da parte di eserciti di spazzini e di giardinieri in tuta arancione. Ogni tanto usavano qualche scopa classica, ma per spazzare sembravano preferire i rami delle palme. Lungo i marciapiedi fervevano i commerci e le attività più disparate: lustrascarpe, cambiavaluta ufficiali con casacca fosforescente e grosse mazzette di denaro tra le mani, venditori di pannocchie bollite, gente che per dieci céntimos metteva a disposizione una bilancia per pesarsi, scrivani con macchine da scrivere antidiluviane e bambini che vendevano chicles, le gomme da masticare. Anonime insegne proponevano l’acquisto di oro, plata y rolex. Neon e musiche martellanti attiravano i maniaci dei videogiochi e delle slot-machines. Il lavoro più diffuso era indubbiamente il volantinaggio. Una volta mi ritrovai tra le mani cinque volantini diversi nello spazio di dieci metri. Pubblicizzavano ristoranti, negozi, corsi di inglese e di computer, ma soprattutto scuole private in stile U.S.A. Come alternativa alla disastrata educazione pubblica. La concorrenza era spietata, dato che quello era il periodo delle iscrizioni. Ma bastava uscire dalla zona frequentata dai turisti per incappare in situazioni al limite della sopravvivenza, come la famiglia che viveva dietro al monumento di Plaza Grau, situato in mezzo ad una rotatoria soffocata dal rumore e dai tubi di scappamento. Il tugurio di cartoni e di lamiere ondulate resisteva con disperazione alle vibrazioni e alla forza di gravità. I pochi mendicanti del centro aumentavano mano a mano che ci si inoltrava nei quartieri più poveri, el cinturón de la miseria. Questo era il territorio di caccia dei petisos, più noti come pirañas. Non si tratta dei pesci carnivori dalla fama sinistra che vivono negli affluenti del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco, bensì di bande di bambini e adolescenti che, in preda ai vapori di colle e di solventi, agivano con la stessa feroce determinazione. Di solito attaccavano le persone anziane o le donne sole, con una tecnica che non lasciava scampo. Alcuni immobilizzavano la vittima, mentre gli altri provvedevano a spogliarla di tutto, a volte anche dei vestiti. Alla fine si dileguavano con la stessa velocità con cui erano comparsi. Ogni tentativo di reazione risultava inutile, anche perché sempre più spesso erano armati di coltelli e di pistole. Per arginare questo fenomeno in Brasile ed in Colombia imperversavano gli squadroni della morte. Qui la situazione era meno grave, ma ogni anno erano centinaia i bambini desaparecidos, inghiottiti dalla metropoli indifferente. Il settanta per cento degli abitanti di Lima viene dalle province, ma solo pochissime donne portavano i costumi tipici delle località andine. Vengono chiamate cholas, termine che significa propriamente meticcio culturale e che si riferisce a chiunque sia emigrato in città e continui a vestire gli abiti tradizionali. I cittadini disprezzano gli indigeni e li considerano montanari arretrati ed ignoranti, arrivando così a rinnegare le loro stesse origini. Anche se, con l’ironia che li contraddistingue, sono soliti dire: “La mayor parte somos indios, los otros son los ricos.” In Plaza San Martín mi venne incontro un personaggio barbuto e allampanato che si improvvisava parcheggiatore. Urlò qualcosa in direzione di un automobilista, poi con estrema naturalezza, come se fossimo amici che si incontrano per caso, mi disse: “La gente non ha più rispetto. Fai un favore a qualcuno e questo nemmeno ti ringrazia. E figurati se ti paga! Hola, soy Carlos. ¿De dónde vienes?” Mi porse la mano. Gliela strinsi. “Italia.” “Ah, Italia. Ci sono stato in Italia, si sta bene, eh?” “Beh, non c’è male.” “Mia moglie vive a Padova con i bambini e un altro uomo.” “Ah…” risposi un po’ imbarazzato. “Però non me ne frega niente. Ha detto di non farmi più vedere. Se avessi i soldi andrei lì e li ammazzerei, lei e quell’altro.” Le sue parole biascicate non mi avevano permesso di capire se la moglie era italiana o se lo era il terzo incomodo, ma preferii non indagare ulteriormente. “Guarda se piango! Piango secondo te?” mi domandò strabuzzando gli occhi spiritati. “No, no, non piangi. Non devi” lo assecondai con molto tatto. “Bravo, non devo… Italia. Bella l’Italia, eh?” La conversazione andava avanti a senso unico, perché Carlos parlava a ruota libera, spesso intervallando frasi in italiano ai suoi discorsi farneticanti. “Senti, sono un po’ a corto” mi confidò in uno sprazzo di lucidità, “non mi offriresti una bottiglia di pisco?” Non so se quella chiacchierata fosse finalizzata a questo o se nell’eccitazione gli fosse venuta improvvisamente sete. Incuriosito lo accompagnai in una tienda, che una pesante cancellata di ferro smaltato separava dall’esterno. Comprai una bottiglia ad un prezzo irrisorio, alla quale il negoziante aggiunse cinque bicchierini di plastica trasparente. Doveva essere un aficionado, perché conosceva tutti gli avventori di quello stranissimo bar all’aperto. Mi presentò agli astanti come il suo amico italiano. Dopo aver riempito qualche bicchiere tristemente vuoto, andammo in Jirón de la Unión, dove si trovavano suo fratello ed altri amici. L’apparizione della bottiglia ebbe il potere di scuoterli immediatamente dall’uggia quotidiana. Tutti felici fecero una colletta per comprare un succo di frutta da mescolare all’alcol. Gustavo, un personaggio vulcanico coi capelli lunghi e una folta barba, costretto dalla poliomielite su una sedia a rotelle, si occupava di miscelare i liquidi. “Per me nove parti di pisco e una di jugo. Tu come lo vuoi?” mi domandò, contento come un bambino a Natale. “Stesse proporzioni, ma invertite. Se si può.” “Certo che si può.” E infatti fece metà e metà. “Ecco qua, te ne ho messo un po’ di più, ma tanto non si sente nemmeno.” Nooo, feci una smorfia che quasi mi leccavo le ciglia. Tra un bicchiere e l’altro mi insegnarono tutti i sinonimi degli attributi maschili e femminili, dai più fini ai più volgari. Da un negozio di vestiti in svendita una radio diffondeva nella via la voce della Pausini, inconfondibile anche se cantava in spagnolo. Il fratello di Carlos si vantava delle sue conoscenze tra la polizia e quindi, come logica conseguenza, mi domandò: “Vuoi della cocaina? E’ purissima, te la faccio ad un buon prezzo.” Avevo ancora in mente i manifesti dell’aeroporto. “No, grazie” gli risposi in tutti i modi possibili, cercando di contenere la sua insistenza. Non passò molto che Carlos cominciò a manifestare tutti i sintomi della sbronza cronica, violenta e molesta. Quando prese a pugni un suo amico decisi che era ora di mollare lui e il fratello. Allontanandomi tra la folla capivo come mai la moglie l’avesse lasciato. Ancora stordito dai beveroni alcolici raggiunsi la Catedral. Alejandro bazzicava come al solito sui gradini del sagrato. Mi presentò Antonio e Raimundo, che godevano di un certo prestigio per aver lavorato in Europa e negli Stati Uniti, e David, un biondino ossigenato con movenze e atteggiamenti inequivocabili. Plaza de Armas è il fulcro di Lima e loro la presidiavano in cerca di turisti. Non pretendevano un gran che. Si accontentavano di fare lunghe chiacchierate in inglese e di allacciare relazioni epistolari; si offrivano come guide per i monumenti o per i locali notturni; indicavano hotel, ristoranti, spacciatori. In cambio si facevano pagare l’autobus, la cena, l’ingresso in discoteca o qualche birra. Di tanto in tanto ci scappava anche l’avventura con una turista, che in quanto straniera era più quotata nei racconti con gli amici. Antonio, in particolare, aveva la fama del conquistador de gringas. Avrebbero voluto viaggiare, e ascoltare i racconti dei turisti era l’unico modo che avevano per evadere da lì. Ma erano diversi tra di loro. C’era chi faceva un favore e poi lo rinfacciava per ottenerne in cambio due, e chi lo faceva in modo disinteressato. Alejandro apparteneva alla prima categoria, ma ancora non lo sapevo. Anche se un po’ lo sospettavo, visto che ogni volta che mi vedeva si faceva offrire da bere, ricordandomi di essere stato ospite da lui. “Italia panettone.” Sorrisi un po’ stupito di fronte a questo luogo comune di sapore natalizio. “Conosci il panettone D’Onofrio?” mi domandarono. Avevo già visto in giro i carretti di gelati D’Onofrio, spinti a mano o attaccati a biciclette. Mi dissero che il marchio era stato comprato dalla Nestlé. Tutto il Sudamerica è in mano alle multinazionali. Un giorno passai dal Banco Central per usare uno dei computer che metteva gratuitamente a disposizione del pubblico. Dentro c’era David, felicissimo di rivedermi. Passammo un’oretta buona a scrivere messaggi di posta elettronica, uno di fianco all’altro. Incontrai qualche difficoltà con la tastiera spagnola, soprattutto perché non riuscivo a trovare la chiocciola. Mi insegnò che si scriveva premendo l’Alt e di seguito il 6 e il 4. Come avevo fatto a non pensarci prima. “Che cosa fai dopo?” mi chiese. “Vorrei visitare le rovine di Pachacámac.” “Hai già il biglietto dell’autobus?” “No.” “Se vuoi ti accompagno alla fermata, tanto vado da quelle parti.” Mi guidò tra i vicoli del Mercado Central, un quartiere fatiscente brulicante di mille attività, rumoroso e sporco. Da un cortile polveroso uscì un autobus sgangherato. Dietro il parabrezza crepato esponeva un cartello su cui era scritto a caratteri fosforescenti Lurín. “A Pachacámac?” gridai all’autista attraverso la portiera aperta. Grugnì qualcosa che interpretai come una affermazione. Salii al volo, rischiando di finire sotto le ruote. Tanta fretta poteva anche andarmi bene, se non che l’autista fece quattro volte il giro dell’isolato, strombazzando e caricando i passeggeri un po’ alla volta finché non fu bello pieno. Finalmente partì nella direzione giusta, fermandosi per far salire qualcun’altro giusto per stabilizzare il peso dell’autobus. Quel giorno lo spettro di Atahuallpa mi aveva lanciato la sua maledizione. I sintomi si erano già manifestati in mattinata. Avevo visitato il Museo del Banco de la Reserva solo per poter usare il suo immacolato bagno e in seguito avevo cercato sollievo in tutti quelli che avevo incontrato lungo la strada. Avevo pranzato con una pillola di Imodium e mi ero armato di speranza. Quando la situazione passeggeri iniziò a stabilizzarsi, perché non c’erano più appigli a cui aggrapparsi, salì un giovane. Si scusò per la molestia arrecata e con voce querula supplicò i passeggeri di dargli un qualsiasi aiuto economico, lamentando una moglie e innumerevoli figli da sfamare. Fu allora che accusai preoccupanti fitte al basso ventre. Fu senza dubbio il viaggio peggiore della mia vita, anche più di quella volta quando in gita scolastica al quinto anno di liceo stavamo andando da Salisburgo a Vienna dopo aver bevuto tre litri di birra non pastorizzata a testa. Quell’idiota di un autista crucco non voleva fermarsi e qualcuno ci aveva portato delle bottiglie di plastica vuote per evitare che ci esplodessero le vesciche. Stavolta sarebbe stato un tantino più problematico usare una bottiglia. Senza nemmeno quella flebile speranza seguitavo a contorcermi penosamente, sperando di arrivare il più presto possibile. Per fortuna la Panamericana scorreva dritta e liscia sotto di noi, ma quei trenta chilometri mi sembravano una distanza infinita. Le continue fermate, poi, non facevano che prolungare l’agonia. Avevo una strizza da morire. Dopo quasi un’ora l’autista mi avvertì che eravamo arrivati alle ruinas. Guadagnai l’uscita facendo lo slalom tra le persone e le cose e camminai ingobbito fino alla biglietteria. A piccoli, rapidi passi raggiunsi il bagno: ero salvo. Considerata la situazione idrosanitaria peruviana era rispettabilissimo. Le porte tipo saloon e il pavimento ricoperto di sabbia ricordavano un campeggio in riva al mare. Immancabile c’era il cestino dove gettare la carta. La pressione dell’acqua, infatti, era piuttosto debole e gli impianti fognari alquanto precari potevano intasarsi. Comunque la carta era un vero lusso, non si trovava mai. Uscito vittorioso dal bagno mi guardai intorno. Mi trovavo in mezzo al deserto. I custodi avevano creato un piccolo giardino di cactus spinosi dai fiori sgargianti. Più in là, dentro un recinto, tre llamas lanosi mangiavano pigramente sotto una tettoia di paglia, cercando conforto a quel clima per loro estraneo. Pachacámac si sviluppò a partire dal quarto secolo dopo Cristo. E’ probabile che in origine si chiamasse Irma, dal nome della massima divinità costiera dell’epoca preincaica qui venerata. Quando arrivarono gli spagnoli era un fiorente insediamento controllato dagli incas. Il nome quechua è il corrispettivo costiero di Huiracocha, la suprema divinità sudamericana. I cronisti sostengono infatti che il vocabolo provenga dalla voce pacha, mondo, e camay, creare, significando pertanto creatore dell’universo. Si narra che Pizarro organizzò dei giochi equestri nella Plaza de los Peregrinos di Pachacámac prima di fondare Lima il 6 gennaio del 1535. Mi incamminai in direzione di quelli che sembravano enormi cumuli di sabbia, un tempo ardite piramidi a gradoni. Il sito è abbastanza vasto e il sole era implacabile. Gli zopilotes planavano in cielo sfruttando le correnti ascensionali create dalla sabbia rovente. Le strutture in adobes, i mattoni di fango cotti al sole da sempre materia prima nell’edilizia peruviana, si erano sgretolate nel corso dei secoli e solo con una certa fantasia, aiutati anche dai disegni esplicativi, si poteva immaginare l’antico aspetto della città. Per ultimo salii sul Tempio del Sole eretto dagli incas, la costruzione più alta del sito. Tutt’intorno il deserto era interrotto solo da qualche villaggio del suo stesso colore. La brezza marina della sera stava rinfrescando l’aria. Il sole si apprestava a tuffarsi nell’oceano, ricoprendo le onde di riflessi infiammati. In lontananza si ergeva un faraglione solitario, talmente bizzarro in quel paesaggio piatto che sembrava nato da un capriccio del mare. Migliaia di uccelli marini gli volavano attorno come api nell’arnia. Per me il mare è un elemento estraneo, un amico sconosciuto. Mio padre lo vide per la prima volta a vent’anni, quando fece il servizio militare a Nocera Inferiore. Negli anni cinquanta della crisi post-bellica andò in treno a Mosca, sostando lungo il percorso nelle capitali della Cortina di Ferro. In seguito visitò Parigi e Madrid. “Sei proprio come Renzo” mi disse mia zia quando seppe del mio viaggio, per la disperazione di mia madre che vedeva in me il suo spirito sognatore e la sua vena errabonda. Restai lungo tempo estasiato a contemplare l’incessante movimento delle onde che andavano a morire sulla spiaggia. Amo il mare, come può amarlo solo chi non ce l’ha mai avuto vicino. Quello spazio infinito, quel penetrante profumo di salsedine era per me un invito a partire verso nuovi orizzonti. Mentre ero rapito da queste considerazioni baudelairiane, un guardiano lasciò la sua