Viaggio di nozze in Peru’

Dalla Sardegna al Perù di eloni@tiscali.it DOMENICA 26 OTTOBRE 2003 (ALGHERO – MALPENSA – GALLARATE) Io e Stefania ci abbiamo pensato tanto. “Il nostro viaggio di nozze deve essere speciale. Bisogna trovare una meta importante. Non deve essere il classico viaggio di nozze, tutto riposo e relax. Dobbiamo scoprire realtà nuove, conoscere...
Scritto da: Raimondo Meloni
viaggio di nozze in peru'
Partenza il: 26/10/2003
Ritorno il: 09/11/2003
Viaggiatori: in gruppo
Dalla Sardegna al Perù di eloni@tiscali.it DOMENICA 26 OTTOBRE 2003 (ALGHERO – MALPENSA – GALLARATE) Io e Stefania ci abbiamo pensato tanto. “Il nostro viaggio di nozze deve essere speciale. Bisogna trovare una meta importante. Non deve essere il classico viaggio di nozze, tutto riposo e relax. Dobbiamo scoprire realtà nuove, conoscere gente diversa, altri colori e altri sapori anche se questo ci comporterà più fatica”. Ci siamo detti queste cose e siccome ambedue amiamo molto il Sudamerica, per un po’ siamo stati indecisi fra l’Argentina, il Messico e il Perù. Valutando vari aspetti abbiamo optato per il Perù, poiché il paese si mostra interessante sia da un punto di vista storico – culturale che ambientale. Quindi, dopo tutti i preparativi, eccoci pronti. Partiamo un giorno prima dalla Sardegna poiché il volo internazionale è previsto per le dieci del mattino di lunedì 27 novembre. Meglio non rischiare. Quindi, domenica 26 ottobre 2003, alle 10,40, partiamo da Alghero per Milano – Malpensa. Alle 12,00 arriviamo all’aeroporto milanese, dove veniamo accolti dal figlio del titolare del Bed & Breakfast “il Melograno”, di Gallarate. Pernottiamo in una discreta e accogliente stanza e intorno alle 13,30 usciamo per cercare un posto dove poter mangiare. Trovatolo, ci accomodiamo e mangiamo un piatto di riso al barolo. Rientriamo al bed & breakfast e verso sera visitiamo il centro della cittadina. Dopo averci preso una pizza al taglio, tornati in camera, ci prepariamo per il lungo viaggio verso la meta dei nostri sogni, il Perù. LUNEDÌ 27 OTTOBRE 2003 (MALPENSA – CARACAS – LIMA) Alle sette e trenta del mattino veniamo accompagnati in auto dal titolare del bed & breakfast all’aeroporto internazionale di Malpensa, dove alle 10,00 partiamo verso Lima, via Caracas, con un volo Alitalia. Dall’alto si vede un panorama mozzafiato, con la campagna, le Alpi imbiancate, le nubi. Siamo un po’ spaventati poiché non sappiamo cosa ci aspetta e perché non siamo riusciti ad individuare nessuno che faccia il nostro stesso tour. Siamo alla prima esperienza di un viaggio così lungo e impegnativo ma nonostante tutto siamo fiduciosi. Dopo nove ore e mezza di volo, allietate dalla visione di 3 films e dal riposo, atterriamo all’aeroporto internazionale di Caracas, capitale del Venezuela. Siamo finalmente in Sud America, ma la sosta di cinque ore e mezza in aeroporto ci toglie qualsiasi entusiasmo. Finalmente alle 20,30, ora locale, riusciamo a partire alla volta di Lima. Siamo stanchissimi e il volo sull’aereo dell’Areopostal è interminabile, anche a causa di uno scalo tecnico di mezzora in Ecuador, a Quayanquil. Dopo poco più di quattro ore atterriamo a Lima. La città ci accoglie di notte, c’è umido ma non fa freddo. All’uscita dall’aeroporto “Jorge Chavez” siamo accolti da una folla di gente che si offre per un passaggio, per un alloggio o una sistemazione. Sembriamo delle stars, mancano solo i fotografi. Per fortuna riusciamo a vedere Alì, la nostra guida, che solleva un cartello con i nostri nomi. Rinfrancati, salutiamo e ci rechiamo verso un pulmino dove conosciamo la nostra prima compagna di viaggio, la signora Enrica, torinese, di poco più di sessant’anni. Si trovava sul nostro stesso aereo fin da Milano ma non eravamo riusciti ad individuarla. Alì ci riferisce che i nostri compagni d’avventura saranno altre diciassette persone, fra le quali quattro francesi. Alcuni di essi arriveranno l’indomani con voli Iberia, via Madrid, o con voli KLM, via Amsterdam. Ci tranquillizziamo: non siamo soli! Siamo solo arrivati con un giorno d’anticipo rispetto all’inizio effettivo del tour che partirà il 29 ottobre. All’una e trenta del mattino siamo finalmente in albergo, il “Plaza del Bosque”, dove, dopo circa 20 interminabili ore di viaggio, scali compresi, ci buttiamo sul letto per riposare. Ce n’è un gran bisogno poiché siamo stanchissimi. MARTEDÌ 28 OTTOBRE 2003 (LIMA) Ci alziamo con calma alle 9,30, ora locale, e Lima ci accoglie con una leggera “garua”, la nebbiolina umida tipica della città. Facciamo colazione in albergo e vediamo altre persone che parlano italiano e francese, ma ignoriamo se siano o no nostri compagni di viaggio. Dopo avremmo saputo che si trattava del dottor Roberto e di sua moglie Daniela, provenienti da Terni e dei quattro francesi. Terminata la colazione siamo indecisi sul da farsi. Optiamo per un giro nei dintorni dell’albergo, nel quartiere di san Isidro, uno dei quartiere bene della città insieme a Miraflores. Ciò che colpisce di Lima è il grigio del cielo, l’inquinamento, e un traffico intenso di macchine scarburate, spesso di fabbricazione americana e giapponese. Inoltre, sono tantissimi i tassisti che circolano ed ognuno di loro suona il clacson per proporti un giro della città. Devo dire che i taxi sono tanti e forse è anche per questo che i prezzi sono molto bassi. Con cinque nuevo soles o poco più (un nuevo sol vale circa 600 lire) si può fare praticamente il giro della città. Mancano quasi del tutto le auto private poiché il costo di esse è proibitivo per gran parte della popolazione. Oltre ai taxi ci sono anche autobus, peraltro sgangherati e inquinanti. Ci fermiamo a pranzare in un ristorante che si chiama “Vivaldi”, dove si mangia italiano, ma la cucina per noi non è un granché. Inoltre, anche all’interno del locale si respira lo smog che proviene dall’esterno. A Lima ci sono abituati ma io e Stefania, che proveniamo da un paese della Sardegna chiamato Villanova Monteleone nel quale l’aria è più che pulita, non riusciamo a sopportare. Rientriamo in albergo dove proviamo a riposare. Ma la noia ci assale, anche perché mentre Stefania desidererebbe uscire io non ne ho molta voglia. Rimaniamo in albergo dove, verso le otto di sera, vediamo arrivare Alì con altri due nostri compagni di viaggio: il signor Dino, anziano ma instancabile viaggiatore di tutti i continenti, proveniente da Varese, e la signora Marisa, torinese, più o meno della stessa età, anch’essa avvezza ai viaggi. Dopo averli salutati e dopo aver appreso che il tour vero e proprio partirà l’indomani alle sette del mattino, andiamo in camera, dove mangiamo qualcosa che avevamo portato con noi dall’Italia. Quindi ci corichiamo, pensando, sempre più emozionati, al nostro viaggio di nozze in Perù. Finora non è stato un granché ma le emozioni vere arriveranno presto. MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 2003 (LIMA – PARACAS – NAZCA) La sveglia arriva presto, alle sei del mattino. Dopo una rapida colazione arriva il pulmino con la guida. Sul pulmino ci siamo noi due, la signora Enrica, la signora Marisa, il signor Dino, il dottore con sua moglie e i quattro francesi. Dopo aver caricato anche gli altri componenti del gruppo da un altro albergo della città, partiamo alla volta di Paracas, diretti alle Isole Ballestas. Gli altri compagni di viaggio, partiti con un’altra agenzia di viaggi italiana, sono due ragazze emiliane, Ilenia e Daniela, una coppia di mezza età di Ferrara, con la loro figlia di poco meno di trent’anni, la signora Giuliana, con evidenti problemi di salute, e due romane, Andreina e Silvia, rispettivamente zia e nipote. La prima è oltretutto di origine sarda, della zona di Oristano, e questo ci fa sentire più a nostro agio. Lasciamo Lima, osservando dal pullman la lunga spiaggia sul Pacifico e il mare, grigio come il cielo. Pensiamo che se il Perù è bello non lo deve certamente al mare. Quello della Sardegna è proprio un’altra cosa. Vediamo le bidonvilles con le case di lamiera e di mattoni essiccati al sole; vediamo la povertà, l’emarginazione di cui è capace una metropoli di quasi nove milioni di abitanti, fra i quali molti “campesinos” che, abbandonata la miseria delle campagne, vengono in città a cercare fortuna. Ma il più delle volte, purtroppo per loro, la fortuna bussa da qualche altra parte. Ci immettiamo nella “Carretera Panamericana”, la lunga arteria stradale che dalla Colombia conduce verso la Terra del Fuoco, diretti verso sud. Il paesaggio è monotono e solo occasionalmente si riesce a vedere qualcosa di diverso da casupole di fango coi muri imbrattati di pubblicità e campi spogli che hanno conosciuto miglior fortuna. Ogni tanto ci fermiamo per una sosta e in un occasione, in un villaggio circondato da splendide colture di olivo, alcuni bambini, scalzi e malvestiti, ci circondano chiamandoci “gringos” e chiedendoci una caramella o un sol. Per loro i “gringos” sono tutti i turisti occidentali. La guida ci avverte che non bisogna dare dei soldi ai bambini poiché si abituano a mendicare e non vanno a scuola. E’ difficile resistere ai loro sguardi curiosi e supplici, ma facciamo, seppur a malincuore, quello che ci dice Alì. Dopo quattro ore arriviamo a Paracas, che dista circa 250 Km da Lima. Ci fermiamo per acquistare qualche souvenir e dal piccolo porticciolo ci imbarchiamo in motoscafo alla volta delle Isole Ballestas, chiamate anche le “Piccole Galapagos”. In effetti si tratta di un vero e proprio paradiso naturale, immerso nel Pacifico. Dal porticciolo alle isole ci si impiega, con un buon motoscafo, circa mezzora. Durante il tragitto intravediamo, sulle colline che si affacciano sul mare, il “Candelabro”, un immenso disegno sulla sabbia del deserto, opera delle antiche popolazioni della zona. Arriviamo alle Isole Ballestas. Ci accoglie un fetore insopportabile, dovuto al guano dei cormorani e di tutte le altre specie di uccelli. La raccolta del guano, nel passato, costituiva un ricchezza per il Perù ma successivamente tale attività è stata praticamente abbandonata. Oltre ai tantissimi cormorani sono presenti molti altri uccelli, pinguini, leoni marini, delfini. Il tempo e sereno e questo ci favorisce nell’ammirare lo splendido paesaggio. Dopo un’ora e mezza circa facciamo rientro al porticciolo di Paracas e da li ci muoviamo verso un ristorante per pranzare. Arriviamo, attraversando delle strade in terra battuta, in un ristorante, chiamato “El Catador”, dove si viene serviti all’aperto. Tanto non piove mai o quasi mai. Le condizioni igienico sanitarie non sono quelle alla quali siamo abituati noi occidentali, ma non si mangia male e si paga poco. Assaggiamo, fra le altre cose, del pollo con il riso e con le patate, che sarà una costante, o quasi, per i giorni successivi. Qualcuno assaggia anche il “cheviche”, piatto tipico del Perù, a base di pesce marinato, con lime e peperoncino. Dopo pranzo partiamo alla volta di Nazca, distante da Lima circa 460 km e sei ore di viaggio in bus, la cui principale se non unica attrattiva sono le famose linee. Queste ultime rappresentano uno dei grandi misteri dell’umanitá. Si tratta di un mosaico di gigantesche figure stilizzate: una scimmia, un ragno, un colibrì, un condor e altre figure geometriche visibili solo dal cielo. Non si conosce quale fosse la finalità di questi disegni, ma Maria Reiche, una studiosa tedesca da sempre appassionata alle linee, ritiene che rappresentino un calendario astronomico usato per l’agricoltura. Arriviamo intorno alle 17,30. Nazca si trova circondata dal deserto e le stesse linee sono disegnate sulla sabbia del deserto. Pur essendo previsto nel programma del tour per l’indomani, per qualcuno di noi è gia possibile effettuare il sorvolo. Io, Stefania, il signor Dino, la signora Enrica e le due romane decidiamo che possiamo tranquillamente farlo anche il giorno dopo. Per cui, mentre la gran parte del gruppo effettua il sorvolo, noi ci rechiamo in albergo per sistemarci con calma. L’albergo, il “Nazca Lines”, non è male. Dopo esserci sistemati e aver atteso gli altri, alle 21,00 ci viene servita la cena. Assaggiamo per la prima volta il famoso “pisco sour”, una bevanda a base di grappa, lime, zucchero, chiara d’uovo e angostura. Siamo un po’ preoccupati per l’indomani, dopo aver appreso che i piloti degli aeroplanini sui quali viene effettuato il sorvolo non sempre sono tranquilli. Alcuni dei nostri compagni di viaggio hanno persino vomitato a causa delle loro spericolate evoluzioni. GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 