posizione di vedetta per venire a scambiare due parole col gringo di turno. Non potevo biasimarlo. Doveva vigilare tutto il giorno col binocolo per impedire che i visitatori si arrampicassero dove non era consentito o che i contadini rubassero sabbia e adobes. Sicuramente aveva esaurito da tempo gli argomenti da scambiare via radio con l’altra guardia e non gli pareva vero di poter parlare con un estraneo. Mi fece le solite domande di rito a cui risposi meccanicamente. Poi mi condusse in una stanza e mi mostrò con orgoglio una stoffa polverosa con disegni a scacchi cementata al suolo. Ne strappò via un pezzo e porgendomelo mi disse: “Ricordo del Perú.” Non sapevo se fosse autentica o se si trattasse invece di una camicia lasciata lì da un operaio durante i restauri dell’anno prima, comunque rifiutai. Questa consuetudine dei souvenir, infatti, sta causando dei veri disastri al patrimonio artistico. Non se la prese. Mi avvertì che l’orario di chiusura era già passato da un pezzo e nel salutarmi mi fece un sorriso che mise in mostra un dubbio segno di bellezza: i quattro incisivi superiori erano incorniciati d’oro. I denti erano i suoi, le cornici avevano solo una funzione ornamentale. Salii su un autobus già pieno, che continuò con ostinazione ad infornare altri passeggeri. Entrando a Lima sentii la morsa dello smog attanagliarmi la gola. All’inizio non me n’ero reso conto, probabilmente ero un po’ raffreddato. Solo dopo essere uscito dalla città e aver respirato l’aria pulita del Pacifico mi accorsi che Lima puzzava terribilmente. L’assenza di pioggia aveva fatto sì che l’inquinamento e il tanfo impregnassero gli edifici e le strade. Quando finalmente riuscii a sedermi, il bigliettaio mi consigliò di chiudere il finestrino per evitare guai non meglio specificati. Non ne potevo più. Lima mi aveva logorato il sistema nervoso. IL DESERTO Quando viaggio tengo sempre conto dell’ora e del senso di marcia. L’autobus partiva alle undici del mattino in direzione sud. Dopo un rapido calcolo chiesi alla bigliettaia un posto sul finestrino nel lato sinistro, in modo da godermi il panorama senza essere ustionato dal sole cocente. Trascorso abbondantemente l’orario previsto per la partenza, l’autista temporeggiò ancora un po’ per poter caricare altri passeggeri e altri ne salirono lungo il tragitto finché non uscimmo da Lima. La stretta fascia costiera del Perú è un lunghissimo deserto, intervallato da fertili oasi alimentate dai fiumi che nascono sui versanti occidentali delle Ande. Ma dei cinquanta fiumi che solcano questa terra avara solo dieci raggiungono regolarmente il mare per tutto l’anno. Dove non ci sono corsi d’acqua il deserto è aridissimo, con dune di sabbia ed arroventate distese pietrose. La brezza marina creava mulinelli di polvere che si dissolvevano con la stessa rapidità con cui prendevano vita. Le colline spoglie ai lati della Panamericana erano solcate da miriadi di sentieri e di scritte realizzate con la tecnica nasca. Erano spesso a sfondo politico, ma non mancavano autografi e messaggi d’amore d’inguaribili romantici. Tra una discarica e l’altra sorgevano agglomerati di esili baracche di canne e lamiera e case di cemento con l’armatura in ferro che usciva dai mattoni, già vecchie prima ancora di essere ultimate. Il problema più grave è la cronica carenza di acqua dolce, per questo motivo sono diffusissime le bibite in bottiglia. Gruppi di donne e di bambine presidiavano i caselli per il pedaggio e le fermate degli autobus per vendere i loro coloratissimi refrescos, intrugli liquidi serviti in sacchetti di plastica trasparente annodati intorno alla cannuccia. Le uniche fonti di sostentamento possibili fuori dalle oasi sono la pesca e la pastorizia. Fichi d’India, palme, eucalipti e ginestre non riuscivano nemmeno a fornire un po’ d’ombra per la siesta. Ogni tanto si vedeva una mucca, qualche asino o sparuti greggi di pecore e di capre brucare i rari cespugli bruciati dal sole o pascolare tra la spazzatura. Sul bordo della statale, ad intervalli quasi regolari, avevo notato delle casette della dimensione di una cuccia per cani con qualche fiore rinsecchito. Mi stavo sforzando di capire a cosa potessero servire, quando il mio vicino di posto mi spiegò che: “Sono lapidi di gente che è morta in incidenti stradali.” “Davvero?” esclamai, cercando di sembrare distaccato ma senza riuscirci. Erano numerosissime. Arrivammo a Pisco dopo circa quattro ore. Mentre aspettavo che l’autista tirasse fuori il mio zaino dalla pancia dell’autobus mi accorsi che quella coppia di turisti piena di tatuaggi e di piercings, che era stata seduta per tutto il viaggio pochi posti davanti a me, era di Bergamo. Avevo scambiato il loro dialetto per un idioma finnico o gallese. Dal momento che avevano solo tre settimane a disposizione, una volta atterrati a Lima si erano affidati ad un’agenzia che aveva organizzato per loro un tour completo con autobus e alberghi già prenotati. Non dovevano far altro che seguire il programma attentamente predisposto per loro, con un occhio all’orologio e la speranza che non succedessero imprevisti. La tipica vacanza a scadenza per tornare a casa più stressati di prima, insomma. Presi alloggio nei pressi di Plaza Belén, poi tornai alla stazione degli autobus della Ormeño per informarmi sugli orari. Più tardi incontrai i connazionali che passeggiavano spaesati per Plaza de Armas. Decidemmo di sfuggire al caldo con una bella birra gelata. In quei giorni mi stava spuntando un dente del giudizio. Avevo la gengiva talmente gonfia che riuscivo ad aprire la bocca solo quel tanto da far passare un dito, e solamente fino alla prima falange. Mi avevano detto che non avevo giudizio, ma non c’era mica bisogno di torturarmi così tanto! E pensare che me ne mancavano ancora due metà. Mi accontentai di bere, mentre guardavo i due divorare di gusto una profumatissima insalata di pesce. “Tu non mangi?” mi chiese Simona. “Nooo, non ho fame” risposi sbavando, sperando che le andasse di traverso. Forse era meglio così, ero ancora oberato dal santo Natale: una festa che consiste in una super abbuffata per dimenticare l’ansia di aver dovuto per forza fare dei regali stupidi ed inutili, ci si sente tutti buoni, si tagliano migliaia di abeti per seguire una consuetudine di cui non c’è traccia nella tradizione religiosa e nel pomeriggio si va al cinema a guardare dei film idioti. Una dieta forzata non poteva farmi che bene. Gironzolammo per il mercato, più vivo e colorato rispetto a quello che avevo visto a Lima. Niente come l’odore che si spande nell’aria mi ricorda di essere altrove. Gli aromi, le fragranze indescrivibili e gli olezzi che si levavano dai banchi di pesce, di frutta e di verdura ci investivano con tutta la carica della loro estraneità. Ci sedemmo a riposare in un cantuccio ombreggiato di Plaza de Armas. Poco dopo, quatto quatto, si avvicinò un tizio. Il suo abbigliamento elegante era decisamente fuori luogo e sicuramente inadatto al calore insopportabile. Si trattava di un ex professore, allontanato dall’insegnamento per ragioni politiche. Ci intrattenne per più di un’ora con un’analisi pungente e feroce sulla politica del presidente Alberto Fujimori, chiamato el chino per le sue origini giapponesi. “Tutti sono convinti che stia governando bene, perché è riuscito a ridurre il disavanzo pubblico e a frenare l’inflazione. Ah beh, ma sono capaci tutti. Ha svenduto tutte le nostre ricchezze! La gente è ignorante, vede solo dove gli arriva il naso. Privatizzazioni le chiama. Per me sono furti legalizzati. E’ vero che ci sono più soldi in giro, ma non ci sono mica piovuti dal cielo. Miniere, legname, industrie, pesca: ha svenduto tutto. E’ come uno che vende una casa per cento dollari e poi dice: «Caspita, sono ricco: ho cento dollari!» senza considerare che non ha più la casa e che ci ha guadagnato una miseria.” Parlava forbito con l’eloquenza di un oratore, la sagacia di un giornalista e la mordacia di una comare. Alla fine, avvilito, ci disse: “Normalmente non ve l’avrei chiesto, ma mi trovo in un momento difficile, non avreste qualcosa da darmi?” Gli regalammo qualche moneta. Ci ringraziò e andò via mascherando l’orgoglio ferito. I porticati della piazza circondati dal deserto potevano sembrare il set di un film western. Ma la cittadina in sé non aveva nulla d’interessante. Poteva solo vantarsi di avere dato il nome al distillato d’uva che avevo già avuto il piacere di conoscere a Lima. Concludemmo la cena, per me alquanto leggera, con un pisco sour, un cocktail preparato con pisco, albume d’uovo, succo di lime, zucchero e ghiaccio tritato. Quando uscimmo fuori dal ristorantino Luca si allontanò verso alcuni ragazzi. Si mise a confabulare e quindi si appartò con loro. “Arrivo subito” ci disse. Io e Simona rimanemmo lì, un po’ stupiti da questa sua improvvisa confidenza. Tornò poco dopo. “Tutto a posto. E’ come in Venezuela, solo che qui costa una cantata” ci disse contento. “Che cosa?” chiesi un po’ ingenuamente. “Bamba.” “Eh?” “Come la chiamate voi?” Espressione smarrita. “Beh, noi torniamo in albergo, vuoi venire?” Stavano in un hotel di recente costruzione vicino alla piazza, con ascensore e televisore in camera. Non mi capitò più di entrare in una stanza simile per tutto il resto del viaggio. Mentre Simona cercava lo specchio nella valigia, Luca aprì il portafogli. Tirò fuori una scheda telefonica e si mise, quasi con orgoglio, ad arrotolare mille lire. Sdraiati comodamente sui letti intavolammo discorsi senza né capo né coda. Simona faceva la segretaria in uno studio legale. Aggirai l’argomento. La prima volta che mi capitò di guardare l’ora mi accorsi con stupore che erano già le due passate. Decisi di tornare al mio misero hostal. Il giorno dopo mi sarei dovuto alzare presto. Non so se fosse stato il digiuno, l’ansia un po’ infantile della sveglia o i bagordi della sera, fatto sta che alle sei ero già in piedi. Sfruttai quella levataccia per lavare i vestiti e per farmi la doccia che non avevo potuto fare la sera prima: nel bagno dell’hostal l’acqua era disponibile solo la mattina. Veniva riscaldata per mezzo di un marchingegno dall’aspetto poco rassicurante applicato al getto della doccia. I fili elettrici pendevano senza protezione lungo i tubi arrugginiti. Quando aprii il rubinetto il marchingegno si attivò automaticamente ed iniziò ad emettere un preoccupante ronzio. La luce della lampadina si abbassò di colpo. L’acqua comunque era gelata. Alla fine ottenni una temperatura accettabile lasciandone sgocciolare solo un filo. Avrei voluto avere degli stivali di gomma per isolarmi da terra, ma mi dovetti accontentare delle ciabatte. Alle sette mi presentai in Plaza de Armas. C’erano una ventina di turisti ancora sballati dal fuso orario e dal sonno. Fra questi quattro ragazzi della provincia di Trento. Anche loro avevano a disposizione tre settimane. Cominciai a pensare che questo fosse il limite massimo consentito agli italiani per viaggiare. Nell’insolito silenzio del mattino sentimmo arrivare il pulmino dell’agenzia prima ancora che sbucasse dal vialetto alberato dietro la chiesa. Percorremmo quindici chilometri di costa, che il deserto faceva sembrare una spiaggia immensa. Ci fermammo davanti al modesto embarcadero di Paracas, dove erano ormeggiate alcune lanchas. Dopo qualche incertezza nel salire, con esilaranti scene comiche, indossammo i giubbotti di salvataggio e salpammo a tutta velocità. A metà del tragitto ci fermammo ad ammirare il misterioso Candelabro, una figura a forma di tridente alta duecento metri che spunta magicamente sopra una falesia rocciosa nella costa settentrionale della penisola di Paracas. E’ orientato sull’asse nord-sud e l’inclinazione della collina sulla quale è tracciato lo protegge dal vento che altrimenti l’avrebbe già cancellato. Il nome del luogo deriva infatti dai forti venti, paraqa, che qui soffiano costantemente. “Serviva da orientamento per le barche, dal momento che si può vedere solo dal mare” ci spiegò il timoniere. Probabilmente non ci credeva neanche lui, ma era una storia che raccontava regolarmente ai turisti. Si pensa piuttosto che rappresenti il cactus allucinogeno San Pedro o la Croce del Sud. Proseguimmo in mare aperto in direzione delle isole, alzando alti spruzzi di schiuma bianca. Più ci avvicinavamo e più mi aumentava il mal di mare. Quando finalmente arrivammo alle Islas Ballestas, ci sembrò di essere capitati dentro un documentario. Pellicani, sule, cormorani, gabbiani e avvoltoi volavano vorticosamente sopra di noi lanciando striduli richiami. Ma più numerosi erano quelli che tappezzavano le pareti di roccia vulcanica a picco sul mare. Colonie di pinguini di Humboldt scappavano sugli scogli spaventati dalla nostra intrusione. Decine di leoni marini poltrivano su piccole spiaggette o sulle rocce a pelo d’acqua. Qualcuno incuriosito veniva a nuotare intorno al nostro scafo per osservarci con la sua tenera espressione. L’acqua era trasparente ed invitante. Avrei fatto volentieri un tuffo, se non altro per sottrarmi al nauseante rollio della barca. Gli uccelli marini, che trovano alimento nei favolosi banchi di pesce delle correnti che lambiscono la costa, hanno da tempo immemorabile accumulato sulle isole montagne di escrementi ricchi di nitrati, di fosforo e di azoto. Il guano, che si conserva puro per mancanza di piogge, veniva sfruttato come fertilizzante già all’epoca degli incas. I depositi accumulati nei secoli vennero saccheggiati nell’arco di dieci anni, finché non si scoprì che le proprietà del salnitro erano addirittura maggiori. Lo sfruttamento del salnitro si estese rapidamente fino alla provincia boliviana di Antofagasta. Nel 1879, quando il governo della Bolivia decise di applicare una tassa alle compagnie inglesi che saccheggiavano il salnitro, l’esercito cileno invase la provincia e non se ne andò più via. Il Perú, per compensare la perdita dei giacimenti di salnitro di Tarapacá conquistati dal Cile, cominciò a raccogliere il guano della costa nord, finché nel 1960 il boom della farina di pesce, utilizzata per ingrassare maiali e galline americane ed europee, privò le colonie di uccelli marini del loro nutrimento. Per colpa di questa politica avventata il Perú ha visto ridursi considerevolmente le proprie risorse sia di pesce che di guano. Il viaggio di ritorno fu tragico e quando finalmente posai i piedi sul molo continuai a seguire il movimento della barca. Mi ci volle mezz’ora per riprendermi. Per alcuni l’escursione finiva lì. Agli altri la guida concesse due ore di libertà prima di riprendere il giro. Tra il dente maledetto e lo stomaco sottosopra saltai il pranzo. Non mangiavo da due giorni. Il porticciolo di Paracas era un posto molto tranquillo, con una lunga spiaggia di sabbia, palme flessuose e qualche ristorantino in riva al mare costruito con assi di legno. I maniaci della tintarella sopportavano stoicamente la temperatura