2003 (NAZCA – AREQUIPA) Dopo un’abbondante colazione in Hotel, alle 8,00 siamo già all’aeroporto di Nazca per effettuare il sorvolo delle famose linee. C’è un po’ di timore a salire su quei trabiccoli ma ormai siamo in ballo e balliamo. Il pilota del “Cssna”, avvertito da Alì di guidare tranquillo, ci fa accomodare sul piccolo veivolo. Io mi piazzo accanto a lui mentre nei sedili posteriori c’è Stefania, la signora Enrica e le due romane. La partenza avviene senza scossoni e subito siamo in alto. Il paesaggio desertico è affascinante. Dentro l’abitacolo dell’aereo c’è un rumore assordante e il pilota cerca di spiegare cosa si vede sotto di noi. Lo fa in spagnolo ma riusciamo a capire tutto. La visuale non è ottima ma riusciamo comunque a notare il condor, il colibri, la scimmia, il ragno e le altre figure. Più che la visione in se delle linee di Nazca, l’esperienza più eccitante è proprio il volo su quelle “trappole volanti”. Il pilota ha ascoltato i consigli di Alì, poiché il volo è tranquillo e senza acrobatiche evoluzioni. Atterriamo, ringraziando il dio Inti di essere sani e salvi, e soddisfatti rientriamo in albergo. Dopo aver caricato armi e bagagli, riprendiamo il viaggio verso sud, alla volta di Arequipa, ma non prima di esserci fermati in un laboratorio artigiano a Nazca, dove ci viene mostrato come vengono prodotte alcune delle famose ceramiche. La strada verso Arequipa è lunga e monotona. Il paesaggio desertico, interrotto di tanto in tanto da qualche oasi di verde dovuta ai corsi d’acqua che scendono dalle Ande e dalla vista della costa sull’atlantico, non rappresenta il meglio del Perù ma, a suo modo, è affascinante. All’ora di pranzo ci fermiamo in un posto sperduto sulle rive dell’oceano, “Puerto Inka”, dove l’azzurro intenso del Pacifico contrasta con i colori del deserto. Qui, alcuni secoli orsono, esisteva un insediamento di popolazioni preincaiche e successivamente di Incas. Ne rimangono i resti, alcuni in buone condizioni di conservazione. Oggi c’è un albergo e un ristorante, che pare un intruso nella stupenda desolazione. Ci fermiamo per mangiare e verso le quindici e trenta riprendiamo il cammino sulla “Carretera Panamericana”. Non c’è un auto neanche a pagarla. Ogni tanto incrociamo qualche camion che trasporta merci ma nulla più. Provo a dormire ma non ci riesco. Ad ogni modo il paesaggio, per quanto monotono, mi colpisce. Le distanze, per me che vengo da una piccola regione dell’Italia, sono assurdamente immense. Ogni tanto il pullman sul quale viaggiamo si avvicina pericolosamente agli alti dirupi sul Pacifico e l’autista, in più occasioni, pare voglia imitare Ayrton Senna nella sua ultima gara. Arriviamo ad Arequipa, distante da Lima circa 1.000 km, solo con il buio e abbastanza stanchi andiamo al nostro albergo, il “Cabildo”, dove, dopo aver apprezzato la cena e la sontuosità delle camere, sprofondiamo in un lungo sonno ristoratore. VENERDI 31 OTTOBRE 2003 (AREQUIPA) Di buon mattino, Ali, assieme ad una guida locale chiamata Ricardo, viene a prenderci al “Cabildo” per cominciare la visita alla città di Arequipa. La città, che raggiunge 1.200.000 abitanti, risente della cultura coloniale e anche la gente, di origine prevalentemente “quechua”, ha la pelle più chiara, proprio per la mescolanza con gli spagnoli. Il clima durante tutto l’anno è mite e la presenza d’acqua in gran quantità permette la coltivazione di molti prodotti, fra i quali, in particolare, patate, aglio e cipolla. Arequipa è chiamata la “città bianca” poiché ha numerosi edifici dell’epoca coloniale, molti dei quali costruiti con una roccia vulcanica di colore chiaro detta “Sillar”. La città è posta ad una altitudine di circa 2.300 metri e questo per noi è positivo poiché cominciamo ad abituarci gradatamente all’altura, in previsione dei quattromila metri del lago “Titicaca”. In una sorta di agriturismo vediamo per la prima volta dei lama e degli alpaca nonché i cuy, i porcellini d’india che costituiscono uno dei piatti principali di Arequipa. Visitiamo la bellissima e suggestiva “Plaza de Armas”. Si chiamano così quasi tutte le piazze delle principali città peruviane, poiché gli spagnoli costruivano la cattedrale, il Palazzo del Governo e la Caserma per concentrare in un unico punto gli edifici più importanti, spesso innestandoli su antiche vestigia Incas. Sulla piazza c’è la Cattedrale, in stile barocco, che ammiriamo in tutta la sua grandezza. Qui è presente un organo, considerato il più grande del Sudamerica, che fu donato dal Belgio nel 1870. Successivamente la visita prosegue al famoso monastero di “Santa Catalina”. Riservato alle novizie di buona famiglia, assomigliava più a un grand’hotel che a un luogo di distacco dal mondo. Divenne un ricettacolo di virtù ma anche e soprattutto di vizi, finché una madre superiora mandata dal vescovo non mise un po’ d’ordine. Solo intorno agli anni ’70 del secolo scorso è stato aperto alle visite dei turisti, mostrando così al mondo tutte le sue bellezze. Si trattava in pratica di una cittadella vera e propria, di circa ventimila metri quadrati, in cui non mancava niente e dove, per certi versi, si viveva meglio che al di fuori. Proseguiamo scoprendo i misteri e le bellezze della chiesa della Compagnia dei Gesuiti dove, nel chiostro, insistono anche alcuni negozi. In uno di questi acquistiamo dei capi in lana pregiata detta “baby alpaca”, il cui costo, comparato a quelli italiani, è irrisorio. Terminata la lunga visita, la nostra guida ci propone di andare a mangiare in un ristorantino particolare dove, fra le altre cose, viene servito un piatto prelibato: i “camarones” o gamberoni di fiume. Ci andiamo, pagando solo 3 soles, in uno dei tanti piccoli taxi che “infestano” e inquinano la città di Arequipa e dopo esserci sistemati assaggiamo finalmente le prelibatezze locali, fra la quali, oltre ai già citati “camarones”, anche il famoso “queso helado”, un gelato veramente molto buono e il “queso frito”. Dopo aver pranzato, siamo liberi di visitare la città a nostro piacimento. Decidiamo di vedere il centro di Arequipa e di visitare il museo “Santuarios Andinos”. E’ un museo aperto solo di recente, che tuttavia ha il pregio di ospitare la mummia della famosa “Juanita”, la fanciulla delle Ande. Offerta