infernale, mentre alcuni bambini giocavano allegramente nell’acqua. I pescatori sulle barche riparavano le reti, circondati da stormi di chiassosi gabbiani e di pellicani. Un leggero venticello ci allietava l’olfatto con un pungente lezzo di pesce. Era davvero suggestivo vedere il mare lambito da colline desertiche. Un nero tutto muscoli con una canottiera verde pisello e un paio di pantaloni grigi al ginocchio si mise a cantare battendo il ritmo su un cajón, un particolare strumento di legno su cui stava seduto. Questa zona costiera ha una considerevole popolazione nera, per la maggior parte costituita dai discendenti degli schiavi costretti a lavorare nelle miniere. Alla fine dell’esibizione fece il giro dei tavoli dei ristoranti, investì le mance in birre e si sedette con alcuni amici a suonare per proprio diletto. Salimmo sul pulmino e ci inoltrammo nella Península de Paracas. Chi vedesse oggi le dune desertiche ed inospitali che circondano il Cerro Colorado non immaginerebbe di certo che millecinquecento anni fa qui sorgeva una fiorente civiltà. Nel sito di Paracas Necrópolis furono rinvenuti i resti di quattrocento uomini anziani mummificati naturalmente grazie al clima secco del deserto. Erano avvolti in diversi strati di tessuti, considerati i più belli delle Americhe precolombiane. Nel Museo Rafael Larco Herrera di Lima ho visto una stoffa di Paracas che ha circa centosessanta fili per centimetro quadrato, un lavoro impressionante. Lasciate le sabbie ricche di storia, ci dirigemmo verso un punto panoramico in cima ad una scogliera. Sotto si trovavano le formazioni rocciose conosciute come La Catedral, per via delle guglie e delle grotte simili a finestroni gotici. Sulla spiaggia chilometrica battuta da spumosi cavalloni c’era solo qualche pescatore che tirava a riva le reti. Terminammo l’escursione a Lagunillas, un piccolo villaggio situato nella parte meridionale della penisola. Tutti si precipitarono in acqua. Io salii su un basso promontorio che separa la baia dal mare aperto. Il paesaggio sembrava irreale. Da una parte l’oceano bruciato dalla sabbia del deserto, dall’altra una graziosa insenatura dove erano ancorate piccole imbarcazioni che proiettavano la loro ombra sul fondo marino. Il forte contrasto tra il grigio oro della sabbia e il blu profondo dell’acqua rispecchiava l’essenza di questo luogo agli antipodi del mondo. “Scusa, ci fai una foto?” mi chiese una ragazza. Dimostrava diciotto anni, quindi ne aveva sicuramente meno. “Claro, dai qua.” Si mise in posa con due amiche sul muretto che delimitava il belvedere e scattai. “Anch’io. Anch’io” insistettero le altre. E così ripetei l’operazione con le loro macchine fotografiche. “Non vuoi farne una insieme a noi?” mi propose, rubandomi il fiato con lo sguardo. Come potevo rifiutare. Mi posizionai tra lei e un’altra e la terza ci immortalò con la mia vecchia Fujica. Un attimo prima che scattasse le abbracciai. La foto venne tutta mossa, perché non se l’aspettavano. Nessuna volle mancare e così mi sacrificai a posare per tutte e tre. Terminato il servizio fotografico scendemmo alla spiaggia. Mentre camminavamo mi tempestavano di domande: “Come ti chiami? Da dove vieni? Che lavoro fai? Quanti anni hai? Sei sposato? Hai la fidanzata?” Non ero pronto a fronteggiare tutta questa irruenza. Erano studentesse in gita con la classe prima dell’inizio della scuola. In spiaggia mi ritrovai improvvisamente circondato da una ventina di ragazzine in costume da bagno. Tre di loro, per unirsi al resto della classe, abbandonarono al proprio destino una tedesca del mio gruppo, che stavano aiutando a togliersi dal piede una spina di riccio. Posai per innumerevoli foto ricordo e tradussi in italiano delle frasi d’amore. “Ti piace la musica?” mi domandò una. “Mmm, sìì, dipende.” “Conosci Eros Ramasoti?” “Purtroppo.” “E Nek?” mi chiese un’altra, cominciando a canticchiare Laura se fue, che impazzava in quel periodo. “Ho cambiato idea, non mi piace la musica.” Mi chiesero di togliermi gli occhiali da sole. Un misto di ammirazione e di delusione salutò la vista dei miei banalissimi occhi marroni. A saperlo mi sarei messo le lenti a contatto azzurre. “Ti piace la nostra professoressa? E’ soltera.” Le crearono il vuoto intorno. Ci guardammo un po’ imbarazzati. Era una donna di circa quarant’anni, che sorrideva rassegnata come se fosse abituata a subirne di ogni dalle sue allieve. Decisi di giocare in contropiede: “Senza offesa, ma preferirei una di voi.” Qualcuna arrossì, le altre tra sorrisini e sguardi ammiccanti insistevano: “Chi?” “Be’, non posso dirlo, ma la fortunata avrà già capito, no?” “Domani sera vieni in discoteca con noi?” “Dove?” “A Chincha.” “Mmm, veramente sono diretto dall’altra parte.” “Su, dai, ti prego.” Una di loro mi lasciò perfino il suo numero di telefono. Senza che glielo avessi chiesto! Normalmente dovrei supplicare in ginocchio. Mi accompagnarono fin sotto il pulmino e ci salutammo con la promessa di rivederci l’indomani. Fino a Pisco dovetti far finta di leggere per non incrociare gli sguardi di scherno dei miei compagni di viaggio. Il giorno dopo, quando la temperatura non era ancora arrivata a livelli insopportabili, andai alla stazione degli autobus alla ricerca di un mezzo che passasse dalle rovine di Tambo Colorado. Incontrai i quattro trentini in partenza per Nasca. Mi confermarono di aver portato i miei saluti a Luca e a Simona. Dopo l’escursione li avevo cercati in albergo, ma erano già partiti senza che fossi riuscito a salutarli. Forse era meglio così. In quei mesi dissi addio a troppe persone. Amici di una notte, ricordi di una vita. In Plaza de la Compañía una meticcia di mezz’età sedeva completamente nuda su una panchina. Ci guardammo sbigottiti. La gente del posto ormai non ci faceva più caso. “E’ matta” ci dicevano, “ma non è pericolosa. Vedrete che fra un po’ arriva la suora e la riporta dentro.” Chissà perché la diversità viene sempre associata alla pericolosità. Il bigliettaio non aveva voglia di rispondere, o non capiva davvero nulla. Tre ragazze di Lima avevano intuito dalle mie domande che volevo andare a Tambo Colorado. Mi vennero in aiuto: “Anche noi stiamo andando là, se vuoi possiamo fare il viaggio insieme.” Il sito sorge di fianco alla strada per Ayacucho e Huancavelica, ad una cinquantina di chilometri da Pisco. Avevano saputo che dalle parti del mercato partivano frequenti minibus diretti in quella direzione. Passeggiammo per le bancarelle colme di prelibatezze e alla fine individuammo una serie di minibus parcheggiati uno dietro l’altro. I minibus non hanno orari, partono quando sono pieni. Ma non dovemmo aspettare molto. Ci sistemammo alla bene e meglio su un catorcio che, costruito per dodici persone, ne trasportava chissà come venti. Risalimmo la valle del Río Pisco, una lunghissima striscia verde in mezzo al deserto sterile. Campi di cotone si estendevano fino alle montagne, residuo della monocoltura neocoloniale che ha fatto la ricchezza dei latifondisti, la schiavitù di un popolo e lo scempio del territorio. Chilometri e chilometri di cotone a perdita d’occhio, intervallati qua e là da qualche campo di angurie e di alberi di mele. Un gruppo di contadini con pale e picconi scese in mezzo alla campagna per recarsi al lavoro. Due bambini con voluminosi fasci di erbe sfruttarono un passaggio per abbreviare il faticoso cammino. Tambo Colorado è uno dei primi siti inca della costa. Tambo è il nome con cui erano chiamati i caravanserragli, composti da una locanda e da un mercato, posti sulle principali vie commerciali. Il nome è dovuto al colore rosso che si intravedeva ancora su alcuni muri di adobes. Dopo la visita le ragazze mi proposero di andare al fiume. Crogiolarmi al sole come le lucertole non è mai stata la mia passione. Inoltre non sapevo come avrebbero reagito nel vedermi rimanere in mutande. Per qualche stravagante mancanza di intuito quella mattina, preparandomi per visitare delle rovine in mezzo al deserto, avevo dimenticato il costume da bagno. Potevo raccontare che l’ultima tendenza europea era il costume adamitico, ma poi rinunciai. Le salutai e fermai un micro sulla strada. Durante il tragitto mi lambiccai il cervello per decidere se proseguire o se tornare a Chincha. Ci riflettei a lungo. Decisi di proseguire. Ancora adesso, quando vedo le foto e il numero di telefono sul diario, mi do dell’idiota. Mi consolo pensando che quel giorno di ritardo non mi avrebbe fatto vivere certe avventure e conoscere certe persone. Forse il destino aveva voluto così. La Panamericana si allontanava dall’oceano e puntava verso l’interno salendo leggermente di quota. In un paio d’ore coprimmo gli ottanta chilometri che separano Pisco da Ica. Ica si trova a quattrocento metri sul livello del mare e grazie a quest’altitudine possiede un clima più asciutto e fresco. Ma continuavo a guardare con desiderio le Ande maestose ad est. E anche con un po’ di apprensione per la verità, perché non mi ero mai spinto a quelle altitudini. Il Río Ica, grazie all’apporto di limo ceduto dalle montagne, crea una lussureggiante oasi tappezzata di vigneti. L’industria del vino è ben avviata e qui il pisco viene prodotto in quantità maggiore rispetto alla città omonima. Andai a piedi al Museo Regional per ammirare la bella collezione di mummie e di crani trapanati. Distava un paio di chilometri dal centro. Al ritorno preferii prendere un mototaxi, uno dei tanti trabiccoli artigianali costituiti dalla parte anteriore di una motocicletta e da una cabina con due ruote attaccata dietro. L’interno della cabina era rivestito di rassicuranti santini e di immagini sacre. Al primo sorpasso azzardato su due ruote mi venne il dubbio che il taxista confidasse più in un aiuto divino che nella sua abilità per condurre i passeggeri a destinazione. Ad un semaforo rosso colsi l’occasione per mettermi in salvo e mi affidai alle gambe per tornare sano e salvo in Plaza de Armas. Mi sdraiai per terra all’ombra di un porticato, chiedendomi se valesse veramente la pena di sborsare l’assurda cifra di cinque dollari per visitare il Museo Cabrera. Questa classica postura da turista che consulta la guida non passò inosservata. Infatti si avvicinarono subito quattro ragazzi. Studiavano alla scuola di turismo della città, ma venivano da altre zone del Perú. I classici studenti fuori sede, allegri e spensierati. Per soddisfare la crescente domanda del turismo internazionale c’era una forte richiesta di operatori turistici con una buona conoscenza dell’inglese e loro coglievano ogni occasione buona per fare un po’ di pratica. Mi divertiva l’idea di essere stato ormai consacrato in questo ruolo. Mi portarono a visitare la loro scuola. L’edificio piuttosto piccolo era gremito di studenti che andavano e venivano in mezzo ad una confusione pazzesca. Aiutati da altri compagni di corso mi insegnarono una frase volgare e ingiuriosa per ogni occasione. Ma rimasero stupiti dalla mia inaspettata e profonda conoscenza della materia. “Hai mai bevuto il pisco?” mi chiesero. “Sì, a Lima qualche giorno fa.” “Naaa, ma lì non è buono. Qui invece lo producono, devi assolutamente assaggiarlo.” Tornammo in piazza e comprai una bottiglia in una delle tante licorerías. Ce la scolammo sull’auto di Berly mentre uscivamo dalla città. Fuori era già diventato buio. Percorremmo strette stradine di campagna e finimmo la corsa nel parcheggio di un edificio isolato. C’erano molte macchine ed un sospetto viavai di gente. Il pisco cominciava a fare effetto e schiamazzando varcammo la porta d’ingresso su cui era accesa una luce rossa. Diverse stanzette si aprivano su entrambi i lati di un lungo corridoio male illuminato. Davanti alle porte alcune signorine in abiti succinti e lingerìe facevano brutta mostra di sé. “Ma è un bordello!” pensai ad alta voce. I quattro mi guidarono nei meandri tenebrosi di quella casa di piacere. “Ti piacciono?” mi chiedeva continuamente Fernando, dandomi delle gomitate sul fianco. Le ragazze un po’ in carne e decisamente sfiorite ci guardavano annoiate, sapendo che nessuno di noi aveva i pochi soldi necessari per un appuntamento. Il mio profilo da ricco turista, per fortuna, passava inosservato nella luce soffusa. Fernando era assatanato e si fermò a scambiare qualche parola con la favorita, una bionda ossigenata con uno striminzito body bianco che rischiava pericolosamente di scoppiare sotto la spinta di numerosi rotoli di ciccia. L’ambiente non era losco, di più. Quando uscimmo rimasero un po’ delusi dalla mia incredibile astinenza. Mi avevano portato fin lì sicuri che ne avrei approfittato. Per deformazione professionale si stavano comportando come delle perfette guide turistiche. Proseguimmo nella stessa direzione e poco dopo arrivammo a Huacachina, una piccola località annidata tra enormi dune. Mi spiegarono che durante il giorno si potevano affittare delle tavole per fare surf sulla sabbia. Di notte invece era tranquilla. Ci sedemmo in un bar all’aperto di fianco ad un laghetto, che insieme alle dune è la principale attrattiva del luogo. Il barista, da vero intenditore, capì subito che volevamo qualcosa di economico ma dalle prestazioni elevate: minima spesa e massimo risultato. Rovistò in uno scaffale impolverato e tirò fuori una confezione incellofanata che conteneva una bottiglia di rum ed una di Coca-Cola. Geniale. Mi insegnarono il loro brindisi preferito: “Arriba, abajo, al centro y adentro” e a muovere il bicchiere alternativamente in alto, in basso, al centro e giù nel gargarozzo. Continuammo così finché le bottiglie non finirono. Qualche tavolino più in là riconobbi un’inglese che aveva partecipato con me all’escursione alle Islas Ballestas. Alzai il bicchiere e le lanciai un sorriso da lontano. Rimase molto colpita dalla mia capacità di calamitare con sorprendente facilità la gente del luogo. Sempre più allegri facemmo un giro intorno alla laguna. Mentre gli altri prendevano a calci una rumorosissima lattina di birra, Berly mi raccontò la leggenda di quel posto: “C’era una volta una principessa bellissima che viveva da sola lontano dalla città e che aveva l’abitudine di fare il bagno alla luce della luna. Una notte, mentre si stava guardando allo specchio, si accorse che un cacciatore la stava spiando con intenzioni non proprio principesche. La giovane si mise a correre impaurita. Il lenzuolo che aveva indosso le cadde e si trasformò nelle dune di sabbia; subito dopo le cadde anche lo specchio che venne tramutato nella laguna. Alla fine la principessa, per sfuggire al cacciatore che seguitava ad inseguirla, si tramutò in sirena. Adesso, ogni notte di luna piena, la sirena esce dal fondo della laguna per cantare le sue melodie e per colpire tutti gli uomini che incautamente si arrischino ad immergersi nelle sue acque.” La luna bagnava la laguna di un morbido splendore. “Quindi niente bagno stanotte?” gli domandai. “Non te lo consiglio.” Berly mi fece guidare la sua auto. Esaltati dalla mia perizia al volante, tra sgommate e freni a mano arrivammo in un altro locale. Sul momento non pensai minimamente alle conseguenze a cui sarei andato incontro se per sfiga mi avessero fermato mezzo sbronzo, senza patente, alla guida della macchina di un altro più sbronzo di me. Mi parve invece una buona idea offrire un giro di birra. Ci sintonizzammo subito sul livello etilico di un gruppo di turisti molto eterogeneo, composto da uno statunitense, un panamense, un tedesco ed un austriaco. Gustavo lanciò l’idea della discoteca. Non ero più in grado di decidere, sarei andato ovunque. Si aggregò anche l’austriaco, che ci seguì con l’auto che aveva affittato a Lima. In discoteca persi il conto delle jarras di birra che ci portarono al tavolo. Ormai era tardi e le note indiavolate della cumbia avevano lasciato il posto a quelle tranquille del huaiño. In pista adesso si ballava a coppie e Eduardo non si perdeva una canzone. Improvvisamente Berly e Fernando sparirono. Non mi sentivo per niente tranquillo, pensando allo zaino che avevo lasciato nel bagagliaio della macchina. E invece ricomparvero più tardi insieme a due ragazze. Le accompagnarono al nostro tavolo. La mora iniziò a guardarmi e a sorridermi. Ormai avevo capito che se sei un gringo diventi immediatamente desiderabile, qualunque sia il tuo aspetto. “Vuoi ballare?” le sussurrai. “Certo, speravo che me lo chiedessi” mi rispose languida. Ero troppo esaltato. Però mi sentivo stranamente impedito a seguire la musica ed i suoi movimenti. Mi sembrava che il pavimento fosse fatto di gomma. Tornammo a sederci e per poco non inciampavo nei gradini che delimitavano la pista. Sul divanetto l’austriaco ci stava provando con la bionda. Le birre erano finite e la serata volgeva al termine, così ci accordammo per tornare in albergo. In macchina la ragazza mi abbracciò e cominciò a strusciarsi. “Vuoi venire su da me?” le proposi. “Certo, speravo che me lo chiedessi.” “Mi esalta” pensai, “perché ha sempre una risposta pronta per ogni circostanza.” Fernando urlò e mi incitò per tutto il tragitto. Svegliammo il portiere nero. Mi fece un sorriso sgarbato e mi lanciò le chiavi della camera. Quando richiusi la porta, la ragazza mi sussurrò: “Cincuenta soles, querido.” Tra le nebbie dell’alcol un lampo mi schiarì la mente. Adesso capivo l’uscita di Berly e di Fernando. Ero scandalizzato, è ovvio, ma che cosa potevo fare? Quella fanciulla così disponibile avrebbe pensato che dopo aver gradito le sue attenzioni adesso non mi importasse più niente di lei. “Ho aiutato tanti baristi, dovrò pur fare qualcosa per questa povera ragazza, no?” pensai filantropicamente. Non potevo deludere chi aveva creduto in me sin dall’inizio. Una colata di cemento mi pressava la testa. Gli impulsi che il mio povero cervello mandava al corpo non riuscivano ad oltrepassare il collo. Ero cosciente, più o meno, ma paralizzato. Le mie funzioni intellettive funzionavano con la fluidità di un ingranaggio arrugginito lubrificato con la sabbia. Provai ad aprire gli occhi. Una stanza anonima e sconosciuta mi girava tutt’intorno. “Che diavolo ci faccio qui?” mi domandai sofferente. Sul pavimento lurido le inconfondibili tracce della notte passata confermarono i miei timori. “Non era un sogno, allora” pensai. Ero troppo devastato per rallegrarmene. Mi ricordai che gli altri avevano programmato per il pomeriggio un giro delle aziende vinicole e delle distillerie di singani, una specie di grappa. Mi venne male. Con uno sforzo disperato cacciai dentro lo zaino tutto ciò che non sembrava appartenere all’hostal. Non ci voleva molto: c’era soltanto il letto. Ma ci dovetti pensare su prima di decidere di lasciarlo lì. Mi dispiaceva andare via senza salutarli, ma volevo raggiungere al più presto le montagne. Non ne potevo più di quel caldo debilitante. Il fegato, inoltre, mi suggeriva che non avrei potuto reggere un’altra nottata del genere. Avevo urgente necessità di cambiare dei soldi. Era sabato e le banche erano chiuse. In piazza vidi un cambiavalute ambulante. L’ultima volta che avevo cambiato in nero, otto anni prima a Varsavia, un prestigiatore mi aveva contato davanti agli occhi seicentottantamila złotych. Dopo che se ne era andato li avevo ricontati e ce n’erano solo ottantaseimila! Le banconote erano quasi uguali, di colore blu, e tutti quegli zeri mi avevano confuso. Non avevo più intenzione di farmi fregare. L’ometto mi guardò stupito quando provai ad assumere un atteggiamento risoluto del tipo “Non sono nato ieri” e mi chiese quanto volessi cambiare. Digitò il suo tasso di cambio su una calcolatrice tascabile. Più o meno era quello praticato dalle banche. Accettai. Tirò fuori un grosso fascio di banconote e cominciò a contarle. Quando raggiunse la cifra concordata me le porse. Le contai nuovamente, controllandole una ad una. Tutto regolare. Gli diedi i miei dollari e mi incamminai sofferente verso il parco situato all’estremità occidentale di Avenida Salaverry, dove erano raggruppate le principali autolinee di seconda classe. Salii al volo su un minibus diretto a Nasca. Ica entrava già nelle pagine del passato nel libro del mio viaggio. Di quella città non mi restano che ricordi annebbiati. Viaggiare in quelle scatole di sardine a pieno carico non è mai un’esperienza piacevole. Nelle condizioni in cui mi trovavo era addirittura infernale. Aprii il finestrino per respirare un po’ d’aria. L’autista imprecò, dicendo che adesso sarebbe stato impossibile richiuderlo. Feci finta di non capire: recitazione che mi riusciva perfettamente. La Panamericana saliva lentamente, affiancata da due file di rifiuti che l’accompagnavano ininterrottamente sin da Lima. A Nasca trovai alloggio in un hostal situato nei pressi delle autostazioni. Tra le altre cose si occupava di organizzare le escursioni aeree sui geoglifi. Prenotai un volo per il pomeriggio: pagamento in dollari americani. Protestai, rammentando all’impiegato che non ci trovavamo negli Stati Uniti. Mi ringraziò per l’informazione. Volendo si poteva pagare in soles, peccato che col tasso che applicavano ci avrei rimesso, peggio che alla casa de cambio dell’aeroporto di Lima. All’uscita incontrai i ragazzi di Trento. Stavano giusto andando a mangiare e mi invitarono ad unirmi a loro. Il dente non mi doleva più, però avevo lo stomaco capovolto. E siccome sto male perfino sull’altalena, preferii stare leggero. “Hai già visto le linee?” “No, sono appena arrivato.” “Noi ci siamo stati stamattina, vacci perché meritano.” “Ci vado oggi pomeriggio.” “Ahi ahi, nel pomeriggio si alza il vento. Ci sarà da ballare, auguri.” Simulai indifferenza. E ci riuscii benissimo, perché non avevo la forza neanche per disperarmi. Il pulmino dell’agenzia ci portò al piccolo aeroporto, dove ci aspettava un Cessna monomotore da sei posti. Avevo già avuto una pessima esperienza in Grecia con questi macinini volanti. Mi feci coraggio ed entrai a bordo. Insieme a me salì una famiglia di francesi, simpatici come un’unghia incarnita. Guardai fuori dal finestrino. La maggior parte dei famosi geoglifi si trova in una porzione di deserto compresa tra il Río Ingenio a nord e il Río Nasca a sud, a seicento metri sopra il livello del mare. Decine di figure zoomorfe, geometriche e linee rette sono sparpagliate sui letti fossili di antichi corsi d’acqua, senza alcuna logica apparente. Nessuno conosce la loro funzione, né quando sono state tracciate. Quando cominciammo a prendere quota, sotto di noi apparvero la balena, l’astronauta, la scimmia dalla buffa coda arricciata – qualcuno pensa che si tratti in realtà di un puma – e il colibrì. Una stomachevole virata verso destra ci fece sorvolare la Panamericana e ci portò sopra il favoloso airone dal collo di serpente, lungo quasi trecento metri. E’ chiamato anche uccello annunciatore dell’Inti Raymi, perché il suo becco lungo quanto il corpo punta nella direzione in cui sorge il sole nel solstizio d’inverno. All’altezza dello squalo voltammo nuovamente a destra, girammo attorno ad uno strano miscuglio di pesci e di triangoli sparsi accanto ad un pellicano e sorvolammo la strada per la seconda volta. Virammo a sinistra all’altezza del ricinulei, il rarissimo ragno amazzonico rappresentato fedelmente con l’organo riproduttore nell’estremità della zampa destra, particolare visibile solo al microscopio, e sorpassammo un cóndor gigantesco. Proseguimmo sorvolando la lucertola, l’albero, il cane ed uno strano paio di mani. Tre autobus di turisti sostavano davanti alla torre d’osservazione eretta su un lato della Panamericana. La volle Maria Reiche per permettere a tutti di ammirare i disegni senza danneggiarli camminandoci sopra. Il pilota continuava a piegarsi sui fianchi per permetterci di vedere meglio, ma ogni volta stavo peggio. I francesi scattavano milioni di fotografie con teleobiettivi da duecento millimetri. Ero entusiasta e meravigliato, ma non vedevo l’ora di scendere. Finalmente a terra, condivisi la nausea con una simpaticissima ragazza olandese atterrata con un altro aereo. Il suo colorito pallido non stonava affatto con la sua carnagione chiara e con la capigliatura bionda, a differenza di me che dovevo essere sembrato un dalmata. Inserendo qua e là qualche parola in italiano mi raccontò di aver vissuto due anni a Roma. Adesso invece viveva in Germania e lavorava per un’agenzia di viaggi. Tramite intrallazzi da addetta ai lavori aveva trovato un biglietto aereo scontatissimo e si era presa sette settimane per viaggiare da sola. Il comune mal d’aria ci fece entrare subito in confidenza e dopo cinque minuti eravamo già amiconi. Peccato che durò poco, perché quella sera partiva per Arequipa. Tornai in hostal per scrivere alcune e-mail. “Guarda un po’ chi si rivede.” Mi girai e riconobbi la ragazza inglese di Paracas e di Huacachina. “Ehi, mi stai seguendo per caso?” le risposi. “Ma, veramente, sono arrivata prima di te.” “Allora vuol dire che mi stai precedendo.” Andò via sorridendo e scomparve nel patio alberato. Passai la notte a combattere ad armi impari contro le zanzare. Verso le cinque, inoltre, alcuni galli cominciarono a cantare nel pollaio, che solo un muro spesso come carta velina separava dalla mia camera. Nel dormiveglia sognavo succulenti arrosti di pollo che mi sfuggivano beccandomi su tutto il corpo. Alle sette quegli stupidi pennuti non avevano ancora smesso. Mi dissero che gli autobus impiegavano dieci ore per arrivare ad Arequipa. Preferii fare il viaggio di notte. Comprai il biglietto e depositai lo zaino nella stazione della Ormeño. All’uscita mi fermai davanti ad un carretto e mi feci preparare due bicchieroni di licuados, frullati di frutta con l’aggiunta di latte che un arzillo vecchietto preparava con un frullatore collegato alla batteria di una macchina. I turisti generalmente li evitano, ma non sanno quello che si perdono. Il prezzo del volo sulle linee del giorno prima comprendeva anche l’escursione al cimitero di Chauchilla. Percorsi trenta chilometri di deserto, il pulmino si fermò davanti ad un’area recintata in mezzo al nulla, dove erano state riportate alla luce antiche sepolture in adobes. Ossa calcinate dal sole e frammenti di ceramiche e di stoffe risalenti al tardo periodo nasca erano disseminate alla rinfusa sul suolo sabbioso. Risultato dell’affannosa ricerca di oggetti preziosi da parte degli huaqueros, i tombaroli peruviani. Molti scheletri incompleti erano rivestiti di brandelli di pelle incartapecorita. Qualche teschio portava ancora lunghissime trecce di capelli castani. Erano crani maschili. Di nuovo a Nasca, sostai nel parchetto compreso tra Bolognesi e Lima. Le famigliole vestite a festa facevano la consueta passeggiata domenicale. Un giovane contadino si riposava all’ombra del suo carretto di angurie. Me ne feci tagliare un quarto. Mentre mi sbrodolavo addosso come un bambino, pensavo a come trascorrere quel pomeriggio torrido. Il fruttivendolo mi rivelò che nei pressi del paese si trovano altri geoglifi poco visitati. Mi convinse. Seguii le sue indicazioni e attraversai il ponte sul Río Tierras Blancas. Superate le rovine di Paredones passai davanti ad una casetta dove abitavano due vecchi coniugi. Un cartello scritto con della vernice nera invitava, per soli tre soles, ad ammirare un’autentica mummia nasca custodita all’interno. Un soprammobile decisamente macabro. Più avanti deviai verso un paesino di case prefabbricate. Arrancai per la stradina in forte pendenza e salii una scalinata scavata nel fianco di una collinetta. Dalla cima l’altipiano di Nasca sembrava un paesaggio lunare. In basso scorsi il disegno di una spirale che da terra non avevo riconosciuto. Un vecchio con una pazzesca cuffia di lana in testa giunse da uno dei tanti sentieri che scendevano dalle colline circostanti. Si fermò e rimase a fissarmi taciturno. Gli sorrisi. Niente, c’era solo il rumore del vento. Ero a disagio, non sapevo che fare. Si voltò a guardare quella strana figura e finalmente interruppe il silenzio: “Un tempo gli stregoni riuscivano a vedere dall’alto con gli occhi delle aquile e comunicavano a quelli rimasti a terra come eseguire questi disegni. Ma adesso quell’epoca è finita, e noi con lei. Gli scienziati pensano che siano opera degli extraterrestri, perché non riescono a spiegare come abbiano fatto a tracciarli tanto, tanto tempo fa. Per loro è più facile credere ai marziani che alla telepatia e alla magia.” Poi, così com’era venuto, se ne andò seguendo con calma e con passo fermo i gradini consumati. Quando sparì dietro la collina, di nuovo solo, non fui tanto sicuro di non averlo sognato. Scesi in basso per osservare meglio le linee. I ciottoli vulcanici scuri erano stati rimossi e ammucchiati ai lati dei solchi, lasciando esposto il fondo più chiaro di sabbia dorata e di gesso. Una volta tracciati questi disegni tendono a conservarsi quasi all’infinito, perché l’altipiano di Nasca è uno dei luoghi più aridi del pianeta, con meno di mezz’ora di pioggia ogni dieci anni. Inoltre i sassi riarsi dal sole creano un cuscinetto di aria calda capace di smorzare la furia dei venti al livello del suolo. Mi arrampicai sulle altre colline sassose sparse nei dintorni per contemplare enigmatiche figure a reticolato e a zigzag. Sulla strada del ritorno mi fermai all’acquedotto di Cantalloc, sette strutture in pietra a forma di spirale che permettono, senza l’ausilio di corde, di prendere l’acqua di falda che scorre in profondità sotto il suolo desertico, di vitale importanza in questo ambiente così secco. Queste ed altre opere idrauliche realizzate dagli ingegneri nasca sono utilizzate ancora oggi in agricoltura. Dopo il consueto pollo con arroz y papas trascorsi il pomeriggio in un bar nella zona del mercato. Sorseggiai una birra Cristal, la campeona de la calidad, nello stranissimo formato da 620 ml. Nel locale disadorno c’era un tipo solitario al secondo litro di birra, due ubriachi di mezz’età e tre sfaccendati