in sacrificio al Dio Sole dai sacerdoti Incas più di cinquecento anni or sono, è stata ritrovata solo di recente ai piedi di un ghiacciaio sul monte Ampato. La mummia è perfettamente conservata così come i suoi abiti e i suoi monili. E’ stata un’esperienza molto suggestiva, che fa pensare a come possa essere crudele la religione usata più come strumento di potere che come necessità dello spirito. Terminiamo la visita della città, ammirando i tre vulcani che la circondano: il “Misti”, il “Pichu Pichu” e il “Chanchani”. Alti oltre cinquemila metri, sono sicuramente molto suggestivi. Dopo essere rientrati in albergo ed esserci sistemati, andiamo a cenare in un ristorante del centro, molto bello e caratteristico, dove il cibo viene accompagnato dalla musica andina e da balli tipici. Qui, bevendo del “pisco sour” molto alcolico, mangiamo zuppa di asparagi e fettine di carne d’alpaca, ma non ci piacciono particolarmente. Comunque, a tarda sera si rientra in albergo. SABATO 1 NOVEMBRE 2003 (AREQUIPA – JULIACA – PUNO) La partenza dall’aeroporto di Arequipa per Juliaca è prevista alle 13.30. Nel frattempo facciamo un breve giro per la città. Scattiamo qualche foto, acquistiamo un quotidiano e alle 11.00 rientriamo in albergo, pronti per partire. Ma, sorpresa, in albergo ci viene comunicato che per motivi non meglio precisati il volo per Juliaca è rimandato alle 18,00. Un po’ dispiaciuti e seccati andiamo a mangiare in un ristorante carino ma non caro e successivamente facciamo un breve giro nei dintorni dell’albergo “Il Cabildo”. In un bellissimo parco, pertinenza di un albergo a cinque stelle chiamato “Libertador Arequipa”, vediamo pascolare dei lama, degli alpaca e delle pecore. Vi è persino una vecchia tartaruga gigante e un paio di struzzi. In tal modo ci passa il tempo. Verso le 16,30 rientriamo in albergo dove ci viene comunicato che il volo è stato ulteriormente rimandato alle 21.00 e solo alle 20,00 potremo recarci all’aeroporto di Arequipa per l’imbarco. Rimaniamo sconsolati, ma ce ne facciamo una ragione. Ci dicono che in Perù il ritardo dei voli è praticamente una costante. Sostiamo per un paio d’ore nella “hall” dell’albergo, parlando del più e del meno, e finalmente alla 19,00 ci muoviamo. Arriviamo all’aeroporto, piccolo ma accogliente, e dopo le operazioni di imbarco, alle 21.00 partiamo alla volta di Juliaca con la compagnia aerea cilena, moderna ed efficiente, LAN PERU’, Dopo un’ora di volo arriviamo all’aeroporto “Manco Capac” e subito, accolti dalla guida locale, ci rechiamo in pullman a Puno. Nel Dipartimento di Puno esistono abbondanti resti archeologici e monumenti storici dovuti alla presenza, sulle rive dei lago Titicaca, di tre importanti culture: la aymara, la quechua e la spagnola. Puno è una cittadina di poco meno di 200.000 abitanti, situata a 3.800 metri di altezza. Si affaccia sul lago Titicaca, che ubicato a 3.827 metri sul livello del mare è il lago navigabile più alto dei mondo. Il lago ha una superficie di 8.560 metri quadrati e possiede 36 isole: tra quelle più importanti ci sono Taquile e Amantani in territorio peruviano e quelle del Sole e della Luna in territorio boliviano. E’ notevole la trasparenza dell’acqua e la ricchezza della flora, tra la quale è rilevante l’abbondanza di «totora», una specie di giunco che gli indios utilizzano per vari scopi. A Puno arriviamo verso le undici di sera e dopo esserci sistemati nelle nostre camere e aver fatto una discreta ma veloce cena, andiamo finalmente a letto. DOMENICA 2 NOVEMBRE 2003 (PUNO – LAGO TITICACA – TAQUILE) La notte non è delle migliori. Forse la stanchezza del giorno prima o forse l’altitudine elevata ci mettono un po’ alla prova. Io e Stefania ci svegliamo alle quattro antimeridiane con vampate di calore preoccupanti, ma basta un po’ d’acqua fresca in viso per riprenderci. Al mattino, un bel sole invita ad alzarci. Dalle finestre della camera ammiriamo con stupore l’azzurro del lago Titicaca, sulle cui sponde c’è il nostro albergo, il “Posada del Inka”. Quest’ultimo non è bellissimo ma la cornice naturale nel quale è inserito lo rende molto caratteristico. A colazione assaggiamo per la prima volta il “mate de coca”, una sorta di bevanda ottenuta dall’infusione di foglie di coca che viene utilizzata da queste parti per prevenire e curare il mal d’altura. Il sapore non è male ma decisamente è meglio il the. Comunque, la sensazione di essere in un posto particolare ci avvolge e quando, intorno alle 9,30, cominciamo la nostra gita sul lago a bordo di un bel motoscafo, ne abbiamo la conferma. Il sole picchia forte a queste altitudini e io ho la sfortuna o la dabbenaggine di perdere il cappello mentre all’esterno del motoscafo filmo con la videocamera le bellezze del Titicaca. Per fortuna Stefania ogni tanto mi presta il suo. Arriviamo dopo una ventina di minuti alle famose isole galleggianti degli Uros. Questi ultimi sono una popolazione di indios che ha sempre vissuto su queste isole artificiali, costruite di “totora” e ancorate al fondo con terra e pietre. Appena sbarcati ci sembra di camminare in un materasso. Oggi non tutti gli Uros vivono su queste isole ma vi arrivano da Puno per accogliere i turisti. C’è anche una scuola dove alcuni bambini, bellissimi, scalzi e colorati, cantano varie canzoni in lingue diverse, chiedendo ai visitatori una semplice offerta o l’acquisto di piccoli disegni. Sono momenti molto belli ma spesso ti senti a disagio. Tu, turista occidentale ricco a cui non manca nulla e loro, poveri e scalzi, che ti guardano supplici, lasciando intravedere tutta la semplicità e l’accoglienza di cui sono capaci. Facciamo quindi una breve gita in una barca fatta di canne, detta “balsa”, e acquistiamo qualche souvenir. Io provvedo inoltre ad comperare un cappello, visto che l’altro è andato perduto nelle acque del Titicaca. Dopo la visita alle isole galleggianti, ci muoviamo verso la famosa isola di Taquile, dove esiste una comunità di indios di lingua “quechua”, perfettamente autosufficiente, che sopravvive grazie all’agricoltura, alla pastorizia e al turismo. Sembra di andare indietro nel tempo. Nell’isola mancano le auto e le biciclette e qualsiasi altro mezzo di locomozione diverso dalle gambe. La luce elettrica è stata introdotta solo negli anni ‘90 e non dappertutto. Sbarchiamo, dopo un’ora e mezza circa, in un piccolo porticciolo e vediamo che ci aspetta una bella passeggiata in salita. Arrivare in cima all’isola è veramente impegnativo, anche perché ci si può accedere solo a piedi e con il sole che picchia, il vento e l’altitudine elevata non è uno scherzo. Il paesaggio è arido, ogni tanto spunta il verde di qualche coltivazione, ma poi ci sono solo pietre, pecore e l’azzurro del lago. Sembra di essere in Sardegna ma siamo in Perù a quattromila metri. In lontananza si vedono anche le Ande con le cime imbiancate. A metà strada, col fiatone e dopo molte pause, ci fermiamo al nostro ristorante che non è altro che una piccola casetta spoglia, senza servizi igienici, perlomeno come noi li intendiamo. Nonostante tutto si mangia bene e anche abbondante. Dopo pranzo, bevuto un tonificante “mate de coca”, infuso al naturale (cioè con le foglie e non con le bustine, che possono tranquillamente essere acquistate al supermercato) saliamo ancora per giungere in cima all’isola. Con la pancia piena è proprio un’impresa, ma riusciamo ad arrivare senza avere un infarto. La piazza centrale dell’isola è molto semplice. Ci sono alcuni negozi, il municipio, un vecchio campanile spagnolo e un bar. Ci accolgono alcuni bambini con i loro caratteristici vestiti colorati, che si fanno fotografare. Anche non te lo chiedono espressamente, ti fanno capire che sarebbe gradita una piccola mancia. Si vede la povertà ma agli abitanti dell’isola pare non manchi nulla. Restiamo un’oretta nella piazza principale di Taquile a goderci il panorama e a fare qualche acquisto di capi in lana d’alpaca e al pomeriggio cominciamo la discesa. Forse l’altitudine, forse la stanchezza, fatto sta che la discesa e assai peggio della salita. Qualcuno di noi non si regge letteralmente in piedi e la signora Giuliana ha bisogno dell’aiuto del dottor Roberto e di sua moglie, che si prodigano per portarla verso il basso. Il panorama comunque è mozzafiato e spesso ti fa dimenticare la fatica. Riusciamo a ripartire e subito notiamo che il clima della giornata è cambiato. Il lago, fino allora calmo e piatto, sembra un mare in tempesta. Il viaggio di ritorno è un po’ movimentato ma dopo due ore circa riusciamo a rientrare in albergo. Sono le 18,00 e prima della cena ci rimangono due ore per visitare la città di Puno. Alì si offre di guidarci e dopo mezzora ci muoviamo in taxi verso il centro della città. Andiamo nella solita “Plaza de Armas” e poi verso il mercato. E’ buio e pioviggina ma il mercato è una esplosione di colori e di suoni. Purtroppo, la pioggia aumenta e siamo costretti ad ritornare subito in albergo. Dopo aver consumato un’ottima cena a base di pollo arrosto e patate, andiamo a dormire. L’indomani ci aspetta un viaggio molto lungo alla volta di Cusco. LUNEDÌ 3 NOVEMBRE 2003 (PUNO – CUSCO) Alle 8,00 del mattino diamo addio a Puno per raggiungere Cusco, l’antica capitale dell’impero Inca, distante circa 386 km e sei ore di pulman. Dopo meno di un’ora, attraversando le fredde pianure dell’altipiano, ci fermiamo nel mercatino di Juliaca, dove risaltano i colori e il calore della gente ma dove il concetto di pulizia non è molto sentito. Roba da Nucleo Anti Sofisticazioni….. Proseguiamo il viaggio fermandoci di tanto in tanto. Sostiamo brevemente a Pucarà, paesello di artigiani e vasai ubicato a 70 km della città di Juliaca, dove vengono fabbricati i famosi «Toritos de Pucará», pezzi di ceramica che rappresentano torelli portafortuna e rappresentano il simbolo dell’artigianato peruviano. Proseguendo il viaggio, notiamo numerose case isolate e aziende con bovini, pecore e lama. Il paesaggio è alquanto monotono. Riesco a vedere alcuni bambini, che dalla loro case in campagna, a piedi o in bicicletta, vanno al villaggio più vicino per frequentare la scuola. Sostiamo a Punta La Raya, a 4.388 metri, che segna il confine fra la regione di Puno e quella di Cusco. Quì nasce il fiume sacro degli Incas, l’Urubamba, che d’ora in poi ci accompagnerà per tutto il viaggio. Ci sono dei venditori ambulanti e il freddo mi fa ricordare che potrei acquistare qualche capo in lana d’alpaca come souvenir. E’ quello che faccio. Il viaggio prosegue ancora. Iniziamo a vedere le cime innevate delle Ande, che sormontano un paesaggio via via più gradevole, con boschi, piantagioni di mais, riso e patate, alberi da frutta e aziende agricole. All’ora di pranzo ci fermiamo in un ristorante lungo la via e poi proseguiamo. Stiamo avvicinandoci a Cusco e la cosa mi emoziona non poco. Ma prima di giungere a destinazione facciamo una sosta di poco più di un’ora presso le rovine del Tempio di Viracocha, il dio fondatore dell’impero Incas, nel villaggio di Racqki. Il complesso monumentale, gestito dagli abitanti del posto, è molto affascinante e risulta inserito in una paesaggio percorso da fonti d’acqua assai copiose. Ripartiamo non prima di aver regalato alcune penne ai bambini del villaggio. Nel tardo pomeriggio giungiamo finalmente a Cusco. La città è detta “l’ombelico dell’impero”, perché è posta proprio nel punto di intersezione dei quattro cantoni che costituivano il territorio incas, il “tahuantynsuyo”. Quì la verga d’oro di Manco Capac, intorno al dodicesimo secolo, scomparve nel terreno ad indicare che quello era il luogo migliore per dare origine ad una nuova e potente civiltà. Provvediamo a sistemarci presso il “Picoaga”, una vecchia casa nobiliare adattata ad albergo, non bellissimo e che non vale le 4 stelle dichiarate, ma comunque più che dignitoso. Prima della cena, Ali, la nostra gentilissima guida, ci propone di accompagnarci nella visita del centro della città, che invero si trova a qualche centinaio di metri dal nostro albergo. Accettiamo di buon grado e in poco più di un’ora riusciamo a vedere alcune bellezze e a cogliere il fascino di Cusco. Monumenti e case coloniali costruite sulle vestigia Inca, piazze e strade che mantengono le caratteristiche architettoniche del passato e la gente, gentile e discreta, coi tratti tipici delle popolazioni andine. Ceniamo in albergo, dove ci allieta un complessino di ragazzi che suona musica tradizionale con un volume un po’ troppo alto per le nostre orecchie e teste stanche dopo un’intera giornata di viaggio. Ma