che giocavano a carte. La radio trasmetteva la solita musica latina allegra e malinconica. Poco dopo entrò un giovane con lo stesso strambo strumento del nero di Paracas e sovrastò la musica con una lagna che rimbombava tristemente nella stanza vuota. Non gli diedi nulla per protesta. Gironzolando per la cittadina mi soffermavo a leggere tutti i murales che incontravo. Per lo più era propaganda politica per l’elezione del sindaco, ma non mancavano quelli di carattere religioso. I più curiosi erano la versione sudamericana della pubblicità progresso: Evita il colera: bevi acqua bollita, lavati le mani, non mangiare verdura e pesce crudi; Guida con cautela; Dì no alla droga; Usa sale arricchito con iodio; Allattate i neonati col latte materno; Il popolo che legge è un popolo colto, accompagnati da coloratissimi disegni esplicativi per gli analfabeti. Non esistevano tabelloni pubblicitari, tutti gli slogan venivano dipinti sui muri. Gli avvisi di casa en venta o se alquila comparivano a grandi lettere direttamente sulle case interessate. Chi le comprava o le prendeva in affitto si limitava a ricoprire le scritte con la calce. Un manifesto dell’autorità affisso sulla porta sprangata di un negozio ne motivava la chiusura per mancato pagamento delle imposte. Nella sala d’attesa dell’autostazione attaccai discorso con due ragazze inglesi, anche loro dirette ad Arequipa. Ad un certo punto entrò un tipo strampalato, con pantaloni infilati dentro stivali da neve col pelo e maglione di lana infilato nei pantaloni. Aveva tratti somatici orientali, e gli occhi a mandorla erano ulteriormente fessurati da una sonora sbornia che cercava di ingigantire con una bottiglia di pisco. Cominciò a molestare le due malcapitate, che oltretutto non capivano una parola di spagnolo. Tra una sorsata e l’altra si vantava della sua parentela con Bruce Lee. Il bigliettaio ci comunicò che l’autobus avrebbe subìto un ritardo di due ore. Era impossibile resistere così a lungo. Nell’angusta stanzetta, oltre a noi, c’era solo una meticcia con quantità impressionanti di bagagli e di bambini. Le poverine non riuscivano a contenere le sue avances, così intervenni in loro difesa. Assunsi un’aria truce e lo avvertii che una, quella che fra l’altro mi assomigliava di meno, era mia sorella e l’altra, che puntava maggiormente, la mia fidanzata. Non poteva fregargliene di meno. Si scusava, “amigo, amigo”, poi ritornava all’assalto come se nulla fosse. Anche i richiami degli addetti della compagnia non servivano a molto. Si alzò barcollando ed uscì. “Va via?” mi chiese la mora. “No, è andato a comprarvi da bere.” “Ma non vogliamo niente da lui!” “Eh, prova a dirglielo.” Tornò con una bottiglia da un litro e mezzo di Inca-Kola, ma le ragazze declinarono l’offerta. Quanto a me, avevo già dato. Alla fine dovetti tradurre quello che temevano: anche lui prendeva il nostro autobus. Erano disperate. Quando l’autobus partì, però, non lo fecero salire perché non aveva il biglietto. Tirammo tutti un sospiro di sollievo. Le ragazze si addormentarono quasi subito sotto una coperta. Io mi persi a contemplare gli oscuri profili delle montagne che via via si alzavano al nostro passaggio. Dagli Appennini alle Ande… All’alba mi svegliai di soprassalto. Il conducente aveva alzato i decibel della radio a livelli da discoteca. Si decise ad abbassare il volume solo quando, verso le sei e mezza, salì un tizio con una grande borsa a tracolla. Parlò per un’ora dei problemi legati ad un’errata alimentazione. Non capivo come potesse illudersi che a quell’ora della gente stravolta fosse dell’umore giusto per comprare i suoi integratori vitaminici a base di uña de gato. CAÑÓN DEL COLCA Smontai dall’autobus indeciso se attribuire il rincoglionimento alla notte insonne o alla quota. Arequipa, sebbene rientri nella zona desertica, si trova infatti ad un’altitudine di 2.350 metri, sulle pendici occidentali delle Ande. Presi un taxi per il centro con le due inglesi. Ci informammo presso alcuni hotel, ma erano tutti al completo. Ripiegammo allora su due sistemazioni diverse, rimanendo d’accordo di ritrovarci in piazza alle dieci per andare a colazione insieme. In perfetto stile britannico ordinarono uova fritte, salsicce, patatine, pane nero, burro, marmellata e succo d’arancia. “Non mangi?” mi chiesero. “No, non ho fame” risposi disgustato. Inondarono i piatti di ketchup e mangiarono con soddisfazione. Andammo a visitare il Monasterio de Santa Catalina, un convento che occupa un intero isolato a nord del centro. Ma finimmo inevitabilmente per perderci tra le viuzze strette e tortuose, le piazze ed i cortili di questa piccola città nella città. Arequipa è soprannominata la ciudad blanca per via dei numerosi edifici coloniali costruiti in sillar, una roccia vulcanica di colore molto chiaro. Purtroppo molti degli edifici storici sono stati distrutti dai frequenti terremoti. Le nuove costruzioni, però, si armonizzavano bene con quelle antiche. In Plaza de Armas, nonostante l’altitudine, crescevano alte palme, che si alternavano ai ficus beniamino potati in forma sferica o di tronco di cono. Dietro la massiccia Catedral incombeva la vetta conica del Volcán El Misti, alto 5.822 metri, e sulla sinistra il più frastagliato Chachani, alto 6.075 metri. Sulle montagne che circondano la città sono state rinvenute diverse mummie di vittime sacrificali inca. Nel 1995 l’archeologo americano Johan Reinhard trovò i resti di tre giovani immolati sull’Ampato a 6.288 metri di quota, e fra questi l’ormai celebre Juanita. Gli incas pensavano che le condizioni atmosferiche, la fertilità degli animali e l’abbondanza dei raccolti dipendessero dagli umori delle montagne. Per questo ancora oggi, nonostante l’imposizione cattolica, sono oggetto di venerazione. Nell’arte pittorica non è raro imbattersi in figure di santi rappresentati in una forma triangolare che ricorda quella delle sacre montagne. Le vittime erano tutti giovanissimi, perché considerati più puri degli adulti. I sacrifici umani, comunque, non furono frequenti. Tra le offerte sepolcrali vennero ritrovate figure ricavate dal guscio di spondilo, un mollusco spinoso che vive nelle calde acque al largo delle coste ecuadoriane, duemila chilometri più a nord. Evocava l’acqua, una risorsa preziosa nell’arida regione andina. “Se puoi permetterti un paio di scarpe, puoi anche permetterti una lucidata.” Questa perla di saggezza, un po’ interessata per la verità, mi fu regalata una mattina da un simpatico vecchietto. Mi convinse ad affidare alle sue mani tatuate di lucido il restauro dei miei anfibi militari. Fino ad allora ero sempre stato restio, perché lo consideravo umiliante. Ma poi capii che per questa povera gente era un modo per guadagnarsi da vivere onestamente e che i miei riguardi non potevano di certo risolvere la loro situazione. Appoggiai il piede sulla sagoma di legno che spuntava dalla cassettina delle spazzole e lui, seduto su un minuscolo sgabello a tre piedi, cominciò a lucidare con movimenti lenti ma decisi. Credo che ci restò un po’ male quando si accorse che le scarpe arrivavano fino al polpaccio, ma non si scompose e con pazienza continuò il suo lavoro. Probabilmente era uno dei pochi ormai che avevano deciso di fare quel mestiere per scelta, magari per portare avanti la tradizione di famiglia. Si vedeva nella passione e nella cura che ci metteva, nella predisposizione alla conversazione, nel gusto di stare a contatto con la gente. Dicono che si può conoscere una persona dalle scarpe che porta. Lui sicuramente ne avrà conosciuti di tutti i tipi. Tra la folla che gremiva la piazza riconobbi il classico zainetto Invicta sulle spalle di una ragazza intenta a fotografare i bambini. Veniva da Cesena e viaggiava da sola… Per tre settimane. “Non si incontrano tanto spesso viaggiatrici solitarie.” “E’ una questione di abitudine, ho girato mezza Africa da sola. Qui è abbastanza tranquillo, basta usare un po’ di testa e non ti succede nulla. Comunque è sempre meno rischioso che girare per Milano o per Bari. Ma guarda questo bambino, non è bellissimo?” Tornai in hotel per preparare lo zaino. Le camere si snodavano tra ballatoi e terrazze. E proprio su una di queste terrazze, seduta ad un tavolino, me la ritrovai davanti. “Non dirmi che sei qui anche tu?” “Ancora no. Sono arrivata stamattina e mi hanno detto che a mezzogiorno si libera una stanza.” “Quale?” “La tre.” “E’ la mia.” Il terminal terrestre di Arequipa è uno dei più grandi e caotici del Perú. C’erano talmente tante compagnie di autobus che era difficile paragonare orari, prezzi e servizi. C’erano talmente tante persone che era impossibile che in mezzo non ci fossero ladri e borseggiatori. Venditori di giornali, di bibite e di cibarie varie si aggiravano tra la folla cercando di superare con la voce il brusio incessante. Parecchi cancelli numerati immettevano nel piazzale da dove partivano i mezzi. Una guardia armata faceva passare solo chi possedeva il biglietto e la ricevuta di pagamento del derecho de terminal, una sorta di tassa d’imbarco. “E dove si paga?” gli chiesi disorientato. Sorrise e mi indicò un chioschetto: “Non ti puoi sbagliare.” Era quello con la fila più lunga. Nell’attesa che aprissero il cancello arrivarono alcuni passeggeri: un vecchio campesino con un copertone da camion consumato, due ragazzi con camere d’aria da bicicletta e relativa pompa, donne in abiti tradizionali con zucche e ceste di verdura, un bambino con un cane e un turista francese con un’iguana verde sulla spalla. Finora l’altitudine non mi aveva provocato disturbi, incrociai le dita e mi preparai a salire di quota. L’autobus era strapieno, il caldo denso e insopportabile. “Ma sono tutti fuori? Guarda un po’ quanto sono vestiti! Mamma mia come sono freddolosi da queste parti. Spero solo che andando avanti entri un po’ di fresco… Si decide a partire, mi sto squagliando!” Più o meno fu quello che pensai, unico furbo con una camicia di cotone. A Vizcachani, quattro case di fango col tetto di lamiera a 4.150 metri di quota, entrammo nel regno delle nebbie perenni. L’autobus continuava a salire in mezzo ad uno spoglio altipiano. Infine valicò il Paso Patacancia a 4.800 metri di altezza. Tra le chiazze di neve e di ghiaccio pascolavano branchi di llamas e di alpacas. Faceva un freddo da morire ed ero stordito dall’altitudine. “Maledizione a me e al piumino che ho lasciato nello zaino” sibilai invelenito e semiassiderato. Qualcuno scese in mezzo alla nebbia. Mi sembrava impossibile che in quelle lande desolate potesse viverci della gente. L’unico contatto con la civiltà era rappresentato da quella strada sterrata, che sfidava un paesaggio spettrale. Dopo una discesa spettacolare arrivammo a Chivay, millecentocinquanta metri più in basso. Chivay, chiamata Scivè dai turisti, convinti che ogni nome si debba per forza leggere come in inglese, sorge nel punto in cui le due rive del Río Colca si avvicinano tanto da poter essere collegate con un ponte. Per proteggere questo passaggio strategico gli incas costruirono delle fortificazioni, che si possono ancora osservare dall’altra parte del fiume. Nella sua corsa verso il mare il Río Colca ha scavato nei millenni un canyon tra i più profondi al mondo. Lì a Chivay, però, il fiume scorre solo una decina di metri sotto l’arcata del ponte di pietra. L’autobus ci scaricò in piazza. Per la prima volta vedevo gli indigeni nel loro ambiente naturale. I loro visi sembravano scolpiti. Lineamenti pesanti, zigomi sporgenti, mascelle forti e nasi aquilini. Erano magri per la fame, non per le diete o per il rifiuto al troppo cibo; nerboruti e muscolosi per gli sforzi nei campi e per portare acqua e legna tutti i santi giorni, non per le palestre; la pelle ‘del color de la tierra’, per usare le parole del Subcomandante Marcos, non per le lampade abbronzanti. Gli abiti tradizionali delle donne erano un caleidoscopio di colori e di lustrini. Le gonne, spesso tenute rialzate sul davanti a mo’ di grembiule, mettevano in risalto l’armonia delle tinte delle gonne sottostanti. I copricapi sono l’elemento che più diversifica le diverse comunità che vivono lungo il Cañón. Le donne collagua portano un cappello di cartapesta bianco, tipo paglietta, con appuntata sui lati una coccarda a forma di rosa se sposate, due se nubili. Quelli delle donne cabana, invece, sono a falda con colorati ricami floreali che risaltano sul fondo scuro del feltro. Parlano il quechua, la lingua degli incas. In realtà venne chiamata così dagli spagnoli, dal nome della regione delle alte valli compresa tra i 2.800 e i 3.400 metri d’altitudine e dal popolo che l’abitava. Loro invece la chiamavano runasimi. Runa vuol dire uomo e simi bocca. Era ed è una lingua orale, perché fino ad ora non sono state trovate tracce di scrittura, a parte il quipu, una serie di nodi disposti ad intervalli su cordicelle di lana o di cotone collegate ad una corda-matrice orizzontale. Bisogna tener conto del fatto, però, che questi popoli avevano schemi mentali molto diversi dai nostri e non possiamo pretendere di conoscere i loro segreti se non ci spogliamo dei preconcetti culturali. La comunicazione non deve per forza basarsi su un alfabeto così come lo intendiamo noi. Attualmente sono in fase di studio la quilca, la pittura, e il tocapo, i disegni tessili, che potrebbero forse nascondere dei codici di scrittura. “¿Alojamiento, señor?” Mi voltai. Un bambino mi stava guardando interrogativo. Diedi uno sguardo intorno. Chivay era tutta lì, circondata dalle sue montagne. Seguii la giovane guida, che mi condusse in un hostal nascosto dietro la piazza, difficilmente visibile. Un posto lontano o fuori mano deve sopperire a questi svantaggi con una maggior qualità dei servizi o con prezzi concorrenziali. E infatti mi ci trovai benissimo. I chioschetti del mercato solitamente chiudono al tramonto. In quel villaggio di montagna la regola era ferrea. Finii di mangiare alle sette e bighellonai un po’ per la piazza. Solo qualche luce accesa tradiva la presenza umana. Mi fermai. Quando si placava il vento riuscivo a percepire il rumore del miei pensieri. “Sicuramente il sabato sera c’è più vita” ridacchiai tra me e me, tremando dal freddo. Alle otto ero già a letto, sotto tre pesanti coperte di lana. Mi svegliai presto e andai a piedi alle sorgenti calde de La Calera, la fornace, che si trovano quattro chilometri più a monte. Seguii il corso del fiume costeggiando muretti a secco, macchie di cactus dalle forme capricciose e cumuli di rifiuti. Dalle montagne alcune cascate si gettavano nella valle. Alla sorgente l’acqua termale sgorgava alla temperatura di ottantacinque gradi. Opportunamente incanalata, andava ad alimentare tre piscine di differenti dimensioni per poi finire nel fiume più in basso. Si pensa che queste acque abbiano proprietà curative. Erano molto frequentate dagli abitanti della zona, anche perché era l’unica possibilità che avevano di fare