tant’è…. Dopo cena andiamo a riposarci in vista delle fatiche del giorno che verrà. MARTEDÌ 4 NOVEMBRE 2003 (CUSCO – PISAC – OLLANTAYTAMBO) Dopo un abbondante colazione attendiamo il pullman e la guida che ci accompagnerà nella visita di Pisac, Ollantaytambo e la valle sacra. La guida è una persona simpaticissima, veramente fuori di testa, con un nome lunghissimo ma da lui abbreviato in Gino Peralta, il “chicharrone”, il “porcellino”. Partiamo intorno alle 8,30 e piano piano ci arrampichiamo lungo le colline intorno a Cusco, da dove ammiriamo la bellezza della città, dei campi coltivati e del verde. Dopo un’ora e mezza, inframezzata da brevi soste, giungiamo a Pisac, al famoso mercato, dove l’arte del contrattare raggiunge vette degne dei mercatini napoletani. I colori, i sapori e gli odori richiamano il volto più autentico del Perù e anche se acquistiamo degli oggetti fabbricati in serie, il fascino di avere tra le mani qualcosa di unico, che solo in Perù puoi trovare, è immenso. Tappeti colorati, ceramiche, maglioni, cappelli, frutta, semi, insomma di tutto, è quello ciò che puoi trovare a Pisac. Si prendono anche delle fregature, ma con un po’ di attenzione si acquistano dei simpatici souvenir ad un costo tutto sommato, per noi occidentali, irrisorio. C’è un antico forno d’argilla dove compriamo del pane fresco con cipolla. A me la cipolla non piace tanto, ma qual pane è ottimo. Lasciamo Pisac per recarci alla volta di Ollantaytambo. Prima ci fermiamo a mangiare presso Yucay, al Ristorante “Posada del Inka”, una catena di alberghi presente in varie località del Perù, dove, sistemati in un parco immenso e sotto delle tende, mangiamo discretamente. Fa un caldo bestiale, ma riusciamo a sopravvivere. E meno male che ci avevano avvertito che in Perù avrebbe fatto freddo…… Al pomeriggio raggiungiamo finalmente il paese di Ollantaytambo. Questo complesso archeologico era un centro agricolo, amministrativo, sociale, religioso e militare nel periodo inca. Una costruzione impressionante è il “Tempio del Sole”, parzialmente distrutto, dove si possono vedere sei monoliti perfettamente intagliati e uniti, trasportati fin qui dalla cava a sei chilometri di distanza. A Ollantaytambo ci viene consegnato il “boleto turistico”, una carta turistica che a un costo molto contenuto ti permette l’ingresso nei principali siti archeologici di Cusco e dintorni. Il vento soffia forte ma c’è comunque caldo. La nostra guida è abbastanza logorroica, ma il suo modo di parlare è curioso e interessante. A Ollantaytambo vi fu una delle poche e significative vittorie degli Incas, guidati da Manco, contro gli spagnoli. Alla fine la vittoria risultò effimera e gli stessi Incas furono costretti a ritirarsi a Vilcabamba, in Amazzonia. Dalla montagna di fronte, il “Viracocha” scolpito nella pietra non ha potuto far altro che assistere, impotente, alla disfatta della civiltà che un secolo prima aveva creato. Terminata la visita nella fortezza, percorriamo per una mezzora le strette viuzze del paese, che ha mantenuto intatta la struttura architettonica datagli dagli Incas. La gente, che vive di allevamento e turismo, è povera ma dignitosa. Prima di rientrare a Cusco ci fermiamo in in piccolo villaggio, dove ci viene offerto un bicchiere di “chicha”, una sorta di birra dolciastra ottenuta dalla fermentazione del mais. Prima di berla ci viene consigliato di versarne tre gocce per terra, al fine di ingraziarsi la “Pachamama”, la Dea Madre andina. Qualcuno ne approfitta per versare sul terreno tutto il contenuto del bicchiere. Per i nostri gusti, in effetti, la “chicha” non è proprio la migliore delle bevande. Molto meglio un buon vino della Sardegna. Rientriamo a Cusco e la sera andiamo a cena in un ristorante che si affaccia sulla “Plaza de Armas”. Le luci della notte danno un tocco molto suggestivo alla piazza, peraltro molto bella. Al ristorante c’è un gruppo musicale veramente in gamba, coinvolgente e preparato. Esegue musiche andine molto elaborate e accompagna tipiche danze incas. In una di queste viene coinvolta, suo malgrado, anche Stefania, che si vergogna non poco. Sinceramente balla molto meglio di quanto mi aspettassi e di quanto lei stessa abbia mai affermato. Fra gli incitamenti dei presenti diventa rossa di vergogna, ma più rosso divento io dopo aver ingurgitato una pietanza piccantissima, degna non della cucina peruviana ma di quella messicana. Devo dire che il ristorante è uno dei più belli e suggestivi del Perù ma è anche quello dove ho mangiato peggio. Rientrati in albergo, andiamo finalmente a dormire. MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE 2003 (CUSCO) Con Gino Peralta partiamo alle 8,30 per visitare Cusco e i suoi dintorni. Iniziamo a vedere le fortificazioni poste intorno alla città per proteggerla dalle invasioni dei nemici. I nomi di Qenko, Tambomachay, Pucapucara, Sacsayuaman cominciano a diventare familiari. C’è un bel sole che tuttavia picchia forte sulla testa, ma in fondo non potrebbe andare meglio. Iniziamo a visitare le rovine di Tambomachay. Si trova a circa trecento metri dalla strada principale ed era un luogo di culto e di purificazione, con una vasca cerimoniale nota con il nome di “baño del Inca”. Successivamente andiamo a vedere la fortezza dirimpettaia di Pucapucara. Essa è costruita con pietre perfettamente squadrate. Nel sito c’è persino un cunicolo che, si dice, conduce direttamente al centro della città di Cusco. Probabilmente si tratta di una leggenda, per quanto suggestiva. La mattinata prosegue verso le rovine di Qenko, luogo di sacrifici, anche umani, e di riti legati alla fertilità e alla pubertà, effettuati dinanzi ad una pietra a forma di fallo, peraltro semidistrutta da quelle mirabili “teste di fallo” degli spagnoli. Ma la visita più emozionante è quella alla fortezza imponente di Sacsayuaman. Nel sito, in lontananza, c’è un immenso crocefisso bianco che domina la valle sottostante e che, purtroppo, contrasta con la solennità del posto. La fortezza, il cui nome significa “falco soddisfatto”, aveva un ruolo di avamposto militare, ma era anche un centro civile e religioso. Ancora oggi, il 24 di giugno, si celebra la festa di “Inti Raymi”, la festa del Dio Sole. Le pietre sono perfettamente squadrate e grandissime e