un bagno caldo. L’aria era ancora fredda e impiegai non più di cinque secondi per cambiarmi ed immergermi. Nella piscina la temperatura dell’acqua si aggirava sui quarantacinque gradi. Appoggiai la testa sul bordo della vasca e mi lasciai galleggiare senza peso in quel brodo corroborante. Sentivo solo il rumore del rivolo d’acqua che si riversava nella piscina. Mi incantai ad osservare il volo di un cóndor solitario, che tracciava ampi cerchi sulle montagne in attesa del pasto mattutino. Verso le nove, quando l’aria iniziò a scaldarsi, il calore dell’acqua divenne insopportabile. Adesso capivo perché le terme aprissero alle sei e mezza. Sulla strada del ritorno incontrai tre bambini che calzavano sandali fatti con vecchi copertoni. Trascinavano con uno spago una macchinina di plastica blu. Mi vennero incontro allegri e sorridenti, trasformando la macchinina in aereo. “Propina, señor.” Propina significa mancia. Spesso si sente dire propinita, per l’abitudine diffusissima sulle Ande di parlare al diminutivo. I bambini avevano imparato ad associare il gringo col denaro e richieste del genere erano ormai la norma. Tirai fuori dallo zainetto tre matite e ne diedi una per ciascuno. Spero che abbiano imparato a scrivere. L’autobus puntava verso ovest, seguendo il versante meridionale del tratto superiore del Cañón del Colca. La polvere della strada entrava nelle fessure dissaldate della carrozzeria, saturando l’ambiente con una caligine biancastra. Dopo cinquanta chilometri arrivammo a Pinchollo. Chiesi conferma al chofer, l’autista, perché ovviamente non c’erano i cartelli di benvenuto. Mentre scaricava il mio zaino dal tetto, uno dei due ganci di chiusura rimase incastrato nel portabagagli e si ruppe. Per tutto il resto del viaggio dovetti usare un pezzo di spago per tenerlo chiuso. L’autobus ripartì in una nuvola di polvere, lasciandomi solo in quel villaggio che pareva disabitato. Pinchollo è un minuscolo villaggio di case di sasso col tetto di paglia, chiamata ichu o paja brava. Nelle viuzze sterrate delimitate da muretti a secco maiali e galline razzolavano in cerca di cibo. Sulla sommità dei muretti gli abitanti avevano steso uno strato di terra per far crescere barriere naturali di cactus spinosi. Poco dopo si affacciarono due bambini incuriositi dalla mia presenza. “Hola, sapete se c’è un alloggio?” domandai. Confabularono tra di loro e mi guidarono nella parte alta del villaggio, senza dirmi una parola. Mi indicarono una casetta in adobes col tetto di lamiera, poi corsero via voltandosi indietro coi loro sorrisi sdentati. Dietro un muretto un asino orecchiuto con gli occhi cerchiati di bianco mi guardava con un’espressione da pesce lesso. Il panorama del cañón era grandioso. Provai ad entrare. “Permesso?” Nella stanza illuminata da due finestrelle c’era un piccolo bancone di legno e vetro e un tavolino con tre sedie spaiate. Il pavimento era di terra battuta. Sulle pareti di fango erano stati inchiodati un poster della birra Arequipeña con l’immancabile ragazza nuda, due mensole con qualche bicchiere, un calendario, svariati santini, un crocifisso ed una cartina del Perú con la zona di Arequipa in evidenza: il bar. “C’è qualcuno?” gridai più forte. Entrò un ometto sui quarant’anni coi capelli nerissimi, lo sguardo intelligente e un sorriso beato che gli illuminava la faccia bruna. “Buenos días.” “Buenos, è possibile mangiare qualcosa?” gli chiesi. Le nostre parole rimbombavano nella stanza vuota. “Seguro, adesso vado ad avvertire mia moglie.” Uscì e si infilò nella casa di fianco, dove abitava tutta la famiglia. Il silenzio della montagna mi rimbombava nelle orecchie. Tornò quasi subito con l’instancabile sorriso. “Vorrei fare un’escursione al geyser, potrei lasciare qui un po’ di roba, che domani la riprendo?” “Claaaro. Vieni, ti faccio vedere.” Dietro una tenda, che divideva in due quell’unica stanza, c’era un armadio e un letto matrimoniale molto invitante con le spalliere di legno intarsiato: l’hostal. Tolsi dallo zaino tutto ciò che non mi sarebbe servito e lo riposi nell’armadio. Quella notte non avrei avuto il conforto di una bevanda calda. Non ero ancora riuscito a trovare una bomboletta di gas per il fornellino ed ora giaceva lì, vuoto ed inutile, insieme alla gavetta. Poco dopo arrivò la moglie col pranzo. Adoro i posti dove si chiede da mangiare e ti viene servito quello che c’è, senza menù né ordinazioni. Mangiai di gusto le uova con patate, pomodori e llajhua, una salsa strapiccante. La moglie cominciò a conversare, incurante del fatto che la mia attenzione fosse rivolta al piatto che stavo spazzolando a ritmi da competizione. “Da dove vieni?” “Italia.” “Sei in vacanza?” “Sì.” “Ti piace il Perú?” Era inutile, non mollava. “Sì, anche perché in Italia adesso è inverno e c’è un freddo porco, qui invece è estate.” “Anche qui è inverno” mi fece notare. Mi spiegò che nelle Ande la stagione secca, che va da giugno ad agosto, viene chiamata estate, mentre la stagione umida, che va da dicembre ad aprile, benché più calda, è considerata inverno. Non ci capivo più niente. Nel medesimo Paese quando sulla costa è estate in montagna è inverno e viceversa… Ripresi a mangiare. Mi preparai a partire. Il marito tornò dalla cucina con una bottiglia di plastica da un litro e mezzo leggermente deformata, piena fino all’orlo di un liquido verdognolo ancora caldo: “Mate de coca. E’ buono per la salita” mi disse soddisfatto. Lo ringraziai. Mi indicò la direzione da seguire e mi salutò, augurandomi buona fortuna. All’inizio il sentiero saliva ripido tra muretti e terrazze coltivate. Poi, sopra i quattromila metri, si inoltrò nella puna, l’arida prateria ricoperta di cespugli tipica delle Ande centromeridionali. Mi voltai ad ammirare il Cañón del Colca. Il nome deriva dalla parola quechua q’olqa, che indica un gruppo di stelle delle Pleiadi. Il fiume ovviamente non si vedeva, ma si poteva riconoscere la profonda fenditura da cui si innalzavano massicci ricoperti di neve. Su queste montagne la zona delle nevi perenni rimane al di sopra dei 4.500 metri. La presenza umana era limitata a qualche isolata capanna di pastori. Aprii la bottiglia e bevvi un sorso di mate. Sapeva vagamente di camomilla. Il percorso diventava confuso, mescolandosi ai numerosi tratturi tracciati dalle mandrie e dalle greggi. Continuavo a seguire la cima innevata del Nevado Hualca Hualca, che con i suoi 6.025 metri di altezza era un faro in quel mare montagnoso. Superai un acquedotto di cemento e risalii un canalone erboso, dove pascolavano mandrie di mucche e di cavalli. Ero esausto. Non riuscivo a fare più di cinque passi consecutivamente senza fermarmi a riprendere fiato, nonostante avessi quasi finito la bottiglia. Mi venne incontro il mandriano, preoccupato dalla mia insolita presenza. Mi indicò la direzione giusta, ma rimase sospettoso. Gli riusciva difficile credere che fossi arrivato fin lassù solo per vedere uno stupido fenomeno vulcanico. Dopo circa tre ore dalla partenza arrivai al geyser. Tutta la zona era interessata da una forte attività geotermica. Nel letto del ruscello, che alimentava l’acquedotto più in basso, un’impressionante fonte di calore proveniente dal cuore infuocato della Terra creava un getto continuo di vapore che si innalzava per circa trenta metri. Piazzai la tenda sulla sponda rialzata del ruscello, di fianco ad alcune pozze di fango bollente. Provai la sensazione unica di essere solo in capo al mondo. Be’, proprio solo no, perché in lontananza, nell’estremo azzurro del crepuscolo, riconoscevo la sagoma di qualche mucca stagliarsi sulla cresta che divideva il canalone dal ruscello. Non si è mai soli nella natura. Nelle città invece, lì sì che c’è solitudine. Parlai con le montagne, ascoltai i fischi del vento e il gorgoglìo dell’acqua. Ero talmente stanco che non sentivo neanche la fame. Ed era una fortuna, perché non avevo portato nulla da mangiare. Anche dentro la tenda continuavo a sentire l’odore di zolfo e il rumore come di caffettiera del fango che ribolliva. Il sole stava calando. Sentivo alle spalle della mente il peso del sonno e non feci proprio nulla per resistergli. Mi svegliai prima dell’alba. “Beh, dai, non c’è stato poi tanto freddo, pensavo peggio” considerai soddisfatto, impupato nel sacco a pelo di piumino. Uscii dalla tenda: era ricoperta da un dito di ghiaccio! La piegai un po’ alla buona e cominciai la discesa. Vicino all’acquedotto mi tagliò la strada un taruca, un cervo maschio con un superbo palco di corna. Appena mi vide scappò via spaventato. Seguii la sua corsa, contemplando meravigliato quel santuario montano ancora incontaminato. Arrivai a Pinchollo alle sette e mezza e per prima cosa misi la tenda ad asciugare nello stenditoio dietro l’hostal. Lasciai giù lo zaino e mi incamminai lungo la strada principale. Mi sentivo un po’ stanco, ma contavo fiducioso di riuscire a trovare qualche passaggio. Questi monti sono aspri e ventosi, però la presenza di molti ruscelli imbrigliati in canali d’irrigazione rendeva possibile le coltivazioni. Migliaia di ándenes, i suggestivi terrazzamenti precolombiani utilizzati ancora oggi, si estendevano per molti chilometri nella valle creando una scacchiera di colori con tutte le sfumature del verde e del giallo. Sulle pareti uniformi delle montagne, vicino alla cima, ogni tanto scorgevo dei riquadri di diverso colore: erano campicelli coltivati ad una pendenza vertiginosa. Attorno non c’erano sentieri, stavano lì solitari ed incredibilmente ritagliati. Diversi punti panoramici offrivano stupefacenti vedute del fiume, che scorreva mille metri più in basso. Questa profonda ferita della crosta terrestre è di una bellezza eccezionale, la grandiosità del paesaggio mi lasciava a bocca aperta. Mi sedetti sul bordo del cañón nella speranza di avvistare un cóndor, ma quel giorno probabilmente scioperavano. Dovetti farmela a piedi anche al ritorno, perché non passò nessuno, nemmeno uno scassatissimo autobus. Solamente una bicicletta, che procedeva però in senso contrario. Il ciclista biondo arrancava a fatica controvento. Era venuto dalla Danimarca con la mountain bike al seguito. Lo salutai, rincuorandolo che da lì in poi la strada iniziava a scendere. Arrivai all’hostal completamente distrutto. Nel piede sinistro si era formata una vescica enorme. Mi ristorai con l’unica gaseosa disponibile: una bottiglia di Pepsi. I tentacoli della piovra erano arrivati anche lì. Il gestore mi mostrò con orgoglio le fotografie del suo matrimonio e dei numerosi figli e mi consigliò di rimanere per la festa di San Sebastián, il patrono del villaggio, che si sarebbe tenuta dopo cinque giorni. Era un’occasione unica per vedere il villaggio, solitamente morto, animarsi di gente proveniente dai villaggi vicini. Gli promisi che ci avrei pensato. Aspettai l’autobus nell’incrocio che mi aveva indicato. Per le stradine c’erano solo maiali. Finalmente arrivò un ragazzo, che mi confermò che quella era la ‘fermata’. Dovevo solo sperare che l’autobus non fosse troppo pieno. Prenderne uno a metà corsa voleva dire, come minimo, viaggiare in piedi. Ma ancora una volta la realtà andò ben oltre le più tragiche aspettative. Il minibus era pienissimo, talmente gremito che non c’era neanche il posto per mettere i piedi. Il corridoio era occupato da lunghe assi di legno, copertoni, attrezzi agricoli, marmitte e una batteria per auto. Mi sdraiai su alcuni sacchi di peperoncini verdi. Gli scossoni provocati dalle buche ci facevano incastrare perfettamente nelle nostre precarie posizioni. Il problema, però, si ripeteva puntualmente tutte le volte che scendeva o saliva qualcuno, perché bisognava trovare nuovi equilibri statici. C’erano almeno dieci persone più del consentito, senza contare i bagagli. La strada si deteriorava rapidamente e molto presto ci trovammo ad andare su una pista sconnessa che continuava a riempirsi di pozzanghere. Superammo il danese in bicicletta, che si mangiò una buona dose di polvere, e finalmente arrivammo a Cabanaconde. Con le gambe anchilosate andai a cercare una sistemazione per la notte. Trovai alloggio in un hostal che, oltre a me, ospitava soltanto una coppia di inglesi. La mia camera si trovava in un angolo dell’edificio al secondo piano: due pareti in muratura e due fatte di assi di legno che arrivavano solamente a mezzo metro dal soffitto. Non c’erano finestre. Una lampadina nuda pendeva da due fili che fuoriuscivano dalla parete di legno. Mangiai avidamente in un chioschetto sulla piazza. Era uno dei tanti carretti con un pianale a scomparti, dove le vivande venivano scaldate per mezzo di fornelli che funzionavano col gas delle bombole, oppure con carboni ardenti. Alcune mensole con gli immancabili tubetti di kechap, mostaza y mayonesa e qualche bibita separavano la ‘cucina’ dal pianale su cui si mangiava. Per terra un catino pieno d’acqua veniva usato per lavare i piatti. Queste anonime mangiatoie su ruote sono gli unici posti dove tra un piatto e l’altro si può assaporare anche l’autentica realtà locale. E non sono neanche così malvagie come può sembrare. Il paesino era dannatamente morto. Solo qualche cane si aggirava con circospezione per le vie congelate. Mi sdraiai su una panchina di cemento, più simile ad una lastra di ghiaccio a dir la verità. “Bella notte, eh?” commentarono David e Sarah, i miei colleghi di hostal. “Un po’ fredda.” “Eh, insomma. Noi stiamo andando a mangiare, vuoi venire?” “Di corsa.” Avevo ancora una fame tremenda. Quella sera cena doppia. Mi affacciai dal lungo balcone di legno di sapore vagamente valdostano. La strada principale del villaggio era pavimentata con lastroni prefabbricati di cemento, sui quali era stata impressa la data e il nome del sindaco che ne aveva promosso la realizzazione. Una vera mania, quella, di firmare le opere pubbliche. Una sorta di campagna elettorale indiretta e costante nel tempo. Era la strada principale solo perché conduceva a Chivay, per il resto non si distingueva molto dalle altre. Da quella posizione elevata potevo sbirciare al di là dei muretti di fango che nascondevano i cortili delle case. Catapecchie intatte più malinconiche degli stessi ruderi e pietre tristi sparse qua e là davano l’idea di un cataclisma che avesse distrutto le abitazioni e disperso gli abitanti. Qualche casa nuova sorgeva timida fra tanta desolazione, e piante di eucalipto e siepi di fichi d’India davano una nota di poesia alla tristezza del luogo. Era il villaggio più miserabile che avessi mai visto. Anche la chiesa, di solito sempre perfetta fin nei posti più sperduti, era stata costruita con la medesima povertà. A sud-est riconobbi la cima del Nevado Hualca Hualca. La mattina non si era ancora ripresa dalla notte gelida. La gente girava scalza o con sandali. I loro piedi avevano una forza bronzea che lasciava supporre che non avessero mai conosciuto altra costrizione. Vestivano gli abiti tradizionali, sempre gli stessi per tutta la