ci si chiede come gli Incas abbiano fatto a metterle su. Si sa invece come sia stato possibile buttarle giù. Circa l’80% della struttura originale è stata distrutta dagli spagnoli, che usarono le pietre per costruire le loro case a Cusco. La fortezza si dispiega su tre livelli di mura e risultava praticamente inespugnabile. Presso questo forte fu combattuta una delle più aspre battaglie fra i “conquistadores” e gli incas. Il ribelle Manco Inca, nel 1537, riuscì quasi a riconquistare Cusco ma venne sconfitto e fu costretto a ritirarsi a Ollantaytambo. La maggior parte dei soldati morì in battaglia e le migliaia di cadaveri attirarono dalle Ande grandi frotte di condor. E’ per questo motivo che nello stemma di Cusco compaiono otto condor. Terminata la visita di Sacsayuaman rientriamo a Cusco, dove la nostra guida ci conduce nella visita del centro della città. Iniziamo dalla Chiesa di Santo Domingo che sorge sulle rovine di “Coricancha”, il principale tempio inca della città, costruito dal re Inca Pachacutec. La chiesa è crollata due volte in tre secoli, ma le mura del tempio sono ancora in piedi. Vediamo poi la cattedrale, in stile barocco, molto bella ma anche troppo ricca, dove sono evidenti le tracce della scuola “cusquena”, commistione artistica fra lo stile spagnolo e quello indigeno. Nella cattedrale c’è anche un “Ultima Cena”, dove Gesù e gli apostoli mangiano con il “cuy” e la “chicha”, che certo centrano poco con il pane e il vino. Per pranzo entriamo in un economico locale situato nella “Plaza de Armas” e poi, avendo il pomeriggio libero, ci facciamo un giro dei negozi della città, in particolare nel quartiere di San Blas. Provvediamo a fare alcuni acquisti. Stefania compra un “charango”, una piccola chitarrina tipica delle Ande, per farmene un gradito dono e a questo punto è necessario acquistare una borsa per farci stare tutti i regali e i “souvenirs per il viaggio di ritorno. Camminiamo nelle viuzze strette, dove ancora adesso si notano le antiche mura Incas. La città è stata spesso afflitta dai terremoti che hanno provocato distruzione e morte. Ma le mura incas hanno sempre resistito. Visitiamo il “Museo Regionale di Storia Andina”, allestito nella antica casa nobiliare di Carcilaso de la Vega, un cronista meticcio che ha raccontato molte cose sul Perù, senza le contaminazioni e le falsificazioni degli storici spagnoli. Di fronte al nostro albergo è presente il convento dei “Servi dei Poveri del Terzo Mondo”, una congregazione religiosa di cui fa parte da qualche anno un sardo, vecchio amico di mio fratello. Purtroppo non si trova a Cusco ma in Spagna per un periodo di formazione. Dopo esserci sistemati, la sera mangiamo in un ristorante situato a 10 metri dal nostro albergo. Il locale è bello, si mangia bene e c’è persino della buona musica. Rientriamo al nostro alloggio per riposare poiché domani dovremo svegliarci molto presto. Si va finalmente a Machu Pichu e sarà una giornata particolarmente dura. GIOVEDI 6 NOVEMBRE 2003 (CUSCO) La sveglia è all’alba poiché alle sette del mattino partiamo verso Machu Pichu con un treno che non ha niente a che vedere con l’immagine che ne viene data in tutto il mondo. Si tratta di un treno nuovissimo, efficiente, confortevole e relativamente veloce. Sicuramente molto migliore di quelli che ancora oggi circolano in Sardegna. Il mezzo si inerpica sulle colline intorno a Cusco, procedendo a zig-zag, fermandosi e ritornando indietro e poi andando avanti per vincere il dislivello. Si sale quasi a quattromila metri di altezza per poi ridiscendere più in basso ai 2.500 metri del Machu Pichu. Quest’ultimo si trova a circa tre ore e mezza di treno da Cusco. Il viaggio è molto suggestivo. Vediamo campi coltivati, valli floride con piantagioni di mais, riso e patate, alberi da frutta e piante di ogni tipo. A volte mi chiedo come sia possibile a queste altezze avere un clima cosi favorevole. Ma le montagne che circondano queste valli, percorse dal fiume sacro degli Incas, l’Urubamba, creano un microclima particolare. Dopo un paio d’ore arriviamo nella selva preamazzonica e la vegetazione cambia. Il tempo per fortuna ci assiste e ci accompagnerà per tutto il viaggio. Dopo tre ore e mezza giungiamo finalmente al villaggio di Aguas Calientes, base per qualsiasi escursione al Machu Pichu. Subito prendiamo un bus che in mezzora ci farà arrivare all’ingresso delle rovine. Siamo emozionati. Il complesso di Machu Pichu, che significa “montagna vecchia”, è stato costruito forse intorno al 1100 d.c. Sopra un monte ed è circondato dalle acque del fiume Urubamba. Fu sicuramente abbandonato dagli Incas prima della sconfitta con gli spagnoli e forse anche per questo non se ne ebbe mai notizia e non si conosce con certezza quale fosse la sua funzione. Fu scoperto da Hiram Bingham solo nel 1911, mentre era alla ricerca di Vilcambamba, l’ultimo rifugio degli sconfitti Incas, individuata in seguito nell’inaccessibile giungla amazzonica. Mentre saliamo, scorgiamo in basso il villaggio di Aguas Calientes e il fiume Urubamba. Riusciamo ad intravedere le rovine finora ammirate soltanto in TV. Ciò che colpisce maggiormente del sito non sono le rovine in se stesse, ma l’ambiente naturale nel quale sono inserite. Ci si domanda come diavolo abbiano fatto gli Incas a costruire una città in un luogo così inaccessibile. Arrivati rimaniamo stupiti della bellezza del posto, anche se un po’ di magia si perde vedendo le frotte di turisti che contrastano con l’immagine del luogo solitario. In lontananza si nota la montagna del Huayna Pichu, “la montagna giovane”, che non scaliamo poiché ci vorrebbe più di un paio d’ore per andare e tornare e il tempo a nostra disposizione è limitato. Inoltre, nessuno di noi pare candidato al suicidio e c’è tanto altro da vedere. Visitiamo le rovine, il “Tempio del Sole”, l’unico edificio a forma rotonda, le vasche cerimoniali, disposte a cascata e collegate una all’altra, il “Tempio delle Tre Finestre” e il “Tempio Principale”. Collegato a questo c’è la cosiddetta “Sacrestia”, che ha molte nicchie scolpite ed è famosa soprattutto per le due rocce presenti ai lati dell’ingresso. Si dice che abbiano 32 angoli. La voglia di contarli non c’è e quindi mi fido di ciò che dice la nostra logorroica ma simpatica