giornata, che facevano troppo freddo alla mattina e alla sera e troppo caldo a mezzogiorno. Non potei fare a meno di pensare a quanto sia assurda la moda. Da noi la gente si mette addosso qualcosa solo perché è l’ultimo grido e magari dopo un mese la butta via perché non va più. Tutti alla ricerca della propria individualità, ma in definitiva vestiti con le stesse divise. In quel paesino scalcinato l’eleganza stava tutta nell’abilità di realizzare i propri abiti e non nei soldi che servivano per comprarli. Quei vestiti rappresentano la tradizione, la cultura, la storia e la fierezza di un popolo. Occorre però fare una precisazione. I costumi tradizionali nei secoli hanno subìto influenze spagnole e commistioni regionali dovute alla confusione culturale causata dalla conquista. In alcuni casi certi elementi dell’abbigliamento occidentale portato dagli europei, e subito adottati dai discendenti degli incas, furono col tempo abbandonati dalla componente ispanica del Paese, ma vennero mantenuti dagli indigeni e oggi sono identificati di diritto come autoctoni. Per esempio, i pantaloni al ginocchio sono stati copiati da quelli attillati in voga nel seicento; il poncho, considerato l’abbigliamento andino per antonomasia, non era conosciuto dai popoli precolombiani, che usavano invece l’unco, un telo cucito ai lati con due aperture per le braccia; l’acconciatura femminile con la riga in mezzo e le due tipiche trecce è il risultato di un decreto del viceré Francisco de Toledo. La signora dell’hostal mi spiegò come raggiungere il cañón, ma finii per perdermi tra i campi coltivati a mais. Due giovani molto loquaci con ampi sombreros in testa mi intortarono per un’oretta buona. “¿De dónde vienes?” mi domandarono, stranamente, alla fine. “Italia.” “Aaah, Itt-áa-lia! Quanto tempo ci vuole in autobus?” Assunsi un’espressione un po’ assorta e meditabonda, feci finta di pensarci, poi risposi: “Un mese, más o menos.” “Lontanissimo!” Mi indicarono la direzione giusta e ci salutammo. Arrivai sul bordo del cañón e guardai in basso. Per arrivare al fiume bisognava superare più di un chilometro di dislivello. Mi incamminai con calma giù per i tornanti sassosi fiancheggiati da alti cactus. A metà del tragitto raggiunsi David e Sarah. Ci riposammo sotto un masso, su cui era stato pitturato uno slogan politico. Mi sembrava assurdo che qualcuno si fosse preso la briga di scendere fin lì per scrivere una cosa che tanto nessuno avrebbe mai letto. Udimmo un rumore di pietre rotolanti e da dietro una curva sbucò un ragazzo che ci sfrecciò di fianco correndo. Lo vedemmo arrivare in fondo e risalire il sentiero che si arrampicava zigzagando sull’altro versante. Andava più forte lui in salita che noi in discesa. Arrivammo finalmente all’oasi di San Galle, una piccola porzione di terreno pianeggiante leggermente rialzato di fianco al fiume, con campicelli coltivati e alberi da frutto. Una paradossale macchia verde in mezzo a quel paesaggio arido. Un gruppetto di bambini sguazzava allegramente in un bacino per l’irrigazione. Venivano tutte le settimane da Cabanaconde solo per farsi una nuotata. I miei poveri piedi erano cotti. Alleviai le sofferenze con un fresco pediluvio. Guardavamo verso l’alto con sgomento: non si riusciva nemmeno ad intravedere il bordo del cañón. Il ritorno fu davvero massacrante, ma condividemmo la fatica con un bambino che conduceva un asino recalcitrante cavalcato dalla sorellina e con altre persone sbucate chissà da dove. Incrociammo anche alcuni turisti intenzionati a passare la notte nell’oasi. Mi sentii male al solo pensiero di affrontare l’ascesa con lo zaino in spalla. Dovevo ricredermi sulle considerazioni che avevo fatto prima riguardo la scritta sul masso. Il fatto è che in Italia una simile mulattiera sarebbe percorsa solo da capre ed escursionisti, qui invece era una sorta di provinciale, una normalissima strada utilizzata tutti i giorni da tantissime persone. Impiegammo due ore per scendere e tre per salire. Dopo diverse giornate nuvolose nessuno si sarebbe mai aspettato quel cielo completamente pulito. E quindi nessuno si era portato una crema protettiva. Con le maniche allungate e il cappello in testa mi scottai solo il naso; David nonostante il foulard aveva il collo in fiamme; Sarah, che era scesa praticamente in costume da bagno per la mania dell’abbronzatura tipica delle ragazze, si ustionò le spalle. A quella altitudine il sole non scherzava affatto. “Scusi, dov’è la doccia?” “Attraversa il cortile e gira l’angolo a destra” mi rispose la signora dell’hostal. Attraversai il cortile, scavalcando carriole, mucchi di sabbia e di mattoni e dribblando i muratori che stavano erigendo una nuova ala dell’edificio, e girai l’angolo a destra: mi trovai davanti un muro e del materiale da costruzione. Ritornai dalla signora e riformulai la domanda, ma ottenni la stessa risposta. Tornai nello stesso posto e mi guardai intorno con maggior attenzione. Vidi un tubo metallico che usciva dal muro. Provai a girare quello che sembrava un rubinetto e, magia, uscì un unico getto d’acqua: la doccia. Attaccai i vestiti ad un filo di ferro, appoggiai gli anfibi su una pila di mattoni e mi bagnai velocemente. Per poco non morivo. Fu una delle docce più rapide della storia. Dopo cena i due inglesi mi invitarono nella loro camera. Aveva ben quattro pareti in muratura, un lusso. Provavano una gran nostalgia per la forte birra britannica. In mancanza d’altro avevano preparato un beverone artigianale a base di rum e Coca-Cola. Fu una notte glaciale e il botellón non bastò a scaldarci. In piazza ci ritrovammo in quindici turisti zainati ad attendere l’autobus. C’erano anche quelli che avevano dormito giù a San Galle. Si erano dovuti svegliare ad un orario indecente per arrivare in tempo, ma per lo meno avevano camminato col fresco. Il naso mi bruciava terribilmente. L’autobus scaricò la solita quantità di gente e di cose, poi fu preso d’assalto dai peruviani mentre noi caricavamo gli zaini sul tetto. Mi sentivo tranquillo però, perché avevo comprato il biglietto il giorno prima. Il mio posto, puntualmente, era stato occupato da una grassa signora vestita in abiti tradizionali. Le spiegai che quel posto era riservato, ma sembrava non capirmi. Le mostrai il biglietto con il numero del posto… Nulla. “Señora” le urlai, “parlo spagnolo non inglese, questo è il mio posto!” Mi guardava divertita e cominciò a lamentare dolori inesistenti. Alla fine mi disse che sarebbe scesa nel primo paesino, tanto valeva aspettare. Fui inflessibile. Sospirando spostò un cumulo di coperte che aveva sistemato come rialzo del sedile e finalmente mi lasciò il posto, caldo. Di solito i posti sul finestrino hanno i numeri dispari e quelli sul corridoio, invece, i numeri pari. Avevo chiesto espressamente un posto sul finestrino, ma il numero sette dava sul corridoio. Non era colpa della bigliettaia, almeno non quella volta. Le compagnie di trasporto possiedono diversi autobus e a volte capita che qualcuno abbia la numerazione dei posti invertita. Il problema non era tanto perdersi il panorama, quanto essere schiacciati dai passeggeri in piedi. La campesina che avevo fatto alzare dal mio posto mi pressava coi suoi fianchi abbondanti. Per ritorsione presumo. Eravamo stracarichi e ci aspettava una strada atroce. Non era molto incoraggiante vedere la gente farsi il segno della croce. Partimmo con quaranta minuti di ritardo, salutati da chi restava. Pinchollo sonnecchiava nella sua consueta immobilità. Avevo deciso di proseguire. Non me la sentivo di restare lì tre giorni, con tutte le meraviglie che mi aspettavano da altre parti. Davanti a me avevano preso posto due ragazze del gruppo che aveva campeggiato nell’oasi di San Galle. Erano visibilmente distrutte. Quella di sinistra si alzò in ginocchio sul sedile e si voltò verso di me. “Ciao, mi chiamo Brooke, sai se c’è un autobus che va a Puno?” mi domandò con un marcato accento australiano. “Ci sto andando anch’io, però prendo il treno. Mi sono già informato ad Arequipa: ce n’è uno che parte il mercoledì e un altro proprio oggi, domenica.” “Perfetto” rispose l’altra, “possiamo fare il viaggio insieme. Mi chiamo Yana, piacere.” Veniva dall’Alaska. Risolto il problema, si addormentarono come sassi. Ad Arequipa dovetti scuoterle energicamente, altrimenti avrebbero seguitato tranquillamente a dormire, col rischio, quando si fossero svegliate, di non ritrovare più gli zaini. Se andava bene. Insieme a noi scese anche la campesina, che tirò dritto ignorando il mio sguardo accusatorio. Salimmo su un taxi e andammo in stazione. Gli stranieri erano praticamente costretti a viaggiare in classe turistica, più confortevole, d’accordo, ma anche più costosa. Brooke e Yana erano rimaste al verde e non potevano cambiare i travellers’ cheques, perché le banche erano chiuse. Anticipai io i soldi, nutrendo seri dubbi sulla loro capacità di cavarsela. Il treno partiva alle nove. In stazione non c’era il servizio di deposito bagagli. Prendemmo un autobus per il centro. Mentre camminavamo per Calle Mercaderes curvi sotto il peso degli zaini, un signore distinto ci avvertì di prestare la massima attenzione, perché, ci assicurò, giravano lestofanti senza scrupoli che tagliavano le borse con una lametta e arraffavano tutto quello che usciva. Gli dispiaceva che i turisti pensassero che il Perú fosse un Paese di ladri. Trascorremmo il resto del pomeriggio in un bar sotto i portici della piazza a sorseggiare fresche Arequipeñas scure. Il vagone ejecutivo del trenino Enafer era riscaldato e abbastanza confortevole. Il personale teneva le porte chiuse e consentiva l’accesso solo alle persone munite di biglietto. Potevamo dormire tranquillamente, senza l’ansia di tenere sotto controllo gli zaini. Peccato che i movimenti sussultori e ondulatori, da simulatore di terremoti, mi provocarono una rarissima forma di mal di mare su rotaie, di cui finora sono stati accertati solo pochissimi casi. In più bisognava aggiungere anche l’altitudine. Fu una notte di passione. Quando il nuovo giorno si affacciò sul balcone d’oriente mi accorsi che il paesaggio era profondamente cambiato. IL MARE DELLE ANDE “Toh, ve’ chi si becca nei posti più strani.” Era la fotografa di Cesena che avevo conosciuto ad Arequipa, in compagnia di altre due italiane di Firenze. Ci incontrammo casualmente tra le chullpas di Sillustani, le torri funerarie erette dai collas su una penisola rocciosa circondata dal Lago de Umayo, un lago salato distante venticinque chilometri da Puno. Le pareti esterne delle torri, alcune alte fino a dodici metri, sono state realizzate con blocchi di pietra perfettamente tagliati a formare precisi incastri. L’unica apertura si trova alla base, rivolta verso est, e rappresenta la metà superiore della cosiddetta croce delle Ande. Queste strutture di forma cilindrica, leggermente svasate alla sommità, terminano con una copertura rotonda evidenziata da una cornice in rilevo. Si pensa pertanto che fossero in qualche modo legate ad un culto fallico. Custodivano i resti dei nobili della tribù. Si vede che all’epoca i nobili comparivano così spesso sulle cronache rosa da meritarsi una bella tomba a forma di… Peccato che oggigiorno non si usino più. Passai il resto del pomeriggio nell’internet café di Puno. Verso sera entrò Yana. Si sedette al computer di fianco al mio e ordinò tre birre, due per lei e una per me, come ringraziamento per averle prestato i soldi del treno. A proposito. Il bigliettaio di Arequipa nel darmi il resto mi aveva rifilato una banconota da venti soles, che, come temevo, nessuno voleva perché era stropicciata. Non c’era stato verso di spuntarla con quella vecchia volpe. Alla fine, con indifferenza e faccia tosta, riuscii a sbolognarla nell’ufficio postale. Alle sette del mattino andai al porto di Puno per cercare una imbarcazione diretta all’Isla Taquile. Salii. Iniziai già a sentirmi male sulla barca ferma, col lago calmo. “A che ora arriviamo?” domandai speranzoso al comandante. “Ci vorranno quattro ore.” Mi tornò in circolo tutto quello che avevo bevuto la notte prima con Brooke e Yana. Quella mattina loro partivano per Copacabana e avevano voluto festeggiare l’addio facendo il giro di tutti i locali. Non potevo certo lasciare due ragazze girare da sole, di notte, per una cittadina peruviana, considerata anche la loro abilità nel destreggiarsi. Anche se era lunedì sera avevamo trovato molti baristi felici di esaudire le nostre profonde aspirazioni etiliche ed eravamo rientrati in hostal sostenendoci a vicenda. Mi piazzai davanti ad una splendida brasiliana mulatta. Sapevo che avrei potuto contare su quella visione celestiale per alleviare il mal di lago. Il Lago Titicaca, con una lunghezza di duecento chilometri e una superficie di circa ottomila chilometri quadrati, è il lago più vasto del Sudamerica. Inoltre, trovandosi a ben 3.820 metri di altitudine, è il lago navigabile a più alta quota del mondo. Esistono indubbiamente specchi d’acqua posti ad altitudini maggiori, ma possono essere navigati solo da piccoli natanti. Fino a non molto tempo fa, invece, le acque del Titicaca erano solcate perfino da piroscafi da crociera. Si trova nel cuore dell’altipiano, al confine tra Perú e Bolivia. Durante la navigazione la guida ci spiegò che, guardando la mappa capovolta, i contorni del lago assumono le sembianze di un puma, animale sacro in tutto il continente, nell’atto di assalire un orecchiuto coniglio. “Sapete perché si chiama Titicaca?” ci domandò alla fine, fiero come se stesse rivelando al mondo intero la formula della Coca-Cola. Nessuno di noi rispose. Cartina alla mano, indicò con una penna la parte peruviana: “Questa è Titi, e questa” indicando la parte boliviana “è caca!” E giù a ridere come un matto. I turisti che non erano di lingua latina fecero un sorriso di cortesia, domandandosi tra di loro che cosa ci fosse tanto da ridere. Vicino alle rive cresceva una grande quantità di totora, la pianta lacustre simile al papiro molto diffusa sui bassi fondali del Titicaca. Fu grazie ad essa che poté sopravvivere il popolo uro, condannato ad un’esistenza galleggiante dagli invasori aymara prima e dagli incas poi. Si ipotizza che fossero gli ultimi sopravvissuti della civiltà di Tiahuanaco. Da essi quasi sicuramente discendono gli iru-itu stanziati sul Río Desaguadero, i murato ad ovest del Lago Poopó e i chipaya in un esiguo territorio a nord del remoto Salar de Coipasa nell’attuale Bolivia. Gli studiosi sono giunti a queste conclusioni basando le loro teorie sulle affinità linguistiche di queste genti, decisamente diverse dal quechua e dall’aymara. Parlavano la lingua pequena, ma negli anni cinquanta del secolo scorso è morta l’ultima donna uro che la conosceva. I matrimoni misti con gli aymara, infatti, hanno provocato la scomparsa dell’etnia pura. Dopo un’ora di navigazione arrivammo alle loro isole. Sono formate da strati di totora legati