guida. Salendo dalla “Sacrestia” si arriva al tempio di “Intihuatana”, un pilastro di roccia che serviva ad indicare i diversi periodi dell’anno. Da lì scendiamo verso la Piazza Sacra, dove pascolano alcuni lama e giungiamo infine alla “Roccia Sacra”, che pare possieda una particolare energia positiva. Ci poggiamo le mani per vedere se succede qualcosa. Ma l’energia non si sente poiché io sono stanco lo stesso. Andiamo verso la zona bassa, dove sono presenti, fra l’altro, le vecchie prigioni. Concludiamo la visita salendo verso la “Capanna del Custode della Roccia Funeraria”. Stefania e alcuni di noi sono stanchi morti e non vogliono salire ma se ne pentiranno. Dalla capanna, infatti, si può ammirare il sito nell’inquadratura che di solito si vede nelle foto nelle riviste. Vedere tutto questo dal vivo è veramente un’esperienza indimenticabile. Intorno alle 13,00 terminiamo a malincuore la visita e ritorniamo ad Aguas Calientes per mangiare. Qui, in un negozio di gioielli tipici, acquisto un bracciale d’argento per Stefania, ricambiandole il dono del “Charango”. Sono ormai le 15,30 e ripartiamo verso Cusco, ammirando dal treno il paesaggio e i colori mozzafiato della valle dell’Urubamba. Dopo tre ore e mezza di viaggio, Cusco, completamente illuminata, appare ai nostri occhi dall’alto delle colline. A sera, dopo una frugale e discreta cena al ristorante dell’albergo, andiamo a dormire, stanchissimi ma consapevoli di aver vissuto un delle giornate più emozionanti della nostra vita. VENERDI 7 NOVEMBRE 2003 (CUSCO – LIMA) Alle 7,45 prendiamo il volo per Lima, che anche stavolta ci accoglie, dopo un’ora di volo, con il solito grigiore. Che depressione: dopo le meraviglie delle Ande ci troviamo nuovamente nella brutta metropoli peruviana. Visitiamo la città accompagnati da una guida donna, piccolina ma simpatica. Lima, la città dei re, fondata da Pizarro nel 1535, con nove milioni di abitanti, è grigia, caotica, inquinata ma possiede anche alcuni bei monumenti, che naturalmente visitiamo. La “Plaza de Armas” accoglie la Cattedrale barocca, il Palazzo del Governo dove si effettua il cambio della guardia e altri edifici in stile coloniale. Iniziamo con la Cattedrale barocca. Al suo interno, fra le altre cose, è presente una cappella dedicata al fondatore della città, Pizarro, che viene venerato quasi come un santo. Non è la prima volta che la chiesa onora, facendone addirittura dei santi, degli assassini e della gente senza scrupoli, e per questo non mi indigno più di tanto. Certo è che il modo in cui Pizarro e gli Spagnoli hanno gestito la conquista è stato uno dei più vigliacchi che si possano immaginare. Visitiamo la chiesa di san Francesco, dove, dopo aver ammirato una splendida biblioteca in legno, visitiamo delle cripte piene di teschi e di ossa umane, macabro lascito dei frequenti terremoti che si sono abbattuti sulla città. All’ora di pranzo mangiamo in un ristorante nel quartiere di “Barranco” e al pomeriggio visitiamo il “Museo di Archeologia e Antropologia del Perù”, situato in Plaza Bolivar. E’ una visita interessante ma un po’ lunga per noi che siamo ormai stanchi. In questo museo sono presenti reperti archeologici, manufatti e varie testimonianze delle diverse civiltà che si sono succedute nel territorio del Perù. La civiltà Chavin, la Mochica, la Nazca, la Wari, la Thiauanaco e la Chimù, per arrivare infine a quella Inca. Dopo la visita al museo giunge purtroppo il momento dei saluti. Gli addii non mi sono mai piaciuti. Mi chiedo se alcuni dei miei compagni di viaggio riuscirò mai a rincontrarli. Una decina di persone del nostro gruppo partirà la sera con un volo Iberia, mentre io e Stefania, assieme ad altri quattro, partiremo l’indomani mattina alle 10,00 con volo Alitalia. Poiché rimaniamo in città, decidiamo di farci un giro nel quartiere bene di San Isidro, dove riusciamo a trovare un buon ristorante, uno dei migliori della città. Quest’ultimo si chiama “La Carreta” ed è famoso per la carne, in particolare per il “lomo saltado”, bisteccone di manzo cotto alla maniera argentina. E’ un po’ caro rispetto ad altri ma si mangia veramente bene. Ritorniamo in albergo a dormire, aspettando l’indomani per il viaggio di ritorno in Italia. SABATO 8 NOVEMBRE 2003 (LIMA – CARACAS – MILANO) Il nostro viaggio è terminato. Alle 8,00 del mattino siamo già in aeroporto e dopo le formalità di rito partiamo alla volta di Milano, via Caracas, con Alitalia. Il viaggio fino a Malpensa, compreso la scalo a Caracas, dura 15 ore. In aereo più che altro dormiamo, per cui il tempo passa in fretta. Alle 8,30 del mattino, ora italiana, arriviamo a Milano ma il primo aereo per la Sardegna parte alle 18,10. Nove ore in aeroporto a Malpensa non sono uno scherzo. Ma io e Stefania sapevamo tutto ciò e pur di andare in Perù eravamo disposti ad affrontare questo e altro. Il nostro viaggio di nozze è stato molto duro, diverso dal quello che la gente intende, ma sicuramente indimenticabile. La mente ritorna indietro agli emozionanti momenti vissuti. Al grigiore di Lima, alla puzza di guano nelle isole Ballestas, agli aeroplanini di Nazca, al deserto della costa, al bel sole di Arequipa, alla strana gente del lago Titicaca. E poi alla valle sacra, alla magnifica Cusco, con tutti i suoi tesori: Sacsayuaman, Qenko, Tambomachay, Puca Pucara. A Pisac, Ollantaytambo e alla magica Machu Pichu. Ma il ricordo va soprattutto ai visi della gente, delle donne e dei bambini. Ai loro splendidi vestiti colorati, ai loro volti bruciati dal sole e corrugati dalla fatica. Al cibo, semplice ma buono. E poi alla sperequazioni sociali molto ampie, alla povertà ma anche alla semplicità dei rapporti umani, che noi occidentali abbiamo ormai perso. Ci viene difficile capire quel mondo. A noi non basta mai il denaro, il tempo, le occasioni. Non ci accontentiamo mai. I nostri ritmi accelerati non ci fanno capire le cose importanti. Forse, per ritrovare un po’ noi stessi, un viaggio in Perù o in altri paesi del Sudamerica o del terzo mondo potrebbe veramente servirci per apprezzare e gustare meglio la vita di tutti i giorni. Comunque, io e Stefania abbiamo già nostalgia per il Sudamerica. Ogni tanto pensiamo seriamente di ritornarci. Chissà…….


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