insieme, che vengono continuamente aggiunti man mano che quelli vecchi imputridiscono sul fondo. Quando sbarcai mi sembrò di camminare su di un tappeto elastico. Ci stavo già prendendo gusto quando un piede sprofondò pericolosamente in un tratto marcito. La totora veniva utilizzata per fare di tutto, case, barche ed oggetti d’artigianato. Purtroppo queste isole erano diventate una meta obbligata per i turisti, che venivano sommersi di recuerdos pacchiani e di richieste più o meno esplicite di regali o di denaro. Molte famiglie vivevano ormai sulla terraferma e venivano sulle isole solo per lavorare. Tornai sulla barca ad osservare con tristezza le donne che vendevano i loro tessuti con la scritta Isla Uros e le bambine che, per farsi fotografare in cambio di qualche céntimo, facevano oscillare le caratteristiche macine di pietra a forma di mezzaluna. Mi sentivo profondamente in colpa. Proseguimmo la traversata. L’aria cominciava a scaldarsi e molti andavano sul tetto per abbronzarsi, sottovalutando l’intensità del sole tropicale riflesso dal lago a quasi quattromila metri d’altitudine. Io chiacchieravo con due ragazze canadesi che avevo conosciuto a Paracas e a Nasca. Un argentino in mimetica militare trangugiava soddisfatto grosse manciate di foglie di coca. Il timoniere approfittava senza complimenti dell’offerta e quando arrivammo all’isola aveva la guancia gonfia come quella di un criceto. Dal porticciolo dell’Isla Taquile parte una lunghissima scalinata che conduce all’unico centro abitato. Alcuni bambini ci accolsero con rametti di qoa, un arbusto dolcemente profumato da cui si ricava l’incenso. Dopo il cinquecentesimo gradino persi il conto. Lo zaino e l’altitudine mi stavano massacrando. Dietro di me salivano quasi senza sforzo alcuni abitanti carichi di mercanzie da portare al villaggio. La barca era l’unico contatto con l’esterno e quella scalinata l’unico collegamento con l’abitato. Superato l’arco coloniale che segna la fine della scalata mi fermai a mangiare in un ristorantino. “Basta, non è possibile.” Era ancora lei, Stefania di Cesena, con le ragazze di Firenze. A tavola con loro c’erano anche due ragazze di Siena, che stavano sull’isola già da tre giorni, alloggiate in una delle due camere del ristorante. Montai la tenda sul retro, in una terrazza erbosa delimitata da muretti a secco con splendida vista sul lago. Poi andai al villaggio. La piazza si era ormai svuotata dei turisti di giornata, che erano già ritornati alle barche. Erano rimasti solo alcuni bambini, che mi vennero incontro chiedendomi qualcosa in regalo. Distribuii le mele che mi ero portato per cena. Ma se ne andarono via così contenti che fece piacere anche a me. Mi coricai contro la chiesetta a gustare il silenzio di quel posto fuori dal mondo. Una voce in inglese mi fece ripiombare nella realtà. Era Alyssa, americana di Boston. Viaggiava da sola, fatto inspiegabile. E non perché fosse una ragazza, ma perché capii subito che la solitudine le pesava come un macigno. Le proposi una visita alle rovine inca situate nella parte più alta dell’isola. Accettò ben volentieri. Camminando per le viuzze acciottolate del villaggio passammo davanti ad una tienda, il tipico negozietto che vende di tutto, dagli alimentari ai chiodi. Per questo motivo viene chiamato anche miscelánea. Entrai. Davanti al bancone c’erano due sacchi di foglie di coca. Proprio quello che cercavo. “Buenas tardes, vorrei un po’ di coca” chiesi alla signora indicando i sacchi. “Quanta ne vuoi?” Mi aveva già spiazzato. “Mah, non saprei, un pochino” risposi mimando con le mani un sacchetto. “Il minimo è dieci once.” “E quanto cappero è un’oncia?” pensai senza scompormi. Mi grattai il mento fingendo di pensarci su. “Va bene.” Uscì da una giungla di ferramenta, fece il giro del bancone e con consumata esperienza riempì a occhio un sacchetto enorme formato famiglia. Lo posò su una vecchia bilancia a contrappesi precisa al quintale. “Cuatro soles.” Tornai fuori col mio bel sacchetto e cominciai a masticare qualche foglia. Lo porsi ad Alyssa. “Vuoi?” “No, grazie… Anzi, adesso che ci penso, devo tornare in hostal. Ciao. Ci vediamo stasera o domani al porto” mi disse allontanandosi. Rimasi allibito. Se avessi comprato dodici litri di alcol puro e me li fossi scolati uno dietro l’altro non avrei di certo sortito quella reazione. Le foglie di coca sono legali in Perú ed in Bolivia. Da sempre la coca è venerata dalle popolazioni andine, che la considerano un dono concesso agli esseri umani dalla Pacha Mama. In lingua aymara significa semplicemente pianta. E’ un ingrediente indispensabile nella farmacopea tradizionale, infatti i curanderos se ne servono nei loro rituali magici. Nelle zone più remote ed isolate le foglie di coca sono usate addirittura al posto del denaro. Le foglie si inseriscono tra le gengive e le guance finché non si ammorbidiscono, poi si comincia a masticarle. Il succo ha un sapore amaro e anestetizza lievemente la cavità orale e la gola. Per estrarre i principi attivi delle foglie gli indigeni aggiungono la yista. Si tratta di un composto a base di calce minerale e di cenere, contenuto in una piccola zucca a forma di ampolla, l’ishcupuru. Adoperano una bacchetta metallica inumidita di saliva che intingono direttamente nell’acullicu, il bolo di foglie, stando ben attenti a non toccarsi le labbra per non ustionarsi. Più spesso usano la legía, un alcaloide ricavato dalla calce e dalla cenere di patata o di quinua, in forma di scure barrette mollicce o di dure pietre simili alla pomice. Chachar coca non provoca effetti eccezionali, lascia una sensazione di leggero distacco e di piacevole euforia. Ma dalla coca si ottiene la cocaina e spesso, e a torto, sono messe sullo stesso piano. Anche dal caffè si ricava la caffeina. Provate a sniffare la caffeina. Eppure nessuno si sognerebbe di vietare il caffè, milioni di rispettabili persone andrebbero in crisi di astinenza. Sì, ma la droga uccide. Quale?? Non è grottesco e ipocrita permettere la vendita delle sigarette con la dicitura Il fumo nuoce gravemente alla salute? Ogni anno milioni di persone muoiono in tutto il mondo per le malattie legate al fumo, ma le sigarette, ovviamente, non sono droga. Ogni anno milioni di persone muoiono, direttamente o indirettamente, per il consumo di alcol, ma l’alcol, ovviamente, non è droga. Anche perché, giustamente, un politico ha detto che lo Stato non può diventare uno spacciatore di droga. Ma sa quello che dice? Che cos’è, in definitiva, ‘la droga’? Il problema non deve essere ricercato tanto nella sostanza in sé, ma dall’uso che se ne fa. Si può essere drogati anche di videogiochi, ma nessuno si sognerebbe mai di dire: “Vado al bar a drogarmi un po’ col videopoker”, anche se poi è quello che succede. In America, sempre all’avanguardia, stanno studiando il recente fenomeno della dipendenza da shopping. Eppure i benpensanti considerano malvagia una cosa solo perché qualcuno ha deciso che è vietata, e accettano senza problemi cose ben peggiori solo perché sono dichiarate lecite. Provate a chiederlo ai lavoratori di Marghera. Uscii dal villaggio continuando a masticare le innocenti foglie ingiustamente calunniate. Nelle terrazze ritagliate sui pendii scoscesi gli abitanti dell’isola coltivavano mais e fagioli. Gli uomini indossavano una camicia bianca, pantaloni neri lunghi fino al ginocchio legati in vita da una fascia di lana, un gilè colorato e la chuspa, la borsina di stoffa ricamata dove tenevano le foglie di coca. Ma la caratteristica tipica di quest’isola sono le buffe cuffie di lana, che lavorano personalmente a maglia. Le portano di colore bianco se sposati e rosso, più vistoso, se in cerca di moglie. Il punto più elevato dell’isola è situato a circa duecento metri sul livello del lago, quindi mi trovavo oltre i quattromila metri. All’interno delle rovine inca pascolava un gregge di pecore, sorvegliato da tre bambine con l’inseparabile fuso per filare la lana. Erano vestite con una spessa gonna nera stretta in vita da una fascia e una maglia a tinta unita. Da grandi anche loro avrebbero indossato le deliziose camicie ricamate portate dalle donne. Un vecchio era seduto su un muretto accanto ad un chaquitaclla, il rudimentale aratro inca. Il solco degli occhi si confondeva nella ragnatela di rughe cotte dal sole. Probabilmente era già nato quando qui arrivarono gli incas. Con la mano calata sugli occhi per ripararsi dal sole calante mi rivolse qualche parola sdentata ed incomprensibile. Una delle tre pastorelle mi venne in aiuto. Il vecchio, che era un suo avo di non so quale grado, parlava solo quechua. Particolare insolito, considerato che tutta la zona del Lago Titicaca è di lingua aymara. Mi chiese tramite la nipote se potevo offrirgli un po’ di coca. Quando tirai fuori il sacchetto la sua faccia si distese e oltre le rughe riuscii ad intravedere gli occhi ingialliti, mentre la bocca si apriva in un sorriso a trentadue gengive. Si tolse la cuffia di lana e la riempì di foglie. Cominciò a mettersele in bocca con le sue dita artigliose, avendo cura di eliminare il picciolo. Mi appoggiai coi gomiti sul muretto. Di mano in mano che il giorno passava e che le ombre, sempre più lunghe, strisciavano con maggior rapidità sul terreno, l’Isla Amantaní a nord assumeva i colori infuocati del tramonto. Ad est, in territorio boliviano, la Cordillera Real imbiancata di neve chiudeva con i suoi seimila metri l’estremità sconfinata del lago. La limpidezza dell’aria non poneva limiti al mio sguardo. Trascorsi la serata in camera delle ragazze di Siena. Mirsada, soprannominata Pushpa, era una valchiria bionda di origini tedesche. Aveva lavorato per diversi mesi negli Stati Uniti, poi era scesa per il Messico e tutto il Centramerica ed aveva festeggiato il capodanno a Quito, in Ecuador. Era andata all’aeroporto di Lima a prendere Camille, una pizzaiola croata che viveva da tempo in Italia, ed erano volate direttamente al Cusco. Si erano innamorate della città e della sua gente, finendo per restarci due settimane senza neanche accorgersene. Adesso, dopo la permanenza sull’isola, per Camille era già tempo di tornare in Italia. Pushpa, invece, sarebbe tornata di nuovo negli Stati Uniti. Di notte ci allontanammo fin dove la debole luce delle poche lampadine non poteva arrivare. Il cielo senza luna era tempestato di stelle sconosciute. Un momento, però. Ma sì, quello è il grande carro. Quasi si confondeva in mezzo a tutto quel chiarore. “Ma che accidenti ci fa lassù l’Orsa Maggiore? Pensavo che fosse visibile solo dall’altro emisfero” commentai. “Dov’è?” mi chiesero. “Lassù, ci sono quelle tre stelle in fila e poi una specie di quadrato.” “Ah, sì. Non lo so, però è bellissimo.” Non potevo crederci… Eppure erano proprio gocce di pioggia quelle che picchiettavano sulla tenda. Mi avevano avvertito che in quella stagione sull’altipiano il tempo è ballerino, ma non pensavo fino a questo punto. Fra l’altro ci si mise anche una mucca, che brucava attorno alla tenda, a farmi passare il sonno. Non prima però di avermi fatto prendere un bello spavento. Mi alzai alle sette e misi ad asciugare la tenda nello stenditoio del ristorante. Ormai stava diventando un’abitudine mattutina. Scoprii che nell’altra camera del ristorante c’erano altri due italiani di Albenga. Andando avanti di questo passo avremmo potuto colonizzare l’isola. Al Cusco Camille si era fatta tatuare un leone sulla scapola destra. Siccome non ci arrivava, mi chiese se potevo aiutarla ad applicarci sopra un velo di vaselina. Si tolse la maglia e rimase in reggiseno. Mentre spalmavo cercavo di concentrarmi sulla Teoria dei frattali. Esplorai l’isola per tutta la mattina, perdendomi tra le terrazze ed i boschetti di eucalipti importati dall’Australia. Come tutti i giorni il villaggio tornava ad echeggiare delle voci dei turisti. Ripiegai la tenda e mi preparai a scendere. Avevo una certa fretta, ma le ragazze mi convinsero a fermarmi a pranzo con loro. Sono inutili le rassicurazioni di fare alla svelta, tanto si sa come va a finire. L’attesa era snervante. Quando finalmente ci servirono i piatti, mi ingozzai velocemente e altrettanto velocemente mi precipitai verso il porto. Arrivato quasi in fondo alla scalinata vidi una barca staccarsi dal molo. “Non sarà mica la mia, spero… Ma noo. Mancano ancora cinque minuti” pensai. E invece era proprio la mia. Non si era mai visto da queste parti un mezzo partire, non dico in orario, ma addirittura in anticipo. Era un problema, perché il biglietto comprendeva sia l’andata che il ritorno sulla medesima imbarcazione. Salii su quella di Pushpa e di Camille e consegnai il biglietto al capitano. Si sarebbe messo lui d’accordo col collega frettoloso. Io di sicuro non avrei pagato un’altra volta. Improvvisamente cominciò a piovere. Una comitiva di israeliani, che era andata sul tetto per godersi la brezza, irruppe nella cabina coperta dove stavamo noi, seduti a terra per mancanza di posti. Scoppiò un putiferio, perché qualcuno non gradiva che noi, già pigiati e al caldo mentre loro stavano sopra belli comodi ad occupare i pochi posti disponibili al fresco, adesso dovessimo ulteriormente stringerci. Gli israeliani risposero con arroganza e cantarono canzoni politiche per tutto il resto della traversata, facendosi compatire da tutti. A Puno salimmo su due bicitaxi, biciclette con due ruote davanti sulle quali è sistemato un sedile coperto da un telo. Procedevamo paralleli, conversando come nel salotto di casa. Con tutto il tempo che avevamo avuto in barca, ci scambiammo gli indirizzi in corsa. I taxisti si avvicinarono tra loro per facilitarci nell’operazione, poi ingaggiarono una gara di velocità. Venne interrotta proprio sul più bello da un semaforo rosso. Peccato, stavo vincendo io. Più avanti ci separammo. Le ragazze andavano ad Arequipa, io invece ero diretto in Bolivia. Riuscii a prendere al volo un minibus per Yunguyo. Il paesaggio era favoloso, il cielo colmo di soffici nuvoloni talmente vicini che quasi si potevano toccare. Il tramonto dietro di noi aveva acceso un bellissimo arcobaleno sul lago. “Ma señor, la frontiera chiude alle sei” mi rispose un taxista, con un tono come per dire: “Ma dove vivi?” “Ah! E… A che ora apre?” “Mañana, a las ocho.” Ma certo, che stupido. E’ ovvio che le frontiere rimangano chiuse quattordici ore su ventiquattro, che domande facevo. Anche gli argentini che avevano viaggiato con me rimasero interdetti a quella notizia. Non potevamo fare altro che cercare un albergo e passare la notte in quella orrenda città. La mattina dopo, sotto una leggera pioggerella, andai a piedi al confine che distava solo un chilometro. Alle otto, quando aprì la migración, consegnai la carta turistica e mi feci apporre il timbro di uscita sul passaporto. Superata la sbarra, cambiai Stato ed orario. La Bolivia, infatti, è un’ora avanti